Codice Civile art. 2378 - Procedimento d'impugnazione (1).

Renato Bernabai

Procedimento d'impugnazione (1).

[I]. L'impugnazione è proposta con atto di citazione davanti al tribunale del luogo dove la società ha sede.

[II]. Il socio o i soci opponenti devono dimostrarsi possessori al tempo dell'impugnazione del numero delle azioni previsto dal terzo comma (2) dell'articolo 2377. Fermo restando quanto disposto dall'articolo 111 del codice di procedura civile, qualora nel corso del processo venga meno a seguito di trasferimenti per atto tra vivi il richiesto numero delle azioni, il giudice, previa se del caso revoca del provvedimento di sospensione dell'esecuzione della deliberazione, non può pronunciare l'annullamento e provvede sul risarcimento dell'eventuale danno, ove richiesto.

[III]. Con ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione, l'impugnante può chiedere la sospensione dell'esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza, il presidente del tribunale, omessa la convocazione della società convenuta, provvede sull'istanza con decreto motivato, che deve altresì contenere la designazione del giudice per la trattazione della causa di merito e la fissazione, davanti al giudice designato, entro quindici giorni, dell'udienza per la conferma, modifica o revoca dei provvedimenti emanati con il decreto, nonché la fissazione del termine per la notificazione alla controparte del ricorso e del decreto.

[IV]. Il giudice designato per la trattazione della causa di merito, sentiti gli amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell'esecuzione della deliberazione; può disporre in ogni momento che i soci opponenti prestino idonea garanzia per l'eventuale risarcimento dei danni. All'udienza, il giudice, ove lo ritenga utile, esperisce il tentativo di conciliazione eventualmente suggerendo le modificazioni da apportare alla deliberazione impugnata e, ove la soluzione appaia realizzabile, rinvia adeguatamente l'udienza.

[V]. Tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte ed ivi comprese le domande proposte ai sensi del quarto comma (3) dell'articolo 2377, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. Salvo quanto disposto dal quarto comma del presente articolo, la trattazione della causa di merito ha inizio trascorso il termine stabilito nel sesto comma (4) dell'articolo 2377.

[VI]. I dispositivi del provvedimento di sospensione e della sentenza che decide sull'impugnazione devono essere iscritti, a cura degli amministratori, nel registro delle imprese (5).

(1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

(2) Le parole «terzo comma» sono state sostituite alle parole «secondo comma» dall'art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1p) n. 1 d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37.

(3) Le parole «quarto comma» sono state sostituite alle parole «terzo comma» dall'art. 1 d.lg. n. 6, cit., come modificato dall'art. 51p) n. 2 d.lg. n. 37, cit.

(4) Le parole «sesto comma» sono state sostituite alle parole «quinto comma» dall'art. 1 d.lg. n. 6, cit., come modificato dall'art. 51p) n. 2 d.lg. n. 37, cit.

(5) Comma aggiunto dall'art. 1 d.lg. n. 6, cit., come modificato dall'art. 51p) n. 3 d.lg. n. 37, cit.

Inquadramento

Il processo di impugnazione della deliberazione assembleare ha subito consistenti emendamenti per effetto del d.lgs. n. 6/2003, soprattutto in virtù della trasformazione dell'originaria azione individuale di annullamento, per la quale era sufficiente il possesso di un'azione, nell'attuale legittimazione attiva legata alla titolarità della quota di capitale stabilita dall'art. 2377, terzo comma.

Il primo comma è rimasto inalterato nell'indicazione del foro speciale della sede della società, che, per la sua formulazione, sembra doversi ritenere inderogabile (Cass. I, n. 2321/1991), e dunque rilevabile d'ufficio, non oltre l'udienza di prima comparizione e trattazione della causa, ex art. 38, terzo comma, c.p.c.: inderogabilità, giustificata dalla necessaria riunione di tutte le domande, di annullamento e di risarcimento, volta a prevenire difformità di giudicati. Il che comporta la nullità di eventuali fori convenzionali fissati nello statuto.

Contestuale è la prescrizione della forma dell'atto di citazione; indubbia, peraltro, anche secondo la disciplina previgente.

In ordine alla competenza territoriale, si pone il problema se la sede debba necessariamente essere quella legale, o possa essere invece privilegiata quella effettiva. Nel primo senso si è pronunciata Cass. I, n. 22477/2006, secondo cui, in tema di impugnazione di delibera di una società di capitali, l'art. 2378, primo comma, c.c. – disposizione speciale prevalente sugli ordinari criteri di competenza dettati dagli artt. 18 e segg. c.p.c. – nello stabilire che il Tribunale territorialmente competente è quello del luogo in cui la società ha sede, fa esclusivo riferimento alla sede legale, ossia quella indicata come tale nell'atto costitutivo; mentre, non assume alcuna rilevanza la sede effettiva: senza che possa essere, in contrario, valorizzata la disciplina di cui all'art. 46, secondo comma, c.c. – che, in caso di discrepanza fra sede statutaria ed effettiva, autorizza i terzi a considerare come sede della persona giuridica anche la seconda – la cui previsione è posta nei confronti ed a tutela dei terzi, quali non possono essere considerati, nei confronti della società, i soggetti legittimati alla impugnativa di cui si tratta.

Questa tesi, che poteva trovare ulteriore conforto analogico, dopo la Riforma, nel testo dell'art. 25 d.lgs. n. 5/2003 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia), che indicava espressamente la sede legale – con significativa aggiunta dell'aggettivo “legale”, che, per contro, non figura nel primo comma dell'art. 2378 (ma neppure nell'art. 19 c.p.c.) – per i procedimenti in camera di consiglio (incluso quello ex art. 2409 c.c.: art. 33): norma, peraltro, venuta meno, con l'abrogazione del rito societario per effetto della l. n. 69/2009.

La tesi dell'irrilevanza della sede effettiva, nei termini suesposti, suscita peraltro perplessità: non solo perché l'art. 9 l.fall. – che parla di sede principale ai fini della competenza per la dichiarazione di fallimento (non necessariamente su istanza di terzi creditori) – viene costantemente interpretato nel senso che essa si presume solo coincidente con la sede legale, salva la prova contraria (e di presunzione semplice parla espressamente l'art. 3 del Regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 n. 848 relativo alle procedure di insolvenza (come già l'omologo art. 3 dell'abrogato Regolamento comunitario del Consiglio, 29 Maggio 2000, n. 1346); ma anche perché, altrimenti, la competenza sarebbe diversa, nell'azione di nullità ex art. 2379 (che non v'è motivo di ritenere sottratta, in parte qua, alla regola in esame), a seconda che la domanda sia proposta da un socio o da un terzo portatore di un interesse qualificato (art. 1421 c.c.).

La legittimazione attiva dei soci

Il secondo comma è stato rimodulato integralmente.

I soci opponenti devono fornire la prova del possesso qualificato di azioni, al tempo dell'impugnazione, previsto dall'art. 2377 (5% nelle società cd. chiuse; 1/1000 nelle società aperte al mercato del capitale di rischio).

Non è quindi legittimato l'ex socio, salvo che non sia portatore di un interesse qualificato, attuale (Cass. I, n. 181/1988). Per contro, anche il socio che abbia acquistato le azioni successivamente alla delibera assembleare da lui impugnata è provvisto di legittimazione attiva, purché abbia iscritto il trasferimento nel libro soci anteriormente alla notifica dell'atto di citazione (Trib. Roma 22 febbraio 2021 n. 3099, in Foro it., 2021, 1, 2564).

Ai fini dell'esercizio dell'azione di annullamento la ricorrenza dell'interesse ad agire non postula la concreta utilità del provvedimento chiesto al giudice rispetto alla situazione denunziata: identificandosi tale interesse nella stessa qualità di socio, presunto dal legislatore al semplice verificarsi delle condizioni prefissate (Cass. I, n. 10814/1996; Trib. Napoli 13 aprile 2000 – che ha riconosciuto la legittimazione di un socio pur titolare solo di una modestissima partecipazione sociale – in Soc. 2000, 1114, con nota di Civerra).

La legittimazione deve sussistere non solo alla data di proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione; onde, il venir meno della quota, nelle more del giudizio, importa l'improcedibilità della domanda: non impeditiva, peraltro, di una successiva domanda di risarcimento in separato giudizio, stante la natura processuale della pronuncia (parla di sentenza in rito Trib. Napoli 11 gennaio 2011, in Soc., 2011, 1152, con nota di Mecatti; opinione peraltro controversa, in dottrina).

L'art. 2378 c.c., di cui è comunemente ritenuta la natura squisitamente processuale, pone sul punto seri problemi di concorso con la disciplina del codice di rito. Mentre il tenore letterale del secondo comma nulla dice sulla successione a titolo ereditario, che deve quindi ritenersi disciplinata dall'art. 110 c.p.c., con l'eventuale prosecuzione del processo da parte degli eredi, previa interruzione e riassunzione, all'esito della dichiarazione del difensore, in udienza, della morte del socio originario (art. 300 c.p.c.), il suo contestuale riferimento all'art. 111 c.p.c. fa pensare che la cessione delle azioni integri una successione a titolo particolare nel diritto controverso: ciò che sarebbe coerente con un giudizio avente ad oggetto le azioni stesse, laddove, nella specie, il possesso delle azioni vale solo a legittimare il socio alla domanda di annullamento.

Inoltre, ai sensi dell'art. 111 c.p.c.: il trasferimento a titolo particolare nel corso del processo del diritto controverso non fa venire meno l'interesse ad agire in capo all'originario attore ed il processo prosegue tra le parti originarie, dando luogo ad una sostituzione processuale del dante causa di modo che la sentenza spiega i suoi effetti nei confronti dell'avente causa sostituito (Cass. II, n. 3623/1999).

Per contro, il tenore testuale dell'art. 2378 esclude la perdurante legittimazione dell'alienante; e, secondo parte della dottrina, l'azione di annullamento non sarebbe neppure proseguibile da parte dell'acquirente delle azioni.

Ma questa conclusione non appare necessitata. Ferma, infatti, l'inammissibilità della prosecuzione del processo tra le parti originarie in forza della specialità dell'art. 2378, secondo comma, la contestuale salvezza di quanto disposto dall'art. 111 c.p.c. consente l'intervento del successore a titolo particolare, con tutti i poteri processuali connessi (primo fra tutti, appunto, la prosecuzione del processo), senza i quali il richiamo alla norma di rito non avrebbe significato. A meno di non limitarne il concorso all'ipotesi che l'originario attore non si spogli dell'intera partecipazione sociale e che l'avente causa possa intervenire nel processo pendente, cumulando le sue azioni a quelle del suo dante causa, così da consentire il mantenimento della quota di legittimazione del 5% o dell'1/1000 (Corea, Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, Torino 2015, sub art. 2378, 1774).

Il fatto che tutte le domande di annullamento e risarcitorie debbano essere decise congiuntamente sembra implicare che le prime si possano computare complessivamente, ai fini del raggiungimento della quota di legittimazione, anche se proposte con atti di citazione separati; quanto meno se abbiano la medesima causa petendi, vertendosi in tema di diritti eterodeterminati.

La legittimazione deve permanere, come detto, fino alla sentenza; il venir meno, nel corso del processo, della titolarità della quota di capitale richiesta dall'art. 2377, terzo comma, ne comporta la perdita e il giudice, previa revoca dell'eventuale sospensione dell'esecuzione della delibera, decide sul risarcimento del danno, se richiesto.

Sotto il profilo del rito, si pone il problema dei limiti preclusivi della conversione della domanda di annullamento in risarcitoria.

La formulazione lascia in dubbio, infatti, se quest'ultima debba essere proposta ab initio. Ma la tesi della necessaria prospettazione alternativa, in via gradata, nell'atto di citazione, appare troppo drastica; oltre ad essere scarsamente praticabile, dato che imporrebbe, in sede di edictio actionis, la previsione ipotetica di una serie di elementi di fatto (disinvestimento, danno), improntata al principio di eventualità.

Più plausibile appare la tesi contraria, ammissiva di una conversione della domanda (unidirezionale, dall'annullamento al risarcimento, con un meccanismo non dissimile da quello previsto dall'art. 1453, secondo comma, anche in grado d'appello e persino nel giudizio di rinvio: Cass. II, n. 12238/2011; Cass. II, n. 13003/2010) dovuta a fattori sopravvenuti, esterni al processo; e dunque, con una mutatio libelli eccezionalmente consentita al momento in cui la perdita della legittimazione divenga attuale.

Non v'è dubbio, in conclusione, che la norma in esame renda più impervio il cammino dell'azione di annullamento, dato l'ostacolo che comporta a forme di disinvestimento per tutta la lunga durata del processo.

In ogni caso, l'accoglimento dell'azione di annullamento preclude la disamina della domanda di risarcimento eventualmente proposta, salvo che per gli eventuali danni interinalmente prodotti nelle more del processo.

Ove la perdita della legittimazione si verifichi in un grado d'impugnazione avverso la sentenza che abbia accolto la domanda d'annullamento, occorrerà una sentenza di riforma, dal momento che la mera pronunzia d'improcedibilità del gravame comporterebbe l'irrevocabilità dell'annullamento. Restano irrisolti, nello sfondo, scenari non inconsueti nelle tormentate vicende che oppongono talvolta la minoranza al blocco di potere, quale l'artificioso annacquamento della partecipazione della prima per effetto di operazioni di capitale viziate da eccesso di potere (cd. “squeezing out”). Non è facile immaginare una forma di reazione endoprocessuale della minoranza idonea ad impedire la perdita della soglia di legittimazione: a meno di non ritenere l'evenienza estranea alla causa d'improcedibilità di cui all'art. 2378, secondo comma, formalmente ancorata al trasferimento per atto tra vivi.

Per contro, la perdita involontaria, per effetto proprio della delibera impugnata di aumento di capitale, resta ininfluente ai fini della legittimazione (Cass. I, n. 26842/2008, in Riv. not., 2009, 2, 468, con nota di Scuderi, Cass. n. 181/1988; Trib. Bologna 4 maggio 1998, in Foro it., 1999, 1, 1016).

È dubbio se il possesso della quota di legittimazione trovi i suoi unici momenti di verifica nella edictio actionis e in sede decisoria; o anche in fase istruttoria, con la conseguenza che non sarebbe ammissibile alcun vuoto intermedio, pur se seguito dal riacquisto della partecipazione richiesta.

Al riguardo, anche il riparto dell'onere della prova potrebbe non essere univoco. Prima della riforma il deposito di un'azione – senza equipollenti – costituiva prova documentale, definitivamente acquisita al processo, della legittimazione attiva. Il sistema attuale pone, senza dubbio, a carico dell'attore l'onere della prova nella fase introduttiva; ma non è detto che questa debba essere confermata prima della decisione – ad es., in una causa contumaciale – quale presupposto formale della sentenza di accoglimento; o la sua perdita non assurga, piuttosto, a fatto impeditivo, soggetto al regime delle eccezioni di merito; o quanto meno, all'onere di una contestazione, al limitato scopo di non dare per pacifica la perdurante titolarità.

La disposizione ora vigente consente la prova libera della titolarità della quota di legittimazione; e si deve intendere anche dell'usufruttuario, del creditore pignoratizio e del custode giudiziario, legittimati in forza del diritto di voto loro spettante in assemblea, salvo convenzione contraria (art. 2352, primo e sesto comma; per la legittimazione esclusiva del custode, in caso di sequestro penale preventivo ex art. 321 c.p.p., Cass. I, n. 21858/2005 e Cass. I, n. 13169/2005).

Tale prova sarà ricavata dal libro-soci o, in ipotesi di dematerializzazione obbligatoria o facoltativa, tramite certificazione rilasciata dall'intermediario autorizzato.

Per quanto ipotesi residuale, non vi sono ostacoli ad ammettere ancora il deposito dei titoli azionari, se esistenti, a fini probatori (Chiappetta, 296).

Legittimata passiva è la società. Cass. S.U., n. 5263/1980 ha riconosciuto, peraltro, la legittimazione anche dei soci beneficiari di effetti vantaggiosi della deliberazione, con il connesso potere autonomo di impugnazione in caso di acquiescenza della società alla sentenza di annullamento.

A fortiori sembra da ammettere l'intervento ad adiuvandum di singoli soci, come pure degli amministratori, se portatori di un interesse alla conservazione della delibera (Cass. I, n. 15942/2007).

Profili processuali

Il processo, di competenza del tribunale in composizione collegiale (art. 50-bis c.p.c.) e non più soggetto all'abrogato rito societario, non si può iniziare prima del decorso del termine di decadenza. Riguardo a quest'ultimo Trib. Milano 11 luglio 1994 ha ritenuto la sua sottoposizione alla regola generale della non rilevabilità d'ufficio, stabilita dall'art. 2969 c.c.: il che fa però pensare alla sua natura sostanziale ed appare quindi in contrasto con la sospensione feriale, ritenuta applicabile da Cass. I, n. 6041/1991, sul presupposto del carattere processuale, invece, del termine di decadenza.

Ove la domanda di annullamento sia promossa dall'amministratore unico – o dal Consiglio di amministrazione, stante la legittimazione collegiale (Cass. I, n. 8992/2003) – è necessaria la nomina di un curatore speciale, ex art. 78 c.p.c. Ma il socio è legittimato, in tale veste – anche se sia, nel contempo, componente del consiglio di amministrazione che abbia approvato il progetto di bilancio - ad impugnare la relativa delibera di approvazione secondo Cass. I n. 29325/2020 (in Foro it., 2021, 1, 2507). In tale pronuncia, si è altresì ribadito che non sussiste litisconsorzio necessario tra i soci nei giudizi di impugnazione delle delibere assembleari.

Per contro, si è confermata la giurisprudenza che non ravvisa un conflitto immanente d'interessi, tale da condurre in ogni caso alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., nell'ipotesi speculare di un'impugnazione promossa da soci delle avverso delibere assembleari di approvazione del bilancio redatto dall'amministratore; o di determinazione del compenso di quest'ultimo; o per l'autorizzazione al compimento di un atto gestorio: dato che, altrimenti, il socio impugnante potrebbe sempre ottenere l'esautoramento dell'organo amministrativo in via indiretta (principio, enunciato nell'interesse della legge, ex art. 363, terzo comma, c.p.c., da Cass. VI-I, n. 38883/2021, in Soc., 2022, 888, con nota di Spadaro; in senso conforme, App. Firenze 2 gennaio 2020, n. 1, in Soc., 2020, 593, con nota di Fabiani).

Qualora la società sia in stato di liquidazione, la rappresentanza processuale spetta al liquidatore . Si deve ritenere ammissibile qualunque forma di intervento, autonomo, adesivo, o ad opponendum; così come la devoluzione ad arbitri, resa palese dagli artt. 35 e 36 d.lgs n. 5/2003, tuttora vigenti, dopo l'abrogazione del rito societario.

Le azioni di annullamento, ed anche di risarcimento (art. 2378, quinto comma), devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza, per evitare contrasto di giudicati, in una fattispecie definita di litisconsorzio cd. unitario o quasi necessario.

Nelle materie in cui sussiste anche la legittimazione speciale della Consob o della Banca d'Italia, l'esigenza di un processo unitario dovrebbe prorogare l'ordinario “dies a quo” per la trattazione della causa (art. 2378, quinto comma), stante il più lungo termine loro concesso per impugnare (180 giorni).

La sostituzione della delibera determina l'improcedibilità della domanda (art. 2377, ottavo comma). Si tratta di sentenza di rito, cui accederà l'eventuale pronuncia di merito sul risarcimento danni per responsabilità aquiliana e sul regolamento delle spese processuali secondo il criterio della soccombenza virtuale.

Compete al giudice, su eccezione degli attori, valutare l'effettiva portata novativa della seconda delibera e la sua conformità a legge e a statuto: con la conseguente prosecuzione dell'originaria domanda d'annullamento in caso di semplice mimetismo cosmetico.

La sospensione dell’esecuzione

Con riguardo alla delibera annullabile, la dottrina maggioritaria riconosce il mero potere di lasciarla ineseguita, indipendentemente dalla sua sospensione cautelare; quanto meno, ove sia stimata pregiudizievole per la società.

La tutela cautelare sospensiva è particolarmente rilevante in presenza di termini di preclusione dell'azione di merito, dovuti ad accentuate esigenze di stabilità della delibera ai fini della sicurezza dei traffici e dell'affidamento dei terzi, oltre che alla difficoltà di far regredire le modificazioni sostanziali prodotte dall'atto invalido, nonostante la formale retroattività della sentenza di annullamento.

Assai delicato è il problema del concorso, in parte qua, della norma in commento con la disciplina cautelare uniforme, alla luce del canone di applicabilità di quest'ultima ai provvedimenti cd. extravaganti dettato dall'art. 669-quaterdecies. Il riferimento alla specialità della cautela in esame per affermare l'autosufficienza della regolamentazione, insuscettibile di eterointegrazione con la disciplina uniforme, non è appagante: sia perché resterebbero dei vuoti inspiegabili, come ad es. per il reclamo (espressamente escluso dall'art. 35 d.lgs. n. 5/2003 solo nel giudizio arbitrale, tuttora in vigore), sia, soprattutto, perché il limite di applicazione è individuato dalla norma di chiusura dell'art. 669-quaterdecies non nella specialità (l'applicazione è infatti espressamente estesa ai provvedimenti cautelari previsti da leggi speciali), bensì nell'incompatibilità, assai più stringente.

Pertanto, valgono i consueti requisiti generali del fumus boni juris e del periculum in mora previsti per il procedimento cautelare uniforme – sostanzialmente equivalenti ai gravi motivi di cui parlava il testo previgente dell'art. 2378, quarto comma c.c. – ed è prescritta l'audizione degli amministratori e sindaci.

Il quarto comma novellato, ha recepito il criterio, di matrice giurisprudenziale, della valutazione comparativa del pregiudizio alternativamente ricadente sul ricorrente e sulla società (Trib. Milano 10 dicembre 2007 in Soc., 2008, 879, con nota di Salafia). Il che non dovrebbe comunque implicarne il carattere esaustivo, con abbandono della considerazione del fumus boni juris.

Nella valutazione comparativa dei rispettivi pregiudizi, non si potrà non tener conto del pericolo di irreversibilità legato alla nuova disciplina decadenziale di talune impugnazioni e porre mente al rilevo che soprattutto in certi casi (operazioni sul capitale, emissioni di obbligazioni: art. 2379-ter c.c.) la sospensione è l'unica possibilità di prevenire l'improcedibilità dell'azione per effetto dell'esecuzione, anche parziale, della delibera. La partita, quindi, si giuoca tutta, o quasi, in sede cautelare.

È stato peraltro notato come il danno espresso in termini pecuniari assoluti sarà maggiore, pressoché costantemente, per la società. Solo valorizzando i riflessi del pregiudizio sul socio, alla luce delle sue condizioni patrimoniali, è di fatto possibile pervenire alla sospensione della delibera. E così, ai fini della valutazione comparativa del pregiudizio ex art. 2378, comma 4, c.c., la perdita della qualità di socio nelle more del giudizio di impugnativa, costituisce pregiudizio grave e non ristorabile (Trib. Perugia 17 luglio 2015, in Giur. comm., 2016, II, 1235, con nota di Innocenti).

In talune decisioni sembra acquisire peso anche la natura del vizio contestato: secondo Trib. Milano 22 gennaio 2015 (in Soc., 2015, 829, con nota di Salafia), se la delibera assembleare impugnata ha soppresso la clausola statutaria di prelazione e, sia pure sommariamente, nel procedimento cautelare, promosso dall'impugnante, si accerti che l'approvazione è avvenuta per effetto di abuso del voto della maggioranza dei soci, può essere accolto il ricorso di sospensione della sua efficacia, considerando preminente il danno che subirebbe il ricorrente dalla soppressione della clausola, rispetto a quello che subirebbe la società dalla sospensione dell'efficacia della delibera. Analogamente, Trib. Torino 4 settembre 2013, in Banca borsa tit. cred., 2015, II, 604, con nota di Felicetti, ha statuito che ove la società non abbia chiaramente indicato le esigenze cui dovrebbe far fronte con una operazione di aumento del capitale sociale, né ha contestato in giudizio la possibilità di reperire altri mezzi per il proprio finanziamento, è preminente, nella valutazione comparativa richiesta dall'art. 2378, comma 4, c.c., l'interesse del socio di non veder diluita la propria partecipazione, rispetto a quello della società di aumentare il capitale.

La problematica dell'impugnazione delle delibere negative ha dato luogo anche ad una casistica in tema di sospensione cautelare.

Secondo Trib. Milano 28 novembre 2014 (in Giur. comm., 2016, II, 200, con nota di Toniolo), l'efficacia delle delibere negative non può essere sospesa ai sensi dell'art. 2378, comma 3, perché esse ne sono prive per natura; tuttavia, è ammissibile il ricorso ai sensi dell'art. 700 c.p.c. volto a far dichiarare, in via anticipata e provvisoria, gli effetti del risultato assembleare legittimo, conseguente all'espunzione dei voti illegittimamente espressi per effetto del previo annullamento della delibera negativa con cui è stata rigettata una proposta assembleare di aumento del capitale sociale a pagamento.

Secondo l'opinione prevalente, la sospensione è un provvedimento tipico, necessariamente incidentale – in deroga alla disciplina del procedimento cautelare uniforme (art. 669-ter c.p.c.) – non surrogabile ante causam con il ricorso al procedimento d'urgenza innominato ex art. 700 c.p.c. (che sarebbe mero travestimento verbale); analogamente a vari esempi di sospensione sparsi nel codice civile: art. 23, terzo comma, per le delibere di associazioni e fondazioni; art. 1109, secondo comma, per le deliberazioni dei partecipanti alla comunione; art. 2287, secondo comma, per l'esclusione del socio; art. 1137, terzo comma, per le deliberazioni condominiali: ma per queste ultime, il quarto comma dell'art. 1137, introdotto con la l. n. 220/2012Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici – prevede altresì espressamente l'istanza di sospensione ante causam, fermo il termine di 30 giorni per la proposizione della azione di merito, a pena di decadenza, non impedita dall'istanza di sospensione: novità normativa, suscettibile di indurre ripensamenti in subiecta materia, per via analogica.

In definitiva, l'applicazione della disciplina uniforme del codice di rito sarebbe solo tendenziale, restando salva la normativa autonoma, se giustificata da particolari esigenze; e sotto questo profilo la sospensione ante causam si assume inconciliabile con l'esigenza di certezza e stabilità delle delibere, specialmente ora che è caduto il vincolo di strumentalità necessaria col giudizio di merito, per effetto della cd. ultrattività della misura cautelare (Trib. Napoli 4 febbraio 1997, in Soc., 1997, 1059, con nota di D'Arezzo).

Sul punto, si aggiunge l'argomento pratico della brevità del termine di decadenza per proporre la domanda di annullamento e la possibilità di un provvedimento sollecito, tramite un decreto inaudita altera parte di competenza del presidente del tribunale, che ridurrebbero al minimo il rischio di un pregiudizio grave da ritardo della misura sospensiva.

Una ratio aggiuntiva del divieto risiederebbe, infine, nella necessaria identità dei motivi della sospensione con quelli prospettati a base dell'azione di cognizione: argomento, in se stesso, forse non decisivo, in ragione della possibilità di revoca, ove la causa petendi risultasse diversa ex post.

Sarebbe dunque contraddittoria con una premessa tanto lapidaria, l'ammissione, ante causam, del procedimento atipico d'urgenza ex art. 700 c.p.c., risolventesi in un fenomeno di mimetismo giuridico.

Non manca tuttavia una giurisprudenza ammissiva della sospensione ante causam, anche se filtrata attraverso il ricorso all'art. 700 c.p.c.: Trib. Milano 23 aprile 2012, in Soc., con nota di Dalfino, Trib. Roma 17 gennaio 1997, in Soc., 1997, 453, con nota di Rizzini Bisinelli).

La sospensione trasferisce il rischio della lunghezza del processo sulla società e, poiché non ha contenuto di revoca, è ritenuta da parte della dottrina inammissibile per le delibere self-executing. La tesi si fonda sul dato letterale del sintagma “sospensione dell'esecuzione” (e non di sospensione dell'efficacia), evocativo della fase materiale che fa seguito alle sole delibere bisognose di provvedimenti di attuazione.

Sulla base di tale interpretazione resterebbero escluse da sospensione importanti delibere come la nomina e la revoca di cariche sociali, l'approvazione del bilancio, gli emendamenti statutari ecc.: perché, appunto, insuscettibili di esecuzione (per l'inammissibilità della sospensione cautelare della revoca, self executing, dell'amministratore, in quanto gli effetti si realizzano in via immediata, senza la necessità di alcuna attività di esecuzione, Trib. Milano 24 aprile 2002, in Giur. it., 2002, 2101; idem per la delibera di approvazione del bilancio, che, quale dichiarazione non negoziale di scienza, con cui viene attribuita a quest'ultimo rilevanza esterna, non produce effetti diretti rispetto all'organizzazione della società ed alla posizione del singolo socio: Trib. Milano 12 gennaio 2001 in Giur. it., 2001, 1199, con nota di Iozzo).

Si obbietta da altri autori la debolezza dell'argomento letterale; tanto più, che l'art. 35 d.lgs. n. 5/2003 (Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale) attribuisce, al quinto comma, agli arbitri il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia (e non dell'esecuzione) della delibera (per l'ammissibilità della sospensione in fattispecie di nomina delle cariche sociali, Trib. Roma 18 giugno 2012, in Riv. dir. soc., 2012, 339, con nota di Della Tommasina). Nella giurisprudenza più recente, la sospensione dell'efficacia della delibera di approvazione del bilancio, di natura autoesecutiva, è stata ritenuta ammissibile, se seguita da altre deliberazioni che si fondino su di essa da Trib. L'Aquila 30 gennaio 2021 (in Soc., 2021, 407, con nota di Nieddu Arrica).

Una volta ammessa la sospensione delle delibere autoesecutive, dovrebbe seguirne, coerentemente, la rimessione in pristino della situazione antecedente, salvi i casi di irreversibilità degli effetti.

Sul problema è forse necessario distinguere le delibere che uno actu perficiuntur, che appaiono in effetti insuscettibili di sospensione, da quelle che pongono in essere un rapporto a tempo indeterminato, come ad es. la nomina degli amministratori, per le quali particolarmente avvertita può risultare la tutela cautelare; tenuto conto che forme parentetiche di sospensione dalla carica sono tutt'altro che infrequenti nell'ordinamento (cfr. art. 35-bis c.p.).

Sotto il profilo procedimentale del subprocedimento sospensivo si osserva come la riforma del 2003 abbia chiarito che l'audizione degli amministratori e sindaci non riguarda l'integrità del contraddittorio, dal momento che essi possono essere gli autori dell'impugnazione, bensì un incombente per l'acquisizione di informazioni. Una riprova poteva desumersi dall'art. 24, ultimo comma, d.lgs. n. 5/2003 che esimeva i soci opponenti dalla notifica del ricorso, essendo onere della società di informarli; ma la norma è stata abrogata.

L'imposizione eventuale di una garanzia, non necessariamente in forma di cauzione reale, contro i danni da sospensione riconducibili alla responsabilità aggravata da lite temeraria (per la quale basta, in materia cautelare, il requisito della colpa lieve: art. 96, secondo comma, c.p.c.), assurge a condizione di procedibilità. La riforma ha trasferito al giudice designato la relativa competenza, che prima apparteneva al presidente del tribunale, anticipandola alla fase cautelare (art. 2378, quarto comma, e 2378, secondo comma, testo previgente). Né questo appare l'unico emendamento letterale introdotto dalla riforma: la garanzia era prima correlata all'esercizio stesso dell'azione di merito (anche se nel più era ricompreso il meno e quindi poteva essere imposta in occasione del subprocedimento cautelare); laddove nel testo novellato, essa appare strettamente ancorata all'accoglimento dell'istanza sospensiva.

Il tentativo di conciliazione, contenente eventuali suggerimenti del giudice sulle modifiche da apportare, non presenta elementi di specialità rispetto all'art. 183 c.p.c.: è quindi esclusa l'ammissibilità di un ordine di modifica della deliberazione.

L'ultimo comma, aggiunto dal d.lgs. n. 37/2004, correttivo del d.lgs. n. 6/2003, ha reintrodotto l'obbligo di iscrizione nel Registro delle imprese dei dispositivi del decreto di sospensione e della sentenza.

Assai dibattuta è la questione del regime di stabilità dell'ordinanza di sospensione – eventualmente, anche ante causam, se ritenuta ammissibile – in caso di estinzione (o non proposizione) del giudizio di merito, alla luce del superamento della tradizionale strumentalità necessaria delle misure cautelari rispetto al giudizio di cognizione, che permane soltanto per le misure di natura conservativa.

La stabilità dei provvedimenti cautelari d'urgenza ex art. 700 c.p.c. e di quelli idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito è stata introdotta dall'artt. 23, primo comma e 24, terzo comma, d.lgs. n. 5/2003, successivamente abrogati; e poi reiterata dall'art. 669-octies, c.p.c., al sesto comma, aggiunto dal d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 80/2005.

L'ultrattività sine die è esclusa in limine ove si attribuisca alla sospensione natura conservativa, in quanto volta ad impedire la modifica. della situazione di fatto durante la pendenza del processo di annullamento della delibera. Con la conseguenza che la sospensione, a seguito della estinzione del giudizio di merito, perde efficacia ex tunc (Trib. Bologna, decr. 28 marzo 2014, in Foro it., 2015, I, 2241).

Sotto altro profilo, la stabilità è negata da parte della dottrina, sul rilievo che la sospensione della delibera non anticipa gli effetti dell'annullamento: quanto meno perché improduttiva della rimozione di quelli medio tempore occorsi.

Per contro, la tesi contrapposta attribuisce stabilità all'istituto della sospensione, ravvisando nella sospensione effetti analoghi a quelli della pronuncia di annullamento, salva la sua provvisorietà.

Accogliendo la tesi maggioritaria, l'inefficacia della sospensione per estinzione del processo sarebbe rilevabile ex art. 669-novies c.p.c.

È dubbio se la specialità della misura cautelare della sospensione, strettamente connessa con la domanda di annullamento della delibera viziata, porti ad escluderne l'applicazione nel caso di azione risarcitoria dei soci sottosoglia; quand'anche il danno fosse tuttora in fieri e teoricamente evitabile impedendo l'attuazione della delibera.

Secondo la prevalente dottrina, la cognizione del ricorso cautelare appartiene al giudice monocratico, salva la collegialità del reclamo. L'art. 2378, terzo comma, secondo cui il presidente del tribunale designa il giudice per la trattazione della causa – che nella materia in esame è collegiale – non sembra decisivo in senso contrario, tenuto conto della disciplina cautelare uniforme del codice di rito.

Stando alla lettera della norma, sarebbe requisito necessario la forma del ricorso, che deve soddisfare i requisiti formali dell'art. 125 c.p.c., inclusa la procura al difensore, ed essere depositato contestualmente all'atto di citazione, anche in copia. La formulazione normativa lascia adito alla tesi della decadenza, in caso di ricorso per sospensione successivo alla citazione, già palesatasi in tema di sospensione dell'esecuzione della sentenza (artt. 283 e 351 c.p.c.). Il tenore letterale della norma sembra infatti inibire la formulazione dell'istanza nello stesso atto di citazione, o in corso di trattazione direttamente a verbale, sebbene tale interpretazione non riposi su un saldo fondamento teleologico.

Il provvedimento di concessione, o di diniego, della sospensione della delibera impugnata, emanato nell'ambito del giudizio ex art. 2378 c.c., è destinato ad essere assorbito nella sentenza che definirà il giudizio e quindi, non essendo definitivo, né decisorio, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. I, n. 13360/2007; Cass. I, n. 10172/1993).

Il decreto inaudita altera parte è ammissibile in casi di eccezionale urgenza, ma non può prescindere dal bilanciamento delle contrapposte esigenze della società e del ricorrente. Si ripropone il dubbio, sorto a proposito dell'art. 669-sexies, secondo comma, se già con il decreto si possa rigettare l'istanza di sospensione nei casi di manifesta infondatezza. L'opinione negativa fondata in passato su null'altro che la pedissequa lettura del dato testuale – essendo evidente l'inconferenza al principio del contraddittorio, dato che il decreto negativo gioverebbe al convenuto assente – trova forse nella fattispecie in esame un quid pluris giustificativo nella competenza funzionale del presidente del tribunale, d'ispirazione regressiva rispetto alla disciplina cautelare, che pertanto è bene mantenere rigorosamente entro i confini letterali della norma.

Una vistosa novità è stata introdotta in tema di arbitrato.

Ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 5/2003 l'arbitrato, anche irrituale, sull'impugnazione di delibere comporta il potere degli arbitri di sospendere la delibera con ordinanza non reclamabile (il che è motivo di dubbio d'illegittimità costituzionale). Con riferimento alla particolare ipotesi in cui il collegio arbitrale investito della controversia non risulti ancora sotto costituito, sussisterebbe, però, la competenza concorrente del giudice ordinario alla sospensione della delibera impugnata, secondo Trib. Roma 16 aprile 2018 (in Soc., 2018, con nota di Ferrari). L'art. 36 contempla la pronunzia arbitrale secondo diritto in tema di impugnazione di delibere assembleari, rendendo dunque applicabile alla sospensione il medesimo criterio legale del bilanciamento comparativo del pregiudizio dettato dall'art. 2378, quarto comma; e nel contempo, ancor meno plausibile l'esclusione del rimedio generale del reclamo.

È dubbio se la specialità dell'art. 35 del d.lgs. n. 5/2003 comporti l'inapplicabilità di talune regole proprie della disciplina uniforme dei procedimenti cautelari: in particolare, la revoca della sospensione (eventualmente per sostituzione della delibera impugnata) e la reiterazione dell'istanza per nuovi motivi (art. 669-septies): inapplicabilità di cui non si scorge, in verità, una ratio sostanziale.

Nei casi di esercizio dell'azione da parte della Consob, si deve ritenere che la reiezione dell'istanza di sospensione avanzata dai soci non pregiudichi l'analogo potere dell'ente, portatore di interessi superindividuali. In sostanza, il pericolo principale per gli attori è dato dall'irreversibilità degli effetti della delibera. Se a chiedere la sospensione sia la Consob, bisognerebbe valutare il danno all'economia e al mercato comparativamente con quello eventualmente cagionato alla società, non essendo configurabile un pregiudizio direttamente subito dalla Consob. Inapplicabile l'imposizione di una garanzia a carico della Consob.

L'art. 2378, quarto comma, prevede che il giudice possa suggerire a fini conciliativi modifiche della delibera. In questo caso, resta applicabile l'art. 185-bis c.p.c. che esclude che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice; come pure, con gli accomodamenti del caso, l'art. 91, primo comma, in ordine al regolamento delle spese, ove l'accoglimento della domanda non ecceda la proposta conciliativa rifiutata.

Il giudice non può sostituirsi agli organi sociali nel determinare il contenuto della delibera , ma si deve ritenere che dall'annullamento – o dalla sospensione – derivano effetti preclusivi della reiterazione pedissequa, da parte dell'assemblea, di una deliberazione dal medesimo contenuto.

L'ultimo comma prescrive l'iscrizione nel registro delle imprese del dispositivo dell'ordinanza di sospensione e della sentenza, anche se relative a delibera non soggetta ad iscrizione.

Nella giurisprudenza più recente, il periculum in mora è stato ritenuto sussistente, in sede casistica, per una delibera che autorizzava la rinunzia all'azione di minoranza ex art. 2393 bis c.c., in quanto il giudizio pendente non avrebbe potuto essere proseguito ed essere accertata la responsabilità dell'amministratore (Trib. Roma 17 ottobre 2019, in Soc., 2020, con nota di Papini). Anche la modifica della composizione della tipologia dell'organo amministrativo, in violazione di norme di legge statutarie, integra il presupposto del pericolum in mora ai fini del provvedimento di sospensione cautelare della relativa delibera, in quanto la permanenza in carica di un consiglio di amministrazione invalidamente nominato riveste carattere pregiudizievole per la stabilità della stessa organizzazione sociale (Trib. Milano 2 dicembre 2020; in senso analogo, Trib. Milano 1 dicembre 2020, in un caso di violazione del quorum deliberativo).

Sempre in tema di sospensione cautelare, il termine “esecuzione” contenuto nell'art. 2378 c.c. va riferito all'attuazione degli effetti giuridici prodotti dall'atto. Ne consegue che anche quando l'esecuzione materiale risulti compiuta, ma la delibera continui, comunque, a produrre effetti giuridici permanenti sull'organizzazione societaria, è ammissibile la sua sospensione (Trib. Roma 10 ottobre 2019, in Foro it., 2020, 367 e in Soc., 2020: entrambe con nota di De Luca). A fortiori, la sospensione è ammissibile quando la delibera abbia avuto solo una parziale esecuzione, ma sia destinata a produrre ulteriori effetti (Trib. Milano 7 febbraio 2019, in Soc., 2019, 1237, con nota di Civerra).

In ordine alla legittimazione attiva, questa viene riconosciuta anche al socio receduto, in presenza di un perdurante e concreto interesse ad impugnare una delibera assembleare (Trib. Milano 11 aprile 2019, in Soc., 2020, 189, con nota di Attanasio). Tanto più la legittimazione deve affermarsi allorché il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione impugnata (Trib. Milano 27 febbraio 2020). Il pericolo può emergere anche dalla permanenza in carica di un organo gestorio invalidamente nominato (Trib. Milano 5 febbraio 2018, in Soc., 2019, 307, con nota di Zuti Giachetti).

Bibliografia

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