Codice Civile art. 2394 - Responsabilità verso i creditori sociali (1).Responsabilità verso i creditori sociali (1). [I]. Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. [II]. L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. [III]. La rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi. (1) V. nota al Capo V. InquadramentoL'azione dei creditori sociali regolata dalla norma in esame presuppone la violazione dell'obbligo di conservare l'integrità del patrimonio sociale (non del capitale sociale: Cass. I, n. 9619/2009); e cioè, di averne provocato l'incapienza in relazione al volume complessivo dei debiti sociali: restando, irrilevante, per contro, la sua diminuzione rispetto al patrimonio originariamente esistente. La ratio della norma è stata ravvisata, da una parte della dottrina, nella protezione di interessi pubblici con strumenti privati. Occorre chiarire, al riguardo, che l'amministratore ha l'obbligo di preservare il valore globale dell'impresa, non i singoli beni che la compongono. La corretta gestione non implica, infatti, la conservazione statica dei singoli cespiti patrimoniali. Solo dopo lo scioglimento della società, la conservazione acquista il rango di obbligo primario, per assurgere a canone esclusivo dell'azione dell'amministratore (art. 2486, primo comma). Nelle società diverse dalla società per azioni, non vi è una norma corrispondente all'art. 2394: si ricorre, allora, alla configurazione di un'eventuale responsabilità dell'amministratore, quale complice dell'inadempimento della società. Natura giuridica dell'azioneÈ oggetto di non sopita controversia la natura, contrattuale o extracontrattuale, dell'azione. Il contrasto si intreccia, ma non si identifica con l'altro, vertente sulla sua natura diretta o surrogatoria. Se infatti la configurazione aquiliana porta inevitabilmente ad affermare il risarcimento diretto ai creditori (Cass. I, n. 13765 /2007; Cass. I, n. 10488/1998), quella contrattuale viene ricondotta, per lo più, alla sostituzione processuale ex art. 2900 c.c. (obiter dictum in Cass. I, n. 2251/1998, in Foro it. 1998, 1, 3246; Cass. sez. lav., n. 13498/1991; Cass. n. 6187/1984; Cass. n. 6431/1982; Cass. n. 3652/1977), ma non necessariamente: potendo essere alternativamente riferita ad un'obbligazione ex lege (art. 1173) a carico degli amministratori di tutela dell'integrità del patrimonio sociale, rientrante nella categoria concettuale, di matrice straniera, dei doveri di protezione; con onere della prova liberatoria a carico dell'amministratore. La prevalente dottrina attribuisce, peraltro, alla responsabilità dell'amministratore verso i creditori natura extracontrattuale, adducendo a sostegno anche un dato letterale tratto dall'art. 2394-bis, laddove parla di «azioni», al plurale («In caso di fallimento... le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore...»): in tal modo, facendo pensare ad una diversità di natura dell'azione dei creditori ex art. 2394, rispetto alle azioni sociali previste dagli artt. 2393 e 2393-bis, di indubbia qualificazione contrattuale. L'argomento appare però fragile: se all'azione ex art. 2394 dovesse riconoscersi natura surrogatoria, o comunque sostitutiva, sarebbe egualmente giustificata l'adozione del plurale nel contesto dell'art. 2394-bis, ai fini dell'attribuzione della legittimazione attiva, in tutti i casi, agli organi concorsuali ivi indicati. Ulteriore argomento della natura autonoma ed extracontrattuale dell'azione dei creditori si desume dall'inefficacia della rinunzia da parte della società; bilanciata, però, dall'efficacia della transazione da essa stipulata – salvo impugnazione con azione revocatoria – disarmonica nell'ottica della ritenuta autonomia dell'azione dei creditori. Al riguardo, si osserva, anzi, che transazione e rinunzia, nella norma in esame, agiscono a senso unico, verso i creditori; e non, reciprocamente, verso la società, se poste in essere dai creditori: in consonanza con la natura derivativa dell'azione in esame. La diversità delle opzioni interpretative si riflette su aspetti rilevanti della disciplina, sostanziale e processuale: quali, il riparto dell'onere della prova; la condanna, diretta, o no, al risarcimento in favore del creditore-attore; gli eventuali riflessi in punto quantum debeatur, per l'applicabilità, o no, dell'art. 1225; la decorrenza della prescrizione quinquennale; la sussistenza, o no, del litisconsorzio necessario con la società (essendo, per contro, incontroversa l'insussistenza del litisconsorzio tra gli amministratori, e tra questi ed i sindaci: incompatibile con la solidarietà passiva dell'obbligazione risarcitoria: Cass. I, n. 21567/2017). È indubbio che la configurazione extracontrattuale, rendendo non necessario il litisconsorzio con la società (previsto, invece, dall'art. 2900, secondo comma) crea le premesse di plurimi processi, con connessi rischi di duplicazione del risarcimento, in favore sia della società che abbia esperito l'azione ex art. 2393, sia dei creditori (a meno di non ipotizzare una loro solidarietà attiva), suscettibile unicamente di rimedi ex post, in via di regresso. Se tale inconveniente non si ravvisa nel concreto panorama casistico è perché l'iniziativa processuale è per lo più, se non esclusivamente, assunta in sede concorsuale (art. 2394-bis c.c.); e l'azione dell'organo in rappresentanza della massa – immancabilmente cumulata con quella sociale – evita, in radice, simili inconvenienti (art. 146 legge fallimentare). Inoltre, solo se si riconosce all'azione dei creditori natura surrogatoria si può ritenere opponibile agli stessi un'eccezione personale dell'amministratore verso la società, avente, ad es., ad oggetto un controcredito, a titolo di remunerazione o di pregresso finanziamento in favore della società. Alla tesi della natura extracontrattuale, in crescita di consensi, si può opporre, infine, che essa sembra frutto di una eterogenesi dei fini, discendendo da una rilettura ex post del testo normativo, alla luce della tutela aquiliana del credito, che all'epoca della codificazione era ancora in mente Dei. Sotto il profilo processuale, l'azione di responsabilità esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, secondo comma, l. fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 in favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali: ne consegue che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie – siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale – la competenza territoriale si determina, ai sensi dell'art. 20 c.p.c., facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda (Cass. I, n. 17197/2016). A differenza del fallimento, il concordato preventivo non esclude l'esercizio dell'azione di responsabilità dei creditori verso gli organi sociali, giacché il decreto di omologazione non implica un giudizio di approvazione del loro pregresso operato, né la procedura concordataria comporta la perdita della capacità processuale in capo agli organi sociali in favore del commissario giudiziale, ovvero del liquidatore (Trib. Piacenza 12 febbraio 2015, in Foro it., 2016, 1, 1494). Il presupposto dell'insufficienza patrimonialeSi verifica l'insufficienza patrimoniale quando il valore effettivo (e non contabile) dei beni è inferiore ai debiti. Si esclude, in dottrina, che il secondo comma prefiguri un beneficium excussionis a vantaggio dell'amministratore, laddove prevede che l'azione possa essere proposta quando il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei crediti (Cass. I, n. 9815/2002); sempre che sussista un nesso di causalità tra la condotta illegittima dell'amministratore ed il pregiudizio patrimoniale per i creditori (Cass. I, n. 15487/2000). È ormai jus receptum che l'insufficienza del patrimonio richiesta dall'art. 2394 c.c. non coincida con l'insolvenza e sia, anzi, perfino qualcosa di più, visto che quest'ultima può anche dipendere da illiquidità ed incapacità della società di ottenere credito, nonostante la disponibilità di beni patrimoniali, in astratto sufficienti a coprire le pendenze debitorie (Cass. I, n. 13378/2014). Ciò spiega perché l'azione ex art. 2394 c.c. sia di rado esercitata fuori del fallimento, ove, come detto, concorre con l'azione sociale ed è proposta dal curatore. La prescrizione dell'azioneLa sottoposizione ad un termine di prescrizione, incontroversa prima della riforma, resta inalterata solo se si assegni all'azione dei creditori, ex art. 2394, natura diretta, aquiliana. La connotazione alternativa, surrogatoria, reintrodurrebbe, per contro, la problematica circa l'ipotizzata trasformazione decadenziale del termine, rivelata, secondo parte della dottrina, dalla formulazione dell'art.2393, quarto comma, novellato («L'azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell'amministratore dalla carica»). Con l'aggravante che il ceto creditorio ben più difficilmente degli organi sociali sarebbe in grado di percepire, a tempo, il depauperamento della garanzia patrimoniale. Dal combinato disposto degli artt. 2394 e 2935 si evince la rilevanza centrale dell'esteriorizzazione dell'insufficienza patrimoniale, che identifica il dies a quo per il decorso della prescrizione: coincidente, per lo più, ma non necessariamente, con la dichiarazione di fallimento. La conoscenza può essere acquisita, infatti, in epoca anteriore (Cass. I, n. 8426/2013); o perfino posteriore, se l'incapienza sia accertata solo nella fase liquidativa, nell'ipotesi – a dire il vero, scolastica – di fallimento dichiarato per incapacità di fronteggiare con mezzi normali le obbligazioni, nonostante la perdurante presenza di beni patrimoniali in astratto sufficienti (Cass. I, n. 9619/2009; Cass. I, n. 941/2005; Cass. I, n. 5287/1998, secondo cui l'onere della prova della preesistenza al fallimento, ai fini della prescrizione, incombe sugli amministratori e sindaci: e non basta, all'uopo, la liquidazione volontaria della società, che non presuppone necessariamente l'insufficienza patrimoniale). In ragione dell'onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste, però, una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento: ricadendo sull'amministratore la prova contraria della data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale: mediante deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa (Cass. I, n. 24715/2015; Cass. I, n. 13378/2014). In via alternativa, è talvolta suggerita dalla dottrina la data della commissione del fatto generatore dell'insufficienza patrimoniale o della produzione dell'evento dannoso; indipendentemente dalla mancata conoscenza dei creditori, che avrebbe rilevanza sospensiva solo se dovuta ad occultamento doloso (art. 2941, n. 8, c.c.). Nell'ambito della tesi tradizionale, permane comunque incertezza sull'identificazione degli indizi sintomatici dell'insufficienza patrimoniale. Se, in via di presunzione semplice, la prescrizione dell'azione di cui all'art. 2394 c.c. decorre, come detto, dalla dichiarazione di fallimento e l'onere della prova che l'insufficienza patrimoniale si è manifestata in un momento anteriore grava sull'interessato, permangono oscillazioni giurisprudenziali in ordine all'adeguatezza della prova consistente in un bilancio sociale che registri l'azzeramento del capitale sociale (per la tesi negativa, Cass. I, n. 31204/2017; in senso contrario, ritengono che ai fini dell'individuazione del momento di esteriorizzazione dell'insufficienza patrimoniale antecedente al fallimento o alla messa in liquidazione coatta amministrativa, sia senz'altro idoneo il bilancio di esercizio, tenuto conto della sua opponibilità erga omnes e della sua leggibilità anche da parte di operatori non particolarmente qualificati: Cass. I, n. 20476/2008; App. Torino 23 gennaio 2003, in Giur. comm. 2004, 2, 149). Sul punto, la tesi contraria poggia sul rilievo che il bilancio negativo non è sempre significativo di insufficienza patrimoniale, stante la possibile presenza di plusvalori; che il deposito integra una pubblicità-notizia che non ha lo scopo di rendere opponibile ai terzi un atto; ed inoltre, che l'ordinario creditore-fornitore non può essere considerato un fine analista finanziario, in grado di apprezzare gli indizi di crisi emergenti tra le pieghe del bilancio. Non manca, da ultimo, chi pone anche la conoscenza della violazione dei doveri degli amministratori come requisito autonomo, in concorso con l'insufficienza patrimoniale, agli effetti di cui all'art. 2935 c.c.: acquisibile, in concreto, nel fallimento, solo dopo la relazione del curatore, ex art. 33 l. fall. In tema di prescrizione, può trovare applicazione anche l'art. 2947, terzo comma, in presenza di un fatto-reato degli amministratori; ma occorre l'identità concreta dei requisiti oggettivi e soggettivi tra la fattispecie penale e quella risarcitoria (Cass. I, n. 3430/1994). Dalla variabilità del dies a quo, legato non ad una data fissa, bensì ad eventi conoscitivi da accertare in concreto, deriva che il termine di prescrizione potrebbe essere diversificato a seconda del creditore-attore. Il problema si pone, in modo particolare, per l'azione svolta dal curatore, non trattandosi di azione che nasce dal fallimento. Si potrebbe, in tal caso, fare ricorso alla conoscibilità dell'insufficienza patrimoniale da parte del creditore medio: tenuto conto che la giurisprudenza nega la possibilità di una prescrizione maturata solo per taluni creditori e non per altri (Cass. I, n. 8426/2013). Il danno risarcibileData la configurazione del presupposto della responsabilità, consistente nell'insufficienza patrimoniale al soddisfacimento dei creditori sociali, non sembra esservi spazio per il riconoscimento del lucro cessante, a differenza che nell'azione sociale di responsabilità. Nell'ipotesi particolare di responsabilità degli amministratori per atti od omissioni compiuti in violazione dei poteri limitati in conseguenza del verificarsi di una causa di scioglimento (art. 2486), non è inficiata la validità dei negozi eventualmente stipulati, e la conseguente responsabilità dell'amministratore resta a titolo di illecito, e non di debito diretto. Al riguardo, la riforma dell'art. 2486 c.c. si limita a richiamare le regole generali in materia di responsabilità degli amministratori, senza introdurre una disciplina speciale; ma con un'evoluzione dalla responsabilità per debito alla responsabilità per illecito. È possibile, in astratto, il concorso del fatto colposo del creditore, riduttivo, pro quota, del diritto al risarcimento (art. 1227 c.c.): come nell'esempio dell'istituto bancario che continui ad erogare credito, nonostante la percepibile causa di scioglimento della società, o addirittura la sua insolvenza. 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