Codice Civile art. 1120 - Innovazioni 1 .Innovazioni 1. [I]. I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni 2. [II]. I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici 3 e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune; 3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto4. [III]. L'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino interessato all'adozione delle deliberazioni di cui al precedente comma. La richiesta deve contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi proposti. In mancanza, l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni 5. [IV]. Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. [1] In deroga al presente articolo v. art. 10, comma 9 d.l. 18 aprile 2019, n. 32, conv. con modif. in l. 14 giugno 2019, n. 55. [2] V. l'art. 9, l. 24 marzo 1989 n. 122; art. 15, l. 17 febbraio 1992 n. 179 e artt. 78 e 123, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. [3] L'art. 1, comma 9, d.l. 23 dicembre 2013 n. 145, aveva soppresso le parole: «, per il contenimento del consumo energetico degli edifici». La modifica è decaduta in sede di conversione, avvenuta con l. 21 febbraio 2014 n. 9. [4] Comma inserito dall'art. 5, l. 11 dicembre 2012 n. 220, che ha inserito due nuovi commi dopo il primo. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. [5] Comma inserito dall'art. 5, l. 11 dicembre 2012 n. 220, che ha inserito due nuovi commi dopo il primo. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoLa norma in commento disciplina le innovazioni in ambito condominiale. Innovazione è per la lingua italiana l'atto, l'opera di innovare, cioè di modificare, per lo più in meglio, mediante l'introduzione di un quid novi, uno stato di cose esistente. Nel codice civile il vocabolo «innovazione» compare all'art. 693 c.c., concernente la sostituzione fedecommissaria; nell'art. 1067 c.c., che vieta al proprietario del fondo dominante di fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente; negli artt. 1108 e 1109 c.c., che consentono ai comunisti di deliberare, con la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa; negli artt. 1120,1121,1123 e 1136 c.c., in materia condominiale; nell'art. 1582 c.c., che vieta al locatore di compiere sulla cosa innovazioni che diminuiscano il godimento da parte del conduttore. Già da questa elencazione emerge come l'esigenza di una disciplina delle innovazioni sorga in caso di concorso attuale o potenziale di diritti sulla medesima cosa da parte di una pluralità di soggetti, dal momento che l'innovazione, nel suo concreto atteggiarsi, può arrecare vantaggio all'uno e svantaggio all'altro. In proposito, in materia di comunione e condominio, il legislatore può assumere atteggiamenti diversi, vietando radicalmente le innovazioni, ovvero richiedendo che esse siano deliberate con il consenso di tutti gli interessati, ovvero ancora stabilendo determinate maggioranze deliberative, a condizione che le innovazioni non posseggano un intrinseco carattere nocivo. Cenni all'evoluzione del dato normativoCosì, nella regolamentazione dedicata dal codice civile del 1865 alla materia nell'ambito della comunione, l'art. 677 c.c. discorreva di innovazione come sinonimo di atto vietato: la norma proibiva infatti al singolo partecipante alla comunione di apportare qualunque innovazione alla cosa senza il consenso degli altri, anche qualora l'innovazione costituisse vantaggio per tutti i comunisti. Il divieto di innovazioni dettato in via di principio, tuttavia, era depotenziato attraverso la restrittiva lettura che dottrina e giurisprudenza davano della norma in raffronto al successivo art. 678 c.c., il quale trattava degli atti di amministrazione diretti al migliore godimento della cosa comune, ponendo la regola della vincolatività delle deliberazioni maggioritarie. L'elastico atteggiamento assunto in sede applicativa si tradusse in seguito in dato normativo proprio con la prima organica regolamentazione della materia condominiale (r.d.l. 15 maggio 1934, n. 56, recante «Disciplina dei rapporti di condominio sulle case», conv., con modif., in l. 10 gennaio 1935, n. 8), che, agli artt. 8 e 9, attribuiva poteri deliberativi in tema di innovazioni alla maggioranza, congiunta, dei due terzi delle teste e dei tre quarti del valore dell'edificio. Di qui il codice civile del 1942 ha adottato soluzioni sostanzialmente analoghe tanto nei riguardi della comunione che del condominio: nell'uno e nell'altro caso trova applicazione la regola maggioritaria per le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento» (art. 1108 c.c.) e per quelle «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» (art. 1120 c.c.), nell'un caso a condizione che esse «non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa», nell'altro caso a condizione che le innovazioni non rechino «pregiudizio alla stabilita o alla sicurezza del fabbricato» e non «alterino il decoro architettonico o... rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino». Nel contesto della disciplina condominiale, allora, sono in prima approssimazione innovazioni le modificazioni migliorative della cosa comune suscettibili di essere adottate a maggioranza, sempre che non manifestino quell'intrinseco carattere nocivo in presenza del quale esse sono in ogni caso vietate. Esse possono poi nel complesso essere fatte oggetto della seguente classificazione, di cui si darà conto nel successivo esame della materia: - innovazioni c.d. ordinarie, dirette al miglior rendimento delle cose comuni e rimesse alla volontà assembleare (art. 1120, comma 1, c.c.); - innovazioni caratterizzate dal particolare interesse sociale e dal conseguente quorum deliberativo ridotto (art. 1120, comma 2, c.c.); - innovazioni vietate puramente e semplicemente o vietate alla maggioranza ma consentite all'unanimità dei condomini (art. 1120, comma 4, c.c.); - innovazioni c.d. voluttuarie o gravose, che consentono ai dissenzienti di sottrarsi alla relativa spesa (art. 1121 c.c.). A ciò occorre infine aggiungere la previsione dell'art. 1117-ter c.c. concernente oggi le «modificazioni delle destinazioni d'uso». La ricostruzione dottrinaleL'enunciazione che precede è ben lungi dal definire esattamente la nozione di innovazione, riguardo alla quale neppure la dottrina, nel lungo arco temporale che ha preceduto la riforma della materia ad opera della l. 11 dicembre 2012, n. 220, ha raggiunto approdi univoci e definitivi, proponendo soluzioni più o meno elastiche ed ampie, le quali, d'altronde, meritano oggi di essere in parte riconsiderate alla luce della novella. Nella delimitazione della figura dell'innovazione, in particolare, finisce per riverberarsi la stessa tensione che, nel complessivo inquadramento del condominio, ha contrapposto le due principali correnti dottrinali, quella collettivistica e quella individualistica: se si amplia la nozione di innovazione, si favorisce la visione del condominio come organismo capace di operare in una prospettiva maggioritaria, così dotandolo di un'essenziale strumento per affrontare le esigenze poste dalla vita condominiale in una prospettiva di miglioramento dell'assetto del condomini; se la si restringe, si contribuisce a mantenere ferma «l'idea proprietaria: piena con riguardo alla singola unità immobiliare; parcellizzata in tante quote su tanti altri beni che, al di fuori della singola unità abitativa, ne rendono possibile l'utilizzazione» (Lazzaro 2012, 69). Secondo alcuni il termine «innovazione» va considerato in due distinti significati: «in senso etimologico, come opus novum, designa ogni modificazione, materiale o funzionale, della cosa; in senso tecnico, sulla base delle definizioni legislative, qualifica le modificazioni alla cosa comune, che importano aggiunzioni materiali o mutamenti della destinazione, le quali debbono essere deliberate dalla maggioranza dei condòmini o che anche alla maggioranza sono vietate» (Corona, 1962). Altri affermano, analogamente, che costituiscono innovazioni le «modificazioni materiali, di una certa entità, delle cose comuni, o quanto meno le modificazioni anche immateriali che peraltro ne mutino la destinazione economica» (Branca 1982, 424). A non dissimile linea può ascriversi l'opinione secondo cui l'innovazione consiste in un mutamento materiale o funzionale del bene comune che comporti aggiunte materiali o cambiamenti di destinazione esorbitanti dai limiti del godimento e della conservazione della cosa entro l'ambito dell'amministrazione ordinaria, di guisa che l'innovazione finalizzata alla sola modifica dell'uso, in mancanza di modificazioni materiali, non costituisce innovazione nel senso voluto dalla norma (Gaiotti, 786). Egualmente si afferma che l'innovazione attiene soltanto alle modifiche che alterino l'entità sostanziale della cosa comune o ne mutino la destinazione (Visco, 150). Per altri le innovazioni consistono in aggiunte o modifiche per le quali il codice richiede una maggioranza qualificata o l'unanimità dei consensi oppure le vieta, rifacendosi, così, alle singole previsioni normative (Salis 1971, 253). È stato altresì osservato che le innovazioni previste dall'art. 1120 c.c. si caratterizzano sotto il profilo soggettivo ed oggettivo: dal primo versante le innovazioni rispondono ad un interesse della maggioranza dei condomini, sicché non ricorre un'innovazione riconducibile alla previsione della disposizione citata in caso di opere effettuate dal singolo condomino o da un gruppo minoritario di condòmini su parti comuni; sul piano oggettivo, poi, la norma delimita il tipo di intervento sulla cosa comune sussumibile nel concetto di innovazione (Nicoletti, 132). Le innovazioni sono state viceversa definite come alterazioni materiali in grado di innovare sostanzialmente entità e destinazione del bene che ne è oggetto e che si pongono quali forme «aggravate», perché accresciute quantitativamente e qualitativamente, di modificazione (Girino-Baroli, 410). Si è così affermato che l'innovazione «sia un radicale mutamento della cosa comune, tale da comportare l'alterazione sostanziale del bene. In caso contrario si rientra nel disposto dell'art. 1102» (Terzago 2009, 124). Ponendo attenzione alle ricadute applicative delle diverse ricostruzioni, sembra potersi dire che per parte della dottrina formatasi prima dell'ultima riforma l'innovazione richiedesse un intervento materiale sulla cosa comune, mentre per altra parte della dottrina, come tale maggiormente largheggiante, essa potesse parimenti sostanziarsi, anche in assenza di interventi materiali sulla cosa, in una modificazione della destinazione d'uso della cosa medesima. Ma i termini della questione sono oggi rimessi in discussione dall'art. 1117-ter c.c., che – segnando un punto in favore della «teoria individualista» – sottrae le modificazioni della destinazione d'uso alla disciplina delle innovazioni, per sottoporle al più rigoroso quorum deliberativo ed alla procedura previste dalla norma. L'assetto giurisprudenziale: la ricerca del confine tra le innovazioni e le modificazioniLa giurisprudenza si cimenta con la definizione di innovazione perlopiù nell'operarne la distinzione dalla non lontana nozione di modificazione. A fronte della innovazione, la quale trova il suo referente normativo nella disposizione in commento, la mera modificazione si inquadra difatti nella disciplina dell'art. 1102 c.c. (disposizione dettata per la comunione ma applicabile al condominio per il tramite dell'art. 1139 c.c.), che consente a ciascun comunista, eventualmente apportando a proprie spese le modificazioni dirette al migliore godimento, di servirsi della cosa comune senza alterarne la destinazione e senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Viene allora rimarcata la distinzione tra mera modificazione e innovazione della cosa comune, ponendosi sovente l'accento sul nesso tra la modificazione come tale e la sua incidenza sulla consistenza e/o sulla destinazione della cosa medesima: è cioè innovazione, nel senso previsto dall'art. 1120 c.c., la modificazione materiale che alteri l'entità sostanziale o muti la destinazione originaria della cosa comune; è invece mera modificazione quella diretta a potenziare o rendere più comodo il godimento della cosa comune, lasciandone immutate consistenza e destinazione, così da non alterare i concorrenti interessi dei condòmini (Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 16639/2007). In sintesi, le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall'art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., dirette a ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; sotto il profilo soggettivo, poi, nelle innovazioni rileva l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell'assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, nelle quali non rileva un interesse generale, bensì quello del singolo condomino al cui perseguimento sono rivolte, con i limiti previsti dal citato art. 1102 (Cass. II, n. 4513/2021). In tale prospettiva, ad esempio, la collocazione di cose amovibili nelle aree condominiali comuni non costituisce innovazione, ma un mero uso degli spazi condivisi, consentito nei limiti in cui non sia alterata la destinazione del bene e non sia impedito agli altri condomini di usufruirne (App. Palermo 15 febbraio 2017). È perciò legittima la delibera con cui l'assemblea decida di adibire due aree comuni – prive di specifica destinazione – allo svolgimento di attività sportive per i condòmini (beach volley e calcetto), senza che ciò comporti alcuna modificazione dei luoghi mediante la costruzione di opere in muratura, o comunque stabili, o una alterazione dello stato vegetativo del fondo, ma solo la collocazione, amovibile in qualsiasi momento, di due porte da calcio e di una rete, tali da consentire solo un uso temporaneo e non prolungato nel tempo. Tale utilizzo, infatti, non impedisce ai condòmini di fare pari uso del fondo per attività parallele (App. Palermo 15 febbraio 2017). Il criterio distintivo così illustrato colloca dunque il discrimina tra innovazione e mera modificazione su un piano strettamente oggettivo, a seconda che l'intervento incida materialmente sulla cosa o altrimenti ne modifichi destinazione, oppure no. È però ricorrente nella giurisprudenza della Suprema Corte anche l'affermazione secondo cui, in tema di condominio negli edifici, le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall'art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l'aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell'assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Cass. II, n. 20712/2017). Gli artt. 1102 e 1120 c.c., in altri termini, sono disposizioni non sovrapponibili, avendo presupposti e ambiti di operatività diversi. Le innovazioni, di cui all'art. 1120 c.c., perciò, non corrispondono alle modificazioni, cui si riferisce l'art. 1102 c.c. Le prime, infatti, sono costituite da opere di trasformazione, le quali, come si diceva, incidono sulla essenza della cosa comune, alterandone la originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa, facoltà che incontrano solo i limiti indicati dallo stesso art. 1102 c.c. In tal senso si è affermato, tra le nozioni di modificazione della cosa comune e di innovazione (e, pertanto, tra le sfere di operatività delle norme di cui all'art. 1102 e dell'art. 1120 c.c.) corre una differenza che è di carattere innanzitutto soggettivo, giacché, fermo il tratto comune dell'elemento obiettivo consistente nella trasformazione della res o nel mutamento della destinazione, quel che rileva nell'art. 1120 c.c. (mentre è estraneo nell'art. 1102 c.c.) è l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata dei partecipanti, espresso da una deliberazione dell'assemblea. Le modificazioni dell'uso comune della cosa comune, ex art. 1102 c.c., invece, non si confrontano con un interesse generale, poiché perseguono solo l'interesse del singolo, laddove la disciplina delle innovazioni segna un limite alle attribuzioni dell'assemblea. In breve, l'art. 1120 c.c. riguarda le innovazioni che, stante l'impossibilità della loro utilizzazione separata, devono gravare su tutta la totalità dei condòmini anche dissenzienti, mentre l'art. 1102 c.c. riguarda le innovazioni che ciascun condòmino intende realizzare a proprie spese senza gravare sugli altri condòmini, purché tali innovazioni non alterino la destinazione della cosa comune cui accedono e non impediscano agli altri condòmini di farne parimenti uso secondo il rispettivo diritto. Ai fini della qualificazione dell'opera come innovazione assume rilievo anche l'effettiva rilevanza ed apprezzabilità della modificazione che essa produce, sicché la sussistenza di una innovazione può essere esclusa in ragione della pochezza dell'intervento operato (Cass. II, n. 11177/2012, che ha ritenuto non costituisse innovazione la destinazione di una parte minima del cortile condominiale a parcheggio di autovetture; analogamente App. Milano 8 febbraio 2010, concernente intervento riguardante una modesta porzione di spazio destinata a posti auto, poco significativa rispetto alla superficie totale del parcheggio comune). In definitiva, le innovazioni di cui all'art. 1120 sono costituite da opere di trasformazione, le quali incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e/o destinazione: per il che occorre la deliberazione maggioritaria con il quorum previsto dalla norma in commento; le modificazioni di cui all'art. 1102, si inquadrano nelle facoltà del condomino, operante entro i ricordati limiti, in ordine alla migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa, facoltà che incontra solo i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c.: per il che non occorre alcuna previa deliberazione (Cass. II, n. 18052/2012; Cass. II, n. 12485/2012; Cass. II, n. 240/1997). Altre volte la linea di demarcazione tra l'area applicativa degli artt. 1120 c.c. e 1102 c.c. è stata individuata non già nella oggettiva consistenza delle modificazioni apportate, ma nel riparto del relativo carico di spesa, sicché il medesimo intervento potrebbe trovare il pertinente referente normativo nell'una o nell'altra norma secondo che la spesa debba essere ripartita tra i condòmini oppure sostenuta dal singolo condomino. In tale ottica, la norma di cui all'art. 1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condòmini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l'approvazione di quelle innovazioni che comportano oneri di spesa per tutti i condomini; ma, ove non debba procedersi a tale ripartizione per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all'art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condòmini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune (Cass. II, n. 4439/2020 ; Cass. II, n. 25872/2010; Cass. II, n. 24006/2004). È ribadito che vanno a collocarsi al di fuori dell'ambito delle innovazioni disciplinate dall'art. 1120 c.c., come dell'art. 1102 c.c., le deliberazioni che, pur comportando l'esecuzione di opere, siano dirette a disciplinare il migliore godimento delle parti comuni, non alterando la destinazione delle stesse (Cass. II, n. 9999/1992; Cass. II, n. 875/1999, entrambe concernenti l'apposizione di cancelli elettrici all'ingresso di un'area condominiale). Si ritiene rientrare cioè nei poteri dell'assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione (Cass. II, n. 21256/2009, concernente il transito di alcuni condòmini con i loro veicoli nelle parti comuni dell'edificio al fine di raggiungere i locali di proprietà esclusiva), anche quando la sistemazione più funzionale del bene o servizio richieda di intervenire sulla cosa comune (Cass. II, n. 144/2012). A titolo di esempio, rinviando alla successiva analisi delle fattispecie, può ricordarsi il caso della installazione, su una porzione di marciapiede condominiale, di due rastrelliere per il posteggio di biciclette, non ostacolanti il transito pedonale, installazione compresa nei poteri dell'amministratore, non costituendo innovazione ex art. 1120 c.c. (Trib. Savona 17 aprile2013). L'opera nuova può dare luogo ad una innovazione anche quando interessi, oltre che la cosa comune o sue singole parti, beni o parti a questa estranei ma ad essa funzionalmente collegati (Cass. II, n. 3840/1995). Occorre quindi soffermarsi sull'importante punto se il consenso alle innovazioni debba essere di necessità manifestato per iscritto. È stato in tal senso affermato che il consenso dei condomini alle innovazioni delle cose comuni, che possono essere disposte dall'assemblea ai sensi dell'art. 1120 c.c., non richiede la forma scritta, non rientrando tra gli atti di cui all'art. 1350 c.c. (Cass. II, n. 4736/2015). In seguito, tuttavia, è stato al contrario stabilito che, in tema di condominio negli edifici, il consenso alla realizzazione di innovazioni sulla cosa comune deve essere espresso con un atto avente la forma scritta ad substantiam (Cass. II, n. 21049/2017, secondo la quale la necessità del consenso si spiega non già col richiamo all'art. 1350 c.c., ma, per l'appunto, con la disciplina delle innovazioni alla cosa comune, tale essendo l'alterazione della struttura del tetto mediante la creazione di una terrazza «a tasca», a servizio di un appartamento di proprietà esclusiva). Viene nella pronuncia osservato che, trattandosi di modificazioni incidenti sulle parti comuni non era consentita l'autorizzazione in forma orale, ma occorreva la forma scritta mediante apposita deliberazione dell'assemblea dei condomini dell'edificio, nel caso di specie mancante, giacché da lungo tempo la Suprema Corte afferma che il consenso dei condomini alla esecuzione di innovazioni sulla cosa comune deve essere espresso con atto scritto ad substantiam (in precedenza v. Cass. II, n. 1727/1966; Cass. II, n. 2969/1976; Cass. II, n. 16228/2006). A maggior ragione non può pensarsi ad un assenso tacito alle innovazioni, sicché il comproprietario convenuto per l'eliminazione di un'innovazione alla cosa comune, non può invocare il preteso consenso dei comunisti per non aver essi reagito, fino a quel momento, alla sua iniziativa, poichè tale consenso deve emergere dalla volontà della maggioranza dei partecipanti all'assemblea, positivamente formatasi ed espresso (Trib. Frosinone 4 marzo 2015). Sul piano del riparto degli oneri probatori, spetta al condominio od ai singoli condomini che vogliano contrastare l'innovazione di volta in volta considerata dimostrare in concreto l'esistenza di un elemento ostativo rientrante tra quelli menzionati nell'ultimo comma dell'art. 1120 c.c. o nell'art. 1102 c.c., pena – in mancanza – la declaratoria di nullità della delibera assembleare che ne abbia rigettato la fattibilità (Trib. Milano 30 novembre 2016). Resta da dire che l'azione, con la quale il condominio di un edificio chiede, invece, la rimozione di opere, che altro condominio abbia effettuato sulla cosa comune in violazione della disciplina dettata dagli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale e deve essere proposta nei confronti di tutti gli altri partecipanti al condominio stesso, come ogni altra azione che tenda all'adempimento di un obbligo positivo inerente a diritti reali, non potendo essere tenuto alla rimozione dell'opera il comproprietario dell'immobile il quale non sia stato parte del processo che abbia ordinato la stessa (Cass. II, n. 25677/2020). Limiti all'uso e modificazione della cosa comuneL'applicabilità in ambito condominiale dell'art. 1102 c.c., per il tramite dell'art. 1139 c.c., unitamente all'esigenza, già rappresentata, di individuare la linea di demarcazione tra la nozione di innovazione, prevista dalla norma in commento, e quella di modificazione, contenuta nel citato art. 1102 c.c., suggerisce di soffermarsi qui sul tema dell'uso e modificazione della cosa comune da parte del condomino. La norma stabilisce per un verso che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, precisando che a tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa, e, dall'altro verso, che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Occorre allora dire anzitutto che il diritto del condomino di fare uso della cosa comune non è quantitativamente rapportato all'entità della quota millesimale di cui egli è titolare, ma possiede una latitudine sovrapponibile a quella del pieno proprietario (Branca 1982, 89), salvo il diritto degli altri condomini di farne parimenti uso. Colui che sale le scale dell'edificio condominiale per raggiungere il proprio appartamento, cioè, non lo fa in proporzione alla quota di comproprietà della scala medesima, bensì così come lo farebbe se fosse proprietario dell'intero. In tal senso, afferma la Suprema Corte che la nozione di pari uso della cosa comune che ogni compartecipe nell'utilizzare la cosa medesima deve consentire agli altri, a norma dell'art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico perché l'identità nello spazio o addirittura nel tempo potrebbe importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare o a proprio esclusivo vantaggio. Ne deriva che per stabilire se l'uso più intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio fra i partecipanti al condominio – e perciò da ritenersi non consentito a norma dell'art. 1102 c.c. – non deve aversi riguardo all'uso fatto in concreto di detta cosa da altri condomini in un determinato momento, ma di quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. II, n. 3368/1995, concernente l'uso di un cortile condominiale quale parcheggio). Al singolo condomino è dunque consentita la più intensa utilizzazione della cosa comune, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto. Pertanto, raffigura un uso più ampio della cosa comune – ricompreso nelle facoltà attribuite ai condomini dall'art. 1102, comma 1, c.c., l'apertura di un varco nella recinzione comune (con apposizione di un cancello) effettuata per mettere in comunicazione uno spazio condominiale con una strada aperta al passaggio pubblico, sia pedonale che meccanizzato (Cass. II, n. 8808/2003). In definitiva l'uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare (Cass. II, n. 4617/2007). Per converso, in applicazione delle medesime regole, lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri e non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass., II, n. 17208/2008, che ha escluso la legittimità dell'installazione in un'area condominiale e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone). È dunque ovvio che la completa appropriazione di una sia pur ridotta parte di un bene comune non rientra tra le facoltà consentite dall'art. 1102 c.c., il quale vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune nell'orbita della propria disponibilità esclusiva mediante un uso particolare e l'occupazione totale e stabile, e di sottrarlo in tal modo alle possibilità attuali e future di godimento degli altri contitolari (Cass. II, n. 11287/2010, in un caso in cui un condomino intendeva occupare permanentemente una porzione di terreno mediante una scala a servizio esclusivo dei locali di sua proprietà, con conseguente definitiva esclusione di ogni possibilità di godimento di quel sedime da parte degli altri condomini). Ecco, dunque, che l'occupazione stabile di parte della soffitta condominiale, realizzata mediante la sua chiusura tramite tamponamento ed implicante la definitiva sottrazione di tale porzione ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri condomini, è illegittima, determinandone, in violazione dell'art. 1102 c.c., l'esclusione all'uso ed al godimento di costoro ed un'alterazione della destinazione del bene condominiale, né rilevando, in senso contrario, che la residua parte, non oggetto di occupazione per uso esclusivo, rimanga a disposizione della collettività condominiale (Cass. II, n. 36480/2021). Neanche l'assemblea condominiale può alterare il rapporto paritario che deve sussistere tra tutti i condomini in ordine al godimento delle parti comuni, sicché non è consentito che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri (Cass. II, n. 26226/2006, che ha confermato la pronuncia di merito che aveva annullato, per violazione dell'art. 1102 c.c., una delibera assembleare che aveva attribuito il diritto di scegliere i posti auto nel garage condominiale – tra loro non equivalenti per comodità di accesso – a partire dal condomino titolare del più alto numero di millesimi). Quanto ai limiti posti all'uso della cosa comune, essi risiedono nel divieto di ciascun partecipante di alterare la destinazione della stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. È, perciò, illegittima l'occupazione di una parte del bene tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all'usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità (Cass. II, n. 4372/2015). Si è così ritenuto che configuri un abuso della cosa comune la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un volume tecnico dell'edificio condominiale, mediante il collocamento in esso di attrezzature e impianti fissi, funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale, in quanto l'art. 1102 c.c. contiene un divieto di alterare la normale ed originaria destinazione del bene in comproprietà se non con l'unanimità dei consensi dei partecipanti (Cass. VI/II, n. 15705/2017). Viceversa, si è negato che configuri una lesione o menomazione dei diritti degli altri partecipanti, agli effetti dell'art. 1102 c.c., il più ampio uso del lastrico solare comune da parte del singolo condomino, qualora trovi giustificazione nella conformazione strutturale del fabbricato (ove, ad esempio, si tratti di lastrico al quale sia possibile accedere soltanto dall'appartamento di proprietà esclusiva di detto condomino), e sempre che tale uso non comporti la definitiva sottrazione della relativa porzione del bene comune ad ogni possibilità di futura utilizzazione degli altri condomini, limitando significativamente il piano di calpestio o compromettendo la sua funzione di copertura e protezione delle sottostanti unità immobiliari (Cass. VI-II, n. 16260/2017). È stato affermato il principio per cui, a norma del medesimo art. 1102, comma 1, c.c., il singolo condomino di un edificio ha il diritto di usare dei vani delle scale, in genere, e dei pianerottoli, in particolare, collocando davanti alle porte d'ingresso alla sua proprietà esclusiva zerbini, tappeti e piante o altri oggetti ornamentali (ciò che normalmente si risolve in un vantaggio igienico-estetico per le stesse parti comuni dell'edificio), ma tali modalità d'uso della cosa comune trovano un limite invalicabile nella particolare destinazione del vano delle scale e nella esistenza del rischio generico già naturalmente connesso all'uso delle scale stesse, non potendo tale rischio essere legittimamente intensificato mediante la collocazione di dette suppellettili nelle parti dei pianerottoli più vicine alle rampe delle scale, in maniera da costringere gli altri condomini a disagevoli o pericolosi movimenti, con conseguente violazione del canone secondo cui l'uso della cosa comune, da parte di un comunista, non deve impedire agli altri comunisti un uso tendenzialmente pari della medesima cosa (Cass. II, n. 3376/1988). L'art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che, i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con i quorum prescritti dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. II, n. 27233/2013). La Suprema Corte, seguendo tale indicazione, si è da ultimo cimentata con l'analisi dell'art. 1102 c.c., soffermandosi sulla sua applicazione in ambito condominiale, nel confermare la sentenza di merito con cui era stata annullata una delibera condominiale che vietava ai condomini di poter depositare vasi ed innestare essenze vegetali nelle aiuole condominiali, in quanto adottata in violazione della menzionata norma (Cass. II, n. 2957/2018). È stato ribadito che l'art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne lo stesso uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, sicché i suoi limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale o dalle apposite delibere assembleari adottate con i quorum prescritti dalla legge. Si è però aggiunto che la modificazione del regime dell'uso della crosta incontra un limite nella preclusione del divieto di utilizzazione generalizzata delle parti comuni. E cioè, il divieto rivolto ai condomini di effettuare interventi migliorativi dell'utilizzazione di una parte comune si pone in contrasto con la ratio del citato art. 1102 c.c. Innovazioni e modificazione della destinazione d'usoNon mancava, come si è accennato, in giurisprudenza, qualche fluttuazione, in particolare con riguardo al quesito se le innovazioni potessero consistere nella mera modificazione della destinazione d'uso della cosa comune non accompagnata dall'esecuzione di opere su di essa. Talvolta è stato detto che per innovazioni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), ma solamente quelle modifiche che, determinando l'alterazione dell'entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all'attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti; peraltro le innovazioni, seppure possono derivare da modifiche apportate senza l'esecuzione di opere materiali, consistono sempre nell'atto o nell'effetto di un facere, necessario per il mutamento o la trasformazione della cosa (Cass. II, n. 12654/2006). Secondo questa impostazione, dunque, l'innovazione non esigeva necessariamente una modificazione della consistenza materiale della cosa comune, sebbene richiedesse quantomeno un facere, potendo dunque consistere anche nella modificazione della destinazione d'uso. In tale prospettiva è stato ribadito che le deliberazioni assembleari di mutamento di destinazione di una parte comune non danno luogo ad una innovazione vietata dal combinato disposto dagli artt. 1120 e 1136 c.c., ma costituiscono pur sempre innovazioni da approvarsi con la maggioranza qualificata prevista dalla legge (Cass. II, n. 26295/2014, concernente fattispecie antecedente alla novella della disciplina condominiale del 2012; e già Cass. II, n. 15319/2011; Cass. II, n. 5997/2008). Altre volte, nel soffermarsi sulla distinzione tra innovazioni consentite ed innovazioni vietate, la Suprema Corte ha ritenuto che l'innovazione dovesse necessariamente incidere sull'entità materiale della cosa comune (Cass. II, n. 6146/1988). Per innovazione in senso tecnico-giuridico doveva allora intendersi, come si diceva poc'anzi, non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che avesse comportato alterazione dell'entità sostanziale o mutamento della destinazione originaria (Cass. II, n. 11936/1999, che ha escluso la ricorrenza di una innovazione nel modesto restringimento di un viale di accesso pedonale). Entrambe le ricostruzioni, e più in generale la stessa sussumibilità delle modificazioni della destinazione d'uso entro l'ambito delle innovazioni, devono misurarsi oggi con il nuovo art. 1117-ter c.c., il cui comma 1 dispone che «l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni». Il legislatore ha in tal modo predisposto una specifica norma per il caso di modificazioni delle destinazioni d'uso delle parti comuni, che la giurisprudenza più recente faceva invece rientrare, come si è visto, nella categoria delle innovazioni (tra le tante, oltre alle decisioni già citate, v. Cass. II, n. 9877/2012). Dall'esame dell'art. 1117-ter c.c., al cui commento si rinvia, emerge dunque che il mutamento della destinazione d'uso delle parti comuni, il quale deve necessariamente tendere al soddisfacimento di «esigenze di interesse condominiale», non costituisce più innovazione realizzabile con le maggioranze previste dall'art. 1120 (v. criticamente al riguardo Vincenti, 258, che evidenzia l'inopportunità dell'inasprimento del quorum a fronte di deliberazioni tali da comportare, eventualmente, spese inferiori a quelle richieste per la manutenzione straordinaria). Innovazioni e manutenzioneSecondo l'art. 1120 c.c., riassumendo quanto fin'ora osservato, costituisce innovazione la realizzazione di un'opera nuova che alteri in tutto o in parte in senso materiale (non più, però, dal solo versante della modificazione della destinazione d'uso, modificazione oggi disciplinata dall'art. 1117-ter c.c.) la cosa comune. Quanto alla manutenzione, che pure è più volte menzionata dagli artt. 1117 ss. c.c., la sua nozione è data per presupposta dalla disciplina del condominio. Tale nozione, attraverso la distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria, si coglie invece anzitutto dagli artt. 1004 e 1005 c.c., dettati per l'usufrutto. Quest'ultima norma, in particolare, individua la nozione di «riparazioni straordinarie» attraverso esempi di interventi sulla cosa tutti di notevole importanza: «Riparazioni straordinarie sono quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta». La disposizione, secondo la giurisprudenza, pone un'elencazione soltanto esemplificativa (Cass. II, n. 2726/1963; Cass. II, n. 1881/1979) ed è espressione di un principio generale (Cass. II, n. 1881/1979), dal momento che la distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria «riguarda la materialità delle riparazioni sotto il profilo della tecnica edilizia e non la funzione e le finalità dell'istituto giuridico cui i beni si riferiscono» (Cass. II, n. 2061/1973). Alla definizione degli interventi di manutenzione concorre inoltre l'art. 31 l. 5 agosto 1978, n. 457 (attualmente art. 3, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), che, per quanto ci interessa, definisce: a) interventi di manutenzione ordinaria, quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti; b) interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici. In proposito il giudice di legittimità ha affermato che la norma ha carattere generale, con conseguente riflesso sulla qualificazione della nozione di cui si discorre (Cass. II, n. 5021/1983; Cass. II, n. 4849/1985; Cass. II, n. 12397/1995). Può allora dirsi che costituiscono in generale opere di manutenzione (ordinaria e straordinaria) quelle che sono determinate dalla necessità che la cosa comune conservi la sua normale efficienza, così da assolvere la funzione cui è destinata (Salis 1965, 1034). In particolare, secondo tale dottrina, qualora il bene comune, a causa dell'uso e del godimento da parte degli interessati, ovvero per l'usura del tempo, subisca un deterioramento, l'intervento manutentivo, con la relativa spesa, deve considerarsi di ordinaria manutenzione se effettuato al fine di conservare la cosa nella sua normale efficienza e di impedire il verificarsi di danni; al contrario, qualora l'originaria efficienza della cosa comune sia rimasta pregiudicata per effetto di circostanze straordinarie oppure per l'assenza o per l'inadeguatezza degli interventi di manutenzione ordinaria, l'intervento manutentivo ha carattere eccezionale e le opere effettuate hanno natura straordinaria. Da altri si ribadisce che la manutenzione straordinaria si pone in correlazione con l'evento improvviso, imprevedibile, accidentale o dovuto a causa di forza maggiore che la rende necessaria; per altro verso, si sottolinea come, al di là della natura delle cause di deterioramento, assuma rilievo la qualità e quantità delle opere necessarie per il ripristino del bene, sicché ricorre l'ipotesi della manutenzione straordinaria in caso di interventi sostanziali sulla cosa comune, avuto in particolare riguardo all'importanza economica della spesa da sostenere (Celeste, 403). In definitiva, la manutenzione, ordinaria come straordinaria, si caratterizza da un lato per la intrinseca necessità degli interventi, dall'altro lato per la finalità di ripristino della cosa comune che essa persegue; le innovazioni, invece, non sono necessitate e sono volte al miglioramento, all'utilizzo più comodo o maggiormente redditizio delle cose comuni. In astratto, dunque, il tratto distintivo tra l'una e l'altra figura è netto. Ma l'interferenza tra innovazioni e manutenzione, massime nella forma della manutenzione straordinaria, è ben possibile (Triola, 194) sol che l'intervento ripristinatorio sia ad esempio effettuato in vista dell'adeguamento della parte comune obsoleta alle mutate possibilità offerte dalla tecnologia: si immagini la sostituzione dell'ascensore con un modello più moderno ovvero la sostituzione della caldaia dell'impianto di riscaldamento con una tale da consentire l'utilizzazione di una fonte di energia più redditizia o economica ovvero meno inquinante. Il caso della sostituzione dell'ascensore – dell'installazione ex novo di parlerà più avanti – consente di riassumere l'atteggiamento sul punto della giurisprudenza. Secondo la Suprema Corte, «perché sussista l'innovazione di cui all'art. 1120 c.c. occorre che le modificazioni apportate alle cose comuni, nell'ambito della proprietà condominiale, siano di tale entità, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, da incidere sulla sostanza della cosa comune, alterandone la precedente destinazione. Pertanto, la sostituzione di ascensori usurati e non più agibili, con ascensori nuovi, anche se di tipo e di marca diversi, non costituisce innovazione perché le cose comuni, oggetto delle modifiche, in vano-ascensore con le strutture ed i locali annessi, non subiscono alcuna sostanziale modifica e conservano la loro destinazione al servizio ascensore, anche se vengono apportate modifiche alla loro conformazione e perche l'edificio, nel suo complesso, con la sostituzione degli ascensori, non subisce alcun sostanziale mutamento ma conserva un servizio del quale e già dotato, a meno che l'entità e la qualità delle modifiche introdotte sia tale da involgere un sostanziale mutamento del servizio e mutamenti di destinazione di parti comuni dell'edificio» (Cass. II, n. 4646/1981). La sostituzione di un ascensore andato distrutto o resosi inservibile con un altro nuovo, essendo diretta a conservare la materiale consistenza e la medesima destinazione economica della cosa è, come la ricostruzione delle scale, un atto di amministrazione ordinaria della cosa comune e non importa innovazione (Cass. II, n. 3514/1969,). Per altro verso, la sostituzione di tutti gli ascensori di un condominio con nuovi impianti, non già perché deteriorati od obsoleti, bensì perché originariamente inidonei, comporta un mutamento materiale della cosa tale da costituire innovazione (Cass. II, n. 2373/1970: nel caso considerato, infatti, l'intervento operato non determina il ripristino della situazione quo ante, ma dà luogo ad un opus novum. Anche la dottrina concorda sull'esigenza di affrontare l'inquadramento della sostituzione dell'ascensore caso per caso: se essa riguarda l'intero impianto, perché inidoneo all'uso, con intervento sui locali ove questo è alloggiato, si tratta di innovazione; se vengono effettuate soltanto riparazioni (sia pure attraverso la sostituzione dei cavi, dei motori e della cabina), si tratta di manutenzione (Salis 1971, 253). Analogo l'indirizzo formatosi con riguardo alla sostituzione dell'impianto di riscaldamento. La delibera con la quale l'assemblea dei condòmini decide di demolire e asportare l'impianto di riscaldamento e di ricostruirlo ex novo in luogo diverso e con caratteristiche del tutto differenti, anche se ispirata dalla necessita di adeguare l'impianto alle prescrizioni della l. 13 luglio 1966, n. 615, recante provvedimenti contro l'inquinamento atmosferico, deve pur sempre ritenersi relativa a vere e proprie innovazioni e non ad opere di manutenzione straordinaria (Cass. II, n. 2288/1980, originata dalla doglianza di un condomino per il fatto che l'istallazione della nuova centrale termica rendeva difficoltosa la manovra di accesso al garage). La sostituzione della caldaia guasta od obsoleta costituisce invece atto di manutenzione (straordinaria) poiché diretta a ristabilire la funzionalità dell'impianto, senza alcuna modifica sostanziale e funzionale dello stesso (Cass. II, n. 27287/2008; Cass. II, n. 238/2000; Cass. II, n. 4831/1994). La Suprema Corte ha invece ricondotto alle modifiche migliorative dell'impianto, e non alle innovazioni dello stesso, la sostituzione della caldaia termica ancora funzionante, se ha lo scopo di consentire l'utilizzazione di una fonte di energia più redditizia e meno inquinante (Cass. II, n. 238/2000; Cass. II, n. 4831/1994). Nella stessa prospettiva veniva in passato escluso che potesse qualificarsi innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c. la realizzazione di opere tali da rendere l'impianto di riscaldamento dello stabile conforme alla normativa in materia di prevenzione degli incendi, non eccedendo i limiti della conservazione e del godimento della cosa comune ed in ogni caso non alterandone la destinazione originaria, con conseguente applicazione, in seconda convocazione, del quorum di cui all'art. 1136, comma 3 (Cass. II, n. 4802/1992; Cass. II, n. 5101/1986). Oggi simili interventi sono da ricondurre all'ambito di applicazione del comma 2 della norma in commento, con conseguente applicazione della maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c. (maggioranza degli intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio). Si versa, altresì, nell'ambito della manutenzione e non delle innovazioni in caso di sostituzione della pavimentazione del cortile condominiale (Cass. II, n. 10602/1990; analogamente Trib. Piacenza 5 febbraio 1991); in caso di ristrutturazione dell'impianto fognario (vecchio di oltre cinquant'anni e bisognoso di interventi strutturali), in quanto necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune (Cass. II, n. 16639/2007). Egualmente l'abbattimento di alberi ritenuti pericolanti, disposto con delibera condominiale, costituisce un intervento di manutenzione delle cose comuni e non un'innovazione di cui all'art. 1120 c.c., atteso che con questo termine s'intende non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune ma, solamente, quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria (Cass. II, n. 6136/2023). Al contrario, la costruzione di un cavedio in muratura che attraversi tutti i pianerottoli dello stabile condominiale per essere destinato ad alloggiare i cavi elettrici dell'impianto elettrico in fase di adeguamento, integra innovazione ex art. 1120 c.c. (e non opera di straordinaria manutenzione), come tale da approvarsi con le maggioranze qualificate di cui all'art. 1136, comma 5, e non con quelle di cui al precedente comma 2 (App. Bologna 30 settembre 2008). Innovazioni e modificazione o soppressione di un servizioIn materia di gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, all'assemblea condominiale è stata riconosciuta la stessa competenza di ordine generale, che all'assemblea delle società per azioni era conferita dall'allora vigente art. 2364, n. 4), c.c., il quale stabiliva che l'assemblea delibera sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall'atto costitutivo, o sottoposti al suo esame dagli amministratori (Cass. II, n. 11138/1995). Ed infatti, nonostante il difetto, in tema di condominio, di una disposizione consimile e la specifica enunciazione delle attribuzioni, il potere dell'assemblea di decidere circa la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni si desume, secondo la Suprema Corte, sulla base di tre considerazioni convergenti. La preminenza, nell'ambito del circoscritto settore della gestione, dell'interesse in comune ai partecipanti a deliberare anche quando si presentano situazioni atipiche, non contemplate espressamente, nelle quali occorre provvedere. L'opportunità che il potere di decidere nelle materie non disciplinate, grosso modo afferenti alla gestione, sia assegnato ai condomini riuniti in assemblea piuttosto che all'amministratore. Infine, l'estensione analogica della disposizione in tema di società, sulla base della stessa ragione sufficiente, configurata dal criterio di natura politico-giuridica, dall'opportunità cioè di evitare la scissione tra la proprietà ed il controllo, affidando la gestione direttamente ai proprietari riuniti in assemblea. In conclusione, le attribuzioni dell'assemblea riguardano l'intera gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni. Poiché la gestione in modo dinamico delle cose, dei servizi e degli impianti comuni non verrebbe soddisfatta dal modello della autonomia negoziale, in quanto la volontà contraria di un solo partecipante sarebbe sufficiente ad impedire ogni decisione, la disciplina del condominio negli edifici si ispira a principi contrastanti. Il regime dell'autonomia privata, secondo cui dei beni in proprietà si dispone soltanto con il negozio e non si ammettono ingerenze nella sfera giuridica altrui, recepito dagli artt. 1118, 1120, comma 2, 1123 e 1138 c.c., coesiste con il metodo collegiale e con il principio di maggioranza. L'adozione del metodo collegiale e del principio maggioritario rivela il venir meno della preminenza intangibile del diritto soggettivo e del negozio. Da altre norme dettate in materia di condominio (artt. 1120, comma 1, 1121, comma 2, 1128, comma 2, 1129, 1131, 1133, 1135 e 1138 c.c.) si prevedono materie, nelle quali i condomini riuniti in assemblea deliberano a maggioranza e la volontà dei più vincola la minoranza assente o dissenziente. Il riconoscimento in capo all'assemblea di poteri non insignificanti si giustifica con le urgenze della collaborazione e della solidarietà. In ragione della collaborazione (e della solidarietà), il diritto soggettivo subisce limitazioni ragguardevoli e all'autonomia negoziale viene sottratto un settore importante. La competenza dell'assemblea, in particolare, si estende anche alle modifiche delle modalità di svolgimento dei servizi comuni. Il servizio comune, o in comune, comporta una utilità diversa rispetto a quella fornita dalle cose o dagli impianti. Il codice non definisce il servizio comune, o in comune. Stando alla lettera della legge, per servizio si intende una attività soggettiva (portierato) o una funzione oggettiva (lavanderia, riscaldamento, stendimento dei panni), finalizzate a vantaggio dell'unità immobiliari. Orbene, della proprietà comune di un servizio può parlarsi soltanto in senso figurato, non certamente in senso tecnico, posto che il servizio non si annovera tra i beni suscettibili di proprietà e di condominio. L'attività o la funzione, in che il servizio consiste – è stato così sottolineato – si distinguono dai beni strumentali, mediante i quali l'attività o la funzione si realizzano. Dire che il diritto di condominio contempla determinati servizi in comune significa che, nel diritto soggettivo di condominio, si comprende l'espletamento delle attività o delle funzioni, di cui i partecipanti non possono essere privati. Poiché il diritto riguarda l'attività o la funzione, e non i beni strumentali che concorrono alla realizzazione, ai condomini non può essere sottratta la fruizione dell'attività e della funzione, mentre i beni strumentali, specie se surrogabili, appaiono irrilevanti. L'assemblea, dunque, è competente a deliberare in merito alla gestione del servizio comune anche quando il servizio medesimo si svolge mediante la utilizzazione di determinate cose comuni e, come conseguenza della delibera, la utilizzazione delle parti suddette viene dismessa. La modifica o la stessa soppressione di un servizio, in particolare, non raffigura una innovazione in senso tecnico. Difatti le innovazioni designano le nuove opere, le modificazioni, materiali o funzionali, dirette al miglioramento, all'uso più comodo o al maggior rendimento delle parti comuni nell'interesse di tutti i condomini, che possono essere deliberate dall'assemblea con la maggioranza qualificata (o che alla stessa assemblea sono vietate). Ricorrono diversi argomenti a sostegno della interpretazione che, in tema di gestione dei servizi comuni, all'assemblea riconosce poteri più ampi ed incisivi (peraltro compatibili con la tutela dei diritti individuali e con il sistema dell'autonomia); che al collegio assicura poteri idonei a permettere la gestione dinamica e ad approvare nuove forme di svolgimento dei servizi utili ad ammodernare l'edificio. Argomenti ricavati dalle ragioni politiche, le quali giustificano il principio maggioritario, e dalle regole tecniche, che vi presiedono. Anzitutto, non v'è motivo di prescrivere una sorta di intangibilità delle condizioni esistenti e di proibire alla maggioranza di decidere le modifiche al servizio se, assieme al vantaggio dei più (e spesso di tutti, compresi i dissenzienti), esse comportano qualche limitazione: si badi, qualche inconveniente o pregiudizio, ma non la impossibilità di godere del servizio. La necessità di introdurre ammodernamenti appare incontestabile, avuto riguardo all'incremento di valore conseguito da un gran numero di edifici in regime di condominio, soprattutto in virtù della ubicazione nei quartieri centrali delle città e tenuto conto delle esigenze nuove e diversificate della vita sociale e delle tecniche edilizie recenti, idonee a rendere più confortevole il godimento delle unità abitative o, al contrario, della sopravvenuta insufficienza delle modalità di attuazione dei servizi per carenze di qualsivoglia natura. Orbene, tutto ciò considerato, sarebbe contraddittorio impedire il funzionamento del principio maggioritario se qualche condomino si oppone o, al limite, se uno soltanto non aderisce (perché subisce modeste menomazioni, che non impediscono l'esercizio del suo diritto al servizio). Di fatto, si ripristinerebbe quello ius prohibendi, che il metodo collegiale ed il principio di maggioranza mirano a superare. Del resto, in tema di servizi comuni la giurisprudenza riconosce all'assemblea, che delibera a maggioranza, la competenza a decidere la sostituzione ed eventualmente la soppressione. Anche laddove il regolamento di condominio, nell'interesse collettivo, istituisce e disciplina un servizio nell'interesse del gruppo dei condomini, l'assemblea, accertato che quel servizio è diventato oneroso e va surrogato con altri mezzi idonei, può deliberarne la sostituzione e il provvedimento può essere adottato a maggioranza, trattandosi di una modificazione delle modalità di svolgimento del servizio, che non incide sul diritto di cui sono titolari i singoli condomini (v. p. es. Cass. II, n. 10871/2006, in tema di soppressione del servizio di riscaldamento; e già Cass. II, n. 2585/1988; Cass. II, n. 1479/1969, v. pure Cass. II, n. 7256/1986, secondo cui la delibera di rinuncia non al mero servizio, ma all'impianto centralizzato di riscaldamento, configurando non una semplice modifica bensì una radicale alterazione della cosa comune nella sua destinazione strutturale od economica, obiettivamente pregiudizievole per tutte le unità immobiliari già allacciate o suscettibili di allacciamento al medesimo, urta contro il limite invalicabile di cui al comma 2 dell'art. 1120 c.c., che vieta tutte «le innovazioni... che rendano... parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino» dissenziente, senza che possa rilevare la mancanza di assoluta irreversibilità dell'adottata decisione, né la particolare onerosità del mantenimento ed adeguamento degli impianti). Il giudizio sulla liceità di una delibera dipende dal suo contenuto precettivo e, talora, si giustifica alla stregua degli effetti, in considerazione della sua incidenza sui poteri e sulle facoltà inerenti ai diritti dei condomini. Con riguardo alla soppressione della canna pattumiera è stato così affermato che, dal momento che il contenuto non consiste nella approvazione di innovazioni e nell'impedimento al diritto dei condomini di beneficiare del servizio comune di smaltimento dei rifiuti, ma si esaurisce nella modifica delle modalità di svolgimento di esso, rientra nella competenza dell'assemblea il potere di deliberare a maggioranza la modifica delle modalità di attuazione del servizio di smaltimento dei rifiuti e, per conseguenza, trattandosi di parti comuni non indispensabili per lo svolgimento di esso, la decisione di sigillare le cosiddette canne pattumiere ormai obsolete e antigieniche (Cass. II, n. 11138/1995). In tale prospettiva si colloca l'orientamento maggioritario della giurisprudenza secondo cui, ad esempio, l'abolizione del servizio di portineria e la sua sostituzione con un congegno automatico di apertura del portone di ingresso ed un impianto citofono, purché non arrechi di pregiudizi di cui all'art. 1120, u.c., c.c., non deve essere deliberato all'unanimità, applicandosi le maggioranze dettate per le innovazioni (Cass. II, n. 1666/1966). La dottrina suggerisce di distinguere tra soppressione del servizio e soppressione delle opere destinate ad erogare il servizio. Con riferimento alla prima ipotesi, se il servizio è previsto dal regolamento condominiale, per deliberare la sua soppressione occorre la maggioranza qualificata prevista dall'art. 1138 c.c. per le modifiche al regolamento. Diversamente, si ritiene sufficiente la maggioranza semplice, dovendosi riconoscere all'assemblea il potere di adattare anche la gestione dei servizi comuni alle diverse esigenze che nel tempo si possono presentare. Per quanto riguarda la seconda ipotesi sarà sufficiente la maggioranza semplice, non potendosi parlare di riparazioni straordinarie di notevole entità, di cui all'art. 1136, comma 4, c.c. (Triola, 196). Innovazioni ed adeguamento di impianti a normativa sopravvenutaÈ giudicato pacifico il principio secondo cui non può qualificarsi come innovazione la realizzazione di opere che rendano gli impianti conforme alla normativa per essi dettata, non eccedendo i limiti della conservazione e del godimento della cosa comune ed in ogni caso non alterandone la destinazione originaria (Triola, 197). È stato così affermato che in materia di condominio non può qualificarsi innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c. la realizzazione di opere che rendano l'impianto di riscaldamento dello stabile conforme alla normativa in materia di prevenzione degli incendi, non eccedendo i limiti della conservazione e del godimento della cosa comune ed in ogni caso non alterandone la destinazione originaria, con la conseguenza che per l'approvazione della relativa delibera è sufficiente in seconda convocazione – sulla base della disciplina illo tempore applicabile – un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio ed almeno un terzo del valore dell'edificio (Cass. II, n. 4802/1992). Nella giurisprudenza di merito si è da lungo tempo affermato che la trasformazione dell'impianto di riscaldamento per adeguarlo a prescrizioni legislative non può considerarsi innovazione, in quanto con tale termine si intendono tutte quelle modifiche della cosa comune che ne importano una alterazione della struttura sostanziale o un mutamento della precedente destinazione, con la conseguenza che non è necessaria in proposito la maggioranza qualificata altrimenti richiesta; se la spesa non è veramente notevole, né in se stessa, né in relazione alle singole quote, non si diverte neppure nel caso di riparazione straordinaria di notevole entità (Trib. Napoli 20 aprile 1970). Costituisce tuttavia vera e propria innovazione e non opera di manutenzione straordinaria la demolizione ed asportazione dell'impianto di riscaldamento e la sua ricostruzione in altro luogo e con caratteristiche diverse, anche se determinate dalla necessità di adeguare l'impianto alla normativa antinquinamento (Cass. II, n. 2288/1980). Supercondominio, condominio minimo, condominio parzialeLa riforma della disciplina condominiale del 2012 è intervenuta sulla nozione, in precedenza non espressamente regolata, del supercondominio, estendendo l'ambito di applicazione delle norme sul condominio ai condomini di edifici che abbiano parti comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c., secondo quanto previsto dall'art. 1117-bis c.c.). È fatto salvo naturalmente il limite della compatibilità, sicché occorre verificare di volta in volta se ciascuna norma sia o meno applicabili. Per quanto riguarda le innovazioni, si reputa applicabile la norma in commento anche al supercondominio, in luogo dell'art. 1108 c.c., dettato per la comunione (Celeste-Scarpa, 23). Si è così immaginata la possibilità di migliorare il rendimento delle cose comuni attraverso delibere che trasformino l'impianto sportivo di un supercondominio in un parcheggio di automobili, mentre si è escluso che possano ammettersi modificazioni strutturali tali da comportare crolli o rovine o che determinino una disarmonia al gruppo degli edifici considerato nel suo insieme. La stessa riforma non ha invece preso posizione nei riguardi del c.d. condominio minimo. In proposito la giurisprudenza repute applicabili le norme sul condominio, senza che a ciò osti l'impossibilità di fatto di applicare al funzionamento dell'assemblea il principio maggioritario (Cass. S.U., n.2046/2006). Difatti, nel condominio cd. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell'assemblea si applicano allorché quest'ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione unanime, tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari; ove, invece, non si raggiunga l'unanimità, o perché l'assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l'altro resti assente, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass. II, n. 5329/2017). In tale prospettiva, anche per le delibere che abbiano ad oggetto le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c., in mancanza dell'unanimità, sarà possibile il ricorso all'autorità giudiziaria attraverso le disposizioni indicate. Quanto al condominio parziale, pur in assenza di un'espressa presa di posizione del legislatore, occorre osservare che, alla luce del novellato art. 1117 c.c. sono oggetto di proprietà comune «tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune» (n. 1 dell'art. 1117), «i locali per i servizi in comune» (n. 2 dell'art. 1117), «le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune» (n. 3 dell'art. 1117). Sembra così che il nuovo art. 1117 c.c. intenda rafforzare il profilo di strumentalità e complementarietà che caratterizza il rapporto tra parti comuni e proprietà solitarie. Anche nella precedente formulazione della norma, in verità, non mancava il riferimento all'uso comune: ma esso non emergeva, come accade oggi, nell'incipit dei tre numeri in cui si suddivide l'art. 1117 c.c., seguito dalla indicazione chiaramente esemplificativa (preceduta dall'avverbio «come») di alcuni elementi architettonici. Nell'attuale stesura della norma, insomma, sembra emergere con maggior chiarezza che nel passato, la centralità del nesso che lega obbiettivamente le parti comuni ad un determinato uso, strumentale e complementare rispetto alla fruizione delle proprietà solitarie. Ciò riflette l'orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'individuazione delle parti comuni ... risultante dall'art. 1117 c.c. ... non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari» (Cass. S.U., n. 7449/1993). Ed è a tale ricostruzione che si ricollega l'emersione, in giurisprudenza, della figura del condominio parziale, il quale ricorre con riguardo a determinati beni o servizi da ritenersi appartenenti, per la loro conformazione strutturale-funzionale, soltanto ad alcuni condòmini (Cass. II, n. 2363/2012). Ricorre dunque la figura del condominio parziale tutte le volte in cui un bene risulti, per obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento in modo esclusivo di una parte soltanto dell'edificio in condominio, parte oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (Cass. II, n. 23851/2010). Difatti, «i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero sono destinati all'uso o al servizio non di tutto l'edificio, ma di una sola parte o di alcune unità abitative di esso» (Cass. II, n. 651/2000). In applicazione di detto principio, i giudici di legittimità hanno ad esempio affermato che «Qualora nell'edificio condominiale vi siano locali non serviti dall'impianto di riscaldamento centralizzato (box, cantine), i condomini titolari soltanto della proprietà di tali locali non sono contitolari dell'impianto centralizzato, non essendo questo legato da una relazione di accessorietà materiale e funzionale all'uso o al servizio di quei beni» (Cass. II, n. 1420/2004; Cass. II, n. 8136/2004). In definitiva, anche in caso di condominio parziale deve trovare applicazione l'art. 1120 c.c., in applicazione del principio secondo il quale, nel caso di innovazioni destinate, per obbiettive caratteristiche strutturali o funzionali, a servire solo una parte dell'edificio condominiale, il computo delle maggioranze prescritte dal combinato disposto degli artt. 1120 e 1136 c.c. deve operarsi con riferimento non alla totalità dei condomini dell'edificio bensì con esclusivo riguardo al gruppo di condomini destinati a trarre utilità da quelle modifiche (Cass. II, n. 6496/1995; Cass. II, n. 3248/1998). Come è stato osservato in dottrina, «i proprietari di scantinati o magazzini non hanno alcun diritto di intervenire nell'assemblea chiamata a deliberare sull'installazione, ad esempio, dell'impianto di ascensore che, essendo destinato ad una utilizzazione separata, non riguarda le cose di cui sono proprietari. Sarebbe contrastante con la lettera e lo spirito dell'art. 1121 c.c. consentire ad un gruppo di condomini che nessuna utilità o d'interesse abbiano alla installazione di un nuovo impianto, il diritto di impedire ad un altro gruppo di condomini di minoranza installazione di impianti o servizi che solo a questi ultimi possono essere di grande vantaggio utilità» (Triola, 206). Né, d'altro canto, potrebbe giustificarsi che alla formazione delle prescritte maggioranze debbano essere chiamati a partecipare i condomini privi di ogni interesse per una determinata deliberazione, essendo viceversa da ritenere che i partecipanti al condominio cui si riferisce l'art. 1136 c.c. siano soltanto coloro che hanno la qualità di condomini di quel determinato impianto o servizio. Inderogabilità della disciplina dettata per le innovazioniStabilisce il comma 4 dell'art. 1138 c.c. che le norme del regolamento condominiale non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, ed inoltre che in nessun caso possono derogare ad alcune disposizioni specificamente individuate, tra cui l'art. 1120 c.c. È stato escluso che il divieto di deroga riguardi la previsione, nel regolamento condominiale, di maggioranze diverse da quelle stabilite dalla legge per deliberare le innovazioni, giacché lo stesso art. 1138, al medesimo comma, contempla in via autonoma la inderogabilità dell'art. 1136 c.c., che fissa i quorum applicabili. Se n'è dedotto (Triola, 210) che il divieto riguarda: a) la esclusione, nel regolamento di condominio, della possibilità stessa di effettuare le innovazioni, le quali è in tal caso potrebbero essere attuate soltanto con il consenso unanime dell'intera compagine condominiale; b) la previsione, nel regolamento condominiale, della possibilità di realizzare innovazioni che, pur non essendo gravose o voluttuarie, di per sé vietate, non siano dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni. Le innovazioni vietate in generaleL'art. 1120, u.c., vieta tre distinte categorie di innovazioni: quelle che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato; quelle che ne alterino il decoro architettonico; quelle che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. La norma, che è posta a tutela dei singoli condòmini contro possibili abusi della maggioranza, preesiste alla novella del 2012 (che ha soltanto trasformato il precedente comma 2 dell'art. 1120 in comma 4), la quale ha ribadito i medesimi limiti nel nuovo art. 1117-ter c.c., dedicato alle «modificazioni delle destinazioni d'uso» e nel riformulato art. 1122, dettato per le «opere su parti di proprietà o uso individuale». La dottrina interpreta con larghezza la nozione di innovazioni vietate. In particolare l'elenco contenuto dalla norma viene ritenuto non tassativo, dovendosi giudicare parimenti vietate le innovazioni le quali determinino un danno superiore al vantaggio, così come quelle che non migliorino, nemmeno in potenza, la cosa comune (Branca, 431). I limiti della sicurezza, della stabilità e del decoro dell'edificio vengono inoltre intesi nel senso più ampio, mentre la loro derogabilità, ferma comunque l'inderogabilità ex art. 1138, comma 4, mediante il regolamento assembleare, è ammessa esclusivamente attraverso un accordo unanime e nei soli riguardi dell'alterazione del decoro architettonico e del pregiudizio del singolo condomino (Branca, 438; da ultimo, Vincenti, 300; contra Iannuzzi, secondo il quale il consenso di tutti i condòmini sarebbe sempre idoneo a rimuovere il divieto). In giurisprudenza, per la derogabilità dell'art. 1120, comma 4 odierno, nei limiti indicati (Cass. II, n. 2696/1975; Cass. II, n. 6269/1984; Cass. II, n. 6817/1988; Cass. II, n. 3186/1991; Cass. II, n. 13752/2006), ritenendosi per contro di ordine pubblico il divieto di recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato. In giurisprudenza si osserva anzitutto che il campo di applicazione dell'art. 1120, comma 2, oggi comma 4, concerne i soli beni di proprietà comune e non anche quelli di proprietà esclusiva, dal momento che mai le innovazioni possono attingere parti di fabbricato di proprietà esclusiva del condomino dissenziente (Cass. II, n. 1095/1973). Il principio da applicare in proposito si riassume dunque in ciò, che l'innovazione, in virtù del principio generale del neminem laedere, non può mai consistere in un atto lesivo delle parti dell'edificio di proprietà esclusiva dei singoli condomini. In tal senso, la Suprema Corte ha chiarito che la disposizione dell'art. 1120 c.c., nella parte in cui vieta le innovazioni che possono recare pregiudizio al decoro architettonico del fabbricato o che rendono talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso od al godimento anche di un solo condominio, si limita a tutelare l'edificio in sé ed il modo di usare e di godere della cosa comune; consegue che ove l'opera compiuta da un condominio o dal condomino sulla cosa comune rechi danno o pregiudizio alla proprietà esclusiva di un singolo condomino, trattandosi di rapporti relativi a due immobili finitimi, trovano applicazione la disciplina dei rapporti di vicinato (Cass. II, n. 2548/1989). Le innovazioni vietate della cosa comune sono state in generale ravvisate in quelle che ne mutino «la sostanza e la forma, incidendo sull'entità materiale della cosa, alterandone in tutto o in parte la consistenza, la conformazione o la destinazione impressavi dalla volontà dei compartecipanti ed espressa dal titolo (regolamento di condominio, deliberazioni assembleari o gradatamente dall'uso o dalla natura stessa della cosa) o che arrechino limitazioni o danno all'uso degli altri condòmini in guisa da turbare l'equilibrio tra i concorrenti interessi dei medesimi» (Cass. II, n. 1789/1983). Si è altresì chiarito che sono innovazioni vietate, che, quindi, debbono essere approvate dalla unanimità dei condomini, soltanto quelle che, pur essendo volute dalla maggioranza nell'interesse del condominio, compromettono la facoltà di godimento di uno o di alcuni condòmini in confronto degli altri, mentre non lo sono quelle che compromettono qualche facoltà di godimento per tutti i condomini, a meno che il danno che subiscono alcuni condòmini non sia compensato dal vantaggio (Cass. II, n. 2696/1975, concernente l'installazione dell'ascensore nella tromba delle scale e nell'andito corrispondente a pianterreno, installazione che, pur eliminando la possibilità di un certo tipo di godimento, ne offriva uno diverso al suo posto, ma di contenuto più ampio). Nulla rilevano, per gli effetti della liceità delle innovazioni altrimenti vietate, le eventuali autorizzazioni amministrative che gli autori di esse abbiano eventualmente conseguito: è irrilevante che l'autorità preposta alla indicata tutela abbia autorizzata l'opera (Cass. II, n. 20985/2014). Difatti le autorizzazioni amministrative esauriscono la loro efficacia nell'ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, non potendo, neppure ai fini della legittimità di una innovazione ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c., da compiersi nell'ambito di un condominio di edificio, incidere negativamente sulle posizioni soggettive degli altri condomini (Cass. II, n. 12917/2016). Così, i vincoli per la tutela delle bellezze naturali ed artistiche, gravanti sul proprietario di un immobile in edificio condominiale, incidono, in ordine alle opere che comportino modifica della situazione preesistente, solo nei rapporti, fra il proprietario esecutore delle opere stesse e la pubblica autorità investita della tutela, ma non possono interferire negativamente sulle posizioni soggettive attribuite agli altri condòmini dall'art. 1120, comma 2, per la preservazione del decoro architettonico dell'edificio; da ciò consegue che, al fine di accertare la legittimità o meno, ai sensi del citato art. 1120, comma 2, della innovazione eseguita dal proprietario della singola unità immobiliare, in corrispondenza della sua proprietà esclusiva, è irrilevante che l'autorità preposta all'indicata tutela abbia autorizzato l'opera medesima (Cass. S.U., n. 2552/1975; Cass. II, n. 3123/2012, ribadisce, con riguardo ad opere eseguite dal singolo condomino, che la concessione comunale in sanatoria per i lavori effettuati in uno spazio interpiano del palazzo ha solo l'effetto di sanare gli illeciti amministrativi o penali, non incidendo sui rapporti di vicinato né sul regime della comunione e dei conseguenti diritti dei singoli). Rimanendo al tema delle innovazioni vietate in generale, resta da dire della sorte delle deliberazioni adottate in violazione della previsione dettata dall'art. 1120 c.c. Secondo un autorevole opinione, non ricorrerebbe l'ipotesi della nullità della delibera assembleare se non quando l'assemblea abbia invaso il campo della proprietà esclusiva senza il consenso dell'interessato; al di fuori di questa eventualità, ove si tratti di scrutinare la delibera da altro versante, ricorrerebbe invece l'ipotesi dell'annullabilità, con la conseguente soggezione all'osservanza del termine di cui all'art. 1137 (Branca, 234). Altri predicano la nullità delle delibere assunte in contrasto con l'art. 1120, traendo argomento dal principio generale secondo cui la contrarietà di un atto ad una norma imperativa comporta la sua nullità (Triola, 205). In giurisprudenza la soluzione della nullità è affermata ad esempio con riguardo alla deliberazione di installazione dell'ascensore ai sensi dell'art. 2 l. 9 gennaio 1989, n. 13, recante norme per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, qualora detta installazione sia lesiva dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva, con conseguente sottrazione della nullità al termine di impugnazione previsto dall'art. 1137 c.c. (Cass. II, n. 12930/2012). Eguale conclusione è raggiunta nel caso di assegnazione nominativa da parte del condominio a favore di singoli condòmini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della seconda autovettura, in quanto tale delibera, da un lato, sottrae l'utilizzazione del bene comune a coloro che non posseggono la seconda autovettura e, dall'altro, crea i presupposti per l'acquisto da parte del condomino, che usi la cosa comune animo domini, della relativa proprietà a titolo di usucapione (Cass. II, n. 1004/2004; in precedenza nello stesso senso Cass. II, n. 6109/1994). Pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato Il divieto di innovazioni pregiudizievoli per la stabilità e la sicurezza del fabbricato risponde ad un'esigenza di tutela di quest'ultimo in se stesso considerato, dei condòmini e dei terzi, costituendo, come si accennava poc'anzi, limite insuperabile finanche attraverso l'unanime deliberazione dell'intera compagine condominiale. Tra le innovazioni in questione vanno ricompresi non solo gli interventi idonei a cagionare un indebolimento della struttura edilizia, ma anche quelli tali da comportare un aggravamento dei rischi personali o patrimoniali dei singoli condomini, qualora l'innovazione possa rendere meno sicura la vita all'interno dello stabile per fattori umani, come nel caso di incremento del pericolo di furti, allagamenti o incendi (Branca, 437). Per stabilire se determinate innovazioni siano vietate in quanto possono arrecare pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell'edificio, si deve giudicare, con valutazione ex ante, se le opere progettate ed approvate dalla deliberazione assembleare comportino o meno tale pregiudizio, mentre non hanno rilevanza gli eventuali danni verificatisi successivamente, in seguito ad una cattiva esecuzione dei lavori (App. Torino 12 maggio 1971). La ricorrenza del pregiudizio paventato dalla norma va verificata caso per caso dal giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità salvo che per vizio di motivazione. È stato così ravvisato un pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato nel caso di esecuzione di innovazioni in violazione delle norme antisismiche (Cass. II, n. 4958/1981). Alterazione del decoro architettonico L'art. 1120 c.c. vieta le innovazioni delle parti comuni che alterino il decoro architettonico. L'aspetto esteriore del fabbricato è nuovamente preso in considerazioni dall'art. 1127 c.c., in tema di sopraelevazione, che usa l'espressione «aspetto architettonico», e nell'art. 1138 c.c., che, nel definire il contenuto del regolamento condominiale, usa la formula «decoro dell'edificio». Bisogna in proposito evidenziare che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti tra loro, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, (Cass. II, n. 29584/2021), sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista; la relativa valutazione, demandata al giudice di merito, è sottratta al sindacato della Corte di cassazione, se congruamente motivata, senza peraltro obbligo di espressa motivazione sulla sussistenza del pregiudizio economico, quando questo sia da ritenersi insito in quello estetico ( Cass . II , n. 15675/2020 , sulla distinzione tra le nozioni di decoro e aspetto architettonico v. da ult. Cass. II, n. 33104/2021). La valutazione sulla violazione del decoro architettonico dell'immobile spetta esclusivamente al giudice di merito ( Cass. II, n.19858/2020, Cass. II, n. 7870/2021). Decoro e aspetto non sono sinonimi, anche secondo la dottrina. Difatti il codice «nel riferirsi quanto alle sopraelevazioni, all'aspetto architettonico dell'edificio e, quanto alle innovazioni, al decoro architettonico dello stesso, adotta nozioni di diversa portata, intendendo per aspetto architettonico la caratteristica principale insita nello stile architettonico dell'edificio, sicché l'adozione, nella parte sopraelevata, di uno stile diverso da quello della parte preesistente dell'edificio comporta normalmente un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico complessivo (percepibile da qualunque osservatore), e denotando per decoro architettonico una qualità positiva dell'edificio derivante dal complesso delle caratteristiche architettoniche principali e secondarie, onde una modifica strutturale di una parte anche di modesta consistenza dell'edificio o un'aggiunta quantitativa diversa dalla sopraelevazione, pur non incidendo normalmente sull'aspetto architettonico, può comportare il venir meno di altre caratteristiche influenti sulla estetica dell'edificio e così sul detto decoro architettonico incorrendo nel divieto ex art. 1120» (sul tema, in generale, Petrolati-Rinzivillo; Salis; Scarpa). In breve, mentre la nozione dell'aspetto, contenuta nell'art. 1127 c.c., relativo alla facoltà dei condomini di costruire in sopraelevazione, coinvolge una serie di valutazioni connesse alla compatibilità con lo stile architettonico dell'edificio, diversamente il decoro dell'immobile, come richiamato dall'art. 1120 c.c., si esprime nell'omogeneità delle linee e delle strutture architettoniche, ossia nell'armonia estetica (Cass. II, n. 17350/2016). Come è stato ribadito, dunque, l'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende dunque una nozione diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis, c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne la originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore; l'aspetto architettonico non va poi considerato solo con riferimento alla facciata principale del fabbricato, poiché la facciata rappresenta l'immagine stessa dell'edificio, la sua sagoma esterna e visibile, nella quale rientrano, senza differenza, sia la parte anteriore, frontale e principale, che gli altri lati dello stabile. Il pregiudizio all'aspetto architettonico, peraltro, una volta accertato, si traduce in una diminuzione del pregio estetico e, quindi, anche economico del fabbricato (Cass. II, n. 16258/2017; Cass. II, n. 23256/2016). Per decoro architettonico, in particolare, deve intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali, che costituiscono la nota dominante e caratterizzano il fabbricato, imprimendo alle varie parti dell'edificio nonché all'edificio stesso nel suo insieme, una determinata fisionomia armonica. Così, in materia condominiale costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull'aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l'edificio (Cass. II, n. 18928/2020 ; Cass. II, n. 9957/2020; Cass. II, n. 20248/2016; Cass. II, n. 2098/2014). La relativa valutazione, naturalmente, spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione (Cass. II, n. 10006/2017). Non occorre che si tratti di uno stabile di particolare pregio artistico: ne consegue che di «decoro architettonico» può discorrersi non soltanto nei casi in cui l'edificio sia stato costruito su progetto curato da un tecnico specializzato, o sia addirittura dotato di pregio artistico, ma anche nei casi in cui la costruzione, pur avendo carattere popolare, abbia una propria fisionomia particolare, tale da essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando dette opere siano state eseguite per assicurare particolari utilità per l'uso o godimento delle parti comuni o delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei partecipanti al condominio (su tali connotati della nozione di decoro architettonico v. Cass. II, n. 10350/2011; Cass. II, n. 1286/2010; Cass. II, n. 27551/2005; Cass. II, n. 10507/1994; Cass. II, n. 10513/1993; Cass. II, n. 2189/1981; Cass. II, n. 832/1980; Cass. II, n. 179/1977; Cass. II, n. 2732/1972). Anche da ultimo si è dunque riassuntivamente osservato che ai fini della tutela prevista dall'art. 1120 c.c. in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell'edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall'innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull'immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità. La tutela del decoro architettonico, ex art. 1120 c.c. attiene a tutto ciò che nell'edificio è visibile ed apprezzabile dall'esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare un'autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l'opera innovativa (Cass. II, n. 1235/2018). L'alterazione del decoro architettonico, rilevante per gli effetti della sussistenza della violazione contemplata dall'art. 1120 c.c., ricorre altresì quando abbia comportato un deprezzamento (inteso come diminuzione del valore di scambio, non del valore d'uso) del fabbricato e delle unità immobiliari, deprezzamento insito nell'accertato danno estetico considerando la sua rilevanza, sempre, cioè, che la modifica non sia del tutto trascurabile e non abbia arrecato anche un vantaggio. Più in specifico, il giudice deve sempre accertare che l'alterazione «sia appariscente e di non trascurabile entità tale da provocare un pregiudizio estetico dell'insieme suscettibile di un'apprezzabile valutazione economica, mentre detta alterazione può affermare senza necessità di siffatta specifica indagine solo ove abbia riscontrato un danno estetico di rilevanza tale, per entità e/o natura, che quello economico possa ritenervisi insito» (Cass. II, n. 16098/2003). Per altro verso, il pregiudizio economico è una conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata dalle norme che ne vietano l'alterazione (Cass. II, n. 8174/2012). Anche nella giurisprudenza di merito si trova dunque di recente ribadito che la tutela del decoro architettonico degli edifici condominiali, anche di quelli privi di particolari pregi artistici, è stata apprestata dal legislatore, all'art. 1120, comma 2 c.c., non in astratto, bensì in considerazione della concorrenza di due distinte circostanze concrete: 1) un'alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell'edificio, od anche di sue singole parti o di suoi singoli elementi dotati di sostanziale autonomia; 2) una consequenziale diminuzione del valore dell'intero edificio e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono (Trib. Ascoli Piceno 14 novembre 2017). Per la predetta alterazione, è sufficiente la sussistenza di mutamenti che siano idonei ad apportare una disarmonia nell'insieme e si risolvano in un deterioramento del suo carattere estetico e dell'aspetto decorativo, senza assurgere alla deturpazione, che rappresenta un quid pluris rispetto all'alterazione medesima, in quanto deturpare significa deformare, rendere brutto, o addirittura ripugnante (Cass. II, n. 9717/1997; Cass. II, n. 1947/1989; Cass. II, n. 6640/1987; Cass. II, n. 4474/1987; Cass. II, n. 1918/1981; Cass. II, n. 1472/1965; Cass. II, n. 1800/1965). Di qui, naturalmente, sono leciti gli interventi che, per fattura e consistenza non provochino alcun nocumento all'estetica dell'edificio condominiale (Cass. II, n. 15552/2013). È peraltro fermo in giurisprudenza l'insegnamento secondo cui la nozione legale di decoro architettonico può essere resa più pregnante in sede di regolamento condominiale contrattuale. Le norme di un regolamento di condominio aventi natura contrattuale, infatti, possono derogare od integrare la disciplina legale, consentendo l'autonomia privata di stipulare convenzioni che pongano nell'interesse comune limitazioni ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti condominiali, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle porzioni di loro esclusiva proprietà: ne consegue che il regolamento di condominio può legittimamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 c.c., estendendo il divieto di innovazioni sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva (Cass. II, n. 12582/2015; Cass. II, n. 1748/2013; Cass. II, n. 8174/2012; v. da ult. con riguardo alla installazione di inferriate antintrusione alle finestre e porte di un'unità immobiliare, Trib. Udine 24 febbraio 2016; v. pure App. Firenze 16 febbraio 2017). Ai fini della verifica della lesione del decoro architettonico, occorre considerare le preesistenti condizioni dell'edificio, in ragione degli eventuali interventi già eseguiti. Non viola cioè il decoro architettonico il comproprietario che esegue i lavori se, sulla facciata, sono presenti interventi preesistenti tollerati dagli altri comproprietari e di cui non è stata richiesta l'eliminazione (Cass. II, n. 14992/2012; Cass. II, n. 4679/2009; Cass. II, n. 21835/2007; Cass. II, n. 3549/1989). La esistenza di un degrado del decoro architettonico di un edificio condominiale, a causa di preesistenti interventi modificati di cui non sia stato preteso il ripristino, priva in altri termini di incidenza lesiva del decoro predetto un'opera modificativa compiuta da un condomino (Cass. II, n. 26055/2014). Perciò, il giudice, trovandosi a valutare se sussista lesione del decoro architettonico di un fabbricato condominiale, a cagione di un intervento operato dal singolo condomino sulla struttura, deve tenere anche conto delle condizioni nelle quali versava l'edificio prima del contestato intervento, potendosi anche giungere a ritenere che l'ulteriore innovazione non abbia procurato un incremento lesivo, ove lo stabile fosse stato decisamente menomato da precedenti lavori (Cass. II, n. 11177/2017, in fattispecie relativa alla realizzazione di un terrazzino ad uso privato su una porzione di tetto condominiale). Dunque, nella valutazione della incidenza sul decoro architettonico di un'opera modificativa di un edificio non può essere ignorata la eventuale situazione di degrado di detto decoro per preesistenti modificazioni per le quali non sia stato esercitato il diritto a pretendere il ripristino (Trib. Ascoli Piceno 14 novembre 2017, in un caso in cui l'attore non solo aveva acconsentito alla realizzazione di verande in sede di autorizzazione condominiale ed in corso delle assemblee all'epoca tenute, ma non si era opposto alla installazione delle verande parziali da parte degli altri condomini, né alla collocazione delle caldaie presso i balconi, con ciò consentendo alla modifica della fisionomia ed assetto dell'immobile). In altri termini, le opere realizzate dal condòmino non posseggono un'incidenza lesiva tale da compromettere il decoro architettonico dello stabile, quando lo stesso edificio condominiale, già di per sé, risulta non armonico a causa di preesistenti interventi modificativi di cui non è stato mai preteso il ripristino (Trib. Bari 25 settembre2017, in un caso in cui la veranda realizzata dal convenuto sul balcone del suo appartamento non rappresentava un'apprezzabile alterazione del decoro architettonico dell'edificio). In senso diverso è stato affermato che, ai fini della sussistenza di una violazione del divieto di innovazioni sulle parti comuni dell'edificio condominiale, non rileva che il decoro architettonico dell'edificio sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull'immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (Cass. II, n. 14455/2009). Si è quindi precisato che, nel valutare l'impatto di un'opera modificativa sul decoro architettonico bisogna adottare un criterio di reciproco temperamento tra i rilievi attribuiti all'unitarietà originaria di linee e di stile, alle menomazioni apportate da precedenti modifiche e all'alterazione prodotta dall'opera modificativa sottoposta a giudizio, senza che possa conferirsi rilevanza da sola decisiva, al fine di escludere un'attuale lesione del decoro architettonico, al degrado estetico prodotto da precedenti alterazioni ovvero alla visibilità delle alterazioni (Cass. II, n. 16518/2023). Deve ancora ricordarsi che il decoro architettonico va valutato con riguardo all'immobile condominiale nella sua individualità, senza che abbia rilievo l'impatto sull'ambiente circostante, avuto riguardo allo stato degli edifici vicini (Cass. II, n. 1304/1075). Il divieto in esame, in altri termini, opera soltanto nei rapporti tra condomini, sicché le innovazioni apportate da taluno ad un edificio di sua proprietà non attribuiscono al vicino, proprietario di un adiacente edificio, il diritto al risarcimento del danno per l'eventuale pregiudizio estetico (Cass. II, n. 1954/1989). Per altro verso, l'alterazione del decoro architettonico ben può discendere dalla realizzazione di opere che modifichino l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi del fabbricato, tutte le volte che la tale modificazione sia suscettibile di riflettersi sull'insieme dell'aspetto dello stabile (Cass. II, n. 10350/2011). L'accertamento della sussistenza dell'alterazione del decoro architettonico costituisce apprezzamento di fatto, funzionalmente riservato al giudice di merito, e destinato a sottrarsi al sindacato di legittimità se sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. II, n. 20248/2016; Cass. II, n. 20985/2014; Cass. II, n. 1297/1998; Cass. II, n. 2313/1988; Cass. II, n. 205/1979; Cass. II, n. 706/1975). Resta da dire che il divieto di innovazioni pregiudizievoli per il decoro architettonico ha tratto agli interventi operati sulle parti comuni, cui si riferisce in generale l'art. 1120. Nondimeno, la giurisprudenza ritiene che la regola in proposito posta da tale disposizione debba trovare applicazioni, per via di analogia, anche nei riguardi degli interventi, lesivi del decoro architettonico dell'edificio, effettuati nell'ambito delle proprietà solitarie (Cass. II, n. 12343/2003; v. altresì Cass. II, n. 16097/2003, per l'apertura di un varco nel muro perimetrale; Cass. II, n. 13261/2004, per l'installazione di una ringhiera su di un lastrico solare). La Suprema Corte ha difatti da tempo chiarito che, anche nelle ipotesi di uso legittimo della cosa comune che si contraddistinguono perché non alterano la destinazione delle cose comuni, si applica il divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato, pur se statuito, espressamente, dall'art. 1120 c.c. per la diversa fattispecie delle innovazioni (Cass. II, n. 3084/1994). Secondo un'opinione «si potrebbe dubitare della necessità di ricorrere all'analogia, in quanto la prescrizione espressa, contenuta nell'art. 1102 c.c., che non deve essere alterata la destinazione della cosa comune, dovrebbe senz'altro implicare anche l'intangibilità dell'estetica dell'edificio, come qualità peculiare che costituisce la risultante della confermazione di taluni beni condominiali» (Petrolati-Rinzivillo, 4). Un'esemplificazione dell'applicabilità alle proprietà solitarie del divieto di arrecare pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio si rinviene nella delibera adottata in virtù di una espressa clausola del regolamento condominiale che vieti ad un condomino l'installazione sul balcone di proprietà esclusiva di una zanzariera, la quale, per le sue caratteristiche (telaio in alluminio installato lungo il perimetro esterno del balcone dell'appartamento), risulti immediatamente visibile dall'esterno e lesiva del decoro architettonico dell'edificio (Cass. II, n. 8883/2005). Egualmente è stata accolta la domanda della condomina attrice diretta ad ottenere la condanna dei condomini convenuti alla rimozione di vetrate di copertura del loro terrazzo di proprietà esclusiva che avevano alterato le linee architettoniche del fabbricato, con consequenziale ripristino dello status quo ante (Trib. Latina 29 febbraio 2024, n. 488). Altrettanto è a dire per la realizzazione di alcuni fori di porta o di finestra posti sulle facciate dell'edificio, i quali avevano alterato la simmetria dei fori preesistenti, producendo un risultato esteticamente sgradevole (Cass. II, n. 14607/2012). Naturalmente, se non vi sono opere esterne, sia pure confinate alla proprietà solitaria, nessuna lesione del decoro architettonico può configurarsi (Cass. II, n. 1326/2012, la quale esclude ogni rilievo ai fini del decoro architettonico dell'apposizione di tendaggi e stracci sul terrazzo dell'edificio e rimovibili). Dal versante processuale vale ricordare che ciascun partecipante al condominio di edifici è legittimato ad agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico della proprietà comune, sicché nel relativo giudizio non è necessaria la presenza in causa di tutti i condomini, né del condominio (Cass. II, n. 14474/2011; Cass. II, n. 3238/1998). La tutela del decoro architettonico dell'edificio da parte dei condomini, infine, è attuabile anche mediante l'azione possessoria, giacché: «La facciata e il relativo decoro architettonico di un edificio costituiscono un modo di essere dell'immobile e così un elemento del modo di godimento da parte del suo possessore; di conseguenza la modifica della facciata, comportando una interferenza nel godimento medesimo, può integrare una indebita turbativa suscettibile di tutela possessoria» (Cass. II, n. 7069/1995). Inservibilità delle parti comuni Il divieto delle innovazioni tali da determinare la inservibilità delle parti comuni ha lo scopo di impedire che le innovazioni possano comportare una contrazione del diritto del condomino di godere pienamente, nei limiti della quota, di tali parti. Detto diritto trova fondamento nella disciplina della comunione, per un verso nell'art. 1102 c.c., che riconosce il diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune; per altro verso nell'art. 1108 c.c., che consente alla maggioranza di apportare innovazioni o di compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Può discorrersi di inservibilità, nel senso voluto dalla norma, solo nel caso in cui il pregiudizio subito dal condomino non sia né trascurabile, né temporaneo o saltuario, ma comporti una sensibile menomazione dell'utilità che il singolo soggetto può ricavare dalla cosa comune secondo l'originaria destinazione (Cass. II, n. 20639/2005). Sono perciò consentite le innovazioni che comportino a carico del singolo condomino un pregiudizio normalmente tollerabile (Cass. II, n. 10445/1998, concernente l'installazione di un'autoclave nel cortile condominiale, con minima occupazione di una parte di detto cortile). In breve, l'inservibilità della cosa comune «non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità; si può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino – solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo» (Cass. II, n. 15308/2011; Cass. II, n. 16486/2015). Si è già accennato che le deliberazioni di innovazioni vietate sono non già annullabili, bensì nulle: ciò accade anche per le innovazioni tali da determinare la inservibilità delle parti comuni (Cass. II, n. 2237/1979; Cass. II, n. 9130/1993; Cass. II, n. 9981/2004). Caso paradigmatico di innovazione vietata, sotto il profilo considerato, è quello dell'occupazione di un'area comune (cortili, anditi, aree a verde, ecc.) tale da impedire al condomino dissenziente di godere secondo il suo diritto della destinazione già impressa alla cosa (Cass. II, n. 3265/1980), come nel caso della installazione da parte di alcuni condòmini di serbatoi idrici al servizio esclusivo dei rispettivi appartamenti (Cass. II, n. 13752/2006). Ricorre detta ipotesi nel caso in cui un condomino, autorizzato dalla delibera dell'assemblea ad installare, a servizio del proprio laboratorio, un macchinario sul cortile del fabbricato, abbia stabilmente occupato una determinata superficie (nella specie, di circa quattro metri quadrati) dell'area comune condominiale, utilizzata in parte come strada di comunicazione con la pubblica via ed in parte come cortile (Cass. II, n. 23608/2006). Analoga è la situazione che si determina per la costruzione di un'autorimessa condominiale che alteri la naturale funzione del cortile (consistente nel dare aria e luce in locali di proprietà esclusiva che vi si affacciano, e di consentire il libero transito per accedere ai locali stessi), rendendolo così inservibile all'uso e al godimento anche di un singolo condomino (Cass. II, n. 6673/1988). Parimenti vietata è la restrizione del vialetto di accesso al garage in modo tale da rendere disagevole il transito delle autovetture (Cass. II, n. 20639/2005). Costituisce innovazione vietata l'assegnazione nominativa da parte del condominio a favore di singoli condòmini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della seconda autovettura, in quanto tale delibera, da un lato, sottrae l'utilizzazione del bene comune a coloro che non posseggono la seconda autovettura e dall'altro crea i presupposti per l'acquisto da parte del condomino della relativa proprietà a titolo di usucapione (Cass. II, n. 1004/2004). Il singolo condomino non può inoltre procedere, senza il consenso degli altri condomini, all'escavazione in profondità nel sottosuolo, atteso che detta opera costituisce innovazione lesiva del diritto di comproprietà, in quanto priva i condòmini medesimi dell'uso e del godimento di una parte comune dell'edificio (Cass. II, n. 4965/2010; Cass. II, n. 22835/2006; Cass. II, n. 17141/2006; Cass. II, n. 5085/2006; Cass. II, n. 8119/2004; Cass. II, n. 18091/2002; Cass. II, n. 6921/2001). L'orientamento è stato tuttavia in seguito ribaltato, in ossequio a non meglio identificate esigenze solidaristiche, con l'affermazione del principio secondo cui, in tema di condominio negli edifici, non è automaticamente configurabile un uso illegittimo della parte comune costituita dall'area di terreno su cui insiste il fabbricato e posano le fondamenta dell'immobile, in ipotesi di abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o l'avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a dire della sua funzione di sostegno alla stabilità dell'edificio, o l'idoneità dell'intervento a pregiudicare l'interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune (Cass. II, n. 19915/2014, nonché i precedenti ivi citati in motivazione). Si versa in tema di innovazione vietata anche in caso di eliminazione del tetto dell'edificio e di sua trasformazione, da parte del proprietario dell'ultimo piano, in terrazzo ad uso esclusivo, dal momento che ciò determina l'alterazione della destinazione della parte comune dell'immobile a copertura dell'intero fabbricato, con conseguente impedimento per gli altri condòmini di poterlo utilizzare per quella finalità (Cass. II, n. 24414/2006). È stato più volte ribadito che: «Qualora il proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale provveda a modificare una parte del tetto condominiale trasformandola in terrazza a proprio uso esclusivo, tale modifica è da ritenere illecita non potendo essere invocato l'art. 1102 c.c. poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al migliore godimento della cosa comune, bensì all'appropriazione di una parte di questa che viene definitivamente sottratta ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri; né assume rilievo il fatto che la parte di tetto sostituita continui a svolgere una funzione di copertura dell'immobile» (Cass. II, n. 14950/2008; analogamente v. Cass. II, n. 3369/1991; Cass. II, n. 8777/1994; Cass. II, n. 4466/1997; Cass. II, n. 9559/1997; Cass. II, n. 1737/2005; Cass. II, n. 972/2006; Cass. II, n. 5753/2007; Cass. II, n. 19281/2009). In consapevole contrasto con detto orientamento, si è in seguito posta la Suprema Corte, con la formulazione del principio secondo cui: «Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene» (Cass. II, n. 14107/2012). La pronuncia fa leva sulla differenza di trattamento che la giurisprudenza ingiustificatamente riserverebbe all'apertura di porte e finestre nei muri perimetrali, nonché di finestre ed abbaini nello stesso tetto, da un lato, e, dall'altro lato, alla trasformazione del tetto in terrazza (beninteso, la sentenza discorre di «piccole terrazze» e di «modifiche non significative della consistenza del bene»). La nuova soluzione proposta trova altresì fondamento, oltre che sulla moralistica esigenza di «moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame», sul principio solidaristico che presiederebbe al funzionamento dell'istituto condominiale, principio solidaristico che, per vero, non è agevole dirsi realizzato mercé l'appropriazione da parte di un condomino della cosa comune a tutti. Sul piano applicativo, forse, lo stesso risultato si sarebbe potuto raggiungere valorizzando l'aspetto della necessaria non trascurabilità delle innovazioni vietate (in senso difforme dalla decisione appena richiamata, che non sembra aver ricevuto esplicite conferme successive, v. Cass. II, n. 3369/1991; Cass. II, n. 972/2006; Cass. II, n. 5753/2007; Cass. II, n. 14950/2008). Come appena accennato, si è ritenuto che al condomino proprietario del piano sottostante al tetto comune sia consentito aprire abbaini e finestre per dare aria e luce alla sua proprietà purché le opere siano realizzate a regola d'arte e non pregiudichino la fruizione di copertura propria del tetto, né ledano i diritti degli altri condòmini sullo stesso (Cass. II, n. 17099/2006). Le innovazioni a quorum deliberativo facilitatoLa disciplina delle innovazioni, con il principio di inderogabilità della previsione dettata dall'art. 1120 c.c., ai sensi dell'art. 1138, comma 4 c.c., ha subito un'attenuazione per effetto di alcune leggi speciali che hanno dettato specifiche normative volte a rispondere a situazioni meritevoli di tutela come: art. 2, comma 1, l. 9 gennaio 1989, n. 13, per l'abbattimento delle barriere architettoniche; art. 9, comma 1, l. 24 marzo 1989, n. 122, per la realizzazione di parcheggi; art. 15, comma 1, l. 17 febbraio 1992, n. 179, per gli interventi di recupero; art. 26, comma 2 e 5, l. 9 gennaio 1991, n. 10, per il risparmio energetico. L'art. 2-bis, comma 13, d.l. 23 gennaio 2001, n. 5, convertito, con modificazioni, in l. 20 marzo 2001, n. 66, poi, qualifica emblematicamente come «innovazioni necessarie», ai sensi dell'art. 1120 c.c., le opere di installazione di impianti per lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, per le quali è prevista una particolare maggioranza, minore di quella prescritta per le innovazioni ordinarie. Il nuovo comma 2 dell'art. 1120, nel rinviare alla normativa di settore, ossia alle disposizioni elencate, ha ricondotto ad unità, sul piano del quorum deliberativo applicabile, le diverse ipotesi considerate, per le quali trova oggi in ogni caso applicazione la maggioranza indicata dal comma 2 dell'art. 1136 c.c., ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Si tratta di un quorum in taluni casi più elevato rispetto ai precedenti: per le barriere architettoniche si passa da un terzo alla metà del valore dell'edificio; per gli impianti per il risparmio energetico dal solo criterio per teste all'attuale criterio misto; per le antenne satellitari collettive da un terzo alla metà del valore dell'edificio. Dal punto di vista procedurale, il comma 3 del novellato art. 1120 c.c. prescrive che, in ordine all'adozione delle delibere di cui al capoverso precedente, l'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino interessato (ma nel rispetto anche del termine ordinario di 5 giorni per la relativa convocazione di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c.); la richiesta di quest'ultimo «deve contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi proposti» e, in mancanza, «l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni». Viene così contemplato un onere dell'amministratore connesso alla sollecitazione del condomino interessato, sollecitazione che, però, deve essere corredata da tutte le informazioni utili per l'adozione dell'intervento strutturale di cui trattasi. Antenne radiotelevisive Riguardo alle antenne per la ricezione dei programmi televisivi (tema riguardo al quale v. pure sub art. 1222-bis c.c.) è stata man mano dettata una disciplina speciale. Già con la l. 6 maggio 1940, n.554, recante disciplina dell'uso degli aerei esterni per audizioni radiofoniche, il legislatore ha stabilito che «che i proprietari di uno stabile o di un appartamento non possono opporsi alla installazione nella loro proprietà, di aerei esterni destinati al funzionamento di apparecchi radiofonici appartenenti agli abitanti degli stabili o appartamenti stessi, senza impedire però il libero uso della proprietà secondo la sua destinazione, né arrecare danni alla proprietà medesima o a terzi». L'installazione di un'antenna individuale, in tale prospettiva, è concepito come diritto perfetto, quale espressione del diritto garantito dall'art. 21Cost. In proposito, la Suprema Corte afferma, difatti, che il diritto riconosciuto dalla citata norma è diritto soggettivo perfetto, di natura personale, condizionato solo nei riguardi degli interessi generali, ma non nei confronti dei proprietari obbligati, rispetto ai quali la legge si limita ad imporre al titolare del diritto di impianto che l'installazione non debba impedire in alcun modo il libero uso della proprietà secondo la sua destinazione, né arrecare danni alla proprietà medesima (Cass. II, n. 12295/2003). In seguito l'art. 232 d.P.R. 29 marzo 1973, n.156, recante il testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni (oggi abrogato dall'art. 218 d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, e trasfuso nell'art. 91 dello stesso d.lgs. n. 259 del 2003, recante il codice delle comunicazioni elettroniche), ha assoggettato il condominio all'appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto nell'immobile di sua proprietà occorrente per soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condomini. L'art. 3, comma 13, l. 31 luglio 1997, n.249, ha poi disposto, a tutela del paesaggio, che «a partire dal 1° gennaio 1998 gli immobili, composti da più unità abitative di nuova costruzione o quelli soggetti a ristrutturazione generale, per la ricezione delle trasmissioni radiotelevisive satellitari si avvalgono di norma di antenne collettive e possono installare o utilizzare reti via cavo per distribuire nelle singole unità le trasmissioni ricevute mediante antenne collettive». Successivamente, con l'art. 2-bis, comma 13, d.l. 23 gennaio 2001, n.5, convertito, con modificazioni, in l. 20 marzo 2001, n. 66, come successivamente modificato, è stato disposto che: «Al fine di favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere di installazione di nuovi impianti sono innovazioni necessarie ai sensi dell'articolo 1120, primo comma, del codice civile. Per l'approvazione delle relative deliberazioni si applica l'art. 1120, secondo comma, dello stesso codice. Le disposizioni di cui ai precedenti periodi non costituiscono titolo per il riconoscimento di benefici fiscali» (v. in proposito v. Cuffaro, 2001, 503; Izzo 2001, 187; Nasini, 513; Scalettaris, 351). Non è richiesta, cioé, la maggioranza deliberativa di cui all'art. 1136, comma 5, ossia l'approvazione con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio ed i due terzi del valore dell'edificio, bensì la maggioranza di cui al terzo comma dell'art. 1136, sia in prima che in seconda convocazione, ossia l'approvazione con un numero di voti che rappresenti un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio. Le opere di installazione di nuovi impianti centralizzati per la ricezione delle trasmissioni satellitari sono come si è visto facilitate. Sul piano della ratio può dirsi che la norma, pur mirando a favorire la diffusione degli impianti satellitari, vuole impedire un disordinato proliferare di parabole: vi è quindi la previsione di un quorum ridotto per le deliberazioni condominiali che, come tali, sono obbligatorie per tutti i condomini. La qualificazione di «innovazione necessaria» è stata poi estesa alle opere di ammodernamento necessarie al passaggio dei cavi di fibra ottica (art. 1, ultimo comma, l. 18 giugno 2009, n. 69). La norma, che ha inteso agevolare le deliberazioni condominiali volte all'installazione delle parabole, sembra aver suscitato talune criticità, in particolare per quanto attiene alla diversa disciplina dell'antenna televisiva centralizzata. Bisogna difatti osservare che l'antenna televisiva centralizzata, pur non considerata dall'art. 1117 c.c., appartiene al numero delle parti comuni se installata al momento costruzione dell'edificio. Difatti, ha ad esempio affermato la Suprema Corte che l'antenna centralizzata per la ricezione di canali televisivi, pur essendo cosa comune ai sensi dell'art. 1117, n. 3), c.c., non costituisce ex se un bene comune, se non in quanto idonea a soddisfare l'interesse dei condomini a fruire del relativo servizio condominiale. Con la delibera volta al non ripristino, l'assemblea condominiale non impedisce il godimento individuale di un bene comune, ma stabilisce di non dar luogo ad un servizio la cui attivazione o prosecuzione non può essere imposta dal singolo partecipante per il solo fatto di essere comproprietario delle cose che ne costituiscono l'impianto materiale (Cass. II, n. 144/2012). Se d'altro canto, in presenza di un impianto comune, i condomini intendono installare un impianto autonomo, possono senz'altro farlo (si vedano in proposito gli artt. 91-92 d.lgs 1 agosto 2003, n. 259, recante il «Codice delle comunicazioni elettroniche»); l'installazione dell'impianto autonomo, però, non determina la rinuncia all'impianto centralizzato, con la conseguenza che il condomino, sebbene non ne faccia uso, resta vincolato alla contribuzione alle relative spese. Se l'edificio condominiale non ha invece ab origine l'antenna centralizzata ed i condomini intendono installarla, si ritiene in dottrina che detta installazione costituisca innovazione ai sensi degli artt. 1120-1121 c.c., sicché l'assemblea può adottare la deliberazione con le maggioranze previste dal comma 5 dell'art. 1136 c.c. (Rezzonico, 302). Nella stessa prospettiva dell'inquadramento dell'installazione dell'antenna centralizzata nell'ambito delle innovazioni, si afferma ad esempio in giurisprudenza che l'installazione di una antenna parabolica di notevoli dimensioni sulla facciata di un condominio, essendo lesiva del decoro dell'edificio, è contraria ai canoni di utilizzo della cosa comune fissati dagli art. 1102 e 1120 c.c. (Trib. 25 ottobre 2001); ovvero che deve considerarsi innovazione, come tale soggetta alle limitazioni di cui all'art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma soltanto quella che alteri l'entità o la destinazione della cosa stessa con conseguente incidenza sull'interesse di tutti i condomini, mentre non possono ritenersi innovazioni gli atti di maggior utilizzazione della cosa comune, che non ne importino alterazione o modificazione e non precludono agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggiore uso del condominio che abbia attuato la modifica (Trib. Roma 27 ottobre1980, che ha ritenuto lecita l'installazione di antenna televisiva trasmittente sul balcone di un singolo appartamento, non diversa per forma dalle comuni antenne riceventi). Qualora poi l'installazione dell'antenna centralizzata abbia carattere gravoso ovvero voluttuario, i condomini dissenzienti, trattandosi d'innovazione suscettibile di utilizzazione separata, potranno decidere di non partecipare alle spese e quindi, fatto salvo il diritto di subentro. Con riguardo all'installazione dell'impianto per la ricezione del segnale satellitare le regole non del tutto sono omogenee. In caso di installazione risalente all'epoca dell'edificazione dell'edificio condominiale operano evidentemente i medesimi principi già indicati con riguardo all'antenna radiotelevisiva centralizzata. In caso di installazione successiva, fino all'entrata in vigore della l. n. 66 del 2001, si riteneva che, in assenza di una specifica disposizione di legge, dovessero trovare applicazione le regole previste per le antenne tradizionali, sicché anche l'installazione della parabola era da considerarsi innovazione ai sensi delle disposizioni richiamate. Tuttavia il comma 13 dell'art. 2-bis poc'anzi richiamato è intervenuto nella materia apportando una deroga alla previsione dettata per le maggioranze previste in materia d'innovazioni. Oltre a ciò la norma contiene un significativo elemento di novità, quale l'impiego dell'espressione «innovazioni necessarie», ignota in precedenza al linguaggio giuridico. La necessarietà, difatti, non è carattere proprio delle innovazioni – le quali possono essere effettuate o meno –, bensì delle opere di manutenzione, ordinaria o straordinaria, determinate dall'esigenza pratica che la cosa comune continui ad avere l'efficienza sua propria. Secondo una parte della dottrina l'espressione «innovazione necessaria» sta a significare che la deliberazione con cui si dispone l'installazione dell'antenna satellitare obbliga tutti i condomini, non trattandosi di innovazione suscettibile di utilizzazione separata (Tortorici 2006, 50). In tal senso è stato affermato che il richiamo operato dall'art. 2-bis, comma 13, all'art. 1120, comma 1, c.c. è palesemente inteso a rimuovere ogni dubbio sulle finalità di miglioramento della cosa comune, insite nell'installazione di una nuova antenna satellitare: l'opera costituisce innovazione necessaria, e non può essere qualificata voluttuaria, né soggetta – in quanto suscettibile di utilizzazione separata – al regime di esonero da contributo previsto dall'art. 1121 c.c. in favore dei condomini che non intendano trarne vantaggio (Giud. Pace Monza 13 marzo 2005). La stessa ricostruzione pare sottesa all'affermazione secondo cui, per espressa previsione legislativa l'installazione di antenna centralizzata televisiva parabolica non configura innovazione voluttuaria suscettibile di utilizzazione separata di cui all'art. 1121 c.c. (Trib. Novara 14 luglio 2009). In senso diverso si è sostenuto che l'espressione «innovazione necessaria» non starebbe a significare che la deliberazione in proposito adottata dall'assemblea condominiale è obbligatoria per tutti i condomini, bensì «che l'installazione dell'antenna deve ritenersi legittima anche nel caso in cui, di fatto, si verifichi qualcuna delle situazioni, in presenza delle quali per l'art. 1120, comma 2, c.c. l'innovazione sarebbe vietata» (Rezzonico 2008, 304). Riscaldamento centralizzato e risparmio energetico Nel quadro della disciplina codicistica l'eliminazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato al fine di sostituirlo con impianti autonomi richiedeva il consenso unanime dei condomini, non essendo sufficiente la maggioranza di cui ai commi 2 e 4 dell'art. 1136 c.c., poiché non si era in presenza di una mera modificazione, ma di una completa alterazione della cosa comune nella sua destinazione strutturale ed economica, oggettivamente pregiudizievole per tutte le unità immobiliari già allacciate o potenzialmente allacciabili: dunque un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, previgente (Cass. II, n. 6565/1991; Cass. II, n. 982/1998). Con l'entrata in vigore della l. 29 maggio 1982, n. 308, che, all'art. 5, comma 4, aveva previsto la validità delle decisioni prese a maggioranza delle quote millesimali in ordine agli interventi sulle parti comuni degli edifici volti al contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione delle fonti energetiche rinnovabili, la Suprema Corte aveva escluso che la norma potesse applicarsi alla eliminazione dell'impianto centralizzato, sul rilievo che la disposizione presupponeva un migliore uso ed un migliore rendimento della cosa comune, ma non il suo mutamento ai sensi dell'art. 1120 (Cass. II, n. 6565/1991). La l. 9 gennaio 1991, n.10, ha inciso su tale aspetto. L'art. 8 ha infatti previsto la trasformazione dell'impianto centralizzato di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento inseriti in edifici composti da più unità immobiliari. L'art. 26, comma 2, l. n. 10 del 1991, cit., ha stabilito, nella sua originaria stesura, che: «Per gli interventi in parti comuni di edifici volti al contenimento del consumo energetico degli edifici stessi, ed all'utilizzazione delle fonti di energia di cui all'articolo 1, ivi compresi quelli di cui all'art. 8, sono valide le relative decisioni prese a maggioranza delle quote millesimali»: così derogando agli artt. 1120 e 1136. L'art. 28, comma 2, l. n. 10 del 1991, poi, richiedeva il deposito in Comune della denuncia di inizio lavori, del progetto dell'opera e di una relazione tecnica (sulla menzionata legge, v. Lazzaro; inoltre Izzo, 197). In seguito il menzionato comma 2 dell'art. 26 della stessa legge ha subito reiterati interventi (art. 16 d.lgs, 19 agosto 2005, n. 192, come modificato dall'art. 7 d.lgs, 29 dicembre 2006, n. 311 e dall'art. 18, comma 3, d.l. 4 giugno 2013, n. 63, convertito, con modificazioni, in l. 3 agosto 2013, n. 90; art. 27, comma 22, l. 23 luglio 2009, n. 99; art. 28, comma 1, l. 11 dicembre 2012 n. 220), che hanno condotto al seguente testo: «Per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione delle fonti di energia di cui all'articolo 1, individuati attraverso un attestato di prestazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le pertinenti decisioni condominiali sono valide se adottate con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio». La legge in questione ha determinato il sorgere del problema del coordinamento con le regole dettate in materia condominiale dall'art. 1118 c.c., in tema di efficacia della rinuncia unilaterale alla quota di comproprietà delle parti comuni; dall'art. 1102 c.c., sull'uso della cosa comune); dall'art. 1105 c.c., sul ricorso all'autorità giudiziaria nel caso in cui non vengano assunti o eseguiti i provvedimenti presi per l'amministrazione della cosa comune; dall'art. 1120 c.c., sul divieto di innovazioni. La Suprema Corte ha in generale stabilito che la trasformazione dell'impianto centralizzato a gasolio con impianti individuali a gas metano può legittimamente essere deliberata con la maggioranza delle quote millesimali, a condizione che tale trasformazione sia idonea al contenimento del consumo energetico in conformità alla previsione della l. 9 gennaio 1991, n. 10 (Cass. II, n. 4216/2009; Cass. II, n. 1698/2005; Cass. II, n. 1166/2002; Cass. II, n. 8924/2001; Cass. II, n. 1165/1999; Cass. II, n. 5843/1997). Peraltro, ai fini della validità della delibera condominiale di trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti individuali – adottata ai sensi dell'art. 26, comma 2, della l. 9 gennaio 1991, n. 10, a maggioranza delle quote millesimali e in conformità agli obiettivi di risparmio energetico perseguiti da tale legge – non sono necessarie verifiche preventive circa l'assoluta convenienza della trasformazione quanto al risparmio dei consumi di ogni singolo impianto, né si richiede che l'impianto centralizzato da sostituire sia alimentato da fonte diversa dal gas, occorrendo soltanto che siano alimentati a gas quelli autonomi da realizzare, irrilevante essendo, altresì, la circostanza che, nella fase di attuazione della deliberazione emerga l'impossibilità di realizzare l'impianto autonomo in uno degli appartamenti (Cass. II, n. 22276/2013). In particolare, una volta deliberata dall'assemblea condominiale (secondo la maggioranza di cui all'art. 26, comma 2, della legge citata) la trasformazione, il condominio deve provvedere, in attuazione della delibera stessa, a porre in essere tutte quelle opere necessarie a consentire a tutti i condomini, anche dissenzienti, ed anche in tempi diversi, di allacciare le singole unità abitative al nuovo impianto condominiale, non essendo invece necessario che la trasformazione materiale riguardi quelle opere che rientrano nella disponibilità e nella proprietà esclusiva dei singoli condòmini e non sussistendo l'obbligo a carico di tutti i condòmini di allacciare le proprietà singole al nuovo impianto (Cass. II, n. 4216/2009). È stato tuttavia precisato che occorre distinguere la trasformazione dalla soppressione dell'impianto centralizzato. Si ha trasformazione, con conseguente applicabilità dell'art. 26, comma 2, della legge citata, quando la delibera è assunta dopo l'acquisizione della relazione tecnica di cui si è detto, sulla base della quale è stata decisa la trasformazione dell'impianto e sono state compiute le operazioni conseguenti. Si ha, invece, soppressione dell'impianto centralizzato, con conseguente applicabilità dell'art. 1120, comma 2, c.c. quando la delibera assembleare si limiti a disporre la trasformazione dell'impianto di riscaldamento in impianti autonomi senza far riferimento alle prescrizioni normative in tema di risparmio energetico, lasciando alla discrezionalità di ogni singolo condomino di provvedere autonomamente all'installazione della caldaia (Cass. II, n. 5117/1999; Cass. II, n. 1698/2005). La delibera con cui il condominio decida la soppressione dell'impianto centralizzato, e non la sua trasformazione in impianti individuali a gas, adottata con la semplice maggioranza delle quote millesimali, ai sensi della l. 9 gennaio 1991, n. 10, è affetta da nullità, esulando dalla previsione di quest'ultima (Cass. II, n. 1166/2002). Si è discusso se per la validità della delibera di trasformazione dell'impianto centralizzato occorresse allegare ad essa il progetto delle opere e la relazione tecnica, la quale documentasse la concreta realizzabilità dell'intervento e la sua convenienza sotto il profilo del risparmio energetico. Nonostante il contrario avviso della prevalente giurisprudenza di merito, la Suprema Corte ha pressoché unanimemente ritenuto valida la delibera assembleare che decide a maggioranza la trasformazione dell'impianto centralizzato in singoli impianti autonomi, anche se non accompagnata dal progetto delle opere e dalla relativa relazione tecnica: le norme che disciplinano le operazioni di trasformazione degli impianti di riscaldamento destinate al risparmio di energia, infatti, prevedono una fase deliberativa ed una attuativa, la prima volta alla sola valutazione di convenienza economica della trasformazione, la seconda, comprensiva del progetto e della relazione tecnica, volta alla successiva fase attuativa della delibera assembleare (Cass. II, n. 862/2015; Cass. II, n. 4216/2009; Cass. II, n. 10871/2006; Cass. II, n. 16980/2005; Cass. II, n. 116/2002; Cass. II, n. 5117/1999; Cass. II, n. 5843/1997). Accennando ora al distacco dall'impianto di riscaldamento, occorre dire che la giurisprudenza, dopo aver mantenuto in un primo tempo un orientamento assai severo, che escludeva la possibilità del distacco o, comunque, affermava che il condomino fosse comunque tenuto al pagamento delle spese di funzionamento dell'impianto, si è affermato un indirizzo univoco, secondo cui il distacco è possibile se non determina né notevoli squilibri sul funzionamento dell'impianto, né aggravi di spesa per gli altri condomini; d'altro canto il condomino rinunciante continua a sostenere le spese di conservazione dell'impianto (Cass. II, n. 19893/2011; Cass. II, n. 5331/2012; Cass. II, n. 15079/2006; Cass. II, n. 5974/2004; Cass. II, n. 1775/1998; Cass. II, n. 1597/1997). Nella soluzione della questione del distacco dall'impianto di riscaldamento vengono in particolare in considerazione due distinti profili: uno tecnico, ossia se il distacco sia tecnicamente fattibile e se esso possa essere effettuato senza ricadute negative sul funzionamento dell'impianto; uno giuridico, ossia quali spese debbano rimanere a carico del condomino che ha rinunciato all'impianto di riscaldamento centralizzato. Il comma 4 dell'attuale art. 1118 c.c. – al cui commento si rinvia – sembra dunque recepire l'insegnamento della giurisprudenza. Va infine ancora osservato che le obbligazioni a carico del condomino, connesse alla proprietà comune dell'impianto centralizzato vengono meno nell'ipotesi in cui costui sia stato escluso dal relativo servizio per distacco della diramazione di locali di sua esclusiva proprietà, disposto dallo stesso condominio allo scopo di procedere alle necessarie riparazioni, e per il protrarsi di tale distacco a causa dell'inerzia del condominio medesimo, senza che rilevi in contrario la decisione presa, in conseguenza di ciò, dal condomino, di attivare un impianto autonomo di riscaldamento (Cass. II, n. 10560/2001). Ed inoltre, se, in seguito a un intervento di sostituzione della caldaia dell'impianto termico centralizzato, il mancato allaccio di un singolo condomino non si intenda quale volontà unilaterale dello stesso di rinuncia o distacco, ma appaia quale conseguenza della impossibilità tecnica di fruizione del nuovo impianto condominiale a vantaggio di una unità immobiliare, restando impedito altresì un eventuale futuro riallaccio, deve ritenersi che tale condomino non sia più titolare di alcun diritto di comproprietà sull'impianto, e non debba perciò nemmeno più partecipare ad alcuna spesa a esso relativa, essendo nulla la delibera assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali cui non sia comune l'impianto centralizzato, né siano serviti da esso (Cass. II, n. 18131/2020). Con la riforma della disciplina condominiale ad opera della l. 11 dicembre 2012, n. 220, per le opere e gli interventi per il contenimento del consumo energetico degli edifici nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili, trova applicazione la norma in commento, la quale, incidendo così sulla l. 9 gennaio 1991, n. 10, richiede la maggioranza di cui al II comma dell'art. 1136 c.c. È appena il caso di accennare, infine, che della produzione energetica in ambito condominiale si occupa anche l'art. 1122-bis c.c., al cui commento si rinvia. Contabilizzazione e termoregolazione In collegamento con il tema degli interventi sull'impianto di riscaldamento centralizzato non può mancare di esaminarsi la disciplina della contabilizzazione e termoregolazione (v. in generale Riccio, 1; Scripelliti, 2015, 1829). Il tema del risparmio energetico si è arricchito per effetto del c.d. «decreto efficienza energetica» (d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102), che, all'art. 9 (rubricato: «Misurazione e fatturazione dei consumi energetici»), comma 5, reca una disposizione volta a «favorire il contenimento dei consumi energetici attraverso la contabilizzazione dei consumi individuali e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi di ciascun centro di consumo individuale». L'obiettivo indicato – il contenimento dei consumi energetici – si attua, in ambito condominiale, nel modo che segue: i) nei condomìni riforniti da una fonte di riscaldamento centralizzata è obbligatoria l'installazione di contatori individuali per misurare l'effettivo consumo di calore per ciascuna unità immobiliare, nella misura in cui sia tecnicamente possibile, efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali; ii) nei casi in cui l'uso di contatori individuali non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi, per la misura del riscaldamento si ricorre all'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per misurare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore posto all'interno delle unità immobiliari dei condomini, salvo che l'installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi, nel qual caso sono presi in considerazione metodi alternative, efficienti in termini di costi, per la misurazione del consumo di calore. iii) per la corretta suddivisione delle spese connesse al consumo di calore, l'importo complessivo deve essere suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell'impianto, secondo quanto previsto dalla norma tecnica UNI 10200 e successivi aggiornamenti. È fatta salva – soggiunge la norma – la possibilità, per la prima stagione termica successiva all'installazione dei dispositivi, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà. La disposizione, in breve, trova applicazione in caso di impianti di riscaldamento centralizzati e stabilisce che, entro la indicata data del 31 dicembre 2016 (termine poi prorogato al 30 giugno 2017), ciascuna unità immobiliare venga, almeno di regola, dotata in prima battuta di un contatore e, in seconda battuta, di valvole per la termoregolazione e contabilizzazione collocate su ciascun radiatore. Molti i problemi posti dalla disposizione. Occorre anzitutto osservare che l'impianto di riscaldamento centralizzato è ricompreso nel numero delle parti comuni dell'edificio, ai sensi dell'art. 1117, n. 3), c.c. Tale norma, nella formulazione antecedente alla riforma del 2012, comprendeva infatti tra le parti comuni dell'edificio «le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all'uso e al godimento comune, come ... gli impianti per ... il riscaldamento ... fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini». Dopo la riforma la stessa norma stabilisce che costituiscono parti comuni dell'edificio «le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come ... i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per... il riscaldamento... fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza». Ora, considerato l'impiego dell'espressione «sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione», contenuta nell'attuale versione dell'art. 1117 c.c., si è da taluni osservato che, a seguito della riforma, sarebbe stata soppressa la previsione della natura comune dell'impianto in parola, dal momento che l'impianto di riscaldamento non sarebbe ricompreso, se non altro per intero, tra i «sistemi centralizzati di distribuzione e trasmissione», tanto più che lo stesso art. 1117, n. 2), c.c., non neppure indica più tra le parti comuni i locali «per il riscaldamento centrale». Si è replicato che l'imprecisione lessicale del legislatore non giustifica esiti interpretativi irragionevoli: e, del resto, per quanto riguarda i locali destinati alla caldaia, essi ben possono essere considerati nel numero delle parti comuni, dal momento che l'art. 1117, n. 2), c.c., include tra le parti comuni, in generale, «i locali per i servizi in comune», locali tra i quali possono farsi senz'altro rientrare quelli per il riscaldamento centrale. Merita allora rammentare il principio più volte ribadito secondo cui la disposizione di cui all'art. 1117 c.c., pone una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati, la cui elencazione non è tassativa, che deriva sia dall'attitudine oggettiva del bene al godimento comune, sia dalla concreta destinazione del medesimo al servizio comune (Cass. II, n. 13262/2012). Una volta stabilito che l'impianto centralizzato di riscaldamento è e rimane parte che si presume comune, ai sensi dell'art. 1117 c.c., occorre accennare – rinviando per ogni approfondimento al commento all'art. 1123 c.c. – alle regole generali che presiedono al riparto tra i condomini delle relative spese. Nella materia, l'art. 1123 pone due precetti fondamentali: i) al comma 1 la norma stabilisce che le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salva diversa convenzione; in altre parole, le spese in questione si ripartiscono sulla base delle tabelle millesimali; ii) al secondo comma, però, la stessa disposizione soggiunge che, se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne. Occorre allora in primo luogo chiedersi se le spese di riscaldamento si ripartiscono sulla base dei commi 1 e 2 dell'art. 1123 c.c. In dottrina, è stato sostenuto che, nel complesso, il congegno previsto dall'art. 1123 c.c. darebbe conferma di quella ricostruzione – riassunta sotto la formula di «teoria individualistica» (si sono già in precedenza richiamati Salis e Corona) – che ravvisa l'essenza del condominio nella complementarietà-strumentalità del rapporto tra la proprietà comune e le proprietà solitarie, in funzione della cui utilità tale rapporto è in definitiva concepita; la disciplina delle parti comuni, e delle relative spese, sarebbe cioè posta a soddisfare non un interesse collettivo, se non inteso quale somma degli interessi individuali dei titolari delle singole proprietà solitarie, in proporzione alle relative quote. Allo stesso tempo «le spese d'uso (che traggono origine dal godimento soggettivo e personale) si suddividono in proporzione alla concreta misura di esso, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza (e possono, conseguentemente, mutare, del tutto legittimamente, in modo affatto autonomo rispetto al valore della quota)» (Cass. II, n. 8292/2000; v. pure Cass. II, n. 11747/2003). Ora, non c'è dubbio che le spese di riscaldamento della singola unità immobiliare (altro discorso è quello del riscaldamento delle parti comuni) debbano essere ripartite in applicazione della regola posta dal comma 2, e non dal comma 1 dell'art. 1223 c.c. A questo scopo la giurisprudenza ha impiegato il parametro della superficie radiante. Perciò, in tema di condominio, ai fini della ripartizione delle spese di riscaldamento, l'unico criterio base che sia conforme al principio generale di cui all'art. 1123, comma 2, c.c., è quello della superficie radiante (Cass. II, n. 946/1995). Quello della superficie radiante era tuttavia un criterio obbligato – prima delle novità normative successivamente intervenute –, ma non per questo del tutto soddisfacente. Difatti il criterio della superficie radiante non era affatto idoneo a tenere in considerazione l'uso effettivo, l'effettiva fruizione che il condomino avesse dell'impianto di riscaldamento. Ed inoltre, lo stesso criterio rimaneva insensibile ai frequenti squilibri che si manifestano negli impianti di riscaldamento condominiali, con i piani bassi iper-riscaldati, e quelli alti in cui, per così dire, si battono i denti. Di qui è nato il fenomeno del distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato, del quale si è in precedenza parlato, allo scopo della sua sostituzione con un impianto autonomo, diretto a riscaldare la singola unità immobiliare. I termini della questione sono stati già riassunti. La giurisprudenza, dopo aver mantenuto in un primo tempo un orientamento assai severo, che escludeva la possibilità del distacco o, tutt'al più, onerava comunque il condomino del pagamento delle spese di funzionamento dell'impianto, ha univocamente ribadito il principio secondo cui il distacco è possibile se non determina né notevoli squilibri sul funzionamento dell'impianto, né aggravi di spesa per gli altri condomini; d'altro canto il condomino rinunciante continua a sostenere le spese di conservazione dell'impianto (v., ex multis Cass. II, n. 19893/2011; Cass. II, n. 5331/2012). Questa regola, di formazione giurisprudenziale, è poi entrata nel comma 4 dell'art. 1118 c.c., che, nell'attuale formulazione, dovuta alla riforma del 2012, è così formulato: «Il condòmino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento... se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini». In tal caso «il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle somme spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma». Con il fenomeno del surriscaldamento globale e dei conseguenti cambiamenti climatici dovuti al c.d. «effetto serra», fenomeno che nel 1997 darà luogo alla sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, la disciplina degli impianti di riscaldamento assume un rilievo di grande importanza nella conservazione e tutela dell'ecosistema. Il legislatore italiano interviene nella materia con la già citata l. 9 gennaio 1991, n. 10, recante: «Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia». Occorre al riguardo ricordare: i) l'art. 8, che, al fine di incentivare la realizzazione di iniziative volte a ridurre il consumo di energia ed il miglioramento dell'efficienza energetica, prevedeva la concessione di contributi, tra l'altro, per la trasformazione di impianti centralizzati di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria dotati di sistema automatico di regolazione della temperatura, inseriti in edifici composti da più unità immobiliari, con determinazione dei consumi per le singole unità immobiliari; ii) l'art. 26, rubricato: «Progettazione, messa in opera ed esercizio di edifici e di impianti», più volte rimaneggiato, del quale si devono menzionare due commi: il secondo, che, nel testo attuale, novellato da ultimo nel 2012, dispone quanto segue: «Per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione delle fonti di energia di cui all'art. 1 [le fonti rinnovabili: n.d.r.], individuati attraverso un attestato di prestazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le pertinenti decisioni condominiali sono valide se adottate con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio»; il quinto comma, anch'esso novellato nel 2012, secondo cui: «Per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l'assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell'art. 1120 c.c.». Vi sono, dunque, da un lato gli interventi volti al contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione di fonti rinnovabili, dall'altro l'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore: e, nelle due ipotesi, sono previsti appositi quorum deliberativi diversi l'uno dall'altro. La Suprema Corte ha avuto modo di sottolineare la distinzione tra gli interventi previsti dai commi secondo e quinto dell'art. 26, affermando che «la previsione di deroga alle maggioranze per le innovazioni relative alla installazione dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore e la obbligatorietà di essi nelle nuove costruzioni sono cose diverse dalla deroga alle maggioranze di cui al comma 2, prevista per gli interventi in parti comuni di edifici (id est: su beni condominiali) volti al contenimento dei consumi ed all'utilizzazione delle fonti di energia alternative (...). Si tratta di due interventi distinti e quello innovativo di installazione dei sistemi di cui al comma 5 può anche prescindere dalla trasformazione (o dal tipo di impianto, che potrà restare anche quello vecchio ed in uso o non alimentato con fonti alternative), che si colloca nell'ambito degli interventi di cui al comma secondo, nel quale lo scopo della legge è quello di agevolare la installazione, nei vecchi edifici, degli impianti autonomi in sostituzione del vecchio impianto col fine – a prescindere dalla approvazione del progetto esecutivo – del risparmio energetico e dell'uso di fonti alternative» (Cass. II, n. 16980/2005). Il sistema delineato dall'art. 26 cit. sembra chiaro e lineare soltanto in parte. Per un verso, gli interventi volti al contenimento energetico, tra i quali la sostituzione degli impianti centralizzati con impianti unifamiliari a gas, vengono collocati al centro di una disciplina promozionale, giacché, in sede condominiale le relative deliberazioni sono agevolate attraverso la previsione di un quorum particolarmente basso: nella versione attuale della norma pari a 333,3 millesimi del totale. Per altro verso, le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, richiedono il quorum più alto previsto dall'art. 1120, comma 2, c.c., nell'attuale versione rivista nel 2012. Quest'ultima norma, che disciplina per l'appunto particolari innovazioni semplificate, rinvia a propria volta alla maggioranza indicata dal comma 2 dell'art. 1136 c.c., il quale richiede il quorum deliberativo della maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Quindi 500 millesimi del totale. Il perché di un simile diverso trattamento non è agevole da comprendere, se si considera che l'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione è in se stessa, essa pure, una soluzione diretta al risparmio energetico, giacché la parametrazione della spesa per il riscaldamento al consumo effettivo induce il condomino a consumare di meno e, quindi, a realizzare proprio quell'obiettivo di contenimento energetico che l'ordinamento nel complesso si propone. Qui, con riguardo agli interventi volti al risparmio energetico, si pone un problema interpretativo. L'art. 1120 c.c., modificato dalla stessa legge che ha modificato anche l'art. 26 della l. n. 10 del 1991, prevede oggi, al comma 2, n. 2, la maggioranza indicata dal comma 5 dell'art. 1136 c.c. (metà degli intervenuti e 2/3 dei millesimi) per le deliberazioni concernenti, tra l'altro, «le opere e gli interventi previsti... per il contenimento del consumo energetico degli edifici». Abbiamo dunque questa situazione. La stessa legge del 2012: a) nel modificare l'art. 26 della l. n. 10 del 1991, ha previsto il quorum di 1/3 dei millesimi «per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico»; b) nel modificare l'art. 1120 c.c. ha previsto il quorum della metà degli intervenuti e dei 2/3 dei millesimi per «le opere e gli interventi previsti... per il contenimento del consumo energetico degli edifici». È dunque lecito chiedersi, che differenza ci sia tra «gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico» e «le opere e gli interventi previsti... per il contenimento del consumo energetico degli edifici». E per quale ragione in un caso sia previsto un quorum molto basso e nell'altro un quorum più alto. La soluzione più plausibile, la quale si sforza di restituire una accettabile logica al sistema, suggerisce che il quorum più basso si applicherebbe nel quadro delineato dalla legge n. 10 del 1991, ossia quando gli interventi volti al risparmio energetico sono accompagnati da «un attestato di prestazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato»; il quorum più basso si applicherebbe in caso di interventi pure diretti al contenimento energetico, ma non accompagnati dalla documentazione prevista dalla disposizione menzionata. Peraltro si tratta di una spiegazione non del tutto soddisfacente ove si consideri, da un lato, che l'«attestato di prestazione energetica» o la «diagnosi energetica» devono essere obbligatoriamente predisposte, e, dall'altro lato, che – secondo l'insegnamento della Suprema Corte – tale documentazione si colloca nella fase di attuazione della deliberazione volta al contenimento energetico (Cass. II, n. 10860/2014; Cass. II, n. 862/2015), sicché, al momento della deliberazione (e cioè al momento in cui occorre stabilire qual è il quorum applicabile) tale documentazione normalmente non c'è. La difficoltà interpretative si aggrava se si considera che il d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, all'art. 1, comma 9, lett. b, ha modificato l'art. 1120 c.c., comma 2, sopprimendo in esso inciso «per il contenimento del consumo energetico degli edifici»: con l'evidente intento di por fine al latente contrasto tra il quorum previsto dal comma 2 dell'art. 26 della l. n. 10 del 1991 ed il comma 2 dell'art. 1120 c.c. E, però, la l. 21 febbraio 2014, n. 9, di conversione del menzionato d.l., ha soppresso la soppressione, lasciando inalterato il testo dell'art. 1120 c.c. Ed ha dunque mantenuto in essere la situazione di possibile antinomia che emerge dal raffronto tra il comma 2 dell'art. 26 e il comma 2 dell'art. 1120 c.c. Sicché sembra non resti altro se non ritenere che: a) per le opere innovative, finalizzate al risparmio energetico, ma prive della documentazione prevista dall'art. 26 si applica il quorum previsto dal comma 2 dell'art. 1120 c.c. (maggioranza degli intervenuti e 500/1000); b) per gli interventi finalizzati al risparmio energetico, ma assistiti dalla documentazione menzionata si applica il quorum di cui al comma 2 dell'art. 26 della l. n. 10/1991 (maggioranza degli intervenuti e almeno 333/1000). In realtà, nel corso degli anni l'atteggiamento del legislatore nei confronti degli impianti di riscaldamento autonomi si è di molto modificato, sia pure secondo direttrici talora contraddittorie. Ed il motivo tecnico è chiaro: ciò che è emerso, in buona sostanza, è che tanti impianti unifamiliari non comportano in effetti un complessivo risparmio energetico rispetto ad un solo impianto, magari neppure perfettamente funzionante: e, al contrario, un impianto centralizzato moderno (ed ancor più i sistemi di teleriscaldamento) può fornire economie impensabili per gli impianti unifamiliari. Ecco, dunque, che il d.P.R. 2 aprile 2009, n. 59, all'art. 4, comma 9, detta una disposizione riferita alle centrali termiche condominiali in cui si dice che: «In tutti gli edifici esistenti con un numero di unità abitative superiore a 4, e in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell'impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 kW, appartenenti alle categorie E1 ed E2, così come classificati in base alla destinazione d'uso all'articolo 3, del d.P.R. 26 agosto 1993, n. 412, è preferibile il mantenimento di impianti termici centralizzati laddove esistenti; le cause tecniche o di forza maggiore per ricorrere ad eventuali interventi finalizzati alla trasformazione degli impianti termici centralizzati ad impianti con generazione di calore separata per singola unità abitativa devono essere dichiarate nella relazione di cui al comma 25». Il tema del risparmio energetico si è poi nel corso del tempo imposto all'attenzione del legislatore europeo. Ci si può limitare a rammentare le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo dell'8 e 9 marzo 2007, con le quali è stata sottolineata la necessità di aumentare l'efficienza energetica nell'Unione in modo da conseguire l'obiettivo di ridurre del 20% il consumo energetico dell'Unione entro il 2020 è stato fissato l'obiettivo dello sviluppo delle energie rinnovabili in tutta l'Unione e la riduzione delle emissioni di gas ad effetto. In questa prospettiva il Parlamento Europeo, in una risoluzione del 3 febbraio 2009, ha chiesto di rendere vincolante l'obiettivo miglioramento dell'efficienza energetica nell'ottica della riduzione del c.d. «effetto serra». Questo è il contesto in cui si inquadra la Direttiva 2002/91/CE, poi abrogata e sostituita dalla Direttiva 2010/31/UE del 19 maggio 2010 del Parlamento Europeo e del Consiglio, nonché la Direttiva 2012/27/UE del 25 ottobre 2012 del Parlamento e del Consiglio. Il d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102, in cui è contenuta la disposizione che ho riassunto in apertura, costituisce per l'appunto recepimento della Direttiva 2012/27/UE. Il quadro europeo consente di formulare una prima osservazione, fondamentale, concernente l'art. 9, comma 5, del d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102: si tratta indubbiamente di una disposizione dettata in vista della soddisfazione di un superiore interesse pubblicistico, e non certo (se non mediatamente) allo scopo di apprestare un semplice strumento volto a garantire la proporzionalità tra il consumo energetico da parte del singolo condomino e la spesa posta a suo carico. La norma di cui ci stiamo occupando ha dunque natura cogente: ed infatti la natura cogente o derogabile di una norma si desume dallo scopo di essa, a seconda che sia diretta a tutelare un interesse pubblico o privato (Cass.S.U., n. 2697/1972; Cass. II, n. 11256/2003; Cass. II, n. 30634/2011). L'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione, perciò, è oggetto di un obbligo gravante sulla generalità dei consociati e non può essere derogata dai privati. Alla stessa conclusione conduce del resto già il dato letterale, secondo cui «è obbligatoria l'installazione entro il 31 dicembre 2016...di contatori individuali», ecc. Ulteriore riprova della natura cogente della norma si rinviene nell'art. 16, comma 7, dello stesso d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102, che sanziona l'inosservanza dell'obbligo: ed infatti, nei casi di cui all'art. 9, comma 5, lettera c, il condominio che non provvede ad installare sistemi di termoregolazione e contabilizzazione è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2500 euro, salvo che un progettista o tecnico abilitato non abbia redatto una relazione tecnica da cui risulti che l'installazione non è efficiente in termini di costi. Perciò, entro la scadenza del 31 dicembre 2016, fissata dal citato comma 5, come prorogata, i condomini devono obbligatoriamente provvedere a dotarsi di contatori individuali ovvero di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali. Deve d'altronde considerarsi altresì cogente la regola di riparto delle spese di riscaldamento «in base ai consumi effettivi», «in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica», secondo quanto prevede la norma in esame. Del resto, già con riguardo all'art. 26, comma 5, l. n. 10 del 1991, nella scia del quale si colloca la nuova disposizione, la dottrina prevalente e la giurisprudenza di merito (Trib.Milano, Sezione distaccata Legnano, 30 gennaio 2009; Trib. Roma 29 aprile 2010) hanno affermato che il criterio ivi previsto di riparto delle spese di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato ha natura imperativa, trattandosi di disciplina diretta al perseguimento di interessi sovraordinati, quali l'uso razionale delle risorse energetiche ed il miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale. Ora, tornando ai criteri previsti dall'art. 1123 c.c., il criterio del consumo effettivo non è che una specificazione della previsione dettata dal comma 2 di tale disposizione. E cioè, il riparto delle spese di riscaldamento «in base ai consumi effettivi» costituisce applicazione della regola generale secondo cui, in caso di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite «in proporzione dell'uso che ciascuno può farne». E, però, per quanto si è appena detto, c'è una profonda differenza tra la regola dettata dall'art. 1123 c.c. e quella prevista in tema di termoregolazione e contabilizzazione dal comma 5 dell'art. 9 d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102, sulla scia del comma 5 della l. n. 10 del 1991: la previsione codicistica è derogabile, il che vuol dire che i condomini si possono accordare per soluzioni diverse; la previsione dettata dalla legislazione speciale, diretta a realizzare un superiore interesse di rilievo pubblicistico, è inderogabile. Difatti, come si accennava poc'anzi, la quantificazione delle spese in funzione del consumo effettivo è un incentivo a consumare di meno e, quindi, a realizzare un risparmio che va a beneficio non soltanto del portafoglio del singolo condomino, ma concorre allo scopo finale di riduzione del consumo energetico. Si può dunque fissare un altro punto. Una delibera assembleare che prevedesse un criterio di ripartizione delle spese di riscaldamento difforme da quello dei «consumi effettivi» sarebbe nulla in quanto contraria alla legge, ai sensi dell'art. 1137 c.c. e, come tale, potrebbe essere impugnata in ogni tempo anche da colui che ha votato a favore. Sull'interferenza tra il criterio di riparto delle spese di riscaldamento in funzione del consumo effettivo ed il regolamento condominiale occorre distinguere a seconda che il regolamento abbia o no natura contrattuale. Si immagini un condominio che abbia in precedenza adottato un regolamento assembleare (non dunque un regolamento contrattuale) il quale abbia previsto il riparto delle spese di riscaldamento in funzione della superficie radiante: criterio che non soddisfa ormai la previsione legale, laddove essa richiede l'effettuazione del riparto «in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica». Sembra che in questo caso non si presentino particolari difficoltà. Ed infatti il regolamento assembleare richiede un quorum che è quello del comma 2 dell'art. 1136 c.c., ossia lo stesso quorum richiesto dal comma 5 dell'art. 26 della l. n. 10 del 1991, per il tramite del rinvio al comma 2 dell'attuale art. 1120 c.c. Questo vuol dire che la delibera volta all'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione ed al riparto delle spese in funzione dell'uso effettivo non incontra alcun ostacolo in un eventuale regolamento condominiale precedente di segno diverso. Si immagini invece un condominio che abbia adottato un regolamento contrattuale in cui sia previsto il riparto delle spese di riscaldamento sulla base della superficie radiante. La regola, ovviamente, è che il regolamento contrattuale può essere modificato soltanto con un successivo contratto, e non a maggioranza (Cass. II, n. 17276/2005). Ma qui questa regola non può valere. Ed infatti, se è vero che il comma 5 dell'art. 9 del d.lgs. n. 102 del 2014, sulla scia del comma 5 dell'art. 26 della l. n. 10 del 1991, detta una disposizione imperativa, essa va ad incidere indirettamente, ma ineluttabilmente, sull'ambito di applicazione dell'art. 1138, comma 4, c.c., il quale stabilisce che i regolamenti condominiali non possano menomare determinati diritti spettanti a ciascun condomino, quale finisce per essere anche il diritto al riparto delle spese di riscaldamento secondo legge. Insomma, quale che sia la previsione di un eventuale regolamento contrattuale, il condominio è tenuto ad adeguarsi alla norma inderogabile in punto di riparto delle spese di riscaldamento. Sicché sembra necessario ritenere che la deliberazione in ordine all'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione, con la consequenziale modifica dei criteri di riparto – alla quale tale adozione è strumentale – possa e debba essere in ogni caso adottata nonostante la diversa previsione del regolamento contrattuale. Sorge ancora il problema su chi deve ottemperare all'obbligo, in ambito condominiale. Occorre cioè chiedersi se si tratti di un compito che, per ipotesi, ricade direttamente sull'amministratore, nell'ambito dei poteri spettantigli ai sensi dell'art. 1130 c.c., oppure sull'assemblea. Qui bisogna tornare al comma 5 dell'art. 26 della l. n. 10 del 1991, ove, come detto in precedenza, è stabilito che: «Per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione..., l'assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell'art. 1120 c.c.». La disposizione dice dunque che l'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione costituisce innovazione, ai sensi dell'art. 1120 c.c. Ora, come si è visto, la giurisprudenza, rimarcando la distinzione tra mera modificazione e innovazione della cosa comune, pone per lo più l'accento sul nesso tra la modificazione come tale e la sua incidenza sulla consistenza e/o sulla destinazione della cosa medesima: è cioè innovazione, nel senso previsto dall'art. 1120, la modificazione materiale che alteri l'entità sostanziale o muti la destinazione originaria della cosa comune; è invece mera modificazione quella diretta a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune, lasciandone immutate consistenza e destinazione, così da non alterare i concorrenti interessi dei condomini (Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 16639/2007). Occorre però accennare al fatto che l'inquadramento nell'ambito delle innovazioni dell'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione si colloca in una linea da tempo segnata dal legislatore, che ha dato luogo ad una figura definibile come innovazione «necessaria». Ed infatti si è già detto diverse leggi speciali hanno dettato normative di settore volte a rispondere a situazioni meritevoli di tutela come: l'art. 2, comma 1, l. 9 gennaio 1989, n. 13, per l'abbattimento delle barriere architettoniche; l'art. 9, comma 1, l. 24 marzo 1989, n. 122, per la realizzazione di parcheggi; l'art. 15, comma 1, l. 17 febbraio 1992, n. 179, per gli interventi di recupero; per l'appunto i commi 2 e 5, l. 9 gennaio 1991, n. 10, art. 26, per il risparmio energetico. L'art. 2-bis, comma 13, d.l. 23 gennaio 2001, n. 5, convertito con modificazioni in l. 20 marzo 2001, n. 66, poi, qualifica emblematicamente come «innovazione necessaria», ai sensi dell'art. 1120 c.c., le opere di installazione di impianti per lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, per le quali è prevista una particolare maggioranza, minore di quella prescritta per le innovazioni ordinarie. L'ulteriore punto fermo al quale siamo giunti è che l'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione dà luogo ad una innovazione facilitata. Si applica perciò la maggioranza prevista dal comma 2 dell'art. 1120 c.c. E si è già ricordato che esso rinvia a propria volta al comma 2 dell'art. 1136 c.c., il quale fissa il quorum del numero dei voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e la metà del valore dell'edificio. L'assemblea, con la maggioranza indicata, decide quindi: a) l'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore; b) il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento. Resta da dire che l'assemblea sarà convocata ai sensi dell'art. 66 disp. att. c.c. E la convocazione dovrà essere anzitutto disposta dall'amministratore, che, ai sensi di tale norma, può disporla quando «lo ritiene necessario», sicché deve disporla quando è per legge necessario. La convocazione può inoltre essere richiesta da almeno due condomini che rappresentino 1/6 del valore dell'edificio. Si è visto che l'assemblea deve deliberare l'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione, disciplinando conseguentemente il riparto degli oneri di riscaldamento. L'inosservanza, come detto, è colpita dalla sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro. Nel caso di inerzia dei condomini ovvero di mancato raggiungimento del quorum necessario, il singolo condomino può far ricorso alla previsione dell'art. 1105, comma 4, c.c., dettato per la comunione ma applicabile al condominio attraverso il rinvio contenuto nell'art. 1139 c.c., secondo cui: «Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore». Attraverso l'applicazione della norma, dunque, il singolo condomino – dopo aver svolto i necessari tentativi per stimolare la convocazione dell'assemblea, ovvero dopo che questa si sia svolta senza successo – può ottenere dal giudice l'adozione dei provvedimenti necessari, e dunque la nomina di un tecnico che predisponga un progetto adeguato e rediga la documentazione necessaria, e quindi la scelta di un'impresa che esegue l'intervento. Sembra dunque che il condomino abbia tutto l'interesse a chiedere l'intervento del giudice, il che gli consentirà di sottrarsi al pagamento della sanzione amministrativa eventualmente irrogata. Pagamento al quale invece dovrà probabilmente sottostare anche nell'ipotesi in cui abbia espresso voto favorevole alla delibera di adozione di un sistema di termoregolazione e contabilizzazione, delibera poi non approvata dall'assemblea. Altra eventualità ipotizzabile nella pratica è quella della «resistenza passiva» all'installazione del sistema di termoregolazione e contabilizzazione, che, come abbiamo ripetuto, prelude alla ripartizione delle spese di riscaldamento in funzione dell'effettivo consumo. Naturalmente la delibera adottata in proposito dall'assemblea è vincolante per tutti i condomini secondo la regola generale stabilita dal comma 1 dell'art. 1137 c.c.: «Le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini». L'osservanza delle deliberazioni è poi rimessa all'amministratore ai sensi dell'art. 1130 c.c. Può immaginarsi, a questo punto, che, adottata la deliberazione, effettuato il progetto, scelta l'impresa, un condomino si rifiuti di farla entrare in casa propria per l'installazione del contatore o delle valvole termostatiche destinate a misurare e regolare il consumo. In questo frangente l'amministratore ha non già la facoltà, ma l'obbligo di agire giudizialmente per ottenere dal giudice un provvedimento che consenta all'impresa di accedere alla proprietà esclusiva del singolo condomino per completare l'installazione, senza che sia a tal fine è necessaria una preventiva autorizzazione assembleare: obbligo che deve farsi discendere dal citato art. 1130 c.c., che impone all'amministratore di far eseguire le delibere condominiali. Trova applicazione, a tal fine, l'art. 843 c.c., il quale stabilisce che: «Il proprietario deve permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune». In genere l'applicazione di questa disposizione è chiesta ed ottenuta in sede cautelare, in concorso dei consueti requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora. Tuttavia, come si sa, anche per ottenere un provvedimento cautelare, e poi per eseguirlo, possono occorrere molti mesi. Ci si chiede allora che cosa può fare nel frattempo il condominio nei confronti del condomino riottoso, il quale, impedendo l'installazione della valvola termostatica nel suo appartamento, intenda impedire l'adozione di una regola di ripartizione delle spese di riscaldamento per lui sfavorevole. Sembra condivisibile una decisione del tribunale di Roma in cui si afferma che è legittimo «attribuire la massima potenza calorica ai radiatori che sono sprovvisti di contabilizzatori del calore» (Trib. Roma 29 aprile 2010). Il che vuol dire in altre parole che il condomino ridotto sarà chiamato a pagare la differenza tra il consumo totale e quello attribuito agli altri condomini sulla base dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione installati nei loro appartamenti. In tal senso può leggersi il recente responso secondo cui il condomino che abbia installato il sistema di termoregolazione e contabilizzazione del calore non può dolersi del fatto che il riparto delle spese a carico di altri condomini sia avvenuto sulla base di consumi presunti. Infatti, ammesso che dall'erroneità del riparto contenuto nella delibera derivi, in linea teorica, la nullità della delibera, cionondimeno il condomino non avrebbe alcun interesse ad agire, poiché, in ogni caso, egli non potrebbe ottenere un diverso riparto delle spese, essendo comunque tenuto a contribuire in maniera corrispondente al calore erogato nella propria unità immobiliare così come risulta contabilizzato (Cass. II, n. 6128/2017). Dalla situazione del condomino che, essendo collegato all'impianto centralizzato, rifiuta l'installazione della valvola termostatica, va distinta quella del condomino che si sia già legittimamente distaccato dall'impianto centralizzato e che, dunque, sembra possa motivatamente opporsi alla installazione del contatore o della elettrovalvola, che non avrebbero per lui alcuna utilità. Resta da chiedersi se, una volta adottati sistemi di termoregolazione e contabilizzazione, il singolo condomino possa nondimeno optare per il distacco dall'impianto centralizzato. In effetti, il fenomeno del distacco dall'impianto centralizzato dovrebbe ormai diventare del tutto recessivo, giacché il condomino dotato della valvola elettrostatica può ottenere attraverso di essa lo stesso risultato che otterrebbe sostenendo la spesa per dotarsi del riscaldamento autonomo. D'altro canto, sul tema si è già detto che l'ordinamento sembra ormai guardare con atteggiamento sfavorevole al distacco e che, nondimeno, esso è espressamente previsto dall'art. 1118, comma 4, c.c. Dunque il distacco deve ritenersi ancora consentito, nell'osservanza della disciplina prevista dalla legge e, cioè, a seguito di una richiesta rivolta all'assemblea e sostenuta dalla documentazione richiesta dall'art. 26, comma 2, della l. n. 10 del 1991. Barriere architettoniche Il legislatore nazionale ha da tempo dettato, da più versanti, disposizioni dirette a rimuovere gli ostacoli all'inserimento dei portatori di handicap nel contesto sociale. Risale ad oltre un quarto di secolo addietro la l. 5 febbraio 1992, n. 104, recante «Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate». Più in generale v. la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità 13 dicembre 2006, ratificata con l. 3 marzo 2009, n. 18. Con particolare riguardo all'eliminazione delle barriere architettoniche occorre richiamare da un lato il d.P.R. 24 luglio 1996, n. 503, contenente il «Regolamento recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici», e, dall'altro, per quanto rileva in questa sede, la l. 9 gennaio 1989, n. 13, recante «Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati» (in dottrina Ferrari, 1410; Giardino, 474; Celeste 1999, 565; Terzago, 1996, 5; Petrolati, 683). Per «barriere architettoniche», ai sensi dell'art. 1, comma 2, del citato d.P.R. n. 503 del 1996, si intendono: «a) gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea; b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti; c) la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi». L'art. 2, comma 1, l. 9 gennaio 1989, n. 13, in ambito condominiale, ha stabilito che le deliberazioni «che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche [...] sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile [oggi: dal secondo comma dell'articolo 1120 del codice civile]». La disposizione è stata così dettata in deroga alle regole generali previste dall'art. 1136, secondo cui «le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni», considerate dall'art. 1120, richiedono il voto favorevole della maggioranza dei partecipanti al condominio e dei due terzi del valore dell'edificio. L'eliminazione delle barriere architettoniche richiede invece in prima convocazione il voto favorevole della maggioranza dei condòmini intervenuti in assemblea, titolari di almeno 500 millesimi di proprietà, e, in seconda convocazione, il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio ed almeno un terzo del valore dell'edifico e cioè almeno 333 millesimi di proprietà. Tale regime, volto ad agevolare le menzionate deliberazioni, in un'ottica di protezione dei diritti fondamentali della persona, persegue dunque tale scopo attraverso il sensibile abbassamento del relativo quorum deliberativo. Perciò, ai fini della legittimità della deliberazione adottata dall'assemblea dei condomini ai sensi dell'art. 2 della l. 9 gennaio 1989, n. 13, l'impossibilità di osservare, in ragione delle particolari caratteristiche dell'edificio, tutte le prescrizioni della normativa speciale diretta al superamento delle barriere architettoniche non comporta la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore, finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica, qualora l'intervento produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (Cass. II, n. 18147/2013). Approvata in sede assembleare la delibera di abbattimento delle barriere architettoniche, il riparto della relativa spesa va effettuata in applicazione dell'art. 1123, sicché i condòmini ne assumono il carico in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno. Bocciata invece dall'assemblea la deliberazione di eliminazione delle barriere architettoniche il portatore di handicap ha, ai sensi dell'art. 2, comma 2, l. 9 gennaio 1989, n. 13, il diritto di «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» e di «modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages». Secondo la giurisprudenza anche l'ascensore, pur non espressamente menzionato dalla norma, rientra tra le innovazioni idonee ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'art. 27, comma 1, della l. n. 118 del 1971 ed all'art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 384 del 1978, che, ai sensi dell'art. 2 l. n. 13 del 1989, possono essere approvate dall'assemblea condominiale con le maggioranze ridotte prescritte dall'art. 1136, comma 2 e 3, c.c. (Cass. II, n. 8286/2005). L'art. 2, comma 3, l. 9 gennaio 1989, n. 13, mantiene fermo quanto disposto dagli artt. 1120, comma 2, oggi comma 4, e 1121, comma 3, c.c. Sono perciò vietate quelle innovazioni «che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decorso architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino». In tal senso è stato affermato che la condizione di inservibilità del bene comune all'uso o al godimento anche di un solo condomino, che, ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c., rende illegittima e quindi vietata l'innovazione deliberata dagli altri condomini, è riscontrabile anche nel caso in cui l'innovazione produca una sensibile menomazione dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene. Dunque, le innovazioni dirette a eliminare barriere architettoniche, come quelle che dispongano l'installazione di un ascensore, non derogano all'art. 1120, comma 2, c.c., ma solo alla maggioranza che diversamente è prescritta dall'art. 1136, comma 5, c.c., richiamato dal comma 1 dell'art. 1120 c.c. (Cass. II, n. 24235/2016). L'installazione di un ascensore sul pianerottolo è dunque vietata se il suo uso rechi pregiudizio anche a un solo condomino. E cioè, come è stato di recente ribadito, l'installazione di un ascensore costituisce un'innovazione per l'abbattimento delle barriere architettoniche ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989; tuttavia, secondo quanto prescritto dal comma 3 di detta norma, vanno sempre osservati i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.; pertanto, tale installazione è vietata se comporta per il condomino un rilevante pregiudizio dell'originaria possibilità di utilizzazione del pianerottolo (Cass n.21339/2017). Peraltro, pur nel confermare che l'installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare delle barriere architettoniche, rientra fra le opere di cui all'art. 27, comma 1, della l. n. 118 del 1971 ed all'art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 384 del 1978, e, pertanto, costituisce un'innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989, va approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l'osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2, si è precisato che la verifica della sussistenza di tali ultimi requisiti deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purchè lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (Cass. II, n. 6129/2017). D'altro canto, gli altri condòmini «possono [...], in qualunque tempo, partecipare ai vantaggi dell'innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell'opera». La l. 9 gennaio 1989, n. 13, stabilisce ancora, all'art. 3, che le opere volte all'eliminazione delle barriere architettoniche «possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati». Il successivo art. 4 si sofferma sull'ipotesi che l'edifico sia soggetto a vincolo paesaggistico. Ulteriori agevolazioni burocratiche sono previste dagli artt. 6 e 7. La fattispecie che più frequentemente si riscontra nel contenzioso è quella dell'installazione dell'ascensore. Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che: «Nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto, praticamente impossibilitati, in considerazione del loro stato fisico, a raggiungere la propria abitazione a piedi, e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune, ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, trattandosi di soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32 Cost.) e della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.). L'installazione dell'ascensore rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica, rientra tra le facoltà riconosciute a detti condòmini di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini» (Cass. II, n. 2156/2012). Una lettura estensiva del precetto normativo emerge altresì dalla seguente massima: «L'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condòmini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, comma 2, l. 9 gennaio 1989, n. 13, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale» (Cass. II, n. 14096/2012). Più aderente al dettato normativo è l'affermazione secondo cui l'art. 2 l. 9 gennaio 1989, n. 13, dopo aver previsto la possibilità per l'assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell'art. 1136, commi 2 e 3, c.c., così derogando all'art. 1120, che richiama il comma 5 dell'art. 1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate, dispone tuttavia, al comma 3, che resta fermo il disposto dell'art. 1120, comma 2, c.c. il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo l'originaria costituzione della comunione. Ne deriva che è nulla la delibera, la quale, ancorché adottata a maggioranza al fine dell'installazione di un impianto di ascensore nell'interesse comune, sia lesiva dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva, e la relativa nullità è sottratta al termine di impugnazione previsto dall'art. 1137 c.c., potendo essere fatta valere in ogni tempo da chiunque dimostri di averne interesse, ivi compreso il condomino che abbia espresso voto favorevole (Cass. II, n. 12930/2012; Cass. II, n. 28920/2011; Cass. II, n. 14384/2004). Già in precedenza si era stabilito che «sono nulle le delibere che ancorché adottate a maggioranza al fine indicato siano lesive dei diritti di altro condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative» (Cass. II, n. 6109/1994). L'installazione di un servo-scala per facilitare l'accesso ai disabili non implica rinuncia alla realizzazione degli strumenti considerati idonei al superamento delle barriere architettoniche e deliberati dall'assemblea (Cass. II, n. 8286/2005). Quantunque l'art. 2 l. 9 gennaio 1989, n. 13, si riferisca esclusivamente ai «portatori di handicap», si è ritenuto che esso debba trovare applicazione, in generale, nei confronti di quanti si trovano in condizioni fisiche disagiate. È stata così desunta l'applicabilità della norma anche agli anziani ultrasessantacinquenne, agli invalidi civili (Trib. Termini Imerese 22 dicembre2008; Pret. Roma 15 maggio 1996; Trib. Napoli 14 marzo1994). Sempre sul piano soggettivo è stato ritenuto che la l. 9 gennaio 1989, n. 13, tuteli non solo l'ipotesi in cui il disabile risieda presso l'immobile condominiale, ma anche quando egli utilizzi l'immobile per lo svolgimento di attività lavorativa, ovvero conducano in locazione un'unità abitativa (Trib. Napoli 4 giugno 2008; Trib. Milano 26 aprile1993; Trib. Milano 22 marzo1993; Trib. Milano 19 settembre1991). Per tale via, pare ormai che la presenza, a qualunque titolo, di portatori di handicap nel condominio, vada infine perdendo rilievo, per i fini dell'abbattimento delle barriere architettoniche. Difatti, «secondo una lettura costituzionalmente orientata e in applicazione sia del principio di solidarietà condominiale che della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità 13 dicembre 2006, ratificata con l. 3 marzo 2009, n. 18, la deliberazione di installazione di ascensore con una maggioranza inferiore a quella prescritta dall'art. 1120 c.c. è valida anche in mancanza di specificazione del fine di eliminazione delle barriere architettoniche ai sensi dell'art. 2 della l. n. 13 del 1989 e, altresì, in assenza di disabili nell'edificio, in quanto nella stessa è immanente la finalità legittima di consentire l'accesso ai portatori di handicap senza difficoltà in tutti gli edifici e non solo presso la propria abitazione, essendo ostativo non il mero disagio bensì solo l'inservibilità della cosa comune al godimento e uso anche di un solo condomino, intesa come concreta inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità, con la salvaguardia comunque del decoro architettonico e la sicurezza da valutare, però, nella loro essenzialità ed incidenza negativa non minimale» (Cass. II, n. 18334/2012). A fronte della tendenza giurisprudenziale a dare incondizionata prevalenza alla tutela dei disabili, attraverso la tecnica del bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, la riforma del condominio ha previsto un innalzamento – negativamente giudicato dai primi commentatori – della maggioranza deliberativa (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio) rispetto all'attuale maggioranza deliberativa «agevolata» (un terzo dei partecipanti al condominio ed un terzo del valore in seconda convocazione). Tale scelta legislativa riconduce dunque la materia nell'ambito della ordinaria disciplina delle innovazioni, collocata nella sua ottica proprietaria, con conseguente componimento delle esigenze sociali recepite nella legislazione speciale operante in sede condominiale attraverso la configurazione di innovazioni facilitate. È stato dunque osservato che purtroppo la l. 17 dicembre 2012, n. 220 «ha riportato indietro le lancette dell'orologio a prima del 1989, anno di entrata in vigore della normativa in materia di superamento delle barriere architettoniche» (Celeste 2013, 7). Viene sottolineato che, per quanto concerne la realizzazione di opere volte al superamento delle barriere architettoniche, è stato elevato l'originario quorum connesso all'assemblea in seconda convocazione (un terzo) a quello attuale (metà), rendendo così più difficoltosa l'effettiva tutela della mobilità dei portatori di handicap all'interno dell'edificio, in controtendenza con le recenti affermazioni della giurisprudenza che, nell'ottica di una lettura costituzionalmente orientata di tali disposizioni, intravede nell'àmbito dell'edificio in condominio un'applicazione del principio di solidarietà. Nella specifica ipotesi dell'eliminazione delle barriere architettoniche è stato dunque registrato un preoccupante dietrofront rispetto alle leggi speciali che avevano abbassato i quorum per la realizzazione di opere caratterizzate da un marcato rilievo sociale, passando da maggioranze tutto sommato abbordabili ad altre non sempre agevolmente raggiungibili. Interventi di recupero Dopo aver individuato all'art. 27 le zone di recupero del patrimonio edilizio esistente ed aver disciplinato, agli artt. 28 e 29, i piani di recupero del patrimonio edilizio esistente e l'utilizzazione dei fondi da parte dei comuni, la l. 5 agosto 1978, n. 457, all'art. 30, inserito dall'art. 15 l. 17 febbraio 1992, n. 179, nel regolare i piani di recupero di iniziativa dei privati, stabilisce che i proprietari di immobili e di aree compresi nelle zone di recupero, possono presentare proposte di piani di recupero e che «in deroga agli artt. 1120,1121 e 1136, comma 5, del codice civile gli interventi di recupero relativi ad un unico immobile composto da più unità immobiliari possono essere disposti dalla maggioranza dei condòmini che comunque rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio». Tali interventi di recupero, da inquadrare tra gli atti di manutenzione straordinaria, non essendo diretti al semplice miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, ma al ripristino della stessa funzionalità dell'immobile, sono sottoposti dunque ad un quorum più agevole di quello richiesto per le innovazione, anche se più rigido di quello operante per gli atti di manutenzione straordinaria, la cui approvazione richiede, ai sensi dell'art. 1136, comma 4, c.c. il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea e almeno metà del valore dell'edificio. La deroga alla disciplina delle innovazioni introdotta dal citato art. 15 concerne dunque la previsione della sufficienza del voto favorevole dei condòmini che rappresentino almeno la metà, e non i due terzi, del valore dell'edificio, pur rimanendo immutata l'esigenza del voto favorevole della maggioranza dei partecipanti al condominio. Il comma 2 dell'art. 15 l. 17 febbraio 1992, n. 179, stabilisce poi che, qualora il programma di risanamento delle parti comuni dei fabbricati venga ammesso ai benefici di legge, tutti i proprietari sono obbligati a concorrere alle spese necessarie in rapporto ai millesimi di proprietà loro attribuiti. L'approvazione del programma costituisce condizione del sorgere dell'obbligo dei condòmini assenti o dissenzienti di contribuire all'esecuzione degli interventi di recupero. Il successivo comma 3 dell'art. 15 aggiunge che, in caso di rifiuto di approvazione del programma, la deliberazione di riparto della spesa, adottata dall'assemblea condominiale nelle forme di scrittura pubblica, diviene titolo esecutivo per l'ottenimento delle somme da recuperare (in tema Triola, 2007, 223). Aree destinate a parcheggio Una specifica trattazione va dedicata alla edificazione di parcheggi, dei quali è menzione nel comma 2 della disposizione in commento. È superfluo rammentare che la creazione di parcheggi è esigenza comunemente sentita a far data dallo sviluppo della motorizzazione di massa, la quale, allo scopo di ridurre la congestione del traffico, ha imposto di dotare i preesistenti condomini che ne erano privi di adeguati ricoveri per le autovetture. Già la l. 6 agosto 1967, n. 765 (cd. legge ponte), ha introdotto nella legge urbanistica (l. 17 agosto 1942, n. 1150) una disposizione, l'art. 41-sexies, la quale ha stabilito che: «Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi [...]». Sulla materia è quindi intervenuta la l. 24 marzo 1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli), che ha modificato l'art. 41-sexies citato, individuando in termini percentuali lo spazio da destinarsi a parcheggi «in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione». La giurisprudenza fin da subito formatasi sulla materia ha ritenuto che detta norma avesse determinato il sorgere di un inscindibile rapporto pertinenziale di rilievo pubblicistico. In tal senso le sezioni unite hanno affermato che: «L'art. 41-sexies della legge urbanistica17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall'art. 18 l. 6 agosto 1967, n. 765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, configura norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l'autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono. Ciò comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che, qualora il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento in applicazione dei principi sull'utilizzazione delle parti comuni dell'edificio o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio medesimo, deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in cui sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto stesso integrato ope legis con il riconoscimento di un diritto reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino, salva restando la possibilità delle parti di ottenere, anche giudizialmente, un riequilibrio del sinallagma contrattuale, alterato dalla indicata integrazione dell'oggetto di una delle prestazioni (Cass. S.U., n.6600/1984). In seguito, la l. 28 febbraio 1985, n. 47, all'art. 26, comma 5, ha stabilito espressamente che: «Gli spazi di cui all'art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 c.c.). I parcheggi condominiali, in tal modo, sono stati intesi quale «cosa destinata in modo durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa» (art. 817 c.c.), e sono stati così sottoposti al pertinente regime giuridico, con conseguente applicazione del principio accessorium sequitur principale, nonché delle regole in ordine alla separabilità della pertinenza (art. 818 c.c.) ed ai diritti dei terzi sulle pertinenze in caso di trasferimento della cosa principale (art. 819 c.c.). Sulla base di tale previsione normativa parte della giurisprudenza ha ritenuto che trovasse conferma il precedente indirizzo con il quale si attribuiva al vincolo pertinenze al è un rilievo pubblicistico non suscettibile di essere reciso, mentre altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha sostenuto che il richiamo alla complessiva disciplina delle pertinenze comportasse la separabilità del parcheggio dalla cosa principale. Sulla materia sono dunque nuovamente intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno ribadito che l'art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, pone un vincolo pubblicistico di destinazione, che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa, ed hanno precisato che: «Tale principio resta immutato anche dopo l'entrata in vigore della l. 28 febbraio 1985, n. 47, atteso che l'art. 26 ultimo comma di detta legge, nello stabilire che gli spazi di cui all'art. 18 l. 6 agosto 1967, n. 765 costituiscono pertinenze delle costruzioni ai sensi degli artt. 817, 818 ed 819 c.c. «, non ha portata innovativa, ma assolve soltanto alla funzione di esplicitare la regola, già evincibile nella norma interpretata, secondo cui i suddetti spazi possono essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però rimanendo quel vincolo pubblicistico (Cass. S.U., n.3363/1989). Ogni residuo dubbio interpretativo è stato poi superato dall'art. 136, comma 2, lett. f), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il: «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia», che ha disposto l'abrogazione dell'art. 18 l. 6 agosto 1967, n. 765, rimettendo in tal modo alla giurisprudenza il compito di individuare la natura del vincolo pubblicistico di immodificabilità della relazione tra parcheggi e stabile condominiale, senza l'assoggettamento alla disciplina civilistica delle pertinenze. La citata l. n. 122/1989 ha poi introdotto una disciplina diretta a facilitare la realizzazione di parcheggi nelle costruzioni, che ne sono prive o non ne hanno in misura sufficiente. I parcheggi previsti dall'art. 9 l. 24 marzo 1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli) sono di due specie: a) parcheggi edificabili nel sottosuolo o a piano terra, con particolari facilitazioni, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, dai proprietari di costruzioni preesistenti da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari; b) parcheggi edificabili da privati su aree comunali ottenute in diritto di superficie, da destinare a pertinenza di unità immobili private. La realizzazione di tali parcheggi è facoltativa, ma, una volta realizzati, è obbligatoria la conservazione della loro destinazione, sicché essi non sono trasferibili, a pena di nullità, separatamente dall'unità immobiliare di cui costituiscono pertinenza (sul tema in generale Ieva; Luminoso; Terzago-Ditta). In particolare, quanto alla prima tipologia, l'art. 9, commi 1-3, della legge riconosce ai condomini la facoltà di realizzare, nel sottosuolo o nei locali siti al pian terreno, e dunque in aree condominiali, parcheggi da destinare al servizio delle singole unità immobiliari. La materia è stata poi modificata dall'art. 17, comma 90, della l. n. 127/1997, e, ancora, dall'art. 37, comma 1, della l. n. 472/1999, sicché il testo è oggi così concepito: «I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché, non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente». Con riguardo poi alla seconda tipologia (art. 9, comma 4, nel testo modificato dall'art. 10, comma 2-ter, d.l. 30 dicembre 1997, n. 457 conv., con modif., nella l. 27 febbraio 1998, n. 30, è stato stabilito che i Comuni, a seguito di determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di società anche cooperative appositamente costituite tra gli stessi, possano prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse. In entrambi i casi, ricorre un espresso vincolo di inscindibilità tra immobile e parcheggio, ai sensi dell'art. 9, comma 5, secondo cui: «I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli». Di modo che la legge ha preso atto e recepito la costruzione già in precedenza elaborata dalla giurisprudenza nell'interpretazione del citato art. 41-sexies della l. n. 1150/1942, sancendo la inseparabilità del parcheggio dall'unità abitativa principale e la nullità degli atti di alienazione in violazione di siffatta norma imperativa. La Suprema Corte ha peraltro chiarito, in una importante decisione, che, in tema di disciplina legale delle aree destinate a parcheggio, i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dall'art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato. Ne consegue che l'originario proprietario-costruttore del fabbricato può legittimamente riservarsi, o cedere a terzi, la proprietà di tali parcheggi, nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d'obbligo (Cass.S.U., n. 12793/2005). La vicenda dei parcheggi ha quindi subito una ulteriore evoluzione per effetto dell'art. 12, comma 9, della l. 28 novembre 2005, n. 246, con il quale è stato aggiunto un secondo comma all'art. 41-sexies della legge urbanistican. 1150 del 1942, con cui è stabilito che «gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d'uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse». In proposito è stato tuttavia stabilito che detta disposizione ha natura di norma non interpretativa, che deve cioè intendersi destinata ad operare solo per il futuro, e dunque per le costruzioni non ancora realizzate oppure per quelle già realizzate ma per le quali non siano iniziate le vendite delle singole unità immobiliari (Cass n.4264/2006; Cass. II, n. 21003/2008). In definitiva, a questo punto dell'evoluzione del dato normativo, è stato affermato che, in tema di spazi destinati a parcheggi privati in complessi condominiali di nuova costruzione, il susseguirsi d'interventi legislativi incidenti sulla limitazione dell'autonomia privata in ordine alle dimensioni minime di tali spazi e al regime di circolazione, ha determinato l'esistenza di tre diverse tipologie di parcheggio, assoggettate a regimi giuridici differenziati tra di loro: a) i parcheggi soggetti ad un vincolo pubblicistico di destinazione, produttivo di un diritto reale d'uso in favore dei condomini e di un vincolo pertinenziale ex lege che non ne esclude l'alienabilità separatamente dall'unità immobiliare, disciplinati dall'art. 18 l. n. 765/1967 (art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942); b) i parcheggi soggetti al vincolo pubblicistico d'inscindibilità con l'unità immobiliare, introdotti dall'art. 2 della l. n. 122/1989, assoggettati ad un regime di circolazione controllata e di utilizzazione vincolata e, conseguentemente non trasferibili autonomamente; c) i parcheggi non rientranti nelle due specie sopra illustrate, perché realizzati in eccedenza rispetto agli spazi minimi inderogabilmente richiesti dalla disciplina normativa pubblicistica, ad utilizzazione e a circolazione libera; d) i parcheggi disciplinati dall'art. 12, comma 9, l. n. 246/2005 di definitiva liberalizzazione del regime di circolazione e trasferimento delle aree destinate a parcheggio ma con esclusivo riferimento al futuro, ovvero alle costruzioni non ancora realizzate e a quelle per le quali non sia ancora intervenuta la stipulazione delle vendite delle singole unità immobiliari, al momento della sua entrata in vigore (Cass. II, n. 21003/2008). Venendo all'epoca più vicina a noi, l'art. 10, comma 1, della l. n. 35 del 2012 ha novellato il comma 5 dell'art. 9 l. n. 122/1989, stabilendo che: «Fermo restando quanto previsto dall'art. 41-sexies, della l. 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni, e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio [...]», secondo quanto in buona sostanza riconosciuto dalla giurisprudenza, «la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1», e cioè i parcheggi privati realizzati in applicazione legge Tognoli «può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune». La stessa norma prosegue stabilendo che, al contrario: «I parcheggi realizzati ai sensi del comma 4», e cioè quelli realizzati in forza di convenzioni con i Comuni, «non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione sono nulli, ad eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione». In breve, dunque, la proprietà dei parcheggi privati in aree condominiali possono sì essere oggi trasferiti, ma solo per essere destinati a parcheggio di pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune, sussistendo altrimenti l'inscindibile vincolo pertinenziale di cui si è detto. Bisogna ancora aggiungere che le aree condominiali destinate a parcheggio vengono in linea di principio considerate parti comuni. Gli spazi destinati a parcheggio, previsti per le nuove costruzioni dall'art. 18 della l. n. 765/1967, sono cioè, in forza di un vincolo di destinazione di natura pubblicistica, riservati all'uso diretto delle persone che stabilmente occupano le singole unità immobiliari e costituiscono parti comuni dell'edificio ai sensi dell'art. 1117 c.c., quando appartengono in comunione ai singoli condomini, ovvero oggetto di un diritto reale d'uso spettante a ciascun condomino, quando proprietari siano terzi o alcuni soltanto dei condomini; qualora l'originario proprietario-costruttore abbia ceduto a ciascun acquirente la comproprietà in comune con gli altri delle aree destinate a parcheggio, il successivo acquisto di un'unità immobiliare e della quota di comproprietà delle parti comuni, attribuisce all'acquirente la qualità di condomino su tutte le stesse e quindi anche il paritetico diritto d'usufruire dell'area di parcheggio, a nulla rilevando l'eventuale insufficienza di questa rispetto alle complessive esigenze del condominio, la quale può dar luogo a un diritto al risarcimento del danno nei confronti del costruttore ed è regolata dalle norme sull'uso della cosa comune nei rapporti tra condomini (Cass. II, n. 982/2000; Cass. II, n. 3422/1998). Operando l'art. 1117 c.c., l'appartenenza dei parcheggi alle parti comuni è oggetto di una presunzione operante iuris tantum, la quale può essere superata dalla prova contraria. A tal riguardo vale rammentare il testo vigente dell'art. 1117, comma 1, lett. b), c.c., che ricomprende tra le parti comuni «le aree destinate a parcheggio», «se non risulta il contrario dal titolo». Nell'accennare alla maggioranza necessaria a deliberare la costruzione di parcheggi pertinenziali, va richiamato il disposto dell'art. 9, comma 3, della l. n. 122/1989, secondo cui le deliberazioni, che hanno per oggetto la realizzazione di parcheggi sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c., e cioè con una maggioranza che rappresenti almeno la metà dei valori di proprietà delle unità abitative e la maggioranza numerica delle persone intervenute in assemblea, fermo restando quanto disposto dagli artt. 1120, comma 2, e 1121, comma 3, c.c., in materia di divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, o che ne alterino il decoro architettonico, ed altresì in tema di facoltà di partecipare in seguito alla precedente innovazione, previa contribuzione alle spese. L'art. 17, comma 90, della l. n. 127/1997 (cd. Bassanini-bis) ha delimitato l'ambito di applicabilità della deliberazione assembleare, la quale opera «salvo che si tratti di proprietà non condominiale». Infine, il comma 2 della disposizione in commento, nello stabilire il quorum necessario per le opere e gli interventi volti a realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, ha ribadito in via generale l'operatività del regime semplificato. In questo quadro, in cui la giurisprudenza è rimasta stabile nel ravvisare nei parcheggi, sia ricadenti sotto la disciplina dell'art. 41-sexies l. n. 1150/1942 (cioè edificati ab origine), che della l. n. 122 del 1989 (cioè edificati successivamente), beni di natura pertinenziale, in forza di un vincolo tendenzialmente immodificabile (Cass. II, n. 1214/2012), è nuovamente intervenuto il legislatore con la l. 4 aprile 2012, n. 35, di conversione, con modificazioni, del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, il cui art. 10 ha novellato il comma 5 dell'art. 9, della l. 24 marzo 1989, n. 122, introducendo l'inciso che segue: «Fermo restando quanto previsto dall'art. 41-sexies, della l. 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni, e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggi». Il quorum deliberativo, a seguito dell'introduzione del comma 2 dell'art. 1120, è in questo caso rimasto inalterato, giacché anche in precedenza occorreva raggiungere, anche in seconda convocazione, la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Alberi e fioriÈ legittima la piantagione di essenze arboree e floreali nel cortile comune, compatibilmente con la destinazione dell'area pertinenziale comune e con il rispetto del pari uso di tutti i condomini (Cass. II, n. 3188/2011). La pronuncia è stata resa in un caso in cui la Corte d'appello aveva accertato: (a) che il suolo comune di pertinenza del fabbricato condominiale aveva una destinazione a giardino; (b) che la piantagione, in esso, di alberi da frutta e di fiori trovava il suo titolo nell'accordo unanime intervenute tra i proprietari delle singole unità abitative facenti parte del condominio; (c) che la piantagione delle essenze arboree e floreali era avvenuta in concreto in modo del tutto compatibile con la destinazione dell'area ed il godimento della medesima da parte di tutti (essendo illegittima esclusivamente la delimitazione delle singole zone del giardino comune attraverso la posa in opera di sbarramenti). Ha dunque ritenuto la Suprema Corte che le censure svolte dalla ricorrente muovessero dalla constatazione in fatto del risultato degli accertamenti compiuti, con logico e motivato apprezzamento, dalla Corte territoriale, sul rilievo che l'area pertinenziale de qua non avrebbe avuto una vocazione a giardino e che la destinazione sarebbe stata frutto di una unilaterale trasformazione, operata da un partecipante nel dissenso degli altri. In realtà, la critica mossa sul punto è apparsa alla Suprema Corte inadeguata. Invero, per negare che l'area comune in questione avesse una destinazione a giardino, nel motivo il ricorrente si era limitato a riportare l'atto di acquisto, da parte della ricorrente, della proprietà dell'appartamento facente parte della palazzina, nel quale erano indicate le parti comuni indivise, senz'altra specificazione della loro destinazione. Inoltre, non era stato indicato quali risultanze probatorie la Corte d'appello avrebbe male o insufficientemente valutato nel pervenire al convincimento della rispondenza della piantagione di alberi e fiori all'accordo di tutti i condomini. Ciò posto, ha rammentato la pronuncia del giudice di legittimità, in tema di condominio, il potere del singolo condomino di servirsi della cosa comune incontra un duplice limite, consistente, l'uno, nel rispetto della destinazione del bene comune, che non può essere alterata dal singolo partecipante alla comunione; l'altro, nel divieto di frapporre impedimenti «agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto» (art. 1102 c.c.). Nella specie la Corte d'appello era giunta alla conclusione – argomentata ed immune da vizi logici e giuridici – che la piantagione delle essenze arboree e floreali fosse avvenuta in modo del tutto compatibile non solo con la destinazione dell'area, ma anche con il diritto di tutti gli altri condomini di farne parimenti uso, così da integrare un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità.Dell'utilità comune degli alberi esistenti entro il perimetro condominiale e della loro salvaguardia si è occupata la giurisprudenza sotto i due distinti e diversi profili giuridici dell'innovazione e del decoro dell'edificio in condominio, con riguardo – è bene sottolineare – anche a quelli insistenti su area di proprietà esclusiva di un singolo condomino. È stato ritenuto che l'abbattimento di alberi, comportando la distruzione di un bene comune, deve considerarsi un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120 e, in quanto tale, richiede l'unanime consenso di tutti i partecipanti al condominio, né può ritenersi che la delibera di approvazione, a maggioranza, della spesa relativa all'abbattimento, possa costituire valida ratifica dell'opera fatta eseguire di propria iniziativa dall'amministratore (App. Roma 6 febbraio 2008). Con riferimento, invece, al decoro dell'edificio in condominio per l'esistenza di alberi in aree di proprietà esclusiva, è stato detto che «alle spese di potatura sono tenuti a contribuire tutti i condòmini allorché si tratti di piante funzionali al decoro dell'intero edificio e la potatura stessa avvenga per soddisfare le relative esigenze di cura del decoro stesso» (Cass. II, n. 3666/1994). Ha osservato la Suprema Corte che dalla sentenza della Corte d'Appello risultava essere incontroverso che, con apposito atto di acquisto, il condominio aveva acquistato, in proprietà esclusiva, la zona di giardino attigua alla sua unità immobiliare, nella quale allora insistevano gli alberi di alto fusto. In difetto di espressa pattuizione derogatoria contenuta nel negozio di acquisto, o nel regolamento contrattuale del condominio, nonostante la astratta possibilità contraria, nella specie trovava senz'altro applicazione l'art. 934 c.c., secondo cui, in virtù del principio dell'accessione e per effetto dell'avvenuta incorporazione, le alberature appartenevano, in proprietà esclusiva, al proprietario del suolo. Definita la questione preliminare circa la appartenenza degli alberi di alto fusto incorporati nel giardino; appurato che gli alberi appartenevano in proprietà esclusiva al predetto condominio, nondimeno al fabbricato essi offrivano una considerevole utilità: concorrevano a costituire quel particolare bene giuridicamente tutelato, che si designa con l'espressione di «decoro architettonico dell'edificio». L'asserto si fonda su due categorie concettuali comunemente recepite: a) la concezione del bene giuridico non come cosa materiale, ma come utilità tutelata in relazione agli interessi, che vi afferiscono; b) la configurazione dei nuovi strumenti di tutela concernenti la utilizzazione delle risorse, i quali non implicano lo ius excludendi e non si esauriscono con la proprietà (e con i tradizionali diritti reali frazionari). Avuto riguardo al testo dell'art. 810 c.c., la nozione di cosa – che è pregiudicata, neutra e costituisce il mero supporto materiale e di fatto – si distingue dal concetto di bene giuridico, il quale nasce in virtù della qualificazione e designa l'attribuzione della tutela giuridica ad una certa entità. La cosa rileva come bene giuridico solo in quanto giuridicamente qualificata. Orbene, la qualifica di bene giuridico si assegna a determinate entità non in ragione della loro esistenza, materiale e di fatto, ma in quanto sulle medesime incidono gli interessi umani, ai quali l'ordinamento ritiene di conferire una certa tutela. L'entità materiale e di fatto si considera dal diritto come bene in senso giuridico in ragione dell'utilità e, quindi, dell'interesse. Il diverso regime, cui i beni vengono assoggettati, non dipende dalle caratteristiche materiali e di fatto, ma dal differente modo di operare della qualificazione giuridica che, come punto di incidenza, assume l'utilità. Segue che con riferimento ad una cosa unica – ad un'unica entità materiale e di fatto – da cui provengono utilità differenziate, l'ordinamento può individuare distinti beni giuridici, i quali diventano oggetto di diritti diversi. La cosa, dunque, non acquista rilievo per la sua consistenza materiale e di fatto, ma in quanto costituisce bene giuridico individuato dalla qualificazione. Dalle osservazioni svolte non deriva, secondo la Suprema Corte, che le piante di alto fusto possano formare oggetto, ad un tempo, di proprietà esclusiva e di comunione. Gli alberi di alto fusto, in quanto forniscono utilità differenziate al proprietario esclusivo del suolo e, ad un tempo, ai titolari delle unità immobiliari dell'edificio condominiale, formano oggetto di interessi distinti. L'interesse che riguarda l'intero edificio viene assunto sul piano formale come componente di quel particolare bene giuridico, costituito dal decoro architettonico dell'edificio tutelato direttamente dalla legge (art. 1120 comma 2, c.c.). Nell'ordinamento vigente, accanto al vincolo di destinazione originato dall'intervento dello Stato nella disciplina del godimento e della disponibilità dei beni, come eccezionale limitazione alla pienezza dei poteri del proprietario (cfr. r.d.l. 29 maggio 1946, n. 452 n. 16; l. 12 marzo 1968, n. 326; l. 22 ottobre 1972, n. 35), si ammettono i vincoli di destinazione convenzionali, i quali trovano la fonte negli atti di autonomia privata. Il vincolo di destinazione costituisce una situazione giuridica intesa a conservare la destinazione convenzionale impressa ai beni. Alla proprietà esclusiva degli alberi di alto fusto, facente capo al condomino, proprietario del terreno, accede il vincolo della destinazione delle stesse piante a vantaggio dell'edificio. Per il proprietario, gli alberi presentano la utilità consueta e tradizionale (i frutti, l'ombra, etc.), mentre per il condomini l'utilità consiste, specificamente, nel formare un elemento ornamentale, che concorre – come s'è detto – a costituire in modo indissolubile il decoro architettonico dell'edificio. L'edificio fu fabbricato in modo da inserire, valorizzare e salvaguardare la funzione estetica delle piante secolari, perché i balconi furono costruiti per utilizzare le piante come elemento ornamentale. In conformità a quanto previsto nel progetto allegato all'atto di acquisto dell'area, «gli alberi furono organicamente inseriti nella struttura dell'edificio, mediante la sagomatura dei balconi esterni attuata in guisa tale da contornarli ed avvolgerli». Con la conseguenza che, se le alberature venissero a mancare, ne risulterebbe deturpato l'aspetto architettonico dell'edificio. Ciò significa che, nel momento stesso in cui ciascun partecipante ebbe ad acquistare un appartamento nel fabbricato, venne a far parte del condominio di un edificio, che incorporava gli alberi di alto fusto come elemento ineliminabile del suo decoro architettonico, al cui rispetto ed al cui mantenimento, come bene comune, tutti i partecipanti sono tenuti. Stabilito che gli alberi di alto fusto appartengono in proprietà esclusiva al condominio e che, tuttavia, sono componenti essenziali del decoro architettonico dell'edificio, che è bene comune tutelato dalla legge, segue che alle spese della potatura, evidentemente funzionale alla conservazione di tale decoro, i partecipanti al condominio indistintamente sono obbligati a contribuire. AndroneIl rifacimento di un androne con l'impiego di materiali diversi e con l'inserimento di manufatti del tutto nuovi costituisce innovazione in senso tecnico, poiché le modifiche materiali implicano alterazioni dell'entità e dell'identità sostanziale del bene in questione, pur se coerenti con la sua funzione primaria (App. Milano 9 settembre 1978). La pronuncia è stata resa in un caso in cui si discuteva della installazione di moquette, dell'inserimento in un apposito vano di una scrivania con impianto di centralino, nonché della realizzazione di un controsoffitto con conseguente riduzione di cubatura del locale, interventi tali, secondo la sentenza, da non poter essere ricondotti all'ambito della manutenzione straordinaria. D'altro canto a tali innovazioni non poteva riconoscersi il carattere di gravosità o voluttuarietà di cui all'art. 1121 c.c., poiché la norma si applica ad opere, impianti e manufatti suscettibili di utilizzazione separata, utilizzazione inconcepibile rispetto all'androne. AscensoreDell'ascensore si è già discorso in precedenza, sia con riguardo al problema della sua sostituzione, sia con riguardo al tema dell'eliminazione delle barriere architettoniche. Quanto all'installazioneex novo dell'ascensore occorre distinguere tra il caso in cui essa sia deliberata dall'assemblea condominiale e, dunque, occorra scrutinare la legittimità di tale deliberazione, ed il caso dell'installazione operata dal singolo condomino. Quanto al primo aspetto, trova applicazione il principio secondo cui, «qualora, al posto della tromba delle scale e dell'andito corrispondente al pianterreno, si immette un impianto di ascensore, a cura e spese di alcuni condòmini soltanto, il venire meno dell'utilizzazione di dette parti comuni dell'edificio nell'identico modo originario non contrasta con la norma del comma 2 dell'art. 1120 perché, se pure resta eliminata la possibilità di un certo tipo di godimento, al suo posto se ne offre uno diverso, ma di contenuto migliore, onde la posizione dei dissenzienti è tutelata dalla possibilità di entrare a far parte della comunione del nuovo impianto» (Cass. II, n. 4152/1994; Cass. II, n. 2696/1975). L'installazione dell'ascensore, in tale ottica, è cioè qualificata normalmente come opera innovativa, come tale regolata dagli artt. 1120 e 1121 c.c., alla luce dell'indirizzo giurisprudenziale esaminato in precedenza secondo cui costituisce innovazione non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione che importa alterazione nella sua entità sostanziale, con la conseguenza che non possono considerarsi innovazioni, in senso tecnico-giuridico, quelle modificazioni che lascino inalterata la consistenza e la destinazione della cosa stessa, così da non turbare l'equilibrio tra i concorrenti interessi dei condomini. L'installazione di un ascensore in un edificio inizialmente sprovvistone è, dunque, subordinata ad una deliberazione assentiva dell'assemblea del condominio, adottata con la maggioranza di cui all'art. 1136,comma 5, c.c. secondo cui l'approvazione deve avvenire con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell'edificio; tuttavia, l'innovazione anche se approvata con la prescritta maggioranza, è vietata quando rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza del fabbricato, oppure renda talune parti comuni inservibili all'uso e al godimento anche da parte di un condomino. Quanto al caso dell'installazione operata dal singolo condomino, è stato osservato come l'art. 1120 c.c., nel richiedere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condòmini con determinate maggioranze, mira essenzialmente a disciplinare l'approvazione di innovazioni che comportino una spesa da ripartire fra tutti i condòmini su base millesimale, mentre qualora non debba farsi luogo ad un riparto di spesa, per essere stata questa assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all'art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, e secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto e può apportare a tale fine a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa medesima. Ricorrendo le suddette condizioni, pertanto, un condomino ha la facoltà di installare nella tromba delle scale dell'edificio condominiale un ascensore, ponendolo a disposizione degli altri condomini, e può far valere il relativo diritto con azione di accertamento, in contraddittorio degli altri condòmini che contestino il diritto stesso, indipendentemente dalla mancata impugnazione della delibera assembleare che abbia respinto la sua proposta al riguardo (Cass. II, n. 1781/1993; Cass. II, n. 9033/2001; Cass. II, n. 24006/2004; Cass. II, n. 25872/2010). Val quanto dire che, ove non sorga questione di ripartizione di spese tra condomini, torna applicabile l'art. 1102 c.c. che pure prevede attività costituenti innovazioni sulla cosa: sicché, ai fini dell'applicazione di tale norma, assume rilievo solo il fatto che l'intervento non comprometta la facoltà di godimento della cosa comune per tutti i condòmini e non ne alteri la destinazione. Perciò, l'intervento di prolungamento della corsa dell'ascensore dal quarto al quinto piano dell'edificio, che il condomino interessato voglia eseguire a proprie spese, va disciplinato non come innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c., ma come uso della cosa comune regolato dall'art. 1102 c.c. (App. Milano 18 maggio 2017). Autorimesse, garage, parcheggiCostituisce innovazione vietata ai sensi del comma 2 dell'art. 1120 c.c. (e, pertanto, deve essere approvata dalla unanimità dei condomini), la costruzione di autorimesse nel sottosuolo del cortile comune, in quanto comporta il mutamento di destinazione del sottosuolo da sostegno delle aree transitabili e delle aree verdi a spazio utilizzato per il ricovero di automezzi (con conseguente modifica di destinazione anche della area scoperta soprastante a copertura di locali sotterranei) e determina una situazione di permanente esclusione di ogni altro condomino dall'uso e dal godimento di ciascuna autorimessa sotterranea, assegnata ai singoli condomini, ancorché rimasta di proprietà comune (Cass. II, n. 6817/1988). Ha osservato la Suprema Corte che le innovazioni, di cui tratta l'art. 1120 c.c. nei suoi due commi, devono essere tenute distinte dalle modificazioni che si concretino in un'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo comproprietario ai sensi dell'art. 1102 c.c.: dette modificazioni, che non implicano alterazione della consistenza e della destinazione della cosa anche quando determinino un uso più intenso a favore dell'autore, sono consentite sempre che non ne consegua un cambiamento della destinazione del bene comune o un turbamento dell'equilibrio nella possibilità di uguale uso da parte degli altri comproprietari; le innovazioni sono invece costituite da quelle modifiche materiali della cosa comune che importino alterazione della entità sostanziale o mutamento della sua destinazione originaria. Ma anche tra le innovazioni contemplate dall'art. 1120 c.c. occorre distinguere. quelle, dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggiore rendimento delle cose comuni (comma 1), le quali, nell'interesse dell'intero condominio e ovviamente con la partecipazione di tutti i condomini alla spesa, possono essere disposte dall'assemblea condominiale con la maggioranza indicata dal comma 5 dell'art. 1136 c.c.; quelle, che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (comma 2) e che sono perciò vietate. Ciò premesso, la Suprema Corte ha osservato che, secondo il giudice di merito, la costruzione di autorimesse nel sottosuolo del cortile comune significava, da un lato, il mutamento di destinazione del sottosuolo, da quella di naturale sostegno delle aree transitabili e delle aree verdi in quella di spazio utilizzato per i ricovero di automezzi (con la conseguente modifica anche della corrispondente area scoperta, che assumeva la funzione di copertura dei locali ricavati nel sottosuolo), e, dall'altro lato, determinava una situazioni di permanente esclusione di ogni altro condomino dall'uso e godimento di ciascuna autorimessa sotterranea assegnata all'uso e al godimento del singolo e ancorché rimasta di proprietà comune. La Corte d'Appello insomma aveva posto l'accento sul sostanziale mutamento della destinazione economica della cosa comune e sulla conseguente inservibilità di essa in rapporto all'utilità che il singolo condomino ne ritraeva secondo l'originario assetto della comunione. Esattamente perciò l'innovazione in oggetto era stata inquadrata tra quelle che devono essere approvate dalla totalità dei partecipanti alla comunione e non con la sola maggioranza.Allo stesso modo, si configura una innovazione vietata, nella delibera di assegnazione nominativa da parte del condominio a favore di singoli condomini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della seconda autovettura, in quanto tale delibera, da un lato, sottrae l'utilizzazione del bene comune a coloro che non posseggono la seconda autovettura e, dall'altro, crea i presupposti per l'acquisto da parte del condomino, che usi la cosa comune animo domini, della relativa proprietà a titolo di usucapione, non essendo a tal fine necessaria l'interversione del possesso da parte dei compossessore il quale, attraverso l'occupazione della relativa area, eserciti un possesso esclusivo, impedendo automaticamente agli altri condòmini di utilizzarla allo stesso modo (Cass. II, n. 1004/2004; Trib. Milano 12 febbraio1987). Mera modificazione è l'adibizione del cortile comune – di ampiezza insufficiente a garantire il parcheggio delle autovetture condominiali – a parcheggio dei motoveicoli, con individuazione degli spazi, delimitazione ed assegnazione degli stessi ai singoli condòmini (Cass. II, n. 6673/1988; Cass. II, n. 5997/2008; Cass. VI/II, n.15319/2011). Parimenti, la trasformazione in garage di locali condominiali già destinati a portineria e a centrale termica, i cui servizi siano stati soppressi con precedenti delibere, costituisce una innovazione che non è vietata ai sensi del comma 2 dell'art. 1120 e non incide sul diritto di proprietà dei locali che restano in comunione, ma soltanto sulla loro destinazione ed utilizzazione: essa pertanto è legittimamente disposta con deliberazione della maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 5, c.c. (Cass. II, n. 15640/2002). Nel vigore dell'attuale disciplina, è da chiedersi se simile modificazione della destinazione d'uso di una parte comune non debba ricadere sotto la previsione del nuovo art. 1117-ter c.c. BalconiGli interventi sui balconi operati dai singoli condòmini si collocano dal versante dell'applicazione dell'art. 1102 c.c. e non dell'art. 1120 c.c. È in generale consentita al condomino la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune, quando, pur comportando l'occupazione con un'opera solida e stabile dell'area sovrastante, concreti solo un ampliamento della presa d'aria e di luce dell'appartamento del singolo condomino, senza alterare la destinazione normale del cortile a fini costruttivi dei singoli proprietari, con vantaggio delle rispettive proprietà, e quindi per l'utilità e disponibilità esclusiva degli stessi (Cass. II, n. 3941/1991; Cass. II, n. 9644/1987; Cass. II, n. 624/1976). È stata tuttavia giudicata illegittima la costruzione di «bovindi» perché il corpo di fabbrica aggettante era stato «realizzato nella parte del fabbricato prospiciente il cortile comune mediante incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante la relativa area ed utilizzando la stessa a fini costruttivi ad esclusivo vantaggio del singolo condominio», per cui «comportava una non consentita alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti» (Cass. II, n. 3941/1991). In altra occasione è stata confermata la sentenza impugnata che aveva ritenuto illegittima l'edificazione nel cortile comune di due balconi, prima inesistenti, con apertura di vedute a distanza non legale perché alterava la destinazione del cortile medesimo diminuendo l'utilizzazione dell'aria e della luce che il cortile era appunto destinato ad assicurare (Cass. II, n. 12569/2002). Egualmente illegittima la costruzione di balconi da parte dei proprietari degli appartamenti siti al primo e al secondo piano, in relazione anche alla giacitura particolare dell'edificio condominiale, il cui piano terra si trovava di circa 2 metri al di sotto della antistante via pubblica (Cass. II, n. 10704/1994). Per consolidata giurisprudenza di legittimità – ha osservato la Suprema Corte –, nel caso di edifici in condominio, i proprietari dei singoli piani possono utilizzare i muri comuni, nella parte corrispondente agli appartamenti di proprietà esclusiva, aprendovi nuove porte o vedute verso aree comuni, ingrandendo e spostando le vedute preesistenti o trasformando finestre in balconi o in pensili a condizione che l'esercizio della indicata facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilità o il decoro architettonico dell'edificio e non menomi o diminuisca sensibilmente la fruizione di aria e luce per i proprietari dei piani inferiori. In ossequio a tale indirizzo e sulla scorta della C.T.U. depositata in primo grado aveva osservato la Corte d'Appello che proprio una sensibile diminuzione di aria e luce nel caso in esame si è verificata menomando i diritti del condomino parte in causa. Aveva difatti specificato il giudice di merito che l'indicato effetto era amplificato dalla particolare giacitura dell'edificio condominiale il cui piano terra si trovava di m. 2,05 al di sotto del piano stradale ed era per tale ragione fronteggiato, a poca distanza, da un terrapieno di uguale profondità, per cui, in siffatta situazione, la costruzione dei due balconi, con balaustre di grandi dimensioni (m. 1,30 x 3,40) e, in particolare, di quello al primo piano di poco più alto rispetto al piano viario, aveva creato una sorta di copertura sull'area dalla quale l'appartamento del condomino attore riceveva aria e luce riducendone in maniera consistente le possibilità di illuminazione ed areazione. Aveva puntualizzato, ancora, la Corte territoriale che il rilievo del primo giudice secondo cui la menomazione indicata avrebbe dovuto escludersi perché le balaustre dei balconi non sarebbero soprastanti all'apertura di cui l'appellante fruisce, è contrastato in punto di fatto dalla considerazione che la finestra del predetto dista pochi centimetri dal piano tangente alla faccia laterale più vicina delle balaustre. Esse, per tale posizione, pregiudicavano, sempre, la circolazione dell'aria che affluiva verso le finestre del detto condomino e menomavano l'illuminazione tutte le volte in cui i raggi del sole non fossero perfettamente perpendicolari o non provenissero dal lato opposto ai balconi, e perciò, come è noto per elementari cognizioni sul moto del sole e sull'alternanza delle stagioni, per molte ore al giorno e in maniera più sensibile nei periodi dell'anno di minore insolazione (caratterizzati dall'obliquità dei raggi solari). Ebbene, ha affermato la Suprema Corte, le considerazioni svolte, condotte sulla base della corretta interpretazione degli artt. 1102 e 1122 c.c., costituivano apprezzamento di fatto non solo completo ed esauriente, ma altresì sostenuto da congrua motivazione, immune da lacune o distorsioni, oltre che da vizi sul piano logico, e, pertanto, incensurabile nella sede di legittimità. CancelliCostituisce mera modificazione, tale da non richiedere la deliberazione prevista dall'art. 1120 c.c., l'apposizione di cancelli all'ingresso dell'area condominiale, al fine di disciplinare il transito pedonale e veicolare ed impedire l'ingresso indiscriminato di estranei (Cass. II, n. 4340/2013; Cass. II, n. 3509/2015), e così pure la deliberazione assembleare, con la quale sia stata disposta una diversa distribuzione dei posti auto e dell'area per il parcheggio di auto e moto (Cass., II, 16902/2023). Si legge nella meno recente delle decisioni citate che, secondo la prospettazione del condomino ricorrente, la Corte d'Appello avrebbe errato nell'affermare che l'installazione di cancelli (che, invece, comporta una modificazione dell'accesso alle aree di uso condominiale) non costituisse innovazione, sottoposta al regime di approvazione previsto dall'art. 1136, comma 5, c.c., ma soltanto la realizzazione di opere non comportanti alcun mutamento di destinazione delle aree condominiali, mirando anzi a potenziare le facoltà dei condomini e a regolamentare, migliorandolo, l'uso della cosa comune. Il giudice della legittimità ha tuttavia ritenuto non accoglibile tale prospettazione. Ad avviso della giurisprudenza della Suprema Corte, difatti, in tema di condominio, per innovazioni delle cose comuni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), ma solamente quelle modifiche che, determinando l'alterazione dell'entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all'attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti. In altre parole, nell'ambito della materia del condominio negli edifici, per innovazione in senso tecnico-giuridico, vietata ai sensi dell'art. 1120 c.c., deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirino a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lascino immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto. A tale principio si era nel caso di specie conformata la Corte di secondo grado che, con valutazione di merito adeguatamente motivata e fondata su univoci accertamenti di fatto, aveva esattamente ritenuto che i lavori deliberati concernenti l'apposizione, all'ingresso dell'area condominiale, di due cancelli per il transito pedonale e due cancelli per il passaggio veicolare, non potevano ricondursi al concetto di innovazioni come qualificate dall'art. 1120 c.c., non comportando alcun mutamento di destinazione delle zone condominiali ed essendo, anzi, dirette a disciplinare, in senso migliorativo, l'uso della cosa comune impedendo a terzi estranei l'indiscriminato accesso al condominio, soprattutto considerando che, nel caso di specie, al piano terra del fabbricato esisteva un istituto scolastico provvisto di autonomo cortile e, quindi, un luogo aperto al pubblico con conseguente possibilità di un transito continuo di persone estranee alle collettività condominiale. Pertanto, la Suprema Corte ha riconfermato il principio secondo cui, in tema di condominio di edifici, la delibera assembleare, con la quale sia stata disposta la chiusura di un'area di accesso al fabbricato condominiale con uno o più cancelli per disciplinare il transito pedonale e veicolare anche in funzione di impedire l'indiscriminato accesso di terzi estranei a tale area, rientra legittimamente nei poteri dell'assemblea dei condomini, attinendo all'uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione, senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull'essenza del bene comune nè alterandone la funzione o la destinazione. Pertanto, non era richiesta per la legittimità della delibera assembleare condominiale avente detto oggetto l'adozione con la maggioranza qualificata dei due terzi del valore dell'edificio, non concernendo tale delibera una «innovazione» secondo il significato attribuito a tale espressione dal codice civile, ma riguardando solo la regolamentazione dell'uso ordinario della cosa comune consistente nel consentire a terzi estranei al condominio l'indiscriminato accesso alle aree condominiali delimitate dai cancelli. È dunque legittima la delibera assembleare assunta a maggioranza dei condòmini che, in considerazione dell'insufficienza dei posti auto in rapporto al numero delle vetture possedute da ciascun condòmino, preveda in un'area cortilizia comune la creazione di posti auto supplementari stabilendone l'assegnazione turnaria annuale, sulla base di un sorteggio, contro il pagamento di un corrispettivo mensile, poiché essa costituisce corretta espressione del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte dell'assemblea (Cass. II, n. 14019/2023). Le pronunce si collocano nella linea secondo cui la delibera assembleare, con cui si dispone la chiusura di una area di accesso allo stabile condominiale con un cancello, con consegna della chiave d'apertura ai proprietari delle singole unità immobiliari, rientra nei poteri dell'assemblea di condominio, attenendo all'uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, e non incorre pertanto nel divieto, stabilito dall'art. 1120, comma 2, c.c. per le innovazioni pregiudizievoli della facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull'essenza del bene comune, né alterandone la funzione e la destinazione (Cass. II, n. 7023/1986; Cass. II, n. 9999/1992). Così è stata ritenuta legittima la sostituzione del cancello di ingresso al cortile condominiale, dotato di sistemi di apertura manuale, con altro a movimento automatizzato (App. Brescia 16 luglio1993; Pret. Pisa 3 aprile 1995). Non sembra condivisibile, in tale prospettiva, l'inquadramento nell'ambito delle innovazioni della automazione del cancello di accesso al cortile condominiale (Trib. Novara 19 febbraio2007). Canna fumariaLa costruzione di un'opera da parte di un comproprietario su beni comuni non è disciplinata dalle norme sull'accessione, bensì da quelle sulla comunione, secondo le quali costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene che abbia l'effetto di alterare la consistenza materiale o la destinazione originaria; ne consegue che, in mancanza del consenso degli altri partecipanti, l'opera è illegittima (Cass. II, n. 22203/2017, in fattispecie relativa alla rimozione di una canna fumaria in eternit). L'installazione di una canna fumaria sulla facciata può, tra gli altri aspetti recare nocumento alla fisionomia architettonica dell'edificio condominiale: in tal caso il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata, in quanto di per sé meritevole di salvaguardia, dalle norme che ne vietano l'alterazione (Cass. II, n. 25790/2020). L'installazione di una canna fumaria sul muro comune, senza il consenso degli altri comproprietari che abbiano espresso dissenso con delibera condominiale, costituisce attentato possessorio (Trib. Modena 10 ottobre 2017). Deve essere rimossa la canna fumaria montata sul muro di confine di un palazzo di pregio, in quanto altera notevolmente l'estetica dell'edificio, impone una servitù di stillicidio di acque sporche dovute alla condensazione dei fumi e costituisce turbativa al godimento della luce (Cass. II, n. 17072/2015). Ha rammentato la Suprema Corte che nel condominio degli edifici le parti comuni formano oggetto, a favore di tutti i condomini, di un compossesso pro indiviso il quale si esercita diversamente a seconda che le cose siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari cui siano collegate materialmente o per destinazione funzionale (suolo, fondazioni, muri maestri, oggettivamente utili per la statica) oppure siano soggettivamente utili nel senso che la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall'attività dei rispettivi proprietari (portone, anditi, scale, ascensore ecc.); nel primo caso l'esercizio del possesso consiste nel beneficio che il piano o la porzione di piano (e, per traslato, il proprietario) trae da tali utilità, nel secondo caso si risolve nell'espletamento della predetta attività da parte del proprietario. Ciò posto, il godimento delle cose comuni da parte dei singoli condomini assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di loro abbia alterato e violato, senza il consenso degli altri condomini ed in loro pregiudizio, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o da restringere il godimento spettante a ciascun compossessore pro indiviso sulla cosa medesima. La modifica di una parte comune e della sua destinazione ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima di conseguenza gli altri condomini all'esperimento dell'azione di reintegrazione per conseguire la riduzione della cosa al pristino stato in modo che essa possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione, senza che sia necessaria la specifica prova del possesso di detta parte quando risulti che essa consista in una porzione immobiliare in cui l'edificio si articola. Nella specie la corte di merito – premesso di avere verificato lo stato del fabbricato –aveva accertato, con apprezzamento non censurabile in cassazione, che la canna in contestazione aveva dimensioni non trascurabili, rappresentata come era da una sovrastruttura apposta nella facciata del palazzo condominiale priva di qualsiasi collegamento dal punto di vista architettonico o funzionale con la parete esterna dell'edificio, per cui alterava notevolmente l'estetica dell'edificio, pure bisognevole di manutenzione, e costituiva un elemento di grave degrado. Inoltre sussisteva anche la lamentata turbativa al godimento della luce proveniente dalla finestra collocata proprio al di sotto della canna fumaria, evincibile dalle foto prodotte, in quanto «l'ingombro della struttura provoca ombra sulla finestra dell'appartamento, diminuendone la luminosità». Pertanto, la decisione di accoglimento della domanda di manutenzione nel possesso proposta dai condomini si presentava corretta, incidendo detta struttura sull'estetica dello stabile, oltre a notevolmente ridurre la luce nella stanza che affaccia dalla finestra sottostante la canna. Per innovazione in senso tecnico giuridico, vietata dall'art. 1120, comma 2, c.c., deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma, solamente, quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria. Le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto (Cass. II, n. 4736/2015, che ha escluso, nella specie, la natura di innovazione per la sostituzione di una canna fumaria con un nuovo impianto maggiormente idoneo all'uso, con possibilità di godimento estesa a tutti i condomini). Osservato la Suprema Corte che nel caso in esame, come emergeva dalla sentenza impugnata, le vecchie canne fumarie, di cui si dice, sono state sostituite da altre. In particolare, la cosa comune, cioè, le vecchie canne fumarie interne, sono state sostituite con un nuovo impianto maggiormente idoneo all'uso, con possibilità di godimento estesa a tutti i condomini. Pertanto, l'intervento di eliminazione e di sostituzione della canna fumaria integrava gli estremi di una innovazione intesa quale mutamento diretto al miglioramento o all'uso più comodo della cosa comune rispetto a quella precedente all'esecuzione delle opere di che trattasi. Come affermava la sentenza impugnata le predette canne fumarie interne costituivano un bene al servizio del condominio e non di un singolo condomino, sicchè era evidente che la loro sostituzione con altre non poteva essere ritenuta alla stregua di una innovazione vietata nè di una violazione dell'art. 1122 c.c. Non vi è dubbio, dunque, che tale innovazione integrava gli estremi di innovazione disciplinata dall'art. 1120 c.c., comma 1. Ha quindi ribadito la Suprema Corte che per innovazione in senso tecnico-giuridico, vietata dall'art. 1120 c.c., comma 2, deve intendersi, non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma, solamente, quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto. Ora, essendo, l'innovazione di che trattasi, un'innovazione consentita dall'art. 1120 c.c. il consenso dei singoli condomini alla modificazione delle canne fumarie interne non necessitava della forma scritta, ma, semplicemente, che fosse decisa dalla maggioranza dei condomini prescritta dallo stesso articolo con il rinvio all'art. 1136 c.c. non solo perché la stessa norma non prescrive esplicitamente la forma scritta del consenso, ma anche perché l'atto modificativo di un bene condominiale o di una parte comune di un edificio, non rientra tra le ipotesi per le quali l'art. 1350 c.c., richiede la forma scritta dell'atto. Nel caso di installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale dell'edificio comune non può legittimamente invocarsi la violazione dell'art. 1102 c.c. giacché quest'ultimo articolo riconosce a ciascun condomino la facoltà di far uso della cosa comune anche apportando a essa delle modifiche per il migliore godimento laddove non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; né l'ulteriore norma sulle distanze di cui all'art. 906 c.c. attenendo, quest'ultima, all'apertura di vedute oblique e laterali sul fondo del vicino ma dovendo, semmai, rientrare nella disciplina di cui all'art. 890 c.c. a norma del quale chi intende realizzare le opere ivi previste, fonti di pericolo di danno, deve attenersi alle distanze stabilite dai regolamenti e in mancanza alle distanze necessarie a preservare il fondo del vicino da ogni «danno alla solidità, alla salubrità e alla sicurezza» (Trib. Bari 16 giugno 2014). Qualora il proprietario di una unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c., sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria non è una costruzione ma un semplice accessorio di un impianto (Cass. II, n. 4936/2014). Ha rimarcato la Suprema Corte, in primo luogo, che verosimilmente doveva reputarsi che il terrazzo afferente all'alloggio di proprietà del condomino attore appartenesse al medesimo. Tuttavia, pur su tale scorta, non poteva che reiterarsi, in secondo luogo, l'insegnamento per cui, in tema di condominio le norme sulle distanze, rivolte fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue e separate, sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, a condizione, però, che siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni; propriamente, in ipotesi di contrasto, la norma speciale in materia di condominio prevale e determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, allorché i diritti o le facoltà da tal ultima disciplina previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i parametri previsti dall'art. 1102 c.c. (applicabile al condominio per il richiamo di cui all'art. 1139 c.c.); in tal guisa non sembra ragionevole individuare, nell'utilizzazione delle parti comuni, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi in tema di comunione. In questo quadro, nel segno e nei limiti, dunque, dell'art. 1102 c.c., la Suprema Corte ha ritenuto di condividere l'assunto secondo cui «gli eredi di (...) hanno diritto di utilizzare la parete perimetrale dell'edificio, avente natura condominiale, per l'apposizione della canna fumaria, senza alcuna autorizzazione da parte degli altri condomini». Ciò del resto in linea con la giurisprudenza della stessa Suprema Corte, la quale aveva già affermato che, in tema di condominio negli edifici, qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c., sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, trattavasi di un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, trattavasi del forno di una pizzeria). Nei termini esposti reputa questo giudice di legittimità, in tal guisa attendendo all'enunciazione del principio di diritto giusta la previsione dell'art. 384, comma 1, c.p.c., che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, a condizione, tuttavia, che siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni; propriamente, in ipotesi di contrasto, la norma speciale in materia di condominio prevale e determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze; in tal guisa, ove il giudice constati il rispetto dei limiti tutti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera – eventualmente una canna fumaria posta in aderenza al muro perimetrale e a ridosso del terrazzo a livello di proprietà di un determinato condomino – quantunque realizzata in violazione delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà esclusive, distinte e contigue. La sostituzione della canna fumaria pertinente ad unità immobiliare di proprietà esclusiva non reca, di per sé, danno alla cosa comune – la facciata dell'edificio – già utilizzata per l'appoggio, non dovendo alterare, tuttavia, alla luce del collegamento tra gli artt. 1102,1120, comma 2, e 1122 c.c., il decoro architettonico del fabbricato (Cass. II, n. 18350/2013). Secondo la Suprema Corte la Corte di appello ha ritenuto che l'appoggio di una nuova canna fumaria sul muro condominiale costituisse di regola modificazione consentita al singolo condomino dall'art. 1102 c.c., a condizione che non fossero alterati stabilità, sicurezza e decoro architettonico del fabbricato condominiale. Ha poi spiegato, analizzandone le caratteristiche, che il nuovo manufatto era lesivo del decoro architettonico, perché diverso per: ampiezza; colore (tubazione industriale in lamiera zincata del diametro di 30 cm in luogo dei 12 della canna preesistente, avente lo stesso colore della parete); percorso irregolare («per alcuni metri in diagonale sulla facciata, con sviluppo fino»); creazione di un «effetto Beabourg»; rilevanza negativa in un edificio posto nel «cuore di Roma e nelle immediatezze di Piazza di Spagna». In tal modo, secondo la Suprema Corte, il giudice di merito aveva errato nell'affermare, in sintonia con il primo giudice, che l'opera costituisse innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c. Detta norma si riferisce infatti non alle opere intraprese dal singolo per realizzare un miglior uso della cosa comune ai sensi dell'art. 1102 c.c., ma a quelle volute dall'assemblea condominiale con la maggioranza prescritta. Nondimeno, l'art. 1120, comma 2, c.c. – il quale vieta le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico – era applicabile all'ipotesi di opera, come quella in esame, effettuata con le finalità di cui all'art. 1102 c.c., alla luce dell'indirizzo giurisprudenziale di legittimità tale da trovare fondamento nel collegamento che deve farsi tra gli artt. 1102,1120 e 1122 c.c. Quest'ultima disposizione, che vieta a ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio, pone il limite agli interventi che il singolo condominio può effettuare sulle cose di proprietà esclusiva, come è la canna fumaria di pertinenza della propria unità immobiliare (nella specie il piano terra adibito a ristorante). In particolare la sostituzione di canna fumaria, che rientra concettualmente nella nozione di intervento sulla porzione di piano di proprietà personale, perché inerisce a bene esclusivo come quelli menzionati nell'art. 1122, non può recare di per sè danno alla cosa comune – la facciata dell'edificio – già utilizzata per l'appoggio. Per comprendere in cosa consista il danno (ex art. 1122) che preclude la possibilità di eseguire l'opera sulla porzione esclusiva è doveroso far ricorso all'art. 1120 c.c., comma 4, norma che ha individuato gli interessi condominiali che non possono essere lesi neppure con le innovazioni deliberate a maggioranza dall'assemblea condominiale. È questo il percorso logico che giustifica l'applicabilità dell'art. 1120, alle attività del singolo su cosa propria comunque finalizzate all'uso più intenso della cosa comune. Secondo la Suprema Corte ne è stato consapevole anche il legislatore della riforma che ha completato l'art. 1122 c.c., recependo nel testo novellato l'insegnamento giurisprudenziale che aveva già interpretato la norma nel senso prima esposto. Inoltre, secondo la pronuncia in esame, non sussisteva violazione di legge neanche con riferimento alla nozione di decoro architettonico applicata dalla Corte di appello, posto che la lesione rilevante ai fini trattati si verifica non solo quando si mutano le originali linee architettoniche, ma anche quando la nuova opera si rifletta negativamente sull'insieme dell'armonico aspetto dello stabile. In materia condominiale costituisce opera lecita l'installazione di una canna fumaria sulla facciata comune, consentita ai sensi dell'art. 1102 c.c. Per costante orientamento della giurisprudenza, infatti, l'appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, integra una modifica della cosa che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l'altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell'edificio e non ne alteri il decoro architettonico. L'esecuzione di tale opera non costituisce innovazione ma una modifica lecita finalizzata all'uso migliore e più intenso previsto dall'art. 1102 c.c., conforme alla destinazione del muro perimetrale che ciascun condomino può legittimamente apportare a sue spese, se non impedisce agli altri condomini di farne un pari uso, non pregiudichi la stabilità e la sicurezza dell'edificio e non ne alteri il decoro (Trib. Trento 16 maggio2013). In tema di condominio negli edifici, qualora uno dei condomini agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro perimetrale dell'edificio, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, a contrario, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (Cass. II, n. 16306/2012). In tema di condominio negli edifici, qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto, nella specie, forno di pizzeria (Cass. II, n. 2741/2012). Ha ricordato la Suprema Corte che, sia pure in diversa ipotesi, essa ha statuito che occorre il consenso di tutti i condomini per l'utilizzo in via esclusiva di una canna fumaria (per scarico di fumi di una pizzeria), non trattandosi di uso frazionato della cosa comune e che è esperibile l'azione di manutenzione ex art. 1170 c.c., a difesa del possesso da immissioni di fumo pregiudizievoli da canna fumaria. Viceversa, nella fattispecie considerata, la corte d'appello aveva limitato l'indagine alla violazione dell'art. 907 c.c. e non aveva considerato che, se ai sensi dell'art. 1102 c.c., ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, a fortiori non può limitare il normale godimento del bene di proprietà esclusiva. Invero vi è difficoltà di concepire una canna fumaria (nella specie un tubo in metallo) come costruzione ai sensi dell'art. 907 c.c., trattandosi di manufatto che costituisce un semplice accessorio di un impianto (nella specie forno), facente parte di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, collocato non nel fondo adiacente a quello del condomino che ne denunzia la illegittimità, ma nello spazio non condominiale. È sembrato più corretto valutare la legittimità dell'opera in funzione non dell'art. 907 c.c. ma del principio desumibile dall'art. 1102 c.c.) secondo cui, come dedotto, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Canna pattumieraUna mera modificazione è stata ravvisata, parimenti, nell'utilizzazione, fatti salvi i diritti degli altri comproprietari, della canna per gettare la pattumiera, ormai dismessa da anni, per il passaggio delle parti d'impianto necessarie al funzionamento della caldaia per l'acqua calda (Cass. II, n. 945/2013). Ha osservato la Suprema Corte che la questione che il Condominio ricorrente aveva sollevato consisteva nel valutare se la Corte d'appello avesse correttamente o no ritenuto che la deliberazione assembleare impugnata – con la quale si era «autorizzato, chi lo richiede, al passaggio della tubazione del gas in facciata e all'uso dell'attuale pattumiera per alloggiare il nuovo contatore e l'eventuale caldaia di produzione di acqua calda» – costituisse una innovazione, soggetta alla maggioranza dei due terzi, secondo la disciplina dell'art. 1136, comma 5, c.c., sostenendosi, da parte del ricorrente, che non di innovazione in senso proprio si sarebbe trattato, ma di mera autorizzazione all'uso più intenso, da parte dei condomini interessati, della cosa comune, costituita dalla canna pattumiera. Ha rammentato la pronuncia in esame che nella giurisprudenza di legittimità si è chiarito che costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l'entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l'esecuzione della opere. Ove invece, la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell'ambito dell'art. 1102 c.c., che pur dettato in materia di comunione in generale, è applicabile in materia di condominio degli edifici per il richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c. In sostanza, perchè possa aversi innovazione è necessaria l'esecuzione di opere che, incidendo sull'essenza della cosa comune, ne alterino l'originaria funzione e destinazione. Inoltre, proprio perchè oggetto di una delibera assembleare, l'esecuzione di opere, per integrare una innovazione, deve essere rivolta a consentire una diversa utilizzazione delle cose comuni da parte di tutti i condomini. Nella specie, la delibera impugnata si era limitata a consentire un mutamento di destinazione d'uso della canna pattumiera, senza tuttavia prevedere l'esecuzione, da parte del condominio, di alcuna opera, da realizzarsi, eventualmente, solo successivamente su iniziativa di singoli condomini interessati e non da parte di tutti i condomini. Ha quindi ritenuto la Suprema Corte che l'impugnata delibera non dovesse essere assoggettata al regime delle innovazioni, e segnatamente al requisito della maggioranza qualificata di cui al citato art. 1136 c.c., comma 5. Del resto, la Suprema Corte proprio pronunciandosi in materia di utilizzo della canna pattumiera, ha avuto modo di affermare che la deliberazione dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette canne pattumiere non concreta l'approvazione di un'innovazione vietata a norma del comma 2 dell'art. 1120 c.c., bensì la statuizione di una modalità di svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, per il quale dette canne non sono indispensabili, che può essere adottata dalla maggioranza dei condomini sulla base di valutazioni di opportunità (nella specie, relativa ai costi ed alle ragioni di igiene) e, come tale, insindacabile, quanto al merito, dall'autorità giudiziaria (viene richiamato il responso di Cass. n. 11138/1995). In motivazione, in tale sentenza si era rilevato, da un lato, che le innovazioni designano le nuove opere, le modificazioni, materiali o funzionali, dirette al miglioramento, all'uso più comodo o al maggior rendimento delle parti comuni nell'interesse di tutti i condomini, che possono essere deliberate dall'assemblea con la maggioranza qualificata (o che alla stessa assemblea sono vietate); dall'altro, che il giudizio sulla liceità di una delibera dipende dal suo contenuto precettivo e, talora, si giustifica alla stregua degli effetti, in considerazione della sua incidenza sui poteri e sulle facoltà inerenti ai diritti dei condomini. E nella fattispecie allora in esame (sigillatura della canna pattumiera), poichè il contenuto non consisteva nella approvazione di innovazioni e nell'impedimento al diritto dei condomini di beneficiare del servizio comune di smaltimento dei rifiuti, ma si esauriva nella modifica delle modalità di svolgimento di esso, si è ritenuto che rientrasse nella competenza dell'assemblea il potere di deliberare a maggioranza la modifica delle modalità di attuazione del servizio di smaltimento dei rifiuti e, per conseguenza, trattandosi di parti comuni non indispensabili per lo svolgimento di esso, la decisione di sigillare le cosiddette canne pattumiere ormai obsolete e antigieniche. Ricondotta, quindi, la destinazione della canna pattumiera ad una delle modalità di svolgimento di un servizio condominiale, è stato dunque rilevato che opera il principio per cui le attribuzioni dell'assemblea condominiale riguardano l'intera gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, che avviene in modo dinamico e che non potrebbe essere soddisfatta dal modello della autonomia negoziale, in quanto la volontà contraria di un solo partecipante sarebbe sufficiente ad impedire ogni decisione. Rientra dunque nei poteri dell'assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, anche quando la sistemazione più funzionale del servizio comporta la dismissione o il trasferimento di tali beni. L'assemblea con deliberazione a maggioranza ha quindi il potere di modificare sostituire o eventualmente sopprimere un servizio anche laddove esso sia istituito e disciplinato dal regolamento condominiale se rimane nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento e quindi non incida sui diritti dei singoli condomini. È ben vero – ha proseguito la Suprema Corte – che, nel caso di specie, doveva ritenersi pacifico che la sigillatura della canna pattumiera fosse avvenuta in precedenza sulla base di una diversa delibera assembleare, mentre la delibera impugnata dagli odierni controricorrenti e ricorrenti incidentali ha un contenuto diverso, implicante la possibilità di un mutamento di destinazione del vano in questione; tuttavia, non poteva non rilevarsi che costituisce circostanza altrettanto pacifica quella che, per effetto della sigillatura e della successiva delibera comunale che aveva inibito l'utilizzo di quella modalità di espletamento del servizio condominiale inerente al conferimento dei rifiuti, la canna pattumiera aveva perso la sua originaria destinazione. Anche da questo punto di vista, dunque, non appariva condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui aveva individuato una innovazione per mutamento di destinazione nell'utilizzo di una cosa comune, ritenendo rilevante la inesistenza di una attuale utilizzazione di quel bene comune. Allo stesso modo è stato deciso per la deliberazione dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette «canne pattumiere» non concreta l'approvazione di un'innovazione vietata a norma del II comma dell'art. 1120 c.c., bensì la statuizione di una modalità di svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, per il quale dette «canne» non sono indispensabili, che può essere adottata dalla maggioranza dei condòmini sulla base di valutazioni di opportunità (nella specie, relativa ai costi ed alle ragioni di igiene) e, come tale, insindacabile, quanto al merito, dall'autorità giudiziaria (Cass. II, n. 11138/1995). CitofonoL'installazione di un impianto di campanello e citofono, per consentire il collegamento con l'esterno di un appartamento in edificio condominiale e l'apertura del portone di quest'ultimo, non integra imposizione di servitù a carico della proprietà condominiale, ma configura un uso del bene comune, legittimo nei limiti in cui non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso (Cass. II, n. 3795/1982). È stata dunque ritenuta legittima, sotto il profilo dell'uso della cosa comune (si trattava di un citofono installato a proprie spese e per favorire la propria attività professionale di chiaroveggente e cartomante), l'installazione di un impianto citofonico elettrocomandato (Trib. Milano 21 novembre1991). Egualmente l'integrazione dell'impianto di citofono con una telecamera che lo converta in impianto di videocitofono, configura un uso legittimo del bene comune, in quanto rispetta i limiti posti dall'art. 1102, ove non comporti un'alterazione della destinazione di cose comuni o una lesione della sicurezza e del decoro architettonico dell'edificio; né, ovviamente arrechi pregiudizio alla sicurezza degli altri condomini. Pertanto, la deliberazione negativa adottata dall'assemblea è nulla perché lesiva del diritto spettante al condomino in base all'art. 1102 c.c. (Trib. Roma 26 giugno 2009; sul tema vale ancora ricordare Cass. II, n. 158/1966). Più in generale, nel sistema di comunicazione tra ciascun appartamento condominiale e l'esterno (citofono) possono distinguersi parti comuni (il quadro esterno e comunque tutta la parte dell'impianto che precede la diramazione dei cavi in direzione delle singole unità abitative) e parti di proprietà esclusiva dei singoli condomini. Da ciò la necessità di distinguere, anche in sede di riparto delle spese di installazione, la parte comune da quelle di proprietà individuale: di esse, la prima ricade nel regime previsto dall'art. 1123, comma 2, c.c. mentre le seconde gravano interamente su ciascun condomino in ragione della loro obiettiva entità (Trib. Bologna 22 maggio1998). Cortili, giardiniLa giurisprudenza ha precisato che il cortile, tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti; ma avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione (Cass. II, n. 7889/2000). Buona parte del contenzioso si è in proposito generata dalla destinazione a parcheggio, operata per effetto di delibera condominiale ovvero per iniziativa del singolo condomino, vuoi attraverso la semplice modificazione della destinazione d'uso del bene, vuoi attraverso l'esecuzione di apposite opere, quali l'edificazione di garage in superficie o nel sottosuolo. In generale, come si è visto, per innovazioni delle cose comuni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), ma solamente quelle modifiche che, determinando l'alterazione dell'entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all'attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti; peraltro le innovazioni, seppure possono derivare da modifiche apportate senza l'esecuzione di opere materiali, consistono sempre nell'atto o nell'effetto di un facere, necessario per il mutamento o la trasformazione della cosa: pertanto, non viola la disciplina dettata in materia di innovazioni la delibera dell'assemblea dei condòmini la quale si limiti a lasciare immutato lo status quo relativo alla utilizzazione o al godimento degli spazi comuni (Cass. II, n. 12654/2006, esaminata in precedenza sotto il profilo della necessità che l'innovazione richieda opere materiali, che ha ritenuto legittima la delibera con cui l'assemblea aveva rifiutato la richiesta del condomino di tracciare nel cortile comune i posti auto assegnati a ciascuno dei comproprietari sulla base dei titoli di acquisto). Non costituisce quindi innovazione vietata, ai sensi dell'art. 1120 c.c., la destinazione di parte del cortile condominiale a parcheggio di autovetture allorché l'intervento riguardi una parte minima dell'area comune, atteso che ai fini della qualificazione dell'opera come innovazione deve aversi riguardo anche alla effettiva rilevanza ed apprezzabilità della modificazione che essa produce (Cass. II, n. 11177/2012, che ha escluso costituisse innovazione la riduzione di parte dell'area comune destinata a verde, in conseguenza dell'aggiunta di due posti auto ed un terzo di dimensioni ridotte rispetto ai cinque posti auto già esistenti, in ragione della sostanziale irrilevanza dell'intervento in relazione alla superficie interessata rispetto a quella condominiale). Per converso l'assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito, di posti macchina all'interno di un'area condominiale è illegittima, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune. La predetta assegnazione è di per sé lesiva di un uso e godimento paritario del bene: uso e godimento che va apprezzato sulla scorta di un'astratta valutazione del rapporto di equilibrio che deve essere mantenuto fra tutte le possibili concorrenti fruizioni del bene stesso da parte dei partecipanti al condominio (Cass. II, n. 11034/2016). È stata parimenti ritenuta illegittima la delibera condominiale che, nel restringere il vialetto di accesso ai garage, rendeva disagevole il transito delle autovetture: ciò sul rilievo che la condizione di inservibilità del bene comune all'uso o al godimento anche di un solo condomino, che, ai sensi dell'art. 1120 c.c. rende illegittima e quindi vietata l'innovazione deliberata dagli altri condomini, è riscontrabile anche nel caso in cui l'innovazione produca una sensibile menomazione dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene (Cass. II, n. 20639/2005). Ed inoltre, la delibera assembleare di destinazione di aree condominiali scoperte in parte a parcheggio autovetture dei singoli condòmini e in parte a parco giochi va approvata a maggioranza qualificata dei condòmini ex art. 1136, comma 5, c.c. – con la quale possono essere disposte tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni (art. 1120, comma 1, c.c.) – non essendo all'uopo necessaria l'unanimità dei consensi degli aventi diritto al voto (Cass. II, n. 24146/2004; Cass. II, n. 15319/2011). Parimenti, la delibera condominiale con la quale si decide di adibire il cortile comune – di ampiezza insufficiente a garantire il parcheggio delle autovetture dei condòmini – a parcheggio dei motoveicoli, con individuazione degli spazi, delimitazione ed assegnazione degli stessi ai singoli condomini, non dà luogo ad una innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale assegnazione una trasformazione della originaria destinazione del bene comune, o l'inservibilità di talune parti dell'edificio all'uso o al godimento anche di un singolo condomino (Cass. II, n. 5997/2008). Egualmente, l'installazione (utile a tutti i condomini tranne uno) di un'autoclave nel cortile condominiale, con minima occupazione di una parte di detto cortile, non può ritenersi innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c. (prevedente il divieto di innovazioni che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino), atteso che il concetto di «inservibilità» espresso nel citato articolo va interpretato come sensibile menomazione dell'utilità che il condomino ritraeva secondo l'originaria costituzione della comunione, con la conseguenza che devono ritenersi consentite quelle innovazioni che, recando utilità a tutti i condòmini tranne uno, comportino per quest'ultimo un pregiudizio limitato e che non sia tale da superare i limiti della tollerabilità (Cass. II, n. 10445/1998). D'altro canto, costituisce innovazione, vietata ai sensi dell'art. 1120, ultimo comma, c.c., e, come tale, affetta da nullità, l'assegnazione nominativa da parte del condominio a favore di singoli condòmini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della seconda autovettura, in quanto tale delibera, da un lato, sottrae l'«utilizzazione» del bene comune a coloro che non posseggono la seconda autovettura e, dall'altro, crea i presupposti per l'acquisto da parte del condomino, che usi la cosa comune animo domini, della relativa proprietà a titolo di usucapione, non essendo a tal fine necessaria l'interversione del possesso da parte del compossessore il quale, attraverso l'occupazione della relativa area, eserciti un possesso esclusivo, impedendo automaticamente agli altri condòmini di utilizzarla allo stesso modo (Cass. II, n. 1004/2004). Naturalmente, è nulla, per il suo contenuto fortemente limitativo del diritto d'uso spettante ad ogni singolo condomino sulle cose comuni, al punto di comprometterne totalmente l'esercizio, la deliberazione assembleare di affidare le chiavi del cancello di ingresso al cortile condominiale esclusivamente alla custode e ai consiglieri (Trib. Milano 26 maggio1994). Costituisce altresì innovazione vietata ai sensi del comma 2 dell'art. 1120 c.c. (e, pertanto deve essere approvata dalla unanimità dei condomini), la costruzione di autorimesse nel sottosuolo del cortile comune, in quanto comporta il mutamento di destinazione del sottosuolo da sostegno delle aree transitabili e delle aree verdi a spazio utilizzato per il ricovero di automezzi (con conseguente modifica di destinazione anche della area scoperta soprastante a copertura di locali sotterranei) e determina una situazione di permanente esclusione di ogni altro condomino dall'uso e dal godimento di ciascuna autorimessa sotterranea, assegnata ai singoli condomini, ancorché rimasta di proprietà comune (Cass. II, n. 6817/1988). In diversa fattispecie, pure concernente un intervento sul giardino condominiale, è stato affermato che la recinzione della zona verde per evitare un indiscriminato calpestio dell'area, deliberata dall'assemblea condominiale, a difesa della proprietà condominiale, non è riconducibile ad un'ipotesi di innovazione diretta al miglioramento od all'uso più comodo od al maggiore rendimento della res comune, né tanto meno può essere assimilata ad un'innovazione idonea ad arrecare pregiudizio alla res stessa. Essa configura un mero mutamento della sistemazione od utilizzazione della res comune, rientrante negli atti di ordinaria amministrazione devoluti all'amministratore. Viceversa, costituiscono innovazioni vietate, se non approvate nei modi di legge dai condomini, quelle opere che alterano sostanzialmente la destinazione e/o la funzionalità della cosa comune, tale da turbare l'equilibrio tra i concorrenti interessi dei partecipanti (Cass. II, n. 4508/2015). Con riguardo agli interventi operati dal singolo condomino, il rispetto del principio generale di cui all'art. 1102 c.c. e delle regole conseguentemente dettate dall'art. 1120 c.c. in materia di innovazioni, impone al giudice, nel caso in cui parti del bene comune siano di fatto destinate ad uso e comodità esclusiva di singoli condomini, un'indagine diretta all'accertamento della duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione, e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perderebbe la sua normale ed originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria l'unanimità dei consensi dei partecipanti. (Cass. II, n. 13752/2006, la quale ha precisato che la funzione del cortile comune consiste non solo nel fornire aria e luce agli immobili circostanti, ma anche nel consentire un'agevole ed indifferenziata praticabilità delle singole unità immobiliari; la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, la quale, omettendo il predetto accertamento, aveva escluso che costituisse un'innovazione vietata l'installazione da parte di alcuni condomini di serbatoi idrici al servizio esclusivo dei rispettivi appartamenti, in considerazione delle ridotte dimensioni dei manufatti, che non comportavano, inoltre, un'alterazione del decoro architettonico del fabbricato). Perciò, nel caso in cui il condomino, autorizzato dalla delibera dell'assemblea ad installare, a servizio del proprio laboratorio, un macchinario sul cortile del fabbricato, abbia stabilmente occupato una determinata superficie (di circa quattro metri quadrati) dell'area comune condominiale, utilizzata in parte come strada di comunicazione con la pubblica via ed in parte come cortile, deve ritenersi realizzata una sottrazione definitiva di tale parte del suolo comune alla sua naturale destinazione ed all'altrui godimento, in relazione alle restrizioni che il suddetto impianto comportava per lo spazio di manovra degli automezzi di trasporto e per le relative operazioni di carico e scarico della ditta del condomino confinante, con conseguente configurabilità della violazione dell'art. 1120, comma 2, c.c. avendo la impugnata delibera assembleare determinato la modifica della destinazione originaria di una parte comune con pregiudizio, per l'altro condomino, del godimento della stessa (Cass. II, n. 23608/2006). È stata esclusa, dall'angolo visuale dell'uso della cosa comune, ai sensi dell'art. 1102 c.c., l'alterazione della destinazione del cortile comune nel quale era stata ubicata una officina meccanica, giacché – in considerazione del limitato numero dei clienti giornalieri che vi si recavano – la modesta entità del traffico dei veicoli è stata ritenuta di scarsa incidenza sull'utilizzazione della cosa comune da parte degli altri comproprietari (Cass. II, n. 1072/2005). È legittima l'utilizzazione per il gioco dei bambini di una parte assai limitata dell'area verde comune (Trib. Milano 3 ottobre1991). Così pure l'utilizzazione parziale e temporanea di un'area condominiale a verde per costruirvi una centralina termica provvisoria (Cass. II, n. 5028/1996). Il comproprietario di un cortile può legittimamente scavare il sottosuolo per installarvi tubi onde allacciare un bene di sua proprietà esclusiva agli impianti idrico-fognario centrali perché da un lato non perciò ne viene alterata la destinazione ad illuminare ed arieggiare le unità immobiliari degli altri condomini; dall'altro rientra nella funzione sussidiaria del sottosuolo del cortile il passaggio in esso di tubi e condutture (Cass. II, n. 9785/1997). Secondo la Suprema Corte il giudice di merito aveva correttamente ritenuto che gli attori, nella loro qualità di comproprietari del cortile potessero eseguire lo scavo per la installazione in esso dei tubi per l'allacciamento in questione, ai sensi dell'art. 1102 c.c. Tale nuova opera, infatti, non alterava la destinazione del cortile comune, consistente nel dare luce ed aria alle unità immobiliari degli edifici circostanti, ma era diretta a consentire ai comproprietari di servirsi del bene in conformità della sua funzione sussidiaria che è anche quella del passaggio dei tubi e condutture nel suo sottosuolo. Si è altresì escluso che la sistemazione dei tubi nel sottosuolo del cortile comune potesse impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Sul concetto di pari uso – ha osservato la Suprema Corte – vi sono divergenze di opinioni in dottrina e giurisprudenza essendosi, a volte, affermato che al comunista non è vietata la esecuzione delle modifiche che impediscano agli altri partecipanti alla comunione di trarre dalla cosa l'identico godimento da lui ricavato in conseguenza della attuata modifica, ma gli è inibita soltanto la realizzazione delle opere che non consentano ai medesimi quel qualsiasi altro uso che avrebbero potuto fare della stessa o di una diversa parte della cosa, e, a volte, ritenuto, invece, che l'art. 1102 c.c., oltre a vietare al singolo condomino di compiere le suddette modifiche, non gli permette neppure di adoperare la cosa comune in modo da impedire agli altri partecipanti alla comunione di farne il suo stesso uso. Nella specie la pronuncia ha ritenuto che non fosse necessario aderire all'uno o all'altro dei due orientamenti, perché il giudice d'appello ha ritenuto, con suo incensurabile apprezzamento di fatto, che la sistemazione dei tubi nel sottosuolo del cortile non era di ostacolo alla installazione in futuro di altri tubi in esso, ed era addirittura tecnicamente compatibile con l'ipotizzata costruzione (uso eccezionale) di una parcheggio sotterraneo per autoveicolo. Inoltre, l'uso particolare che il condomino faccia del cortile comune, interrando nel sottosuolo di esso un serbatoio per gasolio, destinato ad alimentare l'impianto termico del suo appartamento condominiale, è conforme alla destinazione normale del cortile, a condizione che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto in rapporto a quelle del sottosuolo, o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l'utilizzazione del cortile praticata dagli altri condomini, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del cortile medesimo analogo uso particolare (Cass. II, n. 12262/2002; Cass. II, n. 4394/1997). Il condomino può dunque installare un serbatoio nel sottosuolo del cortile solo se l'opera non alteri l'utilizzo del cortile praticato dagli altri condomini; ossia non incida sul modo di utilizzazione in atto e non impedisca analoga installazione da parte di altri (Cass. II, n. 23995/2017). Al contrario, il comproprietario di un cortile destinato a parcheggio degli autoveicoli dei condòmini non può utilizzarne una parte per la costruzione di una autorimessa per la propria auto, comportando questa una alterazione sia della consistenza strutturale della cosa comune che della destinazione funzionale della stessa, così utilizzata, oltre che per la sosta della autovettura, per il deposito dei relativi accessori e di altri beni (Cass. II, n. 4996/1994). Allo stesso modo è illegittima la trasformazione sul giardino comune (copertura con veranda) che si traduca in un pregiudizio delle utilità che esso è destinato ad apportare alle altre porzioni del fabbricato in termini di aerazione, amenità, vedute, ecc. (Cass. II, n. 4451/1984). Il naturale scolo, in un cortile condominiale, delle acque grondanti da cornicioni, balconi o terrazze delle abitazioni che vi si affacciano, non si ricollega ad un diritto di servitù, ma configura esercizio del diritto di comproprietà, restando soggetto ai limiti fissati dall'art. 1102 c.c., e non può quindi implicare un'alterazione della destinazione della cosa comune, od un impedimento del pari uso degli altri partecipanti, né un danneggiamento della cosa medesima o delle proprietà esclusive dei singoli condomini. La Suprema Corte ha così ritenuto corretta la decisione dei giudici del merito, che avevano dichiarato illegittima l'apertura di un foro, alla base di un parapetto, convogliante l'acqua piovana nel cortile con violenta caduta e danneggiamento di porzioni condominiali (Cass. II, n. 5949/1986). Secondo la pronuncia è ben vero che fra le normali funzioni di un cortile comune rientra quella di ricevere le acque naturalmente grondanti dai cornicioni o anche da balconi e terrazze degli edifici che vi si affacciano. Siffatta funzione viene espletata non già a titolo di servitù a favore degli edifici stessi, bensì nell'esercizio di un diritto di comproprietà sempreché non esorbiti dai limiti previsti dall'art. 1102 c.c., tra i quali rientra (oltre a quelli espressamente dichiarati dalla norma di non alterare la destinazione della cosa comune e di non impedirne il pari uso agli altri partecipanti alla comunione) anche, l'implicito divieto di danneggiare la cosa comune o quello di proprietà esclusiva dei partecipanti. Sotto tale ultimo profilo, secondo la pronuncia, il giudice di merito che aveva ritenuto giustamente illegittimo (con conseguente ordine di cessazione della turbativa da realizzarsi mediante l'apposizione di un tubo di scarico laterale) l'apertura ad opera della parte soccombente, di un foro alla base del parapetto della loggetta che determina il convogliamento dell'acqua piovana con violenta caduta al centro dell'area antistante il portone di ingresso all'edificio comune con «conseguente erosione del piano di calpestio e deterioramento della trave di sostegno dell'architrave del portone».È opera di ordinaria manutenzione e non già innovazione la sostituzione della pavimentazione del cortile condominiale, essendo quest'ultima costituita dalle modificazioni materiali della cosa comune che ne importino l'alterazione dell'entità sostanziale o il mutamento della sua originaria destinazione e non da mutamenti delle sue modalità di utilizzazione o da modificazioni e sostituzioni che non ne alterino la struttura sostanziale da precedente destinazione (Trib. Piacenza 5 febbraio1991). Impianto idricoNon costituisce innovazione l'installazione, ad opera di singoli condomini, di un'autoclave, predisposta per l'utilizzazione da parte di tutti gli altri condòmini e collocata in una parte – non altrimenti utilizzabile – dell'androne comune dell'edificio (Cass. II, n. 2746/1989). Ha rammentato la pronuncia che la distinzione tra «innovazioni» e atti di maggiori o più intensa utilizzazione della cosa comune sta in ciò che costituisce innovazioni qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto o in parte, nella materia o nella forma, ovvero nella destinazione di fatto o di diritto la cosa comune, eccedendo i limiti della conservazione, dell'ordinaria amministrazione o del godimento della cosa e che importi una modificazione materiale della forma o della sostanza della cosa medesima, con l'effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento o comunque alterarne la destinazione originaria, con conseguente implicita incidenza nell'interesse di tutti i condomini, i quali devono essere liberi di valutare la convenienza dell'innovazione, anche se sia stata programmata ad iniziativa di un solo condomino che ne assume tutte le spese, mentre non sono innovazioni tutti gli atti di maggiore o più intensa utilizzazione della cosa comune che non importino alterazioni o modificazioni della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggior uso del condomino che abbia attuato la modifica. La Corte del merito aveva applicato questi principi rilevando che l'installazione dell'impianto non aveva alterato la destinazione della cosa comune (androne di accesso all'edificio) in quanto ne aveva occupato solo in modesta parte la superficie, costituita da angoli morti non altrimenti utilizzabili; che non ne aveva impedito un pari uso da parte degli altri condomini, essendo stata predisposta per la possibilità da utilizzo da parte di tutti, e che non aveva comportato trasformazione della cosa comune a causa della sua ubicazione non idonea ad alterare nè la consistenza nè funzione della cosa comune. Si è di recente precisato che non è necessario il consenso unanime per lo spostamento dell'ubicazione dell'autoclave in condominio dei condomini, seppur titolari di un fondo configurato come dominante nell'ambito di una servitù costituita per la fruizione di un servizio condominiale, possono decidere di modificare il servizio (nella specie, spostando l'ubicazione dell'autoclave, dell'elettropompa e della cisterna della riserva dell'impianto idrico) con le maggioranze richieste dall'art. 1136 c.c., non costituendo oggetto della delibera la rinunzia della servitù, la cui estinzione consegue eventualmente ad essa, piuttosto, quale effetto legale tipico della nuova situazione di fatto venutasi a creare tra i fondi per il venir meno dei requisiti oggettivi che caratterizzano la servitù, salvo che la trasformazione del servizio non richieda l'unanimità per altre ragioni, derivanti dalle regole che disciplinano l'estrinsecazione della volontà condominiale in materia di innovazioni vietate, determinando, in base ad apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, una sensibile menomazione dell'utilità ritraibile dalla parte comune (art. 1120, comma 2, c.c., nella formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla l. n. 220 del 2012) (Cass. II, n. 23741/2020). L'impianto centralizzato dell'acqua calda è compreso fra le parti comuni dell'edificio a norma dell'art. 1117, nn. 2) e 3), c.c. per modo che la deliberazione di soppressione di detto servizio richiede, per poter essere validamente approvata, l'unanimità dei condomini, ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c., il quale vieta tutte le innovazioni che rendano parti comuni inservibili all'uso, al godimento anche di un solo condomino dissenziente, senza che possa rilevare la mancanza di assoluta irreversibilità della adottata decisione e la particolare onerosità del mantenimento e adeguamento degli impianti (Cass. II, n. 3186/1991). Ha ricordato la Suprema Corte che la finalità menzionata nell'art. 1120 c.c. è stata interpretata in modo estensivo; basta infatti che le innovazioni decise siano «dirette» al miglioramento o all'uso più comodo e la maggior rendimento delle cose comuni. È stato così ritenuto che rientrano nelle innovazioni, che l'assemblea condominiale può decidere secondo la procedura prevista dall'art. 1136, comma 5, c.c.: l'allargamento del portone, delle scale, del vano d'ingresso, l'introduzione di nuovi servizi, come ad es. l'ascensore, il citofono, la sostituzione di un impianto di riscaldamento a carbone con un altro a nafta e così via. Vi sono però dei limiti che l'assemblea, deliberando secondo le modalità indicate dall'art. 1136, comma 5, c.c. non può superare. Tali limiti sono indicati nello stesso art. 1120 c.c. ove, al comma 2, viene stabilito che sono vietate, tra l'altro, le innovazioni «che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condominio» (si vedano anche, per quanto riguarda il regolamento condominiale, i limiti indicati dall'art. 1138, comma 4, c.c.). Ora l'impianto centralizzato dell'acqua calda è certamente compreso tra le parti comuni dell'edificio a norma dell'art. 1117, nn. 2) e 3), c.c. Collegando quest'ultima norma con l'art. 1120, comma 2, c.c. si perviene necessariamente alla conclusione che le delibere, quali di cui è causa, richiedono, per essere validamente adottate, l'unanimità dei condomini. Ha rammentato la Suprema Corte di essersi del resto già pronunciata su di un caso analogo, con Cass. n. 7256/1986, la quale era stato stabilito che, in tema di condominio degli edifici, la delibera di rinuncia non al mero servizio, ma all'impianto centralizzato di riscaldamento, configurando non una semplice modifica bensì una radicale alterazione della cosa comune nella sua destinazione strutturale od economica, obiettivamente pregiudizievole per tutte le unità immobiliari già allacciate o suscettibili di allacciamento al medesimo, urta contro il limite invalicabile di cui al comma 2 dell'art. 1120 c.c., che vieta tutte le innovazioni che rendano parti comuni inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condominio dissenziente, senza che possa rilevare la mancanza di assoluta irreversibilità dell'adottata decisione nè la particolare onerosità del mantenimento ed adeguamento degli impianti. Impianto fognarioLa ristrutturazione dell'impianto fognario (vecchio di oltre cinquant'anni e bisognoso di interventi strutturali), in quanto necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune, non costituisce innovazione. Rientra nei poteri insindacabili dell'assemblea la decisione relativa alle modifiche, del detto servizio comune quando sia dettata dalla necessità di sopperire all'insufficienza strutturale e funzionale di quello preesistente in considerazione delle sopravvenute maggiori esigenze anche igieniche (Cass. II, n. 16639/2007). Ha osservato la Suprema Corte che la sentenza impugnata, nel ritenere la ristrutturazione dell'impianto fognario opera necessaria per la conservazione ed il godimento della cosa comune spiegandone le ragioni (la vetustà dell'impianto vecchie di cinquant'anni risalendo all'epoca della costruzione dell'edificio e bisognoso di modifiche strutturali) aveva correttamente escluso che si trattasse, nella specie, di innovazione, con la conseguenza che nessun rilievo poteva avere l'entità della spesa alla quale i ricorrenti dovevano in ogni caso contribuire. Ha quindi ritenuto la pronuncia rientrare nei poteri dell'assemblea quello di decidere, in base al principio maggioritario, le modifiche al servizio comune, nella specie, quello fognario, quando la necessità di avvalersi dei progressi tecnologici è conseguente alla carenza delle modalità di attuazione del servizio in relazione alle maggiori esigenze, anche igieniche acquisite dal corpo sociale nel corso degli anni; con la conseguenza che l'eliminazione dei pozzetti, va intesa come soppressione di opere non indispensabili per l'erogazione del servizio, rimessa alla valutazione discrezionale dell'assemblea, insindacabili dall'autorità giudiziaria. Lastrico solareIl lastrico solare, ai sensi dell'art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell'edificio, ove non risulti il contrario in modo chiaro ed univoco dal titolo (per tale intendendosi gli atti di acquisto dei singoli appartamenti, o delle altre unità immobiliari, nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini); quale superficie terminale dell'edificio, esso svolge l'indefettibile funzione primaria di protezione dell'edificio medesimo, pur potendo essere utilizzato in altri usi accessori, ed in particolare come terrazzo, nel qual caso anche l'uso esclusivo da parte di un solo condomino non integra violazione dell'art. 1120 c.c., non venendo comunque meno la suindicata funzione primaria (Cass. II, n. 3102/2005). La Suprema Corte ha dunque escluso che dia luogo ad una innovazione la sostituzione della preesistente pavimentazione del lastrico solare con un diverso tipo di mattonelle (Cass. II, n. 10602/1990). Ha rammentato la pronuncia che non ogni modifica, nella materia o nella forma, della cosa comune, costituisce innovazione in senso tecnico-giuridico, ma solo quelle modifiche (o alterazioni) che non rientrano nei limiti dell'ordinaria conservazione, amministrazione e godimento della cosa medesima; ha inoltre ricordato essere stato precisato che la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all'entità e qualità dell'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione deve intendersi soltanto quella modificazione notevole della cosa comune che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, con esclusione, quindi, delle modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione. Ciò posto, e premesso che lo stabilire se un'opera integri o meno gli estremi dell'innovazione, e comporti quindi ai sensi dell'art. 1120, comma 1, c.c., la necessità della speciale maggioranza di cui all'art. 1136, comma, 5 c.c., costituisce un'indagine di fatto riservata al giudice di merito ed insindacabile in cassazione se sostenuta da corretta e congrua motivazione, la Suprema Corte ha ritenuto che la pronuncia impugnata si sottraesse alle critiche ad essa indirizzate, laddove aveva giudicato della decisione dell'assemblea condominiale correlata e contestuale a quella di provvedere al rifacimento dell'impermeabilizzazione del lastrico solare di sostituire alla pavimentazione preesistente (in mattonelle di gres) una pavimentazione di tipo diverso (“Campigiane”). Siffatto convincimento, invero, giudici di merito avevano correttamente anche se concisamente motivato sul rilievo, in linea con gli esposti principi, che la deliberata modifica del tipo di pavimentazione non aveva alterato, nella forma e/o nella sostanza, la cosa comune (il lastrico solare), nè aveva negativamente inciso sulla conservazione dell'originaria destinazione e delle possibilità di utilizzazione e godimento della cosa medesima. Altrettanto vale per l'installazione di una ringhiera (o parapetto) su di un lastrico solare che permetta di affacciarsi su spazi condominiali (nella specie, cortili comuni destinati a dare aria e luce agli appartamenti sottostanti che vi prospettano (Cass. II, n. 13261/2004). Sul piano dell'uso del bene da parte del singolo condomino, la Suprema Corte ha ritenuto che l'utilizzazione da parte di uno dei condòmini del lastrico solare comune con la realizzazione di un vano e l'installazione di un lavandino e di un serbatoio, alterasse l'equilibrio tra le concorrenti utilizzazioni attuali o potenziali degli altri comproprietari e determinasse pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei coesistenti diritti di costoro (Cass. II, n. 2099/2005). Viceversa, l'installazione da parte di un condomino di pannelli solari su parte comune dell'edificio condominiale (nella specie: sul lastrico di copertura del vano scale), che non alteri la cosa comune e non impedisca agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non costituisce innovazione, né a norma dell'art. 1120 c.c., né a norma del successivo art. 1121, ma legittimo uso della cosa comune (Trib. Salerno 16 marzo1982). Il condomino che ha in uso esclusivo il lastrico di copertura dell'edificio ed è proprietario dell'appartamento sottostante può – secondo la Suprema Corte – collegare l'uno e l'altro. In tal senso è stato di recente affermato che il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell'edificio e che sia proprietario dell'appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l'uno e l'altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un'apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l'esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sé violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un'alterazione della cosa comune che ne impedisca l'uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio (Cass. II, n. 6253/2017). Come è stato osservato, tuttavia, la soluzione appare legata alla particolarità del caso concreto, e cioè non sembra consentire un'automatica generalizzazione del principio, occorrendo di volta in volta verificare lo stato dei luoghi e, in particolare, la portata quantitativa e qualitativa dell'intervento modificatore del condomino che ha assunto la relativa iniziativa (Celeste, in Condominioelocazione.it, 18 dicembre 2017). Difatti, la Suprema Corte ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene (Cass. II, n. 14107/2012). Inoltre, il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso (Cass. II, n. 2500/2013); occorre insomma che tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. II, n. 2126/2021). Muro perimetrale e comuneÈ generalmente riconosciuta la liceità dell'inserzione di aperture nel muro perimetrale comune di un edificio condominiale da parte dal singolo condomino, la quale trova però un limite nell'ipotesi in cui esse siano dirette a mettere in comunicazione un'unità immobiliare di esclusiva proprietà del condomino con un'altra unità compresa in un diverso fabbricato (Cass. II, n. 15024/2013; Cass. II, n. 8643/2012; Cass. II, n. 3035/2009). Anche da ultimo è stato ribadito che, a norma dell'art. 1102, comma 1, c.c., applicabile al condominio negli edifici in virtù del rinvio operato dall'articolo 1139 del Cc, ciascun condomino può apportare a sue spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento delle cose comuni, sempre che osservi il duplice limite di non alterare la destinazione e di non impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Entro questi limiti, perciò, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti, ciascun condomino può servirsi altresì dei muri perimetrali comuni dell'edificio e appoggiarvi tubi, fili, condutture, targhe, tende e altri manufatti analoghi. Alle modificazioni consentite al singolo ex art. 1102, comma 1, c.c., sebbene esse non alterino la destinazione delle cose comuni, si applica altresì il divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato, statuito espressamente dall'art. 1120 c.c. in tema di innovazioni ( Cass . II, n. 25790/2020 ). Sullo stesso tema si può osservare come detto principio costituisca espressione di un indirizzo giurisprudenziale uniforme e consolidato circa l'uso della cosa comune che l'art. 1102 c.c. riconosce legittimo a ciascun condomino – senza necessità di autorizzazione assembleare (Cass. n. 21832/2007; Cass. n. 1554/1997, per l'apertura di vetrine da esposizione nel muro perimetrale comune) – a condizione, però, che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti il c.d. «pari uso». Ovvio, in particolare, che i lavori non d devono compromettere la sicurezza o altre essenziali caratteristiche del muro posto a servizio dell'edificio (Cass. II, n. 35851/2021, concernente scavo di una nicchia, allargamento o apertura di un varco nel muro maestro posto all'interno di un singolo appartamento). Pertanto, è ritenuta legittima l'apertura di una porta nel muro comune, anche se muro maestro, «a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell'esercizio dell'uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato condominiale» (Cass. n. 16097/2003), mentre è stata giudicata illegittima l'apertura di un varco nel muro perimetrale comune per mettere in comunicazioni due unità immobiliari dello stesso soggetto ma site in distinti e diversi edifici condominiali limitrofi perché, in tal caso, essa «comportando la cessione a favore di soggetti estranei al condominio del godimento di un bene comune, ne altera la destinazione, giacché in tal modo viene imposto un peso sul muro perimetrale che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio» (Cass. n. 9036/2006; Cass. n. 369/1995; Cass. n. 5780/1988; Cass. n. 2176/1982; analogamente, da ult, con riguardo a varco aperto per collegare un'unità immobiliare con con l'andito di una scala destinata a servire un'altra parte di fabbricato, Cass. VI, n. 35955/2021). In senso conforme, Trib. Roma 4 agosto 2009 n. 16973, secondo cui «l'utilizzo del bene comune da parte del singolo condomino in modo più intenso rispetto agli altri è un diritto non pieno ed assoluto ma condizionato al rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., per cui deve essere respinta la domanda del condomino che si opponga allo spostamento delle cassette postali in corrispondenza del muro comune, utile per l'eventuale apertura di una porta a suo esclusivo vantaggio». L'utilizzazione lecita del muro perimetrale comune, oltre alla dianzi riportata ipotesi di apertura di vetrine di esposizione, è stata ritenuta, anche più recentemente, da Cass. n. 22341/2009, in quanto «ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell'esercizio di una vera e propria servitù. Pertanto, l'installazione, nel muro di confine comune, di un meccanismo fotocellulare per l'apertura automatica del cancello inserito nel muro, non sporgente all'interno del fondo prospiciente il lato opposto del muro stesso, non viola l'art. 1102 c.c., trattandosi di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione/isolamento dell'esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso». La legittimità di un'apertura nel muro perimetrale è stata riconosciuta da Cass. n. 1112/1988, osservandosi che «l'apertura di una porta o di una finestra da parte di un condominio o la trasformazione di una finestra che prospetta il cortile comune in una porta di accesso al medesimo mediante l'abbattimento del corrispondente tratto di muro perimetrale che delimita la proprietà del singolo appartamento non costituisce di per sé abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo come ius possidendi a tutti i condomini». Con riferimento alle aperture sul cortile comune, Cass. n. 3941/1991 – richiamato il principio secondo cui «è consentita al condomino la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune, quando, pur comportando l'occupazione con un'opera solida e stabile dell'area sovrastante, concreti solo un ampliamento della presa d'aria e di luce dell'appartamento del singolo condomino, senza alterare la destinazione normale del cortile a fini costruttivi dei singoli proprietari, con vantaggio delle rispettive proprietà, e quindi per l'utilità e disponibilità esclusiva degli stessi» (Cass. n. 624/1976; Cass. n. 9644/1987) – ha giudicato illegittima la costruzione di «bovindi» perché il corpo di fabbrica aggettante è stato «realizzato nella parte del fabbricato prospiciente il cortile comune mediante incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante la relativa area ed utilizzando la stessa a fini costruttivi ad esclusivo vantaggio del singolo condominio», per cui «comportava una non consentita alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti». Per una fattispecie analoga, Cass. n. 12569/2002 – in conformità del principio enunciato da Cass. n. 9644/1987 sulla legittimità dell'immissione di balconi e pensili su un cortile comune salvo che non si verifichi con la loro apposizione un uso della cosa comune esorbitante dai limiti previsti dalla legge – ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto illegittima l'edificazione nel cortile comune di due balconi, prima inesistenti, con apertura di vedute a distanza non legale perché alterava la destinazione del cortile medesimo diminuendo l'utilizzazione dell'aria e della luce che il cortile era appunto destinato ad assicurare. Per l'apertura legittima, senza autorizzazione assembleare, nel tetto comune di abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce al piano sottostante, cfr. Cass. n. 17099/2006, e Cass. n. 1498/1998. Per l'apertura praticata dal proprietario esclusivo di un terreno con accesso diretto dalla strada, per accedere all'androne, in quanto diretto ad utilizzare una parte dell'edificio da ritenersi comune senza pregiudizio per gli altri condomini, cfr. Cass. n. 761/1979. L'apertura di varchi o cancellate in un muro ricadente fra parti comuni di edificio non integra dunque l'abuso della cosa comune. In tal senso si è anche di recente ribadito che l'apertura di varchi e l'installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell'edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all'unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'art. 1102 c.c., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare a un'interclusione dell'unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all'intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti a esse corrispondenti, sempre che l'esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato (Cass. II, n. 4437/2017). Nondimeno, come si accennava, l'apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, con eccezione del caso in cui tale varco metta in comunicazione l'appartamento del condomino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del medesimo, ricompresa in un diverso edificio condominiale, poiché, in questo caso, il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato (Cass. II, n. 15024/2013; Cass. II, n. 3035/2009; Cass. II, n. 1708/1998). È dunque illegittima l'apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell'edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile pure di sua proprietà ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini (Cass. II, n. 5060/2020; Cass. II, n. 4501/2015; Cass. II, n. 9036/2006). Costituisce allora uso legittimo del muro perimetrale comune l'apertura di una porta o finestra, da parte di un condomino (Cass. II, n. 5095/1978; Cass. II, n. 4155/1994; Cass. II, n. 4996/1994; Cass. II, n. 240/1997), come pure l'ampliamento dell'ingresso di una bottega nel muro perimetrale (Trib. Napoli 24 novembre1990), ovvero l'apertura di una seconda porta di ingresso al proprio appartamento (Trib. Milano 13 maggio 1996); l'esecuzione di tracce di canali per l'incasso degli impianti elettrici dei servizi di interesse comune (Trib. Milano 24 giugno 1991); l'installazione di due terminali coassiali per lo scarico dei fumi combusti e per l'aspirazione dell'aria comburente (Cass. II, n. 14607/2012); l'apposizione di una vetrina o mostra in corrispondenza del proprio locale destinato all'attività commerciale (Cass. II, n. 1499/1998); la installazione di un impianto di condizionamento su un prospetto interno del fabbricato (Trib. Napoli 21 ottobre2003). Non appare persuasiva, in quest'ottica, l'affermazione di illegittimità della installazione, nei muri perimetrali interni dei ballatoi condominiali, di nicchie per immettervi contatori del gas o della luce (Pret. Torino 23 dicembre 1995). L'appoggio di una canna fumaria al muro comune, in linea di principio lecito ai sensi dell'art. 1102 c.c., va essenzialmente riguardato sotto il profilo della possibile lesione del decoro architettonico (Cass. II, n. 11392/2002; Cass. II, n. 6341/2000). Viceversa, l'inserimento di una canna fumaria all'interno del muro comune, costituente anche muro di delimitazione della proprietà individuale, ad esclusivo servizio del proprio immobile non può considerarsi utilizzazione in termini di mero «appoggio» della stessa al muro comune, secondo quello che, a determinate condizioni, può costituire uso consentito del bene comune ai sensi della norma in questione, stante il suo peculiare carattere di invasività della proprietà altrui (qual è anche quella non esclusiva bensì comune), anche sotto i meri profili delle immissioni di calore e della limitazione rispetto ad altre possibili e diverse utilizzazioni della cosa che ne derivano (Cass. II, n. 8852/2004). Se il condomino può servirsi della cosa comune, intervenendo sul muro nei limiti indicati, non può però giungere al suo abbattimento: l'abbattimento di un muro portante di un edificio in condominio – sia pur sostituito da travi in ferro – incidendo sulla struttura essenziale della cosa comune e sulla sua precipua funzione, non può farsi rientrare nell'ambito delle facoltà concesse al singolo partecipante alla comunione dal citato art. 1102 c.c., ma costituisce vera e propria innovazione, soggetta, come tale, alle regole dettate dall'art. 1120 (Cass. II, n. 9497/1994; Cass. II, n. 3741/1982). È stata ritenuta illegittima la collocazione da parte di un condomino di insegne luminose, targhe e cartelli pubblicitari sul portone di ingresso, sul muro e nel corridoio dell'atrio condominiale, in contrasto con la funzione o la destinazione tipica di tali parti comuni (Trib. Brescia 26 aprile1994). L'utilizzo di una parete esterna dell'edificio condominiale a sostegno di un cartellone pubblicitario grande quanto l'intera superficie disponibile costituisce innovazione, in quanto destina il bene comune ad una funzione diversa da quella originaria. Tale destinazione reca indubbio pregiudizio al decoro architettonico dello stabile, in quanto nel termine «decoro» il legislatore ha compendiato non solo la piacevolezza e l'armonia dell'aspetto architettonico dell'edificio condominiale, ma anche la rispettabilità e la dignità dello stesso (App. Milano 17 giugno1997). PortieratoL'istituzione e soppressione del servizio di portierato (su cui, sotto l'aspetto della prestazione lavorativa del portiere, v. Scarpa 2010, 91) è stata oggetto in giurisprudenza di soluzioni non omogenee. Nella giurisprudenza meno recente, si trova affermato che: «Se il regolamento condominiale, predisposto dal costruttore ed accettato dai condòmini nei singoli atti di acquisto, si limita, nell'interesse collettivo di costoro, ad istituire e disciplinare un servizio condominiale, nella specie, portierato, tendente essenzialmente alla custodia e pulizia delle cose comuni, senza attribuire ad alcuno dei condòmini speciali diritti e vantaggi, è lecita la sostituzione di quel servizio, riconosciuto oneroso, con altri mezzi idonei, c.d. portiere-automatico, deliberata dalla maggioranza dell'assemblea dei condòmini e non all'unanimità, non versandosi nella ipotesi di cui allo art. 1120, comma 2, c.c.» (Cass. II, n. 158/1966; v. però in senso diverso già Cass. II, n. 66/1965). Secondo questa impostazione, dunque, la soppressione del servizio di portierato richiederebbe la maggioranza semplice, soluzione ribadita anche per il caso che in precedenza l'istituzione del servizio di portierato fosse stata deliberata all'unanimità, trattandosi di mera modifica del servizio e non di innovazione (Cass. II, n. 1507/1966). Successivamente, la giurisprudenza ha mutato indirizzo, ponendo l'accento sul carattere della deliberazione di soppressione del servizio di portierato quale atto eccedente l'ordinaria amministrazione. Il servizio di portierato non previsto dal regolamento di condominio, che comporti la destinazione ad alloggio del portiere di locali di proprietà comune aventi in precedenza una diversa funzione, e la soppressione del medesimo servizio, nella opposta ipotesi in cui questo sia previsto dal regolamento anzidetto con destinazione ad alloggio del portiere di locali di proprietà comune, configurano, derivandone, rispettivamente, la nascita e l'estinzione di un vincolo di destinazione pertinenziale a carico di parti comuni, atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, per la cui deliberazione – attesa l'equiparazione di tale categoria di atti alle innovazioni disposta dal comma 2 dell'art. 1108 (applicabile al condominio per il rinvio operato dall'art. 1139 c.c.) – è necessaria la maggioranza qualificata (che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e due terzi del valore dell'edificio) prevista dal comma 5 dell'art. 1136 c.c., il quale non esaurisce la disciplina delle maggioranze in relazione a tutte le deliberazioni assumibili dalla assemblea dei condomini (Cass. II, n. 2585/1988; Cass. II, n. 642/1996; Cass. II, n. 5400/1997; Cass. II, n. 12481/2002; analogamente App. Milano, 20 giugno1989). Altre volte è stato detto che, qualora il servizio di portierato sia previsto nel regolamento di condominio, la sua soppressione comporta una modificazione del regolamento che deve essere approvata dall'assemblea con la maggioranza stabilita dall'art. 1136, comma 2, c.c. (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio), richiamato dall'art. 1138, comma 3, c.c. (Cass. II, n. 3708/1995; Cass. II, n. 5400/1997; Cass. II, n. 12481/2002; analogamente Trib. Milano 14 maggio1990; Trib. Napoli 4 dicembre1988). Concorda parte della dottrina, sul rilievo che la clausola del regolamento di condominio che istituisce il servizio di portierato non attribuisce ai condòmini diritti soggettivi, ma concerne l'amministrazione della cosa comune, sicché può essere abolita o modificata con il voto favorevole della maggioranza dei condòmini senza che occorra l'unanimità (Terzago 2012, 916). Secondo altra opinione la disciplina della soppressione del servizio di portierato esorbita da quella concernente l'uso delle cose comuni, sicché la delibera di pura e semplice soppressione, ove cioè non sia contestualmente prevista l'installazione del servizio citofonico, deve considerarsi nulla se non adottata all'unanimità (Salis 1966, 1405; Branca 1972, 652). Certo è che, alla luce del dato giurisprudenziale, non si configura un diritto del condomino al mantenimento del servizio di portierato, attraverso il quale si consegue uno dei modi possibili di realizzazione dell'interesse comune dei partecipanti alla pulizia e alla custodia dell'edificio condominiale: la deliberazione modificativa del servizio non è quindi impugnabile senza limiti di tempo, e i motivi di contestazione del singolo condomino dissenziente debbono essere fatti valere nel rispetto del termine di decadenza fissato dall'art. 1137 (Cass. II, n. 2585/1988; App. Milano 20 giugno1989). Può incidentalmente aggiungersi che, una volta deliberata l'istituzione del servizio, spetta all'amministratore provvedere all'assunzione del portiere, vigilare sull'esecuzione della prestazione e comminare le eventuali sanzioni disciplinari, intimare il licenziamento, agire per il rilascio dell'immobile detenuto senza titolo dal portiere licenziato (v. su alcuni di tali aspetti Cass. II, n. 4437/1985; Cass. II, n. 4780/1985; Cass. II, n. 7162/1991; Cass. II, n. 1768/2012). Per il riparto delle spese di portierato subart. 1123 c.c. (al cui commento si rinvia). Posti auto e parcheggiÈ nulla la delibera che dispone l'assegnazione in via esclusiva e per un tempo indefinito di posti auto all'interno di un'area condominiale, in quanto determina una limitazione all'uso e al godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune (Cass. II, n. 1898/2017). Ciononostante, la delibera assembleare di destinazione a parcheggio di un'area di giardino condominiale, interessata solo in piccola parte da alberi di alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva, non dà luogo a un'innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, e anzi, da essa derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condomini (Cass. II, n. 24960/2016). Insomma, l'utilizzo del cortile per il parcheggio delle auto non costituisce un'innovazione vietata dall'art. 1120, comma 2, c.c. (norma che peraltro si ritiene applicabile in particolare solo laddove si controverta in tema di riparto delle spese) o dall'art. 1102 c.c. Si ha invero innovazione, che per essere valida deve essere approvata da tutti i condomini, quando l'attività svolta determini una trasformazione della destinazione del bene comune che viene ad avere, per l'effetto, una diversa consistenza materiale ovvero una nuova funzione con compromissione della facoltà di godimento di uno o più condomini (Trib. Roma 24 gennaio 2017). I condomini possono deliberare la realizzazione di parcheggi pertinenziali nel sottosuolo di edifici condominiali, anche in numero inferiore a quello della totalità dei componenti; la sottrazione dell'uso dell'area comune a seguito della destinazione a parcheggio non comporta un deterioramento del decoro architettonico ed è consentita solo se è assicurata anche ai condomini dissenzienti la possibilità di realizzare, in futuro, nella zona comune rimasta libera, un analogo parcheggio pertinenziale della propria unità immobiliare di proprietà esclusiva (Cass. II, n. 24959/2016). Scale e pianerottoliLa costruzione di un'opera da parte di un condomino su beni comuni non è disciplinata dalle norme sull'accessione, bensì da quelle sulla comunione, secondo le quali costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene che abbia l'effetto di alterarne la consistenza materiale o la destinazione originaria. Pertanto, la costruzione da parte di un comproprietario di una ulteriore rampa su una scala comune e di un torrino – collegato con il bene di proprietà esclusiva – su un solaio, anch'esso comune, da un lato costituisce modifica strutturale della scala e del solaio rispetto alla loro primitiva configurazione ed assoggettamento ad un uso estraneo a quello originario comune, che viene soppresso; dall'altro può determinare l'appropriazione da parte del condomino del vano occupato dalla nuova rampa e della superficie del torrino (Cass. II,21901/2004). Ha osservato la Suprema Corte che sulla questione dedotta la sentenza impugnata aveva considerato, da un lato, che gli interventi edilizi oggetto di lite avevano comportato l'alterazione della destinazione obiettiva della piccola scala, avendovi impresso, non soltanto una evidente diversa consistenza materiale, ma anche una funzione nuova a più gravosa rispetto all'originaria destinazione al servizio esclusivo degli appartamenti ad essa collegati sin dalla costituzione del condominio; dall'altro, che l'edificazione compiuta, oltre ad impedire agli altri condomini di esercitare un analogo uso, avevano determinato l'incorporazione all'unità immobiliare del comproprietario sia dell'intera struttura e sia che dello spazio aereo sovrastante il bene comune nella sua antecedente ed originaria configurazione. Dopodiché la Suprema Corte ha ricordato che costituisce jus receptum che nell'ipotesi di costruzioni eseguite da un condomino sul suolo comune non trovano applicazione, in presenza della disciplina speciale dettata in tema di comunione, le norme relative all'accessione e che costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene che abbia l'effetto di alterarne la consistenza materiale e la destinazione originaria. La realizzazione da parte di un comproprietario di un'ulteriore rampa di una scala comune e di un torrino su di un solaio egualmente comune è conseguentemente idonea sia a comportare l'appropriazione da parte sua del vano occupato dalla nuova rampa e della superficie del torrino con l'effetto della definitiva sottrazione di questi all'uso degli altri condomini, e sia ad apportare modifiche strutturali alla scala ed al solaio nella loro primitiva configurazione ed il loro assoggettamento ad un uso, non solo più intenso, ma estraneo a quello originario. Di tali principi aveva fatto corretta applicazione il giudice di merito e rientrava nel suo apprezzamento discrezionale la verifica, positivamente effettuata alla luce dei mezzi di prova esperiti, della sussistenza dei requisiti per qualificare le opere eseguite come innovazione e dell'avvenuta appropriazione in conseguenza di esse di superfici e volumi condominiali.È illegittima la costruzione di una scala antincendio esterna ad opera di un condomino senza il consenso degli altri condòmini (Trib. Ancona 1 settembre1994). Così pure la installazione di una scala esterna che toglie luce ed aria ad un sottostante appartamento (Cass. II, n. 2751/1982). Poiché le scale sono annoverate tra le parti dell'edificio per le quali l'art. 1117 c.c. stabilisce la presunzione di proprietà comune e ad esse si applicano le regole stabilite dagli artt. 1120, comma 2, e 1122 c.c., secondo cui sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino, deve essere considerata alterazione della cosa comune vietata dalla legge l'incorporazione del vano scale nell'appartamento di proprietà di un singolo condomino (App. Firenze 4 febbraio1997). Servizi comuniIn tema di servizi comuni, l'assemblea di condominio, con deliberazione presa a maggioranza, ha il potere di decidere la modifica, la sostituzione ed, eventualmente, la soppressione di un servizio anche laddove il regolamento di condominio, nell'interesse collettivo, istituisce e disciplina un servizio nell'interesse del gruppo dei condomini. L'assemblea, accertato che quel servizio è diventato oneroso e va surrogato con altri mezzi idonei, può deliberarne la sostituzione e il provvedimento può essere adottato a maggioranza, trattandosi di una modificazione delle modalità di svolgimento del servizio, che non incide sul diritto di cui sono titolari i singoli condòmini (Cass. II, n. 6915/2007, concernente nuova ubicazione del servizio di autoclave). Ha rammentato la Suprema Corte che le attribuzioni dell'assemblea riguardano l'intera gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, che avviene in modo dinamico e che non potrebbe essere soddisfatta dal modello della autonomia negoziale, in quanto la volontà contraria di un solo partecipante sarebbe sufficiente ad impedire ogni decisione. La competenza dell'assemblea si estende anche alle modifiche delle modalità di svolgimento dei servizi comuni. L'attività o la funzione, in che il servizio consiste, si distinguono dai beni strumentali, sebbene il diritto di condominio contempli anche determinati servizi in comune il che significa che, nel diritto soggettivo di condominio, si comprende l'espletamento delle attività o delle funzioni, di cui i partecipanti non possono essere privati rispetto ai quali, i beni strumentali, specie se surrogabili, appaiono irrilevanti. Rientra, dunque, nei poteri dell'assemblea di condominio il potere di disciplinare la gestione dei beni e dei servizi comuni, ai fini della migliore e più razionale utilizzazione di essi da parte dei condomini, anche quando il servizio si svolge con l'uso di determinati beni comuni (mobili o immobili) e, quando, la sistemazione più funzionale del servizio, deliberata dall'assemblea, comporti, come conseguenza la dismissione dell'uso di detti beni ovvero il trasferimento di essi in altro luogo. Ed, invero, in tema di servizi comuni, e nell'ambito della gestione dinamica degli stessi, non v'è ragione di prescrivere una sorta di intangibilità delle condizioni esistenti e di negare l'operatività del principio maggioritario al fin di decidere le modifiche al servizio anche nei casi in cui, assieme al vantaggio dei più (e spesso di tutti, compresi i dissenzienti), esse comportano qualche inconveniente o pregiudizio. La necessità di introdurre modifiche ed ammodernamenti appare incontestabile se questi sono ritenuti dell'assemblea idonei a rendere più confortevole la fruizione delle unità abitative ovvero se sono dettati della sopravvenuta insufficienza delle modalità di attuazione dei servizi per carenze di qualsivoglia natura. Nell'ambito della gestione dei beni e dei servizi comuni, che non sì traduca nella impossibilità di godere del servizio o nella sua soppressione, l'opposizione della minoranza dei condomini o di uno soltanto, se ammessa, ripristinerebbe quello ius prohibendi, che il metodo collegiale ed il principio di maggioranza mirano a superare. In definitiva, in tema di servizi comuni, l'assemblea di condominio, con deliberazione presa a maggioranza, ha il potere di decidere la modifica, la sostituzione ed, eventualmente, la soppressione di un servizio anche laddove il regolamento di condominio, nell'interesse collettivo, istituisce e disciplina un servizio nell'interesse del gruppo dei condomini. L'assemblea, accertato che quel servizio è diventato oneroso e va surrogato con altri mezzi idonei, può deliberarne la sostituzione e il provvedimento può essere adottato a maggioranza, trattandosi di una modificazione delle modalità di svolgimento del servizio, che non incide sul diritto di cui sono titolari i singoli condomini. Il giudizio sulla liceità di una delibera dipende dal suo contenuto precettivo e, talora, si giustifica alla stregua degli effetti, in considerazione della sua incidenza sui poteri e sulle facoltà inerenti ai diritti dei condomini. Doveva dunque ritenersi che, nel caso di specie, il contenuto della delibera in questione non consistesse nella approvazione di innovazioni vietate né comportasse l'impedimento al diritto dei condomini di beneficiare del servizio di approvvigionamento dell'acqua, ma si esaurisse nella modifica delle modalità di svolgimento di esso, sicché rientrava nella competenza dell'assemblea il potere di deliberare a maggioranza la modifica delle modalità di attuazione, prescindendo dalla sorte della servitù, che, rispetto all'oggetto proprio della delibera adottata con i poteri dell'assemblea, doveva considerarsi un mero effetto pratico, privo di rilevanza giuridica, del deliberato. Per concludere, i condomini, titolari di un fondo configurato come dominante nell'ambito di una servitù costituita per la fruizione di un servizio condominiale (autoclave), possono decidere di modificare il servizio (spostando l'ubicazione dell'autoclave) con le maggioranze richieste dall'art. 1136 c.c., quando la rinunzia della servitù non costituisca l'oggetto della delibera ma consegua ad essa come effetto legale tipico della nuova situazione di fatto venutasi e creare tra i fondi in conseguenza del venir meno dei requisiti oggettivi che caratterizzano la servitù, salvo che la trasformazione del servizio non richieda l'unanimità per altre ragioni, derivanti dalle regole che disciplinano l'estrinsecazione della volontà condominiale in materia di innovazioni vietate (art. 1120 comma 2, c.c.).Più di recente è stato ribadito che le attribuzioni dell'assemblea condominiale riguardano l'intera gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, che avviene in modo dinamico e che non potrebbe essere soddisfatta dal modello dell'autonomia negoziale, in quanto la volontà contraria di un solo partecipante sarebbe sufficiente a impedire ogni decisione. Rientra dunque nei poteri dell'assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, anche quando la sistemazione più funzionale del servizio comporta la dismissione o il trasferimento di tali beni. L'assemblea con deliberazione a maggioranza ha quindi il potere di modificare sostituire o eventualmente sopprimere un servizio anche laddove esso sia istituito e disciplinato dal regolamento condominiale se rimane nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento e quindi non incida sui diritti dei singoli condomini. Ne deriva che la volontà collettiva, regolarmente espressa in assemblea, volta ad escludere l'uso dell'antenna centralizzata per la ricezione di canali televisivi (destinata a servire tutte o più unità immobiliari di proprietà esclusiva e richiedente una attività di impianto a gestione comune), non si pone come contraria al diritto dei singoli condòmini sul bene comune (Cass. II, n. 144/2012). Della peculiarità dell'abolizione del servizio di portierato si è già detto (v. supra). SottosuoloRicorre l'ipotesi di innovazione lesiva del diritto degli altri condòmini nella escavazione da parte di uno o più di essi nel sottosuolo comune, allorché vengano realizzate opere che ne limitino l'uso ed il godimento da parte degli altri condòmini (Cass. II, n. 2805/1981; Cass. II, n. 5951/1978). Viceversa, l'escavazione del sottosuolo condominiale da parte di un condomino per collegare con una scala le unità immobiliari al piano terreno con quelle poste al seminterrato, tutte di sua proprietà esclusiva, non comporta appropriazione del bene comune e non costituisce innovazione vietata, perché non determina l'inservibilità del bene comune all'uso e al godimento a cui è destinato (Cass. II, n. 5546/1999). Secondo la Suprema Corte per stabilire se, in un edificio in condominio, ricorra un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120 c.c., occorre accertare non solo se l'utilizzazione delle parti comuni effettuata dal singolo condomino rechi pregiudizio alla sicurezza o alla stabilità del fabbricato o ne alteri il decoro architettonico, ma anche se il particolare uso fattone dal singolo non renda la cosa comune inservibile all'uso e al godimento degli altri condomini. Sotto quest'ultimo profilo, la finalità perseguita dalla norma è, infatti, quella di garantire che il diritto, riconosciuto a ciascun condomino di trarre dalle cose comuni il più ampio godimento, non limiti nè tantomeno impedisca a ciascun altro condomino l'esercizio di un pari diritto di godimento. Tale finalità deve ritenersi osservata, e deve, perciò, ritenersi consentito l'uso particolare delle parti comuni effettuato dal singolo condomino, se la natura e le caratteristiche della cosa sono tali da escludere qualsivoglia possibilità di utilizzazione ad opera degli altri condomini. Da tali principi, di cui la Suprema Corte aveva fatto applicazione in numerosi casi assimilabili a quello di specie, non si era discostata la sentenza impugnata. Il giudice d'appello aveva, infatti, ritenuto, sulla base di un'analitica considerazione sia dei luoghi che dei lavori eseguiti dai convenuti che l'escavazione della porzione di sottosuolo comune effettuata dai predetti al fine di realizzare la scala di collegamento tra i locali di loro proprietà posti a pianterreno e i due ripostigli, anche di loro proprietà, posti nel seminterrato, non costituiva innovazione vietata, trattandosi di uno scavo di mc. 1,20 che non aveva compromesso strutture condominiali di fondazione nè aveva comportato alcun impedimento agli altri condomini di servirsi della cosa comune in relazione all'uso cui essa era destinata. I ricorrenti non solo non avevano specificamente censurato tali considerazioni di fatto, ma, ciò che più conta, non avevano prospettato quale utilizzazione della cosa comune trascurata dal giudice di merito sarebbe stata possibile in concreto da parte degli altri condomini, sì da doversi configurare diversamente da quanto affermato dalla sentenza impugnata un'ipotesi di innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120 c.c. TelecamereÈ legittima la installazione di una telecamera nel pianerottolo comune che consente la sola diretta osservazione del portone di ingresso e dell'area antistante la porta di ingresso alla singola unità immobiliare (Trib. Milano, 6 aprile1992). L'installazione di telecamera di videosorveglianza è lecita laddove risulti proporzionata a quanto necessario per la tutela dell'incolumità fisica personale e famigliare, purché non violi, nell'ambito del necessario bilanciamento da operare tra diritti aventi entrambi fondamento costituzionale, il diritto alla riservatezza di soggetti terzi (Trib. Avellino 30 otobre 2017, concernente fattispecie in cui la telecamera era puntata sul vialetto, facente parte di area comune, che consente di accedere alle abitazioni rispettivamente di proprietà dei ricorrenti e del resistente, ma non era in alcun modo provato che tramite la stessa si potesse riuscire a vedere anche solo in parte all'interno della villetta dei ricorrenti, dunque non risultava violato il diritto alla riservatezza degli stessi e doveva essere rigettata la domanda di tutela cautelare da questi proposta al fine di ottenere la disinstallazione di detta telecamera). TettoieSe l'installazione di una tettoia da parte di un condomino non reca nocumento alla stabilità e sicurezza del fabbricato condominiale e al suo decoro architettonico è superflua la verifica circa l'applicabilità della disposizione del regolamento condominiale che stabilisce la necessità della previa autorizzazione dell'assemblea condominiale, trattandosi di autorizzazione che – stante l'accertata assenza di pregiudizio alla stabilità e all'estetica dell'edificio – non avrebbe potuto comunque essere negata (Cass. II, n. 12190/2017). La Suprema Corte ha ricordato la propria giurisprudenza, secondo cui le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini, ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini – possono derogare od integrare la disciplina legale, essendo consentito all'autonomia privata di stipulare convenzioni che pongano nell'interesse comune limitazioni ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti condominiali, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle porzioni di loro esclusiva proprietà. Ne consegue che il regolamento di condominio può legittimamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 c.c., estendendo il divieto di innovazioni sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva. Nella specie, la Corte territoriale aveva tenuto conto della disposizione del regolamento condominiale richiamata dall'attore, ritenendo tuttavia – sulla base di una corretta applicazione dei canoni legali di interpretazione – che essa non limitasse le facoltà riconosciute al singolo condomino dalle norme codicistiche. Avendo i giudici di merito escluso che l'installazione della tettoia abbia recato nocumento alla stabilità e sicurezza del fabbricato condominiale e al suo decoro architettonico (con un giudizio in fatto insindacabile in sede di legittimità e, d'altra parte, neppure oggetto di specifica censura da parte del ricorrente), esattamente essi avevano ritenuto superflua la verifica circa l'applicabilità della disposizione del regolamento condominiale che stabiliva la necessità della previa autorizzazione dell'assemblea condominiale, trattandosi di autorizzazione che – stante l'accertata assenza di pregiudizio alla stabilità e all'estetica dell'edificio – non avrebbe potuto comunque essere negata. TendeAlcune precisazioni attengono alla installazione di tende da parte del proprietario di un appartamento collocato ad un piano intermedio sul proprio balcone aggettante, cioè proteso verso l'esterno oltre la linea perimetrale dell'edificio, ed infisse sulla parte inferiore della soletta del balcone sovrastante. Occorre in proposito ricordare che i balconi aggettanti, secondo la giurisprudenza, costituiscono solo un prolungamento dell'appartamento dal quale si protendono e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell'edificio, non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani; i balconi aggettanti, pertanto, rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono. E dunque la Suprema Corte ha escluso che il proprietario dell'appartamento sito al piano inferiore possa agganciare le tende alla soletta del balcone aggettante sovrastante, se non con il consenso del proprietario del corrispondente appartamento (Cass. II, n. 15913/2007; Cass. II, n. 587/2011). La decisione della Suprema Corte da ultimo citata ha cassato la sentenza impugnata che ha affermato che i condomini dell'appartamento collocato al piano sottostante non avevano alcun onere di ottenere l'assenso delle controparti, proprietarie dell'appartamento sovrastante, per utilizzare la soletta del balcone di detto ultimo appartamento al fine di impiantarvi le strutture di sostegno della tenda parasole in quanto la soletta dei balconi, avendo la stessa funzione di calpe- stio/copertura del solaio, di cui costituisce un prolungamento, è assoggettata al regime giuridico del medesimo previsto dall'art. 1125 c.c.; infatti la soletta costituisce, come il solaio, una struttura divisoria tra due immobili, e presenta utilità uguale ed inseparabile per gli stessi, estrinsecantesi prevalentemente nelle funzioni di calpestio e di copertura. Il giudice di appello – ancora rammentato la Suprema Corte – dissentendo dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui le solette dei balconi aggettanti sono sottratte alla disciplina di cui all'art. 1125 c.c. in quanto non aventi funzioni di copertura ma solo di servizio al singolo appartamento cui accedono, aveva rilevato che, laddove sussistano analoghi manufatti posti sulla stessa verticale al piano sottostante, la funzione di piano d'appoggio e di calpestio che la soletta svolge per il balcone cui inerisce è inscindibile rispetto a quella di copertura del balcone sottostante. Il giudice di merito aveva quindi concluso che la soletta deve ritenersi di proprietà comune, e che il proprietario del piano sottostante ha l'uso esclusivo della faccia rivolta verso il basso e ne può fruire, oltre che per la copertura fornita al proprio balcone, anche per acquisire ogni ulteriore attingibile utilità cui non ostino ragioni di statica o di estetica. Tale convincimento non è stato condiviso dalla Suprema Corte Premesso che nella specie era pacifico che la soletta sulla quale erano state infisse le tende parasole ineriva ad un balcone aggettante, la pronuncia del giudice di legittimità ha escluso che tale soletta fosse di proprietà comune tra i proprietari del primo e del secondo piano ai sensi dell'art. 1125 c.c.; invero l'assenza di una sua funzione divisoria tra i due piani comporta l'insussistenza del necessario presupposto per ritenerla di proprietà comune tra i proprietari dei due piani l'uno all'altro sovrastante. In linea più generale, poi, ha escluso la Suprema Corte che i balconi aggettanti fungano da copertura del piano inferiore in quanto essi, dal punto di vista strutturale, sono del tutto autonomi rispetto agli altri piani, poiché possono sussistere indipendentemente dall'esistenza di altri balconi nel piano sottostante o sovrastante; non avendo quindi funzione di copertura del piano sottostante, il balcone aggettante non soddisfa una utilità comune ai due piani, e non svolge neppure una funzione a vantaggio di un condomino diverso dal proprietario del piano; sotto tale profilo la sentenza impugnata non aveva offerto adeguata e convincente motivazione della ritenuta funzione di copertura del balcone sottostante da parte della soletta di un balcone aggettante. Non sono state ritenute sussistenti quindi ragioni per discostarsi dall'orientamento consolidato secondo cui i balconi aggettanti (e dunque le relative solette), costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, avendo anzi una precedente pronuncia affermato che, seppure volesse riconoscersi alla soletta del balcone una funzione di copertura rispetto al balcone sottostante, tuttavia, trattandosi di copertura disgiunta dalla funzione di sostegno e quindi non indispensabile per l'esistenza stessa dei piani sovrapposti, non potrebbe parlarsi di elemento a servizio di entrambi gli immobili posti su piani sovrastanti, né, quindi, di presunzione di proprietà comune del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli piani. Infine è stato aggiunto che il diverso convincimento altre volte espresso dalla Suprema Corte, menzionate dalla sentenza impugnata, si riferiva a casi in cui i balconi sovrastanti svolgevano contemporaneamente funzioni sia di separazione, sia di copertura, sia di sostegno, come può avvenire quando essi sono incassati nel corpo dell'edificio; di qui pertanto l'irrilevanza di tale orientamento nella fattispecie. È stato inoltre precisato che devono essere però considerate parti comuni i rivestimenti e gli elementi decorativi non soltanto della parte frontale, ma anche di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell'edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole (Cass. II, n. 6624/2012); per la legittimità dell'aggancio di una tenda alla soletta del balcone dell'appartamento sovrastante v. Trib. Napoli 11 aprile1994). Le cose cambiano, però, come poc'anzi accennato, qualora si tratti non di balconi aggettanti, bensì di balconi incassati nell'edificio condominiale, la cui balaustra sia collocata sulla linea ideale della facciata: in questo caso il solaio che separa e divide l'appartamento sovrastante da quello sottostante, appartenenti a diversi proprietari, deve ritenersi di proprietà comune tra i proprietari dei due piani, costituendo l'inscindibile struttura divisoria tra le due proprietà (Cass. II, n. 3178/1991; Cass. II, n.13606/2000). Ecco allora che il proprietario del balcone incassato al piano inferiore può installare le tende utilizzando il solaio superiore. TerrazzeÈ stata riconosciuta la sussistenza di una innovazione, tale da richiedere la deliberazione prevista dall'art. 1120, in caso di trasformazione della copertura a terrazza dell'edificio con l'installazione di un tetto a falde tegolate, così da eliminare radicalmente i gravi problemi di infiltrazione registrati nel corso del tempo (App. Catania 22 aprile2008). La trasformazione in balcone o terrazzo, ad opera di un condomino, di una o più finestre del suo appartamento, all'uopo ampliando le aperture esistenti, a livello del suo appartamento, nel muro perimetrale comune, ed innestando a questo lo sporto di base del balcone o terrazzo, non importano una innovazione della cosa comune a norma dell'art. 1120 c.c. bensi soltanto quell'uso individuale della cosa comune, il cui ambito e i cui limiti sono disciplinati dagli artt. 1102 e 1122 c.c. (Cass. II, n. 2676/1980). Nell'ipotesi del condomino che trasformi una parte del tetto di copertura dell'edificio condominiale in terrazza destinata a suo uso esclusivo si configura non un'innovazione ex art. 1120 c.c., bensi una violazione del divieto posto dal precedente art. 1102 c.c. di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri proprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. II, n. 4579/1981). La rimozione di una parte della falda del tetto condominiale per consentire la creazione di un terrazzino di uso esclusivo annesso all'appartamento sottostante integra innovazione – da approvarsi dall'assemblea condominiale ex art. 1120 c.c. – anche in mancanza di lesione dell'estetica dell'edificio (per non essere il terrazzino visibile dalla strada), comportando l'alterazione materiale di una parte comune (quale è il tetto) ed una modificazione della sua destinazione (Trib. Milano 7 aprile2017). Tetto, lucernarioValgono, in proposito, principi analoghi a quelli che si sono illustrati con riguardo ai muri comuni. Integra perciò uso legittimo della cosa comune l'apertura nel tetto comune di abbaini e finestre per dare aria e luce alla proprietà individuale: il condomino proprietario del piano sottostante al tetto comune può cioè aprire su di esso degli abbaini e delle finestre per dare aria e luce alla sua proprietà, senza necessità della previa approvazione dell'assemblea perché costituiscono modifiche e non innovazioni vere e proprie, le quali sono configurabili solo per nuove opere che immutano la sostanza o alterano la destinazione delle parti comuni, in quanto ne rendono impossibile l'utilizzazione secondo la funzione originaria e che debbono pertanto essere deliberate dall'assemblea nell'interesse di tutti i condòmini (Cass. II, n. 17099/2006). È parimenti legittima l'installazione di tre comignoli sul tetto comune (Cass. II, n. 8040/1990; Trib. Milano 30 dicembre1991). Viceversa, la trasformazione di una parte del tetto o del terrazzo di copertura dell'edificio condominiale in terrazza destinata a suo uso esclusivo si configura non come innovazione ex art. 1120 c.c., bensì come violazione del divieto posto dal precedente art. 1102 c.c. di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri proprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto, neppure ricorrendo un'ipotesi di legittima sopraelevazione (Cass. II, n. 5753/2007; Cass. II, n. 972/2006; Cass. II, n. 4579/1981). Ai sensi dell'art. 1127, costituisce infatti «sopraelevazione» l'intervento edificatorio che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato condominiale, mediante occupazione della colonna d'aria soprastante. Ne consegue che, ove il proprietario dell'ultimo piano abbatta parte della falda del tetto e della muratura per la costruzione di una terrazza, con utilizzazione per uso esclusivo di parte del sottotetto di proprietà di altro condomino, siffatta modifica integra un uso non consentito delle cose comuni e, dunque, innovazione vietata, giacché le trasformazioni strutturali realizzate determinano l'appropriazione definitiva di cose comuni alla proprietà esclusiva, con conseguente lesione dei diritti degli altri condomini, i quali non possono più godere della camera d'aria costituita dal sottotetto sovrastante non praticabile, con conseguente maggiore incidenza dei fattori climatici sui loro sottostanti appartamenti (Cass. II, n. 19281/2009). Il principio, che pareva consolidato, è stato ribaltato da una decisione, già ricordata, secondo cui la trasformazione in questione sarebbe legittima, se modesta, in ossequio ad esigenze di solidarietà (Cass. II, n. 14107/2012; v. pure Cass. II, n. 2500/2013).Osserva la pronuncia del 2012 come un ripetuto orientamento della Suprema Corte tramandi che la trasformazione in terrazzo del tetto di copertura di un edificio condominiale ad opera del condomino proprietario del piano adiacente e non sottostante e l'annessione del terrazzo alla sua proprietà esclusiva, mediante creazione di un accesso diretto per uso a lui solo riservato, è illegittima, in quanto tale attività, oltre a non essere riconducibile all'esercizio del diritto di sopraelevazione attribuito al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale, realizza, per un verso, alterazione unilaterale della funzione e destinazione, di mera copertura e protezione delle sottostanti strutture, propria del tetto preesistente, e, per altro verso, comporta appropriazione di cosa comune, che integra violazione dei diritti di comproprietà e delle inerenti facoltà di uso e godimento (secondo la sua natura) spettanti agli altri condomini in ordine a parte comune dello edificio. Si è detto pertanto che la eliminazione del tetto dell'edificio trasformato dal proprietario dell'ultimo piano in terrazza ad uso esclusivo è illegittima perché impedisce agli altri condomini di poterlo utilizzare per quella finalità. Si è aggiunto che è illegittima la trasformazione, perché la cosa comune viene sottratta all'utilizzazione da parte degli altri condomini, ed è mutato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, avuto riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. In tal senso – viene ricordato – la Suprema Corte si è pronunciata anche in un caso nel quale i proprietari esclusivi di tutto il sottotetto avevano asportato una «minima» porzione, pari a 9 mq su 150 mq di estensione. Il Collegio ha reputato che questo orientamento debba essere ripensato sotto più profili. In primo luogo è stata evidenziata una linea di incoerenza di esso con quella giurisprudenza, rafforzatasi nel corso di questi anni, che dà facoltà ai condomini di aprire porte e finestre nei muri perimetrali. È da tempo ricorrente l'affermazione che l'ampliamento o l'apertura di una porta o finestra, da parte di un condomino, o la trasformazione di una finestra, che prospetta il cortile comune, in porta di accesso al medesimo, mediante l‘abbattimento del corrispondente tratto del muro perimetrale che delimita la proprietà del singolo appartamento, non costituisce, di per sè, abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune. Si è giustificata questa valutazione, osservando che tale opera non comporta per i condomini una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'art. 1102, comma 1 c.c., rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro non sia volta ad ovviare a una interclusione, ma si correli soltanto all'intento di conseguire una più comoda fruizione dell'unità immobiliare da parte del suo proprietario. Fermo l'obbligo di non pregiudicare il decoro architettonico dell'edificio, è stato sancito pertanto più volte che il condomino può aprire nel muro comune dell'edificio nuove porte o finestre o ingrandire quelle esistenti, trattandosi di opere di per sè non incidenti sulla destinazione della cosa. Si è ritenuta anche legittima l'apertura di vetrine da esposizione nel muro perimetrale comune, mediante la demolizione della parte di muro corrispondente alla proprietà esclusiva. Si è precisato che funzione dei muri perimetrali di un fabbricato condominiale è non solo di recingere l'edificio e sorreggere le strutture, ma anche di contenere le porte, le finestre, i balconi etc. L'utilizzazione del muro può consistere nella creazione o ampliamento di aperture. Tale facoltà è stata ammessa tuttavia anche con riguardo al tetto degli edifici, affermando che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce alla sua proprietà, purché le opere siano a regola d'arte e non pregiudichino la funzione di copertura propria del tetto, né ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo. Questa ormai pacifica facoltà di frantumare l'unitarietà strutturale del bene perimetrale (muro o tetto che sia) fa dubitare circa la fondatezza della perentoria affermazione di divieto di modesti tagli del tetto. Qualora detti tagli diano luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, può dirsi che rientrino nell'ambito delle opere consentite al singolo condomino. Dal punto di vista strutturale si può dar luogo a interventi meno vistosi della realizzazione di un abbaino, che, se attuati con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali, sono compatibili con il mantenimento della destinazione della cosa locata. Questa considerazione, formulata per assimilazione tra diverse opere che incidono su una parte perimetrale dell'edificio (muro o tetto), deve essere verificata alla luce dei due concetti fondamentali di destinazione della cosa comune e di pari uso della cosa comune. La Suprema Corte ha ritenuto di muovere da quest'ultimo. La giurisprudenza di legittimità, in uno degli svolgimenti più acuti in materia, ha stabilito che la nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l'art. 1102 c.c. – che in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c. è applicabile anche in materia di condominio negli edifici – non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri. Essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto. Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell'istituto di cui all'art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative. Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti non è coerente, né credibile, intendere la clausola del «pari uso della cosa comune» come veicolo per giustificare impedimenti all'estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo. Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione. Non lo si può chiedere in funzione di un'astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento, ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l'uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti. Se è intuitivo che non è conforme a diritto impedire al proprietario del sottotetto di installare una finestra da tetto perché il proprietario di un piano intermedio non potrebbe fare altrettanto, è inevitabile interrogarsi sulla nuova frontiera tra uso consentito della cosa comune e alterazione di essa, alla luce da un lato del principio solidaristico e dall'altro delle moderne possibilità edificatorie. La destinazione della cosa, di cui è vietata l'alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz'altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene. Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell'edificio. Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un'opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio. Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa. La risposta deve essere negativa, perché per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale. Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso. Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione. La soluzione non persuade. Il principio solidaristico viene trasformato in un passepartout utile a qualunque scopo, anche quello di appropriarsi del tetto comune per farne una terrazza propria. È stata più di recente giudicata legittima, non costituendo «nuova fabbrica» in sopraelevazione, agli effetti dell'art. 1127 c.c. – e dunque in considerazione della peculiarità di detta installazione, ma secondo un impianto motivazionale che recepisce piuttosto il tradizionale orientamento secondo cui il proprietario dell'ultimo piano non può tagliare il tetto e farne una terrazza –, la cosiddetta «altana» veneziana, la quale a differenza delle terrazze e dei balconi, normalmente non sporge dal corpo principale dell'edificio, dando luogo ad un intervento che non comporta lo spostamento in alto della copertura, mediante occupazione della colonna d'aria sovrastante il medesimo fabbricato, quanto, piuttosto, la modifica della situazione preesistente, attuata attraverso una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte del tetto comune, con relativo potenziale impedimento all'uso degli altri condòmini (Cass. II, n. 5039/2013). La Suprema Corte ha ritenuto innanzitutto opportuno definire la natura e la struttura dell'altana, che costituisce un manufatto particolare tipico, soprattutto (ma non solo), della città di Venezia (e la controversia in esame era riferita proprio ad una costruzione di questo genere sita nel capoluogo Veneto). L'altana (chiamata anche «belvedere») è, in sostanza, una piattaforma o loggetta realizzata (di regola in legno, con sua relativa precarietà) nella parte più elevata di un edificio (ed alla quale si accede, in genere, dall'abbaino, altro tipico elemento dell'architettura veneziana), che, in alcuni casi, può anche sostituire il tetto e che, a differenza delle terrazze e dei balconi, non sporge, di norma, rispetto al corpo principale dell'edificio di pertinenza. Tanto premesso, afferma la pronuncia che la sopraelevazione di cui all'art. 1127 c.c. si configura nei casi in cui il proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche in senso proprio ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie, ma non anche quando egli intervenga con opere di trasformazione relative all'utilizzazione del tetto che, per le loro caratteristiche strutturali (come quelle riconducibili ad un manufatto che occupi parzialmente la superficie del tetto stesso senza costituire un innalzamento, in senso stretto, in continuità ed in sovrapposizione rispetto all'ultimo piano), siano idonee a sottrarre il bene comune alla sua destinazione in favore degli altri condomini e ad attrarlo nell'uso esclusivo del singolo condomino. In tal senso, quindi, ai sensi del citato art. 1127 c.c., costituisce sopraelevazione soltanto l'intervento edificatorio che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato condominiale, mediante occupazione della colonna d'aria soprastante. E, del resto, la giurisprudenza di questa Corte è concorde anche nel rilevare che, in tema di condominio, sono legittimi, ai sensi dell'art. 1102 c.c., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno, con la conseguenza che, per converso, deve qualificarsi illegittima la trasformazione – anche solo di una parte – del tetto dell'edificio in terrazza ad uso esclusivo del singolo condomino, risultando in tal modo alterata la originaria destinazione della cosa comune, sottratta all'utilizzazione da parte degli altri condomini. Ad avviso della Suprema Corte, la corte territoriale si era correttamente uniformata ai richiamati principi escludendo che l'altana potesse costituire propriamente una sopraelevazione, continuando a fungere da copertura dell'edificio la parte di tetto su cui insisteva la sua struttura e, ancorché essa sia qualificabile come una costruzione, non rappresenta, però, l'espressione del diritto di sopraelevazione da intendere nei precisati sensi. Il giudice di appello ha, infatti, accertato, in virtù di un percorso argomentativo esaustivo e logico fondato su idonei accertamenti di fatto avallati anche dalle risultanze della c.t.u., che non poteva ritenersi intervenuta l'edificazione di un nuovo piano o, comunque, di una nuova fabbrica, consistendo l'altana, piuttosto, in una modifica della situazione preesistente mediante una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte della porzione comune con relativo impedimento agli altri condomini dell'inerente uso (con correlata violazione del divieto stabilito dall'art. 1120, comma 2, c.c.), essendo indubbio che gli altri condomini erano rimasti privati delle potenzialità di uso (come quelle, ad es., riconducibili alla possibilità di installazione di antenne e alla riparazione o manutenzione della copertura stessa) della parte di tetto occupata dalla struttura dell'altana a beneficio esclusivo della condomina. Nè coglieva nel segno l'argomentazione secondo cui, ai fini della qualificazione dell'altana come sopraelevazione, si sarebbe dovuto tener conto anche del disposto di cui all'ultimo comma dell'art. 1127 c.c. (che disciplina i criteri di computo dell'indennità da corrispondere agli altri condomini in relazione al valore attuale dell'area da occuparsi), in virtù del quale si dovrebbe considerare come sopraelevazione ogni «nuova fabbrica», la cui superficie utile, di calpestio, si vada ad aggiungere alle superfici preesistenti e si ponga sopra la linea terminale dell'ultimo piano preesistente. Invero, deve, innanzitutto, considerarsi che il concetto generale di «sopraelevazione» è evincibile dal comma 1 del citato art. 1227 c.c., il quale pone riferimento all'attività di «elevazione» di nuovi piani o nuove fabbriche, mentre nei commi successivi esso viene meramente richiamato ad altri fini. L'uso del termine «elevazione» (e non di «utilizzazione») implica – come già, oltretutto, evidenziato precedentemente – la conseguenza che la nuova costruzione debba necessariamente connotarsi per la sua idoneità a produrre un sollevamento ovvero un innalzamento ad un'altezza superiore rispetto al piano originario, mediante l'occupazione della colonna d'aria soprastante. La disposizione dell'ultimo comma dello stesso art. 1127 c.c., nella parte in cui pone riferimento «all'area da occuparsi con la nuova fabbrica» è diretta, in effetti, a dettare un semplice criterio di calcolo dell'indennità da corrispondere agli altri condomini in caso di sopraelevazione in senso stretto e la parte finale di detto comma avalla tale interpretazione, imponendo a colui che esegue una sopraelevazione l'obbligo di mantenere i diritti di uso e godimento che i condomini avevano in precedenza sulla copertura. Il riferimento specifico del comma in questione al lastrico solare, di cui si impone l'obbligo della ricostruzione nel caso in cui preesista alla sopraelevazione, ha la mera funzione di evidenziare l'impossibilità di interscambiabilità di un tipo di copertura rispetto ad un altro e di impedire, così, al proprietario dell'ultimo piano di sostituire il lastrico con altra forma di copertura (come potrebbe essere, ad es., quella di un tetto a falde). La giurisprudena di merito dissente dall'orientamento largheggiante di cui in precedenza si è dato conto, avendo escluso che il condomino proprietario dell'ultimo piano possa rimuovere una parte della falda del tetto condominiale per realizzare un terrazzo a tasca, in assenza di una delibera assembleare che legittimi tale innovazione con le maggioranze previste dall'art. 1120 c.c. (Trib. Milano 7 aprile2017). Quanto al lucernario, salvo che diversamente risulti dal titolo, esso è proprietà comune, dunque, è illegittima l'opera del privato condomino che ne elimini o soltanto riduca l'utilità prestata a scapito di tutti i condòmini ed a proprio esclusivo beneficio (Cass. II, n. 15848/2012). Transito veicolareL'uso anche a transito veicolare della cosa comune, già adibita a solo transito pedonale, non concreta un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c. Esso infatti, non costituisce mutamento di destinazione, non comportando alcuna trasformazione o modificazione della consistenza o sfruttamento per fini diversi da quelli precedenti, ma soltanto una più ampia utilizzazione della cosa comune, che l'assemblea dei condòmini può deliberare con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. oggi comma 4 (Cass. II, n. 11943/2003). Nel caso in cui il condomino, autorizzato dalla delibera dell'assemblea ad installare, a servizio del proprio laboratorio, un macchinario sul cortile del fabbricato, abbia stabilmente occupato una determinata superficie (nella specie, di circa quattro metri quadrati) dell'area comune condominiale, utilizzata in parte come strada di comunicazione con la pubblica via ed in parte come cortile, deve ritenersi realizzata una sottrazione definitiva di tale parte del suolo comune alla sua naturale destinazione ed all'altrui godimento, in relazione alle restrizioni che il suddetto impianto comportava per lo spazio di manovra degli automezzi di trasporto e per le relative operazioni di carico e scarico della ditta del condomino confinante, con conseguente configurabilità della violazione dell'art. 1120, comma 2, c.c., oggi comma 4, avendo la impugnata delibera assembleare determinato la modifica della destinazione originaria di una parte comune con pregiudizio, per l'altro condomino, del godimento della stessa (Cass. II, n. 23608/2006). Tra gli usi propri cui è destinato un cortile comune si deve annoverare la possibilità, per i partecipanti alla comunione, di accedere ad un'autorimessa di loro esclusiva proprietà anche con mezzi meccanici, senza che la destinazione della cosa comune al traffico anche veicolare in loro favore possa considerarsi una innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120 (Cass. II, n. 21256/2009). Ricorda la pronuncia che nella giurisprudenza della Suprema Corte si è avuto modo di precisare che il partecipante alla comunione può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso, o di non impedire l'altrui pari uso. La nozione di pari uso della, cosa comune cui fa riferimento l'art. 1102 c.c. non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto. Invero, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto. Al contrario, lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri, non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione). In sostanza, l'uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare. In particolare, si è poi affermato che tra gli usi propri cui è destinato un cortile comune si deve annoverare la possibilità, per i partecipanti alla comunione, di accedere ai rispettivi immobili anche con mezzi meccanici al fine di esercitarvi le attività – anche diverse rispetto a quelle compiute in passato – che non siano vietate dal regolamento condominiale, poichè tale uso non può ritenersi condizionato ne dalla natura dell'attività legittimamente svolta nè dall'eventuale, più limitata forma di godimento del cortile comune praticata nel passato). Nel quadro di tali principi, ha ritenuto la Suprema Corte che il ricorso fosse fondato e che meritasse quindi accoglimento. Premesso che la materia del contendere concerneva esclusivamente la possibilità, per i ricorrenti, di accedere con un autoveicolo alla rimessa di loro esclusiva proprietà e non anche la possibilità di parcheggiare l'autoveicolo stesso nel cortile condominiale, è stato rilevato che, pur muovendo dalla condivisione dei principi enunciati, la corte d'appello aveva ritenuto che, nel caso di specie, l'uso della cosa comune richiesto dai ricorrenti fosse incompatibile con il concorrente uso della medesima cosa comune da parte degli altri condomini. Singolarmente, peraltro, la Corte d'Appello ha apprezzato tale incompatibilità non solo con la consolidata destinazione della cosa comune al passaggio pedonale, ma anche con il contemporaneo transito veicolare da parte degli altri condomini, quanto meno al fine di eseguire operazioni di carico e di scarico di merci. Se dunque un simile uso della cosa comune è stato ipotizzato dalla corte d'appello a favore dei condomini, che potrebbero accedere all'androne condominiale non solo a piedi ma anche con autoveicoli per effettuare operazioni di carico e di scarico, non si vede perché l'uso analogo da parte dei ricorrenti sarebbe lesivo del pari uso della cosa comune e dell'art. 1102 c.c. La contraddizione della motivazione della sentenza impugnata è stata giudicata pertanto evidente. Paradossalmente, nella ricostruzione della corte d'appello solo ai ricorrenti, proprietari di un locale destinato a rimessa sarebbe precluso l'accesso veicolare, laddove agli altri condomini sarebbe possibile accedere al solo androne con autoveicoli per effettuare il carico e lo scarico di beni. La Corte d'Appello avrebbe infatti dovuto spiegare le ragioni per le quali quello che potrebbe costituire il pari uso della cosa comune sarebbe consentito agli altri condomini e non anche ai ricorrenti, i quali, in aggiunta alla posizione di comproprietari della cosa comune, rivestono la qualità di proprietari esclusivi dei locali che si aprono sulla cosa comune. Nè possono essere condivise le osservazioni del condominio controricorrente, secondo il quale l'uso della cosa comune preteso dai ricorrenti determinerebbe la trasformazione dell'uso del bene comune in uso esclusivo dello stesso in favore dei ricorrenti. Infatti, posto che il transito veicolare è ipotizzato dalla stessa Corte d'Appello come possibile utilizzo da parte degli altri condomini, sarebbe contraddittorio ritenere, come la Corte d'Appello ha fatto e come il condominio controricorrente sostiene, che il transito veicolare muterebbe la destinazione della cosa comune ove effettuato dai ricorrenti per condurre i propri autoveicoli nella rimessa di proprietà esclusiva. È stato osservato poi che, ove si ammettesse la possibilità, che la stessa Corte d'Appello ipotizza, di un transito veicolare per il carico e lo scarico di beni da parte degli altri condomini, il problema della incompatibilità di detto transito con la incolumità dei pedoni risulterebbe del tutto depotenziato e logicamente inidoneo a precludere la destinazione della cosa comune al transito veicolare richiesto dai ricorrenti. Meritevole di censura appare altresì l'affermazione della Corte d'Appello secondo cui la destinazione della cosa comune al transito anche veicolare in favore dei ricorrenti determinerebbe una innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120 c.c. In proposito, è stato ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di condominio negli edifici, la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all'entità e qualità dell'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto. Orbene, la sentenza impugnata, nella parte in cui aveva affermato che, in assenza di opere materiali, la destinazione dell'accesso all'androne dell'edificio anche al transito dei veicoli diretti all'unica rimessa che si affacciava sul cortile condominiale, in un contesto in cui, secondo la stessa Corte d'Appello, poteva ipotizzarsi l'accesso all'androne con veicoli da parte degli altri condomini, contrastava con l'indicato principio, poichè non emergeva dalla situazione descritta dalla Corte d'appello la riconducibilità del diverso e più intenso uso della cosa comune alla nozione di innovazione, vietata. Vasi, vaschetteLa delimitazione con vaschette in cemento di un'area comune sin dall'origine non destinata al passaggio non pregiudica il diritto dei condomini sulle cose comuni, non costituisce innovazione e non richiede nemmeno una preventiva decisione dell'assemblea (Trib. Parma 11 luglio1991). Tale intervento, infatti, non solo non comporta un'alterazione dell'entità sostanziale del bene o un apprezzabile modifica del suo aspetto esteriore, ma non modifica neppure il tipo di utilizzazione dell'area da parte dei condomini. Viale di accessoÈ legittimo il restringimento di un viale di accesso pedonale, qualora non integri una sostanziale alterazione della destinazione e della funzionalità della cosa comune, non la renda inservibile o scarsamente utilizzabile per uno o più condomini, ma si limiti a ridurre in misura modesta la sua funzione di supporto al transito pedonale, restando immutata la destinazione originaria (Cass. II, n. 11936/1999). BibliografiaAlvino, Innovazioni condominiali ed irrilevanza dell'eventuale autorizzazione concessa dall'autorità amministrativa, in Giust. civ. 1976, I, 291; Annunziata, Il parcheggio tra disciplina speciale e normativa sul condominio, in Riv. giur. edil. 2004, I, 1888; Berri, Diritto di proprietà e limiti per il condominio che effettui opere che diminuiscono la sicurezza del fabbricato, in Giur. it. 1980, I, 2, 168; Biondi, Uso della cosa comune e limiti legali della proprietà, in Giust. civ. 1961, I, 987; Biondi, Disciplina del condominio e limiti legali della proprietà in senso verticale, in Foro it. 1957, I, 940;Bordolli, Condominio ed art. 889 del codice civile: analisi dei principali problemi, in Immobili e proprietà 2010, 15; Bordolli, Videosorveglianza in condominio e tutela della privacy, in Immobili e proprietà 2005, 73; Bozza, La distanza delle costruzioni dalle vedute nel condominio, in Giust. civ. 1992, I, 2838; Branca, Distanze legali e condominio, in Foro it. 1952, I, 1166; Branca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. S.B., Libro III. Della proprietà, Roma-Bologna, 1982; Branca, Trasformazione dell'impianto di riscaldamento e manutenzione straordinaria, in Dir. e giur. 1970, 422; Cappabianca, Regolamento di condominio e vincoli di destinazione degli immobili di proprietà esclusiva, in Giust. civ. 1995, 615; Carbone, Condominio: conflitto tra interessi comuni e interessi individuali, in Corr. giur. 1997, 1304; Celeste, Le vicende modificative, in Trattato dei diritti reali, diretto da Gambaro e Morello, Milano, 2012; Celeste, Solidarietà ed egoismi a 10 anni dall'entrata in vigore della legge sul superamento delle barriere architettoniche, in Arch. loc. 1999, 565; Cesaria, Il cambio di destinazione di una cosa comune non rientra nel diritto di sopraelevazione, in Guida dir. 1997, 26, 45; Conserva, Art. 1120. Innovazioni, in Codice civile annotato diretto da Perlingieri, Torino, 1980; Corona, I regolamenti di condominio, Torino, 2004; Corona, Regolamento di condominio, in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 984; Corona, Rassegna di giurisprudenza in materia di condominio negli edifici: l'uso delle cose comuni, in Riv. giur. edil. 1962, 235; Coscetti, La nozione di sopraelevazione nelle pronunce giurisprudenziali, in Riv. giur. edil. 2010, I, 81; Coscetti, Apertura di un varco nel muro perimetrale di un edificio condominiale ed uso indebito della cosa comune, in Riv. giur. edil. 2009, 1490; Coscetti, La lesione del decoro architettonico e la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per erronea ripartizione degli oneri condominiali e per violazione delle norme urbanistiche ed edilizie, in Riv. giur. edil. 2009, I, 1744; Costantino, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 1967; Cuffaro, Installazione di antenne paraboliche o satellitari ad utilizzazione collettiva dei condòmini e maggioranza assembleare necessaria per deliberare, in Arch. loc. 2001, 503; Cuffaro, Il regolamento di condominio, in Arch. loc. 2000, 829; Damiani, Parametri di apprezzamento della tollerabilità delle immissioni e regolamenti condominiali, in Riv. giur. ambiente 1993, 705; D'Ascola, Il condominio e il concetto di decoro architettonico, in Nuova giur. civ. comm. 1988, 388; Del Buono, Clausole «regolamentari» e clausole contrattuali nel regolamento di condominio, in Giust. civ. 2006, I, 2892; Dello Sbarba, L'alterazione del decoro architettonico tra danno estetico e pregiudizio economico, in Riv. giur. edil. 2010, I, 89; De Tilla, Delibera condominiale e installazione dell'ascensore, in Arch. loc. 2013, 34; De Tilla, Sulla delibera assembleare di destinazione del cortile a parcheggio di autovetture, in Arch. loc. 2013, 208; De Tilla, Condominio e concessione edilizia, in Arch. loc. 2012, 531; De Tilla, Il regolamento contrattuale di condominio e le limitazioni alla destinazione delle unità immobiliari, in Arch. loc. 2010, 284; De Tilla, Sulla delibera condominiale di parcheggio dell'autovettura nel cortile, in Arch. loc. 2004, 444; De Tilla, Sulla legittimità dell'installazione della canna fumaria all'interno del muro comune, in Arch. loc. 2004, 559; De Tilla, Regolamento di condominio e divieto di destinazione, in Arch. loc. 2001, 418; De Tilla, Sull'appoggio di una canna fumaria al muro condominiale, in Rass. loc. 2001, 132; De Tilla, Condominio di edifici e decoro architettonico, in Arch. loc. 2000, 236; De Tilla, Sull'apposizione di una vetrina sul muro perimetrale, in Riv. giur. edil. 1998, 843; De Tilla, Sulla soppressione del servizio di portierato, in Riv. giur. edil. 1996, I, 54; De Tilla, Sull'installazione dell'ascensore nel condominio e problematiche connesse, in Arch. loc. 1996, 393; De Tilla, Installazione dell'ascensore nel condominio e norme dirette a favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche, in Giust. civ. 1995, I, 167; De Tilla, Opere eseguite dal condomino sulla proprietà esclusiva, in Giust. civ. 1995, I, 2143; De Tilla, Sull'installazione della canna fumaria e l'autorizzazione assembleare, in Riv. giur. edil. 1994, I, 714; De Tilla, Regolamento di condominio, clausole limitative e immissioni intollerabili, in Giust. civ. 1992, I, 2413; De Tilla, Criteri per la individuazione delle innovazioni vietate in relazione alle caratteristiche, alla destinazione ed all'uso delle cose comuni, in Giust. civ. 1990, I, 421; Ditta, Ancora sul problema dell'ambito di applicazione della legge 13 gennaio 1989, n. 13 (sull'eliminazione delle barriere architettoniche), in Nuova giur. civ. comm. 1995, I, 649; Ferrari, Superamento ed eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati e pubblici aperti al pubblico nella giurisprudenza del giudice delle leggi, amministrativo e ordinario, in Giur. merito 2012, 1410; Gaiotti, Innovazioni e diritto all'uso nel condominio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1963, 897; Giardino, In tema di barriere architettoniche, in Foro it. 2001 474; Girino-Baroli, Condominio negli edifici, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988; Iannuzzi, Innovazioni vietate e regolamento di condominio, in Giur. merito 1975, I, 89; Ieva, Condominio negli edifici. III) Parcheggio (destinazione a), in Enc. giur., VIII, Treccani, Roma, 1993; Ieva, Condominio negli edifici. III) Parcheggio (destinazione a), in Enc. giur., XVI, Agg., Treccani, Roma, 2007; Izzo, L'ascensore per il disabile in condominio: una giusta e forse definitiva soluzione costituzionalmente orientata, in Giust. civ. 2012, I, 1454; Izzo, Contenimento energetico e maggioranze condominiali, in L'evoluzione del condominio (Atti del Convegno di studi in memoria di Lino Salis, tenutosi a S. Margherita di Pula il 21 e 22 settembre 2007), Milano, 2008, 197; Izzo, Gli alberi nel condominio, in Giust. civ. 2011, I, 875; Izzo, La tutela del decoro architettonico dell'edificio come limite all'uso della cosa comune, in Giust. civ. 2004, I, 2725; Izzo, Antenne paraboliche, in Rass. loc. 2001, 187; Lazzaro, Il condominio dopo la riforma, Milano, 2012; Lazzaro, Dal riscaldamento centralizzato agli impianti unifamiliari a gas, Milano, 1996; Lisi, Art. 1122, in Comm. Gabrielli, Della proprietà, III, a cura di Jannarelli-Macario, Torino 2013; Lorenzi, Sull'impugnativa di delibera condominiale per la sostituzione del portiere con un lavascale e dispositivi meccanici d'apertura del portone: un particolare concetto di innovazione, in Foro pad. 1966, I, 427; Luminoso, Parcheggio (aree obbligatorie), in Enc. dir., Agg., Milano, 1998; Maglia, Nota a Cass. II, 15 marzo 1993, n. 3090, in Arch. loc. 1993, 495; Manera, Cani «condominiali» e provvedimenti d'urgenza, in Giur. it. 1991, I, 2, 500; Mazzola, Le immissioni, Torino, 2004; Mirenda, Vetrina aperta sul muro perimetrale comune ex art. 1102, in Rass. loc. 1998, 544; Monegat, La riforma del condominio, Torino, 2013; Nasini, Antenne satellitari: la nuova installazione di antenna parabolica centralizzata è innovazione necessaria, in Arch. loc. 513; Nicoletti, Le innovazioni e la sovraelevazione nel condominio, Padova, 1992; Petrolati, La tutela civile del portatore di handicap nella disciplina sulla eliminazione delle barriere architettoniche, in Arch. loc. 1993, 683; Petrolati-Rinzivillo, Il decoro architettonico, Milano 2004; Pironti, Il diritto del condomino di servirsi della cosa comune non può estendersi a vantaggio di entità immobiliari estranee, in Giust. civ. 2000, I, 91; Pironti, Chiose minime sull'applicabilità dell'art. 907 in tema di tende solari, in Nuovo dir. 1998, 810; Palmieri-Caputi, Distanza delle costruzioni dalle vedute: misure fisse o modello variabile?, in Foro it. 2000, I, 353; Proto, Regolamento di condominio e limitazioni della proprietà: il punto su dottrina e giurisprudenza, in Riv. not. 1986, 661; Ramella, In tema di regolamenti condominiali, in Giur. it. 1983, 819; Riccio, Riflessioni in materia di termoregolazione e contabilizzazione del calore nel condominio, in peritiindustrialicuneo.it; Roma, Le immissioni sonore ritenute vietate dal regolamento condominiale, in Rass. loc. 2001, 367; Sabattini, Il regime di modificabilità del regolamento di condominio, in Not. 2005, 361; Sagna, Poteri e limiti del singolo condomino alla costruzione di un vano nel sottosuolo del fabbricato condominiale, in Nuovo dir. 2001, 815; Salciarini, Immissioni e «normale tollerabilità condominiale», in Arch. loc. 2001, 397; Salis, Nozione di decoro architettonico e limiti al dovere di rispettarlo, in Riv. giur. edil. 1973, I, 703; Salis, Sulla natura innovativa delle opere di sostituzione dell'impianto di ascensore, in Riv. giur. edil. 1971, I, 253; Salis, Riparto delle spese di ricostruzione dell'impianto di ascensore, in Riv. giur. edil. 1970, I, 535; Salis, Impianto di ascensore e distanze legali, in Riv. giur. edil. 1966, I, 462; Salis, Regolamento c.d. contrattuale e poteri della maggioranza, in Riv. giur. edil. 1966, I, 1405; Salis, Servizio di portineria ed impianto citofonico, in Giust. civ. 1966, I, 903; Salis, Opere di manutenzione straordinaria e innovazioni, in Riv. giur. edil. 1965, 1, 1034; Salis, Il condominio negli edifici, Torino, 1959; Santarsiere, Immissioni sonore contrarie alla quiete domestica e difesa del condominio, in Arch. loc. 2002, 424; Santarsiere, Deliberazione condominiale sul portierato: maggioranza richiesta, in Arch. loc. 1990, 286; Satta, Limite d'estensione dell'art. 24 della Costituzione, in Giur. cost. 1971, 577; Scalettaris, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in tema di maggioranza assembleare, per l'installazione nel condominio di impianti di radiodiffusione satellitari, in Arch. loc. 2001, 351; Scarpa, La condominialità dei muri perimetrali, in Riv. giur. edil. 2006, I, 865; Scarpa, Il servizio di portierato, in Immobili e proprietà, 2010, 91; Scarpa, Decoro architettonico ed aspetto architettonico: una riflessione sulla natura reale dei diritti condominiali, in Rass. loc. 1999, 315; Sesta, Rapporti personali di vicinato: immissioni, atti emulativi, privacy, in Riv. not. 2006, 1471; Spagnuolo, Le immissioni nocive, in Rass. loc. 2001, 367; Terzago, Eliminazione delle barriere architettoniche, in Arch. loc. 1996, 5; Terzago, Il condominio. Trattato teorico pratico, a cura di Celeste-Salciarini-Terzago, Milano, 2009; Terzago, I rapporti di buon vicinato, Milano, 1996; Terzago-Ditta, La disciplina dei parcheggi, Milano, 1998; Tortorici, La circolazione degli autoveicoli all'interno del condominio, in Immobili e proprietà, 2009, 219; Triola, Condominio, innovazioni ed esecuzione di opere su parti comuni, in Corr. giur. 2007, 2; Triola, Il condominio, Milano, 2007; Triola, Il condominio, Tr. BES, VII, Beni, proprietà e diritti reali, Torino, 2002; Triola, Condominio e distanze legali, in Giust. civ. 1995, 3, 665; Tucci, In tema di ascensore per disabili, in Giur. it. 2013, 294; Vincenti, Le innovazioni, in Il nuovo condominio, a cura di Triola, Torino, 2013; Visco, Il concetto di innovazione vietata nei rapporti condominiali, in Nuovo dir. 1970, 150; Vitiello, L'installazione dell'ascensore in immobile condominiale tra innovazioni e modificazioni della cosa comune, in Arch. loc. 2000, 440; Zanframundo, Tenda agganciata alla soletta dei balconi «aggettanti»: tempi duri per i proprietari dell'appartamento sovrastante, in Nuovo dir. 2007, 736; Zuccaro, Brevi note in tema di limiti del condomino all'uso della proprietà esclusiva, in Giust. civ. 2002, I, 2905; Zuccaro, Installazione di ascensore: innovazione o modificazione?, in Giur. it. 2000, 11; Zuddas, Regolamenti di condominio e svolgimento di attività industriali in edifici per civile abitazione, in Riv. giur. sarda 2008, 1. |