Codice Civile art. 2377 - Annullabilità delle deliberazioni (1).Annullabilità delle deliberazioni (1). [I]. Le deliberazioni dell'assemblea, prese in conformità della legge e dell'atto sostitutivo, vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti (2). [II]. Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale. [III]. L'impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l'uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre; lo statuto può ridurre o escludere questo requisito. Per l'impugnazione delle deliberazioni delle assemblee speciali queste percentuali sono riferite al capitale rappresentato dalle azioni della categoria. [IV]. I soci che non rappresentano la parte di capitale indicata nel comma precedente e quelli che, in quanto privi di voto, non sono legittimati a proporre l'impugnativa hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. [V]. La deliberazione non può essere annullata: 1) per la partecipazione all'assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell'assemblea a norma degli articoli 2368 e 2369; 2) per l'invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l'errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; 3) per l'incompletezza o l'inesattezza del verbale, salvo che impediscano l'accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione. [VI]. L'impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine di novanta giorni dalla data della deliberazione, ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro novanta giorni dall'iscrizione o, se è soggetta solo a deposito presso l'ufficio del registro delle imprese, entro novanta giorni dalla data di questo (3). [VII]. L'annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. [VIII]. L'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento dell'eventuale danno. [IX]. Restano salvi i diritti acquisiti dai terzi sulla base della deliberazione sostituita. (1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6. (2) Comma inserito dall'art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1o) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37. (3) V. Avviso di rettifica in G.U. 4 luglio 2003, n. 153. InquadramentoNegli ordinamenti di derivazione romanistica di Civil law la tematica delle impugnazioni assembleari risente della tendenza al metodo dogmatico ed in particolare della elaborazione concettuale, di stampo formalistico, del negozio giuridico. La delibera, infatti, è considerata una dichiarazione di volontà collettiva che può essere affetta da vizi, per lo più riconducibili alle ben note categorie della nullità ed annullabilità. La distinzione tra la sanzione di nullità e quella di annullabilità non è presente, peraltro, in tutti gli ordinamenti di tradizione romanistica. In Germania tale dicotomia è stata introdotta nel sottosistema societario con il paragrafo 195 e segg. dell'AktG del 1937 e poi con la legge di riforma delle società per azioni del 1965. In Francia si fa invece ricorso alla figura dell'eccesso di potere (detournement de pouvoir) piuttosto che alla distinzione tra i due vizi. Nella Common law, per contro, si guarda prevalentemente ai problemi nascenti dai rapporti tra blocco di potere e minoranza; con svalutazione dei requisiti formali e sostanziali delle delibere ed il ricorso a strumenti diversi che non riguardano l'impugnazione della delibera in sé, quanto piuttosto il comportamento fraudolento o comunque lesivo degli interessi del socio che ne deriva. Nel nostro sistema la tutela degli interessi del socio è indiretta, tramite l'impugnazione della delibera invalida, per vizi formali. Se l'entrata in vigore del d.lgs. n. 6/2003 ha innovato in misura consistente il diritto societario sostanziale, particolarmente drastico è stato il ridimensionamento dell'ambito dell'impugnazione delle delibere assembleari, ottenuto, nella riformulazione delle norme, con ricorso ad un metodo casistico fin troppo minuzioso per un codice civile. Al riguardo, la legge delega forniva direttive alquanto generiche all'art. 4, settimo comma, lettera b), laddove imponeva di “disciplinare i vizi delle deliberazioni in modo da contemperare le esigenze di tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell'attività sociale, individuando le ipotesi di invalidità, i soggetti legittimati all'impugnativa e i termini per la sua proposizione; anche prevedendo possibilità di modifica e integrazione delle deliberazioni assunte e l'eventuale adozione di strumenti di tutela diversi dalla invalidità”. L'ampio margine di scelta contemplava, in astratto, varie opzioni: onde, il taglio nettamente riduttivo dato, in parte qua, al potere di azione è dovuto ad una linea di politica del diritto perseguita dal legislatore storico. La nuova disciplina, derivata dalla riforma del 2003, dei vizi delle deliberazioni assembleari – nel cui ambito l'art. 2377 è una norma basilare, applicabile anche alle delibere delle assemblee speciali e del consiglio di amministrazione – profondamente riformata, esalta il principio di stabilità che informa la materia societaria, segnando un'attenuazione della differenza fra nullità ed annullabilità (come ad esempio, in tema di irregolarità della convocazione o di incompletezza del verbale, causa dell'annullabilità, e di mancanza del verbale, causa di nullità, di non sempre agevole distinzione). Si aggiunga l'incremento del costo economico e dell'alea delle azioni di annullamento, per le quali occorre la titolarità di una quota di capitale pari al 5% del capitale delle società per azioni cd. chiuse ed all'1/1000 delle società che fanno ricorso al mercato del capitale del rischio; per di più immobilizzata, a pena di improcedibilità dell'azione, fino alla fine del giudizio; laddove, prima bastava il deposito di un'azione. Il metodo collegialeIl primo comma sancisce la regola di maggioranza. La vincolatività della delibera per il socio assente o dissenziente, espressione della regola di maggioranza propria del metodo collegiale, è subordinata alla conformità della delibera alla legge ed allo statuto: anche se tale principio è poi temperato dalla necessità di una soglia minima di partecipazione al capitale per l'impugnazione della delibera (art. 2377, terzo comma). Superata la vecchia distinzione tra annullabilità – che resta, peraltro, la categoria generale – per vizi procedurali e nullità per vizi dell'oggetto, si è prevista una casistica eterogenea, tra cui le nullità per mancata convocazione e per mancanza del verbale, che sono in realtà vizi procedimentali. La legge-delega indicava l'obiettivo di circoscrivere i casi di inesistenza: categoria aperta, di matrice giurisprudenziale, suscettibile di eccessiva dilatazione, che, dopo la riforma, in nessun caso può riguardare vizi procedimentali. Tuttavia, benché la riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6/2003 abbia omesso qualunque menzione del vizio di inesistenza di una delibera assembleare, qualora questa sia assunta con la sola partecipazione di soggetti privi della qualità di socio, resta inesistente, in carenza di un atto imputabile, neppure in via astratta, alla società (Cass. I, n. 26199/2021, in Soc., 2022, 984, con nota di Fortunato). La legittimazione attiva dei sociIl secondo comma contiene un elenco esaustivo dei legittimati all'impugnazione che contempla, innanzitutto, i soci assenti, dissenzienti e, con previsione innovativa, anche astenuti: previsione, peraltro, già anticipata dalla prevalente giurisprudenza e dottrina, sia pure con argomentazioni o sfumature diverse, come ad es., il previo passaggio interpretativo della volontà concretamente sottesa all'astensione: se semplice disinteresse o larvato dissenso (Trib. Genova 18 Marzo 1991, in Soc., 1991, 1384 con nota di Rordorf e richiami dello stesso autore, già allora favorevole alla legittimazione incondizionata del socio astenuto: cfr. Impugnazioni dei deliberati assembleari e consiliari, in Soc., 1992, 1201). Per i soci l'impugnazione costituisce un diritto . Resta però confermata la giurisprudenza consolidata secondo cui l'interesse del socio alla conservazione della consistenza economica dalla società è tutelabile soltanto con strumenti interni, tra cui la possibilità di insorgere contro le deliberazioni invalide; ma non pure agendo direttamente nei confronti dei terzi, per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi tra questi ultimi e la società, unica legittimata a contestare la validità del negozio (Cass. II, n. 29325/2021). Sono legittimati all'impugnazione i soli aventi diritto al voto sull'oggetto della delibera. Non sono invece legittimati i creditori, che pure potrebbero subire un danno riflesso dalla delibera viziata. Al riguardo, si è ritenuto legittimato ad impugnare le deliberazioni anche il socio receduto, qualora abbia un concreto interesse ad agire (Trib. Milano 11 aprile 2019, in Soc., 2020, 189 con nota di Attanasio, ed in Giur.it., 2019, 2679, con nota di Luoni); e tale legittimazione ad impugnare sussiste anche in capo al socio escluso dall'assemblea, seppure il suo voto sia ininfluente per il raggiungimento del quorum deliberativo, non applicandosi in materia la cd. prova di resistenza (Trib. Milano 22 aprile 2021, in Soc., 2022, 433, con nota di Bartalena). La legittimazione dei soci assenti, dissenzienti o astenuti (sottinteso: in assemblea) porta ad escluderla in capo al nuovo socio, entrato nella società dopo la delibera. Il che però apre un vuoto di tutela: i vecchi soci non possono più impugnare per difetto sopravvenuto della titolarità richiesta (Trib. Napoli 10 luglio 2015, in Riv. dir. impr., 2017, 187, con nota di Alfano, in una fattispecie di recesso parziale del socio, la cui partecipazione residua al capitale sociale non era sufficiente al raggiungimento del quorum di cui all'art. 2377), né i nuovi, perché non hanno votato. Si potrebbe forse rimeditare la soluzione, riconoscendo la legittimazione anche agli aventi causa da soci dissenzienti, assenti ed astenuti, con applicazione analogica della disciplina della cessione del contratto, con tutte le ragioni maturate. Tanto più che, simmetricamente, la legittimazione è attribuita agli amministratori e sindaci attuali, anche se non in carica alla data della delibera e che l'art. 2378 richiede la titolarità della quota minima di legittimazione al tempo della impugnazione, e non della delibera. Non sono legittimati, invece, i titolari di azioni di godimento e di strumenti partecipativi ex art. 2346, ultimo comma, che non rappresentano quote di capitale. Dove, peraltro, la riforma ha inciso profondamente in senso innovativo è nell'abbandono della tradizionale legittimazione individuale del socio e nella configurazione, in via di principio generale, di una legittimazione della minoranza, titolare dell'1/1000 nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio e del 5% per le società cd. chiuse: quote di partecipazione, rapportate all'intero capitale per le azioni ordinarie ed invece al capitale rappresentato dalle azioni della categoria per le impugnazioni delle delibere delle assemblee speciali. Disponibili, nello statuto, solo al ribasso (fino all'esclusione totale), devono sussistere alla data di proposizione della domanda e permanere fino alla sentenza. Come si legge nella Relazione d'accompagnamento, l'innovazione è giustificata dalla considerazione che l'annullamento, quando sia richiesto solo dai possessori di partecipazioni assai ridotte, costituisce una reazione sproporzionata all'interesse leso, con un effetto di leva che, come l'esperienza ha dimostrato, si presta ad intollerabili abusi. L'azione di annullamento cessa di essere, pertanto, un diritto individuale del socio uti singulus, per divenire, invece, di spettanza di una minoranza qualificata. L'introduzione del quorum previsto per la tutela reale è volta a contrastare l'ostruzionismo dei cd. disturbatori professionali e ad evitare reazioni sproporzionate rispetto agli interessi lesi; anche se è pur sempre ammessa la possibilità di ridurre, e perfino eliminare, il requisito soggettivo della quota di legittimazione. È opinione concorde in dottrina che, in questo modo, la riforma abbia prodotto una forte riduzione della tutela della minoranza, ispirata da un'esigenza di stabilità dell'attività sociale, parimenti ravvisabile nei limiti posti all'accertamento di nullità della società (art. 2332) ed alla preclusione della pronuncia di invalidità della trasformazione (art. 2500-bis), della fusione (art. 2504-quater) e della scissione (art. 2506-ter, ultimo comma), una volta eseguite le relative iscrizioni. La riforma ha reso ancora più stretto il collegamento tra diritto di voto ed impugnativa ; in applicazione di tale principio sussiste la legittimazione dell'usufruttuario, che può votare, e non del nudo proprietario, salvo convenzione contraria; idem per il creditore pignoratizio ed il custode, nel sequestro giudiziario, munito dell'autorizzazione del giudice (art. 2352, primo comma). In caso di partecipazione sociale soggetta a sequestro preventivo penale, la legittimazione ad impugnare la delibera spetta al custode secondo Trib. Roma 22 febbraio 2021 n. 3099, in Foro it., 2021, 1, 2564). S'intende, comunque, che benché l'azione di annullamento presupponga, quale requisito di legittimazione, la sussistenza della qualità di socio dell'attore non solo alla data di proposizione della domanda, ma anche a quella di decisione della causa, esso non vige nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia evento conseguente alla stessa deliberazione impugnata: ed infatti, qualora l'azione di annullamento della deliberazione sia diretta proprio al ripristino della qualità di socio dell'attore, sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all'art. 24, comma 1, Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti (Cass. civ., I, n. 22784/2014). La tutela della minoranza sottosoglia resta affidata a strumenti risarcitori, peraltro di limitata effettività; in linea con l'analisi economica del diritto che li vuole preferibili ai rimedi demolitori. Si ritiene ammissibile la somma delle quote di più soci ai fini della legittimazione attiva; tanto più che tutte le domande devono essere decise nello stesso giudizio (art. 2378, quinto comma). Non vi sono ragioni ostative al cumulo della domanda di annullamento e di quella risarcitoria , ove l'eventuale esecuzione della delibera viziata abbia già prodotto danni; senza che l'omessa impugnazione da parte del socio, pur titolare della quota di legittimazione – che ha il diritto e non l'obbligo o l'onere di impugnare – importi un concorso di colpa, ai sensi dell'art. 1227. Quanto alla ratio del sistema più restrittivo novellato, vengono in rilievo le esigenze di certezza, stabilità e rapidità di decisioni di enti che operano nel campo delle attività economiche, instaurando una serie pressoché indefinita di rapporti con terzi. L'art. 2377 mostra di aver riguardo al procedimento, piuttosto che al contenuto deliberativo; anche sotto il profilo della legittimazione ad agire, circoscritta ai soggetti esplicitamente menzionati, senza il requisito dell'interesse ad agire, che in una fattispecie compiutamente regolata nei suoi elementi essenziali sembra davvero la quinta ruota del carro (Cass. I, n. 10814/1996). La legittimazione attiva degli organi socialiLa norma attribuisce la legittimazione attiva anche agli amministratori, al consiglio di sorveglianza ed al collegio sindacale: per i quali si deve parlare di un potere-dovere, la cui omissione, dando luogo al consolidamento di una delibera illegittima, potrebbe anche essere fonte di responsabilità. In senso parzialmente difforme, qualche autore distingue tra il vero e proprio obbligo dei sindaci di impugnare la delibera non conforme a legge o statuto – rientrante nella funzione di vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto – e la discrezionalità degli amministratori, che dovrebbero tener conto, invece, degli interessi della società e decidere, di conseguenza, se impugnare o no (Chiappetta, 274). La ratio del potere d'impugnazione degli amministratori non è la tutela vicariale dei soci, perché sussiste anche nella società unipersonale, dove sarebbe improprio anche il riferimento all'interesse della società, riecheggiando suggestioni istituzionalistiche; né l'alquanto vaga tutela del mercato; quanto, piuttosto, il conseguente regime di responsabilità, ove il mancato esercizio dell'azione di annullamento e a fortiori l'attuazione di delibere illegittime possano arrecare pregiudizio al patrimonio sociale ed ai soci. È dubbio se gli amministratori possano impugnare “uti singuli” o collegialmente. Giurisprudenza e dottrina maggioritarie attribuiscono il potere d'azione all'organo collegiale, unitariamente considerato (App. Milano 26 giugno 1987, S.i.o. s.p.a. c. Falciola, in Soc., 1987, 1040; Trib. Roma 22 febbraio 2021 n. 3099; Trib. Roma 20 novembre 2018); salvo che non sia in giuoco l'interesse del singolo amministratore (Trib. Milano 28 luglio 2012, in Giur. it., 2013, 1115, con nota di Boggio; Trib. Milano 11 settembre 1989, in Soc., 1989, 1290, in una fattispecie in cui è stata riconosciuta la legittimazione individuale del membro del consiglio d'amministrazione ad impugnare la delibera assembleare che non l'aveva rieletto nella carica). È rimasta isolata App. Milano 3 novembre 1987 in Giur. it., 1988, 1, 2, 815, che ha negato l'ammissibilità dell'impugnazione degli amministratori in caso di deliberazione approvata all'unanimità dall'intero capitale sociale, sul presupposto che il potere di azione ex art. 2377 c.c. sia attribuito nell'interesse dei soci. In sostanza, il riferimento testuale agli amministratori, anziché al consiglio di amministrazione, sarebbe motivato con il rilievo che non sempre vi è un consiglio di amministrazione; e che, in tal caso, la legittimazione spetta all'amministratore unico. A sostegno della tesi della legittimazione collegiale viene altresì addotto un argomento letterale desunto dalla concorrente legittimazione attiva del collegio sindacale (l'art. 2377 previgente parlava, ambiguamente, di “sindaci”), oltre che del consiglio di sorveglianza: ravvisandosi quindi una simmetria nella composizione degli organi sociali enumerati (Salafia, 1177). Forse la saldezza dell'inferenza potrebbe incrinarsi alla luce del disposto di cui all'art. 2479-ter, che, nelle s.r.l, riconosce l'analogo concorso al collegio sindacale ed a ciascun amministratore, escludendo, implicitamente, la necessità logica del parallelismo tra le due figure. Per argomentare la diversa legittimazione nella s.p.a è d'uopo valorizzare la divaricazione di disciplina tra i due tipi di società, invero accentuata con la riforma; magari affissandosi sulla formazione necessariamente assembleare solo nella s.p.a. delle decisioni sociali, o sull'ammissibilità, su base statutaria, dell'amministrazione disgiuntiva nelle s.r.l., come nelle società di persone (art. 2475, terzo comma). La legittimazione del singolo amministratore potrebbe allora riconoscersi solo a fini di esonero da responsabilità , se si ammette un obbligo di disapplicazione anche delle delibere annullabili. Alla Consob e alla Banca d'Italia, portatrici di un interesse pubblico superindividuale, compete pure la legittimazione ad impugnare, entro 180 giorni dalla data della deliberazione, ovvero dalla iscrizione, o dal deposito presso l'ufficio del registro delle imprese, ma solo in ipotesi tassative ed alquanto frastagliate, in cui si può ravvisare un filo conduttore nell'inadeguatezza di una reazione affidata ai soli soci. In concreto, hanno fatto poco uso di tale diritto d'azione, preferendo forme di controllo preventivo basate sulla “moral suasion”. Un esempio di impugnazione della Consob (la cui legittimazione non ha natura straordinaria, a titolo di sostituzione processuale dei soci ex art. 81 c.p.c.) per vizi intrinseci della delibera riguarda l'approvazione dei bilanci delle società quotate, entro sei mesi dal loro deposito (il termine è rimasto espresso in mesi: art. 157, secondo comma, T.U.F.). Risalta evidente la diversità del termine di impugnazione: 90 giorni per il socio (art. 2377, sesto comma), 180 giorni (o sei mesi) per la Consob. La ratio del più lungo termine consiste probabilmente nello spatium deliberandi per sopperire all'eventuale inerzia dei soci, la cui iniziativa renderebbe superflua l'azione. Deferibilità ad arbitriIn ordine alla competenza, si è esclusa la compromettibilità in arbitri, ex art. 806 c.p.c., soltanto per le controversie relative alle impugnazioni di delibere assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, che danno luogo a nullità rilevabili anche ex officio dal giudice, cui sono equiparate, ex art. 2479-ter, quelle prese in assoluta mancanza di informazione: questioni, che attengono a diritti indisponibili. Per contro, l'invalidità della delibera assembleare per omessa convocazione del socio, soggetta alla sanatoria di cui all'art. 2379 bis c.c., può essere devoluta ad arbitri (Cass. VI-I, n. 27736/2018). Non è quindi ammissibile l'arbitrato avente ad oggetto l'impugnazione del bilancio di esercizio, i cui requisiti di chiarezza e precisione sono imposti da norme inderogabili, a tutela di interessi sovraindividuali (Cass. VI-I, n. 12391/2019). La devoluzione in arbitrato non osta, però, alla concorrente competenza del giudice ordinario, in tema di sospensione cautelare della delibera impugnata (Trib. Roma 16 aprile 2018, in Soc., 2018, con nota di Ferrari). La contrarietà a legge e a statutoSotto il profilo oggettivo dei vizi della deliberazione, si è mantenuta la dicotomia negoziale nullità-annullabilità; ma l'invalidità conseguente, tuttora formalmente ancorata alla non conformità alla legge o allo statuto, è stata più rigorosamente ridisegnata, con esclusione espressa di taluni vizi che prima della riforma davano luogo ad annullamento. La distinzione tra vizi che costituiscono causa di annullamento o di nullità della delibera non è sempre agevole. Premessa l'erroneità di meccaniche trasposizioni delle categorie civilistiche in tema negoziale, visto che la delibera non è un contratto, la linea divisiva è ormai attenuata ed esile, tanto che vari vizi sfumano facilmente dall'una all'altra. Si distinguono, tradizionalmente, vizi sostanziali e procedimentali. Il concetto di conformità presuppone un archetipo legale o statutario di riferimento, tale da consentire un sindacato di legittimità (e non di merito). Il modello legale, di cui al secondo comma, può trovare la sua origine in un atto normativo di vario rango nella gerarchia delle fonti: primario (legge, decreto-legge), secondario (regolamenti statali, regolamenti della Consob); o anche sovranazionale (regolamenti comunitari). Natura di chiarimento terminologico, piuttosto che di innovazione reale, riveste l'emendamento apportato al secondo comma dell'art. 2377 mediante la sostituzione dell'atto costitutivo con lo statuto, visto che già prima della riforma si riteneva che parametro di legittimità della delibera fosse l'atto costitutivo inclusivo dello statuto, che ne era parte integrante (art. 2328, ultimo comma). Al riguardo, è da notare la dissonanza, forse dovuta a difetto di coordinamento, tra il primo comma, che fa riferimento all'atto costitutivo ed il secondo, che richiama, invece lo statuto; e secondo parte della dottrina, potrebbe ancora sussistere una violazione dell'atto costitutivo, causa di annullabilità, non coperta dallo statuto. Per contro, non possono costituire parametro di valutazione di legittimità delle delibere i sindacati di voto, di efficacia meramente obbligatoria, vincolanti i soli partecipanti ad esso, e non pure la società, rispetto alla quale sono res inter alios acta. Nel sottosistema di diritto societario la relazione tra le nozioni di annullabilità e nullità è specularmene inversa a quella vigente in materia negoziale. Dal tenore della previsione di contrarietà alla legge ed allo statuto di cui all'art. 2377 c.c. emerge la valenza generale della categoria dell'annullabilità (Cass. I, n. 3457/1999, in Foro it., 1999, 1, 2248); laddove, resta residuale il vizio di nullità, di cui l'art. 2379 c.c. detta una disciplina completa ed autonoma, relegata ad ipotesi tassative, pur se ampliate nella nuova formulazione; ma comunque nettamente ridotte rispetto alla gamma di vizi prevista dall'art. 1418 c.c., che pertanto è inestensibile alle deliberazioni sociali. Nella giurisprudenza più recente si è ritenuto che la deliberazione assembleare di aumento del capitale sociale di una società per azioni, assunta con violazione del diritto di opzione, non dia luogo a nullità, bensì solo ad annullabilità, in quanto tale diritto è tutelato dalla legge in funzione dell'interesse individuale dei soci (Cass. II, n. 2670/2020). L'onere di provare il vizio da cui derivi l'invalidità della delibera grava su chi la impugna : non è quindi la società convenuta che deve dimostrare la veridicità della situazione patrimoniale sottostante alla delibera di aumento del capitale, oggetto della domanda d'annullamento (Cass. I, n. 3946/2018). Il conflitto di interessi e l'abuso del diritto al votoLa tutela reale dell'annullamento della delibera è pure riconducibile alla violazione del dovere di buona fede, quando la delibera risulti artatamente preordinata dai soci maggioritari al solo fine di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero di ledere gli interessi degli altri soci (cd. abuso del diritto: Cass. I, n. 27387/2005, in Giur. comm., 2007, 2, 86, con nota di Frisoli; Cass. I, n. 11151/1995, in Giur. comm., 1996, II, 329 con nota di Aa.Vv.): sebbene la violazione di norme di comportamento dia luogo, di norma, al solo risarcimento del danno. Il punto di partenza è rappresentato dall'art. 2373 c.c. che disciplina il conflitto d'interessi del socio (e dell'amministratore, sulla proposta di autorizzazione dell'azione di responsabilità nei suoi confronti) e costituisce l'unica fattispecie tipizzata, all'interno della categoria concettuale del vizio contenutistico del voto. L'art. 2373 non è norma eccezionale, bensì espressione di un dovere generale di correttezza, buona fede e riconducibilità dell'operato dei soci ad un interesse comune, la cui violazione inficia la manifestazione di volontà: pur in assenza di un rapporto diretto con terzi – e dunque della sua riconoscibilità all'esterno – presupposta dalla norma generale (art. 1394). La riforma societaria ha inciso sulla disciplina del conflitto di interessi, sia del socio, sia dell'amministratore, all'insegna di una liberalizzazione del voto, che ha abolito il previgente, drastico divieto di voto (art. 2373) ed obbligo di astensione (art. 2391); sostituiti dal controllo ex post della delibera, impugnabile in concorso con l'elemento oggettivo del danno, quanto meno potenziale, per la società. L'eccesso di potere e l'abuso del voto , pur non essendo automaticamente identificabili con il conflitto di interessi, si pongono con quest'ultimo in rapporto di contiguità, costituendone una sorta di prolungamento; e se ne differenziano, nella casistica, sotto il profilo soggettivo, essendo quasi sempre fenomeno “di massa”, espressione di una strategia preordinata e non occasionale: come invece può più facilmente accadere nella fattispecie ex art. 2373. In carenza di una norma che delinei il concetto di eccesso di potere o di abuso del diritto (di voto) nelle deliberazioni assembleari, dottrina e giurisprudenza ne hanno tentato, in varia guisa, una ricostruzione concettuale; talvolta distinguendo rigidamente le due nozioni; talaltra, utilizzandole promiscuamente. In generale, se ne è ravvisato il connotato saliente nel perseguimento di fini extrasociali; quando non, più incisivamente, violazione di un dovere positivo di rispondenza della deliberazione all'interesse sociale. Quest'ultima tesi sembra riecheggiare la teoria istituzionalistica dell'interesse dell'impresa in sé, giungendo quasi a configurare in termini vincolistici il voto come “droit-fonction”, piuttosto che come espressione di autonomia privata. L'abuso della regola di maggioranza si atteggia quindi come “species” del “genus” abuso del diritto: un comportamento che formalmente integra gli estremi dell'esercizio del diritto soggettivo e tuttavia resta privo di tutela giuridica perché finalizzato ad un vantaggio disarmonico con la funzione economico - sociale che ne giustifica il riconoscimento. E così, l'abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare, quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (Cass. I, n. 1361/2011; Cass. I, n. 28748/2008; Trib. Milano 22 gennaio 2015, in Soc., 2015, 829, con nota di Salafia). L'aumento di capitale è l'esempio di delibera maggiormente esposta all'abuso del diritto di voto, costituendo la tecnica più raffinata per eliminare gli effetti di una indesiderata partecipazione dei soci di minoranza, impossibilitati a sottoscrivere l'aumento. Si tratta quindi di una delibera formalmente valida, ma sostanzialmente illegittima perché volta a perseguire il fine extrasociale di deprimere ad una quota irrisoria la partecipazione del socio di minoranza, di fatto, estromettendolo dalla compagine. La casistica più recente comprende varie ipotesi di annullamento della delibera assembleare per una causa concettualmente ricondotta all'eccesso di potere. Tale, ad esempio, l'attribuzione di un compenso irragionevole all'amministratore, che riduca la redditività dell'impresa e di conseguenza gli utili da distribuire ai soci, senza alcun interesse per la società (Trib. Napoli 10 maggio 2021 n. 4436). Altre volte, si è parlato, con qualificazione alternativa, di abuso della regola di maggioranza, ove la delibera risulti fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza al solo fine di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ledendo gli interessi degli altri soci, cui spetta l'onere della prova di indicare i sintomi di illiceità della delibera. (Cass. I, n. 20625/2020; Cass. I, n. 10096/2020). Non è, invece, oggetto di tutela la sopravvivenza stessa della società di capitali: onde, la liquidazione è rimessa alla decisione della maggioranza (Trib. Milano 17 giugno 2021, in Soc., 2022, 1455, con nota di Stabilini). Nelle società a partecipazione pubblica, non è la considerazione di interessi pubblici o di finalità sociali nella determinazione delle scelte gestionali, mediante il diritto di voto in assemblea esercitato dal socio pubblico di maggioranza, a viziare la delibera per eccesso di potere o abuso del diritto: salvo che la prevalenza attribuita ai suddetti interessi extrasociali risulti incompatibile con la corretta gestione aziendale societaria, e dunque con l'interesse sociale della partecipata eterodiretta. L'abuso del diritto di voto espone il socio all'obbligo di risarcimento del danno (Cass. III, n. 15726/2021, in Giur. it., 2022, con nota di Petritaj). L'annullamento delle delibere negativeMolto controverso è il problema dell'impugnabilità delle delibere di contenuto negativo viziate (per lo più da conflitto di interessi); e ancor più, in caso di ammissione dell'azione, degli effetti del loro annullamento. Mentre è prevalente in dottrina la tesi favorevole all'impugnabilità (Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano, 1958, 63; Preite, L'abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992, 120), eventualmente a fini risarcitori, appare minoritaria la tesi della sussistenza in capo al giudice del potere di dichiarare approvata la delibera di segno opposto a quella di rigetto, previo annullamento di quest'ultima: tesi che renderebbe superflui i prescritti provvedimenti consequenziali. Al riguardo, nella giurisprudenza più recente si è ritenuta astrattamente ammissibile l'impugnazione, ove risulti un concreto interesse ad agire. In nessun caso, però, il tribunale potrebbe sostituire la propria volontà a quella espressa dall'assemblea: onde, l'eventuale accertamento dell'invalidità del voto contrario determinante espresso dal socio non condurrebbe alla declaratoria di approvazione della delibera stessa (Trib. Roma 14 dicembre 2020 n. 17824; Trib. Roma 14 febbraio 2020). Secondo questo indirizzo, non è quindi consentito il passaggio dall'eventuale fase rescindente dell'eliminazione della delibera viziata a quella rescissoria della sua sostituzione con altra emessa dal tribunale: non potendo il giudice dell'impugnazione sostituirsi alla volontà della maggioranza dei soci, cui solo spetta l'eventuale pronuncia su una nuova delibera in materia. Si è ribadito, al riguardo, che si tratterebbe di una pronuncia costitutiva non prevista dalla legge (art. 2908 c.c.). In contrario, si potrebbe replicare che la pronunzia costitutiva emessa è solo quella di annullamento della delibera negativa viziata; e che, una volta espunto il voto in conflitto di interessi, quella successiva consisterebbe solo in un accertamento dichiarativo della volontà correttamente formatasi: accertamento, non diverso, strutturalmente, dalla fisiologica proclamazione del risultato, da parte del presidente dell'assemblea. Resta, innanzitutto, da chiarire la natura giuridica del fenomeno: ad es., in tema di mancata approvazione del bilancio, di rifiuto di rinnovazione della carica di un organo sociale, o di bocciatura della proposta di un'azione di responsabilità. Una prima soluzione, tranchante, d'inammissibilità dell'impugnazione sotto il profilo che si tratti di “non delibere” – e dunque inesistenti per carenza di oggetto (con assimilazione al fenomeno negoziale) – o perché prive di “valore finale” non sembra corretta. A prescindere dal rilievo che in questo modo si viene ad equiparare la votazione con esito negativo – in ipotesi, perfino accompagnata da motivazione: ad es. di apprezzamento positivo per l'operato degli amministratori verso cui era indirizzata la proposta di azione – ad una astensione generalizzata o ad un mero rinvio della decisione, si osserva che, se la delibera impugnabile viene, per l'ordinario, configurata a contenuto positivo, vi è per lo meno un esempio legale implicitamente tipizzato in termini negativi, riguardante il diniego di autorizzazione assembleare all'azione di responsabilità verso gli amministratori, ex art. 2393 c.c., conseguito con il voto decisivo di questi ultimi (art. 2373, secondo comma c.c., che, nel testo riformato, ha esteso il divieto di voto ai componenti del consiglio di gestione nel sistema dualistico). Negare l'impugnazione della delibera negativa significherebbe, in questo caso, vanificare il precetto di legge. Problema più delicato è quello della conseguente verifica degli effetti dell'accoglimento di tale impugnazione: e cioè, se esso si possa tradurre nell'approvazione positiva della proposta all'ordine del giorno. Conclusione, accolta talvolta dalla giurisprudenza di merito, allorché il vizio consista nell'irregolarità del voto (App. Roma 29 maggio 2001, in Foro it., 2001, 1, 3395; Trib. Milano 28 novembre 2014, in Giur. comm., 2016, 2, 200, con nota di Toniolo; Trib. Velletri 26 gennaio 1994, in Dir. fall., 1994, II, 626 con nota di Gennari. In senso contrario, Cass. I, n. 16999/2004, sul non condivisibile argomento della natura costitutiva della proclamazione del risultato; Trib. Palermo 18 maggio 2001, in Giur. comm., 2001, II, 835, con nota di Corradi. Perplesso appare, a titolo di obiter dictum, Trib. Milano 2 giugno 2000, in Foro it., 2000, 1, 3638). La tesi negativa, sotto il profilo che dalle ceneri di un annullamento nulla può risorgere, allega un ancoraggio di diritto positivo all'art. 2908 c.c., che sancisce il principio di tipicità delle azioni costitutive: categoria, alle quale si dà per scontata la riconducibilità dell'approvazione giudiziale della delibera. Si verrebbe in pratica a configurare una sorta d'inammissibile esecuzione in forma specifica, in surroga della proclamazione da parte del Presidente dell'assemblea, dell'approvazione della proposta. Ma è proprio il presupposto dommatico che può essere revocato in dubbio. Il contenuto costitutivo della sentenza sembra infatti da limitare all'annullamento dei singoli voti, a vario titolo viziati; ed è connaturale all'azione ex art. 2377, richiamato dall'art. 2373 c.c. Ma, una volta espunti dal conteggio, la verifica del loro peso determinante in ordine all'esito assembleare appare attività di mero accertamento, suscettibile di sfociare in una dichiarazione giudiziale di approvazione. Del resto, negare tale sbocco significa privare l'iniziativa processuale della sua finalità concreta, dato che, altrimenti, la sentenza servirebbe, al più, ad ottenere la nuova convocazione – eventualmente ex art. 2367 c.c. – dell'assemblea sul medesimo punto all'ordine del giorno. La montagna avrebbe, cioè, partorito il topolino (ed a distanza di anni). E c'è da domandarsi chi avrebbe voglia d'imbarcarsi in un'avventura giudiziale, costosa e gravida d'incognite, per un obbiettivo così misero. Né sembra che la soluzione prospettata alimenti il pericolo del cd. abuso di potere delle minoranze, esercitato per via giudiziale: ipotizzabile, al contrario, sotto forma di resistenza ostruzionistica all'approvazione di delibere necessarie o utili alla vita della società. Il risarcimento del dannoSpecularmene correlata alla limitazione della tutela reale si pone la novità della tutela risarcitoria per equivalente (art. 2377, quarto comma) in favore dei soci non legittimati ad impugnare la delibera, prefigurata dalla legge-delega (art. 4, comma 7, lettera b). Si rifà alla tecnica inaugurata con l'art. 2504-quater per l'atto di fusione. Rompendo il tabù dell'irresponsabilità assembleare la delibera illegittima si converte in fatto illecito, causa di danno ingiusto. La legge-delega n. 366/2001, all'art. 4, comma 7, lettera b) prefigurava “l'eventuale adozione di strumenti di tutela diversi dall'invalidità”. La riforma del 2003 ha segnato un'inversione di tutele: ora è la società ad avere una tutela reale (contro le impugnative di delibere) ed il socio sotto-soglia a disporre solo di una tutela attenuata, in forma risarcitoria: tecnica, consona alla natura finanziaria della partecipazione del socio di minoranza. Di dubbio fondamento appaiono le ragioni teoriche addotte a giustificazione dell'affievolimento della tutela, ravvisate nel perseguimento di un interesse egoistico da parte dei soci di minoranza (a differenza dei soci di maggioranza) e nell'interesse della società al consolidamento della delibera viziata. Non senza aggiungere che il risarcimento, da parte della società, legittimata passiva, in favore del socio di minoranza, ha un effetto depauperativo del patrimonio sociale, che potrebbe risultare, in ipotesi, perfino più destabilizzante dell'annullamento della delibera. Nella riforma italiana l'arretramento della tutela reale ha assunto contorni più marcati che non in altri ordinamenti europei, come ad esempio nella Gesetz zur Unternehmensintegritaet und Modernisierung des Anfechtungsrecht (UMAG) tedesca del 22 settembre 2005, in cui non vi è tutela reale solo nelle operazioni su capitale e nei contratti di impresa (Unternehmensvertraege). Non ha ragione di porsi la questione di legittimità costituzionale per la disparità di trattamento tra soci in funzione della loro quota di partecipazione, perché la tutela reale non ha copertura costituzionale. Nessun dubbio dovrebbe sussistere sulla legittimazione dei soli soci assenti, dissenzienti e astenuti; e dunque, sull'identità dei requisiti dell'azione di impugnazione, di cui questa rappresenta un surrogato, con la sola eccezione dell'estensione del potere d'agire anche ai soci privi del diritto di voto o con voto limitato. Nel giudizio risarcitorio l'invalidità della delibera diventa questione incidentale, da accertare in funzione dell'eventuale condanna . Ammissibile, anche se probabilmente solo teorica, l'opzione per il risarcimento anche di chi sarebbe titolare di una partecipazione sufficiente per l'impugnazione. Piuttosto, una volta affermata in linea di principio l'illiceità della delibera viziata, potrebbe essere frequente il cumulo oggettivo di azioni: non solo ai fini di una conversione, in corso di causa, nell'ipotesi d'improcedibilità sopravvenuta della domanda d'annullamento per il venir meno del requisito soggettivo della titolarità della quota di capitale; ma anche per ottenere la riparazione pecuniaria del pregiudizio già subito dal socio, specialmente quando non sia stata ottenuta “in limine litis” la sospensione cautelare della delibera. Il danno può essere, e di norma sarà, solo potenziale, visto il breve termine di decadenza di 90 giorni entro il quale va promosso il giudizio: il che potrebbe tradursi nel “petitum” di una condanna generica. Il precedente testo della norma (schema di d.lgs. 30 Settembre 2002) considerava risarcibile solo il danno “direttamente” derivato ai soci. La soppressione dell'avverbio appare foriera di sviluppi giurisprudenziali, forse non del tutto previsti. Al di là di ipotesi improbabili o scolastiche, come il risarcimento del danno non patrimoniale o esistenziale, potrebbe concretamente venire in rilievo il danno riflesso, inteso come pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, secondo la formula consacrata all'art. 2497. Anche se la sostituzione del verbo “derivare”, originariamente adottato, con il verbo “cagionare”, fa pensare pur sempre ad un danno diretto. La tutela risarcitoria è riservata ai soli diritti soggettivi , e non pure all'interesse legittimo del socio alla correttezza e alla massimizzazione dei profitti. La questione, peraltro, rischia di diventare nominalistica, a seconda della definizione che si dia, caso per caso, delle concrete situazioni soggettive: come ad es., in ordine al mantenimento del valore della partecipazione sociale (assurto a diritto tutelabile ex art. 2497 c.c.). Il vizio che infirma la deliberazione deve avere un nesso di causalità con il danno , con la conseguenza che le irregolarità procedimentali ben difficilmente saranno suscettibili di riparazione. La legittimazione passiva appartiene alla società; ed anche agli amministratori, per eventuali atti esecutivi compiuti con colpa. Poiché la norma parla di risarcimento, si deve escludere che si tratti di tutela indennitaria, con i conseguenti riflessi in tema di elemento psicologico della fattispecie. Il risarcimento a carico della società è pagato pro quota dallo stesso danneggiato; salvo ipotizzare una traslazione del risarcimento, in via di rivalsa, sui soci di maggioranza, anziché sulla società, che, in carenza, allo stato, di un sicuro sostegno normativo, appare solo una soluzione interpretativa di frontiera. E l'introduzione, de jure condendo, di un'azione di responsabilità contro i soci per il voto espresso in assemblea soffre la controindicazione di un incentivo ulteriore all'assenteismo. La violazione di regole procedurali resta praticamente senza sanzione qualora non sia possibile la tutela reale, perché non v'è un pregiudizio risarcibile, a meno di non pensare a un danno in re ipsa. Anche la domanda risarcitoria, alla quale devono intendersi legittimati pure i soci sprovvisti di voto sull'argomento della delibera, è soggetta al medesimo termine di decadenza previsto per l'azione di annullamento; ed il suo accoglimento è subordinato all'accertamento non solo della questione pregiudiziale della non conformità della delibera alla legge o allo statuto, ma altresì dell'esistenza e dell'ammontare del danno. Non basta, quindi, la violazione della legge o dello statuto, occorrendo anche un reale danno-conseguenza, suscettibile di risarcimento; anche se parte della dottrina propende piuttosto a considerarlo, contro il dettato testuale, un indennizzo, compensativo dell'assenza di tutela reale. L'applicabilità alla liquidazione del danno del limite di prevedibilità di cui all'art. 1225, nelle violazioni colpose di legge o statuto, dipende, infine, dalla natura contrattuale o extracontrattuale che si riconosca alla fattispecie. Vi sono poi delibere pressoché improduttive di danni , quali la modificazione della denominazione sociale, trasferimento della sede, nomina degli organi sociali, passaggio dal sistema ordinario a quello dualistico o monistico, per le quali i soci sotto soglia non avrebbero alcuna tutela. Casi di non annullabilitàIl comma quinto dell'art. 2377 sottrae alcune specifiche ipotesi di irregolarità all'annullamento (e a fortiori alla categoria dell'inesistenza, cui talvolta venivano ricondotte), tramite una formulazione eccettuativa. Al n. 1 si prevede che nessuna rilevanza rivesta, di per sé sola, la partecipazione del non legittimato, anche se si traduca in un intervento attivo, suscettibile di esercitare una vis persuasiva nella formazione della volontà assembleare, grazie al metodo collegiale. In precedenza, si distingueva tra difetto di legittimazione primaria, per carenza del potere del singolo intervenuto di concorrere alla formazione della delibera – il cui voto determinante era causa d'inesistenza – dal difetto di legittimazione secondaria, che comportava la semplice annullabilità (Cass. I, n. 2053/1999, in fattispecie di quorum raggiunto col voto di soci privi del diritto di voto perché costituenti le azioni in pegno). Comporta l'annullabilità, inoltre, l'invalidità di singoli voti o il loro errato conteggio, previa prova di resistenza (ibidem, n. 2). Il concetto di invalidità qui presupposto include anche il difetto di procura, nonché eventuali vizi della volontà se rilevanti. Prima della riforma, l'errato conteggio - che può dipendere da errore materiale (eventualmente equiparabile ad errore ostativo del presidente, ex art. 1433), o da errore giuridico, e produrre una maggioranza apparente - veniva invece ritenuto causa di inesistenza della delibera (Cass. I, n. 8592/1997). Integra pure un vizio d'annullabilità della delibera l'incompletezza o inesattezza del verbale, per il quale vige il principio di autosufficienza, con conseguente inammissibilità della prova desunta aliunde (ibidem, n. 3). Qui lo spettro delle conseguenze è variegato. È irrilevante l'irregolarità che renda comunque possibile accertare il contenuto e la validità della delibera; causa d'annullamento, se sia impedito l'accertamento del contenuto e degli effetti della delibera; vizio di nullità se mancano la data e le firme indispensabili (art. 2379, terzo comma). In particolare, è annullabile per incompletezza del verbale la deliberazione assembleare di società per azioni dalla quale non risulti, neanche in allegato, l'identificazione nominativa dei soci partecipanti all'assemblea (Cass. I, n. 603/2017). Termini di impugnazioneIl termine di decadenza di 90 giorni (era di tre mesi, prima della riforma), di cui al sesto comma, vale sia per l'azione di annullamento, che per quella risarcitoria, a partire dall'iscrizione o dal deposito (non contemplato nel testo previgente) della delibera, se previsti. Congruo per la domanda di annullamento, appare invece troppo ridotto per l'azione risarcitoria, rendendo problematica la prova del pregiudizio, presumibilmente solo in nuce in un lasso di tempo così breve: tenuto conto che esso può non derivare direttamente alla delibera, bensì dagli atti consequenziali posti in essere dagli amministratori. Il principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum, operante in materia contrattuale in forza dell'art. 1442, ultimo comma, c.c., presuppone che la parte che propone l'eccezione sia convenuta per l'esecuzione della prestazione posta a suo carico, rimasta inadempiuta, e solleva tale parte dall'onere di agire in giudizio per evitare la prescrizione dell'azione di annullamento: deve, pertanto, escludersi che il principio possa trovare applicazione in materia di deliberazioni assembleari, il cui annullamento può essere conseguito attraverso un'impugnazione soggetta ad un termine di decadenza e non di prescrizione (Cass. civ., I, n. 384/2018). La natura costitutiva dell'iscrizione della delibera (art. 2436, quinto comma) priva di interesse l'impugnazione preventiva della delibera invalida. Per le delibere non soggette ad iscrizione o deposito il dies a quo coincide con la data dell'assemblea. La tesi alternativa che lo ricollega alla data di trascrizione del libro delle adunanze dell'assemblea sarebbe in linea con la disciplina prevista dall'art. 2379, primo comma, per l'azione di nullità, ma porta ad una dilazione indefinita, tenuto conto che il verbale può essere validamente redatto fino all'assemblea successiva (art. 2379-bis, secondo comma). Al predetto termine, la giurisprudenza, dopo qualche oscillazione iniziale, ritiene applicabile la sospensione feriale ex art. 1, l. n. 742/1969 (Cass. I, n. 3351/1997). Effetti dell'annullamento; i provvedimenti consequenzialiIn deroga all'art. 2909, la sentenza di annullamento ha efficacia erga omnes, speculare alla validità erga omnes della delibera. Tuttavia, la catena degli effetti dell'atto invalido non è meccanicamente ripercorribile a ritroso in modo lineare, ed è illusorio pensare di poter cancellare tutti gli effetti attraverso una serie di passaggi uguali e contrari al termine dei quali la situazione iniziale sia ripristinata (factum infectum fieri nequit). È quasi impossibile il ripristino dello status quo ante perché gli effetti sono estesi a raggiera, e per di più non c'è pubblicità della domanda di annullamento. Dalla sentenza di annullamento, di natura costitutiva, deriva l'obbligo per gli amministratori di emettere i provvedimenti consequenziali: innanzitutto, l'iscrizione del dispositivo della sentenza (anche di rigetto, rientrante nella previsione testuale di cui all'art. 2378, ultimo comma: “dispositivo della sentenza che decide sull'impugnazione”), o dell'eventuale provvedimento cautelare (decreto o ordinanza) di sospensione – la cui omissione è sanzionabile ex art. 2630 - nonché le incombenze che si rendano in concreto necessarie, quale ad es. la redazione di un nuovo progetto di bilancio. L'esecuzione pratica dell'obbligo di fare a carico degli amministratori richiama la ben nota disputa sull'incoercibilità delle prestazioni infungibili, surrogabile solo con il ricorso alla sanzione penale (art. 388 c.p.) – per il che però occorrerebbe il presupposto di un ordine giudiziale ad hoc – o, se del caso, amministrativa (artt. 2630 e 2631 c.c.), in difetto di previsione d'astreintes (per l'incoercibilità giudiziale dei provvedimenti utili al ripristino della legalità, a seguito dell'annullamento di una delibera assembleare invalida, Trib. Bologna 10 aprile 2013, in Giur. comm., 2014, 2, 888, con nota di Donadio). Il settimo comma pone l'obbligo e la responsabilità dei provvedimenti consequenziali all'annullamento a carico degli amministratori, del consiglio di sorveglianza, o del consiglio di gestione; non anche del collegio sindacale e del comitato di controllo. La norma non ne precisa tipologia e contenuto; e secondo parte della dottrina potrebbero anche avere natura risarcitoria (Di Girolamo, 1756). È controverso se l'obbligo degli amministratori di assumere provvedimenti consequenziali a seguito dell'annullamento sorga soltanto dopo il giudicato, o già a seguito di sentenza di primo grado. La questione si riallaccia alla vexata quaestio della esecutività (rectius: efficacia) provvisoria delle sentenze costitutive, come quella d'annullamento, o dichiarative, come quella di nullità. Forse si può diversificare la risposta, ritenendo immediatamente efficace la sterilizzazione degli effetti per il futuro, così da impedire ulteriori applicazioni attuative della delibera; mentre, solo il giudicato imporrebbe i provvedimenti consequenziali, sostanzialmente tesi a rimuovere gli effetti già occorsi (ad es. redigere un nuovo bilancio dopo l'annullamento, non irrevocabile, di quello impugnato). Si deve comunque ammettere che gli amministratori non siano tenuti ad attendere il passaggio in giudicato qualora siano convinti della fondatezza della decisione . La provvisoria esecutività della sentenza di annullamento renderebbe più efficace la tutela reale; oltre ad essere in linea con l'immediata efficacia dell'autoannullamento, eventualmente seguito da sostituzione della delibera, di cui al comma seguente. Ulteriore argomento per il riconoscimento dell'efficacia provvisoria potrebbe trarsi dalla pubblicità della sentenza nel registro delle imprese, che sarebbe prematura se non fosse ancora esecutiva (per la tesi negativa, Trib. Bologna 10 aprile 2013, in Giur. comm., 2014, 2, 888). L'annullamento ex art. 2377 c.c. fa salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della delibera, in applicazione della disciplina generale di cui all'art. 1445 c.c. (quest'ultimo, per la verità, riferisce l'esenzione ai soli atti a titolo oneroso, con limitazione non ribadita nella norma speciale). La disposizione, apparentemente di semplice lettura, pone, ad un esame approfondito, problemi di non agevole soluzione, proprio in ordine all'esemplificazione casistica. A parte, infatti, le delibere di distribuzione di utili o di acconti sui dividendi, che trovano la loro “sedes materiae” in norme speciali (artt. 2433 e 2433-bis), si potrebbe pensare a diritti acquisiti in occasione di operazioni di aumento del capitale, per effetto delle relative sottoscrizioni da parte di soci o terzi; o a crediti di rimborso da riduzione, ex art. 2445. L'ambito di applicazione pratica è però drasticamente ridotto dall'art. 2379-ter, secondo cui, in tali fattispecie, i relativi atti esecutivi, nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio, una volta attestati nel Registro delle imprese, segnerebbero anche la preclusione dell'azione di annullamento In realtà, il panorama casistico sarebbe ampliato a dismisura, ove si riferisse l'effetto di salvezza ai contratti o agli atti unilaterali, anche non negoziali, conclusi in attuazione di delibere. Qui però il problema sembra risolto “in limine” dagli artt. 2380-bis e 2364 n. 5, che ne assegnano all'amministratore la competenza esclusiva, con la relativa responsabilità, e soprattutto dall'art. 2384. E dunque, la validità ed efficacia di contratti in cui prenderà forma, di norma, l'esecuzione di delibere, non dovrebbero risentire dell'annullamento o sostituzione di queste ultime, quand'anche esse integrassero un momento autorizzativo necessario per rimuovere divieti o limiti statutari. Gli eventi caducatori avrebbero, in ultima analisi, solo riflessi interni; e neppure in senso esimente da responsabilità dell'amministratore (art. 2364, n. 5, ultimo alinea). Senza alcun effetto diretto verso i terzi, per l'esistenza di un diaframma tra la delibera autorizzativa e i contratti conseguenti insensibili, ex art. 2384 alle vicende interne alla società; salvo il caso in cui il terzo sia in malafede e conosca la causa di invalidità della delibera “a monte”. È controversa l'applicabilità della presunzione di buona fede, formalmente prevista dall'art. 1147, terzo comma, in tema di possesso, se considerata regola generale, in difetto di disposizione contraria. Secondo parte della dottrina, l'annullamento ha efficacia ex nunc. La tesi sembra in linea con regole proprie del sottosistema societario, anche in tema di nullità, ma renderebbe pressoché superflua la previsione di salvezza dei diritti in precedenza acquistati dai terzi. La sostituzione della delibera invalidaÈ stata mantenuta la previsione della sostituzione della delibera annullabile, di cui è discussa la natura giuridica: convalida (Cass. n. 2263/1970), ratifica (Cass. n. 7754/1987), o rinnovazione. Il fenomeno è ammissibile anche per la delibera nulla (art. 2379, quarto comma, di nuova introduzione, che deroga all'inammissibilità della convalida di cui all'art. 1423). Con riguardo all'efficacia retroattiva verso i terzi della revoca assembleare della delibera annullabile, si è ritenuto che siano salvi i diritti acquisiti “medio tempore” dai terzi, indipendentemente dallo stato soggettivo dell'interessato: e quindi, anche in carenza dell'elemento soggettivo della buona fede (Trib. Roma 1 gennaio 2020, in Soc., 2021). Il rinnovo della deliberazione annullabile è ammissibile su qualsiasi oggetto, senza incontrare alcun limite ; ed è stato qualificato come ratifica-rinnovazione, o rinnovazione sanante, potendo consistere anche in una pedissequa reiterazione della delibera, a titolo di conferma, ad es., in caso di vizi solo procedurali, (Trib. Milano 7 febbraio 2006, in Soc., 2007, 1268). Si deve ritenere comunque che la nuova deliberazione, pur non avendo necessariamente oggetto identico alla prima, debba essere collegata ad essa, così da ricomprenderla implicitamente. In caso contrario, sarà necessaria una nuova impugnazione che ne alleghi il contenuto diverso ed autonomo, tale da privarla di efficacia retroattiva. Non sussiste il rapporto di pregiudizialità, di cui all'art. 295 c.p.c., fra il giudizio vertente sulla validità dell'atto sanato e il giudizio relativo alla validità dell'atto sanante, dal momento che il primo non ha ad oggetto un antecedente logico rispetto al secondo, ma è, semmai, quest'ultimo un antecedente logico del primo giudizio (Cass. civ., I, n. 4946/2013). Poiché l'effetto sostitutivo si determina solo ove la nuova deliberazione risulti esente da vizi, il giudice dell'impugnazione dovrà esaminare anche la delibera assunta in sanatoria, al fine di verificarne la validità e l'efficacia sanante. Affine concettualmente alla sostituzione è l'autoannullamento della delibera invalida (Cass. I, n. 7754/1987). È dubbio se la sostituzione abbia efficacia ex tunc o ex nunc . Se la si assimilasse all'annullamento dovrebbe avere efficacia retroattiva. Se ad un'abrogazione, si dovrebbe pervenire alla conclusione contraria, visto che questa, in tesi generale, pone un limite temporale di vigenza, un “dies ad quem” dell'atto sostituito: in tal modo, ampliandosi la gamma dei diritti quesiti in forza della delibera sostituita, fatti salvi dal novellato ultimo comma, suscettibili di tutela giudiziaria, anche dopo la sostituzione della deliberazione (fenomeno da non confondere con l'ultrattività). Tesi avvalorata, e nello stesso tempo portata a più ampi sviluppi, dall'assenza del requisito della buona fede dei terzi, se non ascrivibile ad un'omissione materiale del legislatore. Ma il punto davvero problematico riguarda l'effettiva identificazione dei diritti fatti salvi, specialmente quando questi si inseriscano in un iter procedimentale di una fattispecie a formazione progressiva: così da rendere ardua la distinzione tra diritti quesiti, intangibili, e situazioni strumentali “in fieri”. Sotto il profilo processuale, la giurisprudenza riconduce variamente la sostituzione della delibera impugnata alla carenza sopravvenuta di interesse per le liti in corso (Trib. Catania 18 gennaio 2001, in Soc., 2001, 704, con nota di Proverbio e Giangrossi), o alla cessazione della materia del contendere (Cass. civ. ord., VI, n. 20071/2017). In tal caso, il giudice emette sentenza sul regolamento delle spese. La norma dice che le spese processuali vengono poste ” di norma “ a carico della società: formulazione alquanto bizzarra, che non sembra alterare il criterio canonico della soccombenza virtuale. L'interesse all'azione di annullamento deve sussistere sia al momento della proposizione della domanda, sia al momento della decisione: onde, non può più proseguire il giudizio riguardante l'impugnativa di una deliberazione sostituita da altra in corso di lite (Trib. Napoli 29 giugno 2018, in Soc., 2019 con nota di Fanti; Trib. Milano 11 aprile 2019). Occorre, tuttavia, che la delibera sostitutiva abbia il medesimo oggetto e sia dunque idonea a determinare la cessazione della materia del contendere: pertanto, in un caso in cui si contestava la validità della delibera assembleare portante la nomina dell'organo amministrativo, per mancanza dei quorum costitutivo e deliberativo previsti dallo statuto, la mancata accettazione da parte dei nuovi amministratori comporta l'improduttività di effetti della delibera di loro nomina, che risulta, quindi, inidonea ad integrare la fattispecie sostitutiva di cui all'art. 2377, ottavo comma, c.c. (Trib. Milano 7 febbraio 2019, in Soc., 2019, 1237, con nota di Civerra). Non si possono apprezzare, peraltro, le eccezioni dell'attore relative all'invalidità della delibera sostitutiva, nemmeno in forma di accertamento incidentale, qualora essa non sia stata impugnata, a sua volta (Trib. Milano 22 ottobre 2020, in Soc., 2021, 1152, con nota di Bencini). La fondatezza delle doglianze mosse contro la delibera, successivamente revocata e sostituita, incidentalmente accertata, giustifica la condanna della società convenuta alla rifusione delle spese di giudizio (Trib. Palermo 23 giugno 2021 n. 2666). Il giudice provvede inoltre sull'eventuale risarcimento dei danni, se richiesto: anche con mutatio libelli – si deve ritenere – non essendo plausibile esigere che la domanda di danni fosse proposta ab initio in base al principio di eventualità, per l'ipotesi, del tutto astratta ed incerta, di una successiva sostituzione, dipendente dalla volontà imprevedibile dell'assemblea. Per l'effetto, va coerentemente esclusa la preclusione processuale delle prove del danno. Considerazioni conclusiveLa riduzione della tutela reale contro le delibere illegittime sembra in linea con il disfavore verso forme di disciplina legislativamente imposte da norme inderogabili, particolarmente accentuato nella scuola di analisi economica del diritto, di matrice americana (Buonocore, Impresa, società per azioni e mercato: contiguità tra economia e diritto e analisi economica del diritto, in Governo dell'impresa e mercato delle regole, scritti giuridici per Guido Rossi, Milano, vol. 1, 18). L'esclusività della competenza gestionale degli amministratori, la riduzione dei poteri reali delle assemblee, il larvato scoraggiamento delle impugnazioni a fini di annullamento delle delibere sono sintomatiche di un atteggiamento di sfiducia verso quello che un tempo era considerato l'organo “ democratico” della società, depositario della volontà collettiva. In questo senso, la riforma è stata anticipata da un florilegio di critiche rivolte all'assemblea, definita, di volta in volta, “squallido rituale, passerella di squalificati e ambigui protagonisti” (Guido Rossi); “istituto che andrà poco alla volta a morire, perché costituisce solo una perdita di tempo, e nessuno ha tempo da perdere” (Roberto Colannino); “platea di fantasmi” (Piergaetano Marchetti); “più che sede di fruttuoso dibattito, palcoscenico per l'ouverture, o la minaccia di successive impugnazioni a carattere ricattatorio da parte di singoli soci disturbatori” (Rapporto dell'associazione Preite: giudizi riferiti da Floriano D'Alessandro, Nuovo ruolo dell'assemblea?, in Governo dell'impresa e mercato delle regole cit., 99). Con voluto paradosso si è detto che la società ha tre nemici: il fisco, i lavoratori e gli azionisti. Ed il censimento degli argomenti messi in campo dai nemici dell'assemblea potrebbe continuare a lungo. Tuttavia, anche se la tendenza ad una legislazione meno invadente, che non pretenda di regolamentare tutto e lasci spazio all'autonomia privata, è largamente condivisa, non si può dimenticare che grazie anche, e soprattutto, alla giurisprudenza formatasi sulle impugnative di delibere assembleari – in particolare in tema di bilancio – è passata la tendenza riformatrice volta ad assicurare maggiore trasparenza e correttezza nella gestione societaria. 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