Codice Civile art. 2394 bis - Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (1).Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (1). [I]. In caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario. (1) V. nota al Capo V. InquadramentoIl terzo comma del vecchio art. 2394 c.c., sulla legittimazione del curatore e del commissario liquidatore, è stato trasfuso nella nuova norma dell'art. 2394-bis, con la previsione aggiuntiva del commissario straordinario. Con essa concorre l'art. 146 l. fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 5/2006, che precisa l'ambito delle azioni di responsabilità esercitate dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori: includendovi quelle contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali ed i liquidatori, nonché i soci della S.r.l. nei casi previsti dall'art. 2476, settimo comma, c.c. (e cioè, quando siano responsabili in solido con gli amministratori, per avere intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi). Concorrono pure, in subiecta materia, gli artt. 206 l. fall. (in tema di liquidazione coatta amministrativa) e 36 d.lgs. n. 270/1999 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza). Gli emendamenti apportati dall'art. 2394-bis all'azione di responsabilità nell'ambito delle procedure concorsuali non riguardano gli elementi sostanziali della fattispecie, ma tendono piuttosto a riportare nell'alveo del concorso anche le nuove azioni di minoranza, istituite successivamente al testo originario dell'art. 146 l. fall., attribuendone, rispettivamente, la legittimazione attiva al curatore, al commissario liquidatore e al commissario straordinario. Resta, quindi, tuttora fuori della previsione della norma l'azione individuale del socio e del terzo, disciplinata dall'art. 2395 c.c., volta al risarcimento di un danno che è diretto, cagionato da un illecito extracontrattuale dell'amministratore, e non solo conseguenza riflessa della perdita patrimoniale della società. Nonostante il cumulo formale, le azioni di responsabilità (che secondo Cass. I, n. 24715/2015 possono essere esercitate dal curatore anche separatamente) restano distinte in ordine ai presupposti, al riparto dell'onere della prova, al regime della prescrizione ed ai criteri di liquidazione del danno (Trib. Milano 21 maggio 2020 n. 2892): onde, è inammissibile la mutatio libelli, per diversità di causa petendi (Cass. I, n. 13765/2007). Sotto quest'ultimo profilo, l'azione sociale, che include anche il lucro cessante, potrebbe avere un petitum perfino superiore a quello legato all'insufficienza patrimoniale, che costituisce il limite massimo della pretesa dei creditori (Cass. I, n. 10488/1998). Trattandosi di legittimazione derivata, vale nei confronti degli organi concorsuali indicati dalla norma lo stesso termine di prescrizione previsto per l'azione principale spettante ai creditori ex art. 2394 c.c.: e cioè, quello quinquennale a partire dalla rilevabilità oggettiva dell'insufficienza dell'attivo; e non pure, dall'effettiva conoscenza di tale situazione (Trib. Milano 17 gennaio 2019). Sussiste una presunzione semplice di coincidenza di tale dies a quo con la dichiarazione di fallimento: salva la prova contraria, incombente sugli amministratori convenuti, di una diversa data, anteriore, dell'insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (Cass. I, n. 830/2018). Se l'azione dei creditori ha natura extracontrattuale, sull'attore incombe anche l'onere della prova di un comportamento lesivo del dovere di neminem laedere. Nell'ambito dell'azione ex art. 2393 c.c., invece, si deve indicare quale comportamento dell'amministratore sia astrattamente idoneo a provocare l'intero dissesto della società. Nel panorama casistico, la più frequente violazione imputata riguarda, il divieto di nuove operazioni, dopo lo scioglimento della società, che non siano volte ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 2486, che ha sostituito il previgente art. 2449). La giurisprudenza costante, pur negando che il curatore sia direttamente legittimato ad esercitare la relativa azione di danni, di natura extracontrattuale, ha, però, ammesso che l'inottemperanza al divieto di nuove operazioni possa costituire causa petendi delle azioni cumulativamente esperite ex art. 146 l. fall. (Cass. I, n. 8368/2000; Trib. Milano 31 maggio 2001, in Banca borsa tit. cred., 2002, 2, 740; Trib. Milano 22 gennaio 2001, in Giur. mer., 2002, 410). Si esclude, da qualche autore, che la responsabilità per nuove operazioni si estenda in via solidale ai coamministratori, estranei all'iniziativa (e “a fortiori” ai sindaci). Anche nel vigore della disciplina anteriore alla riforma, si riteneva che al curatore, in rappresentanza della massa concorsuale, fosse inopponibile l'eventuale consenso dei soci all'operato dell'amministratore (Cass. I, n. 17033/2008; Cass. I, n. 15487/2000). L'azione esercitata dagli organi concorsualiL'azione di responsabilità esercitata dal curatore – considerata come archetipo, cui si conforma l'analoga domanda svolta dal commissario liquidatore e dal commissario straordinario – ha carattere unitario inscindibile, risultando dalla confluenza in un unico rimedio dell'azione sociale e dell'azione dei creditori ex artt. 2393 e 2394 (Cass. I, n. 15955/2012; Cass. I, n. 10378/2012). La norma attribuisce una legittimazione esclusiva ai predetti organi concorsuali, insurrogabile anche in caso di inerzia. In caso di sopravvenuto fallimento, nelle more di un giudizio pendente, il curatore è l'unico soggetto legittimato a proseguire l'azione di responsabilità sociale già promossa dal socio, nella qualità di sostituto processuale della società: cosicché, ove nel giudizio d'appello, riassunto nei confronti del fallimento, il curatore manifesti l'intento di non proseguire l'azione originariamente svolta, la domanda va dichiarata improcedibile per il sopravvenuto difetto di legittimazione attiva del socio (Cass. I, n. 11264/2016). Poiché l'art. 2394-bis c.c. fa esplicito riferimento alle sole procedure di fallimento (ora liquidazione giudiziale), liquidazione coatta amministrativa straordinaria, senza menzionare il concordato preventivo, è da escludere la legittimazione del commissario giudiziale, nell'ambito di quest'ultima procedura, in rappresentanza dei creditori (Trib. Firenze 22 maggio 2019, in Soc., 2019, 1409, con nota di Zanardo). In caso di accoglimento della domanda, il risarcimento ottenuto viene acquisita alla massa indifferenziata e non solo ai creditori anteriori agli atti di mala gestio, pur essendo questi gli unici, in realtà, che potessero fare affidamento su una garanzia patrimoniale ancora integra (Cass. S.U., n. 7029/2006, in motivazione). Sotto il profilo processuale, l'azione di responsabilità esercitata dal curatore, pur cumulando in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali – in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implica solo una modifica della legittimazione attiva, ma non pure dei presupposti: cosicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è pertanto soggetta alla vis attractiva del foro fallimentare (art. 24 l. fall.), rientrando invece nella competenza funzionale del tribunale delle imprese, ex art. 3, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 168/2003 (Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d'appello, a norma dell'articolo 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse (Cass. VI-I, n. 19340/2016; Cass. I, n. 17197/2016). Non vi è necessità della delibera assembleare per l'esercizio dell'azione da parte del curatore, come del resto per l'azione svolta dall'amministratore giudiziale, ex art. 2409 c.c. In caso di fallimento della società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto è inapplicabile all'azione di responsabilità proposta unitariamente dal curatore ai sensi dell'art. 146 l. fall. previgente, diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, nella quale confluiscono sia l'azione prevista dall'art. 2393 c.c., sia quella di cui all'art. 2394 c.c. In riferimento a quest'ultima, infatti, la clausola compromissoria non può operare, perché i creditori sono terzi rispetto alla società (Cass. VI-I, n. 28533/2018, in Giur. it., 2019, 636, con nota di Baccaglini; Trib. Bologna 2 dicembre 2021 n. 2915; Trib. Roma 9 dicembre 2019 n. 1290, in Foro it., 2020, 1, 727; Trib. Catanzaro 16 novembre 2018 n. 3627, in Soc., 2019, 745, con nota di Pototschnig). Non è tuttavia ammissibile la separazione dell'azione sociale da quella dei creditori in funzione della diversa competenza – rispettivamente, del tribunale, sezione specializzata in materia di impresa e del collegio arbitrale – stante la natura cumulativa ed inscindibile dell'azione esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. previgente (Cass. VI-I, n. 15830/2020, in Foro it., 2020, 1, 3062). Sul punto, bisogna però osservare che questa soluzione è senza dubbio valida qualora si configuri l'azione di responsabilità promossa dai creditori come azione autonoma ed extracontrattuale, con condanna diretta al risarcimento, in favore degli stessi creditori. Non così se la si intenda come azione sostitutiva (o surrogatoria) di quella sociale: in questo caso, infatti, non potrebbe non essere assoggettata allo stesso regime processuale proprio di quest'ultima, e quindi rientrare nella competenza arbitrale pattuita per essa. La legittimazione spetta in via esclusiva al curatore , fino a che penda la procedura concorsuale: e ciò, anche se la curatela resti inattiva (Trib. Milano 24 novembre 2021, in Soc., 2022, 516). Sotto il profilo della giurisdizione, l'azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento di una società cd. in house providing nei confronti degli amministratori, spetta al giudice ordinario, e non al giudice contabile, in conseguenza della scelta del paradigma privatistico, in mancanza di specifiche disposizioni in contrario (Cass. S.U., n. 22406/2018). La liquidazione del dannoGiurisprudenza e dottrina hanno ormai superato il criterio meccanico della differenza tra passivo e attivo, esigendo, per contro, la prova specifica del nesso di causalità tra le violazioni accertate ed il deficit conseguitone. Le critiche mosse al criterio tradizionale hanno riguardato la comparazione disarmonica del dato valutativo di partenza – ancorato al principio dell'impresa in attività (going concern) – con quello finale, riproduttivo, invece, di valori di liquidazione; ed hanno pure messo in rilievo come non si possa escludere che le perdite trovino una causa pregressa, in un periodo anteriore alla perdita del capitale (Cass. S.U., n. 9100/2015). È stato pure messo in rilievo, in dottrina, che lo stato passivo è uno specchio deformante, perché ai sensi dell'art. 55, secondo comma, l. fall., il fallito decade dal beneficio del termine per i propri debiti, mentre restano in vigore i termini di esigibilità dei suoi crediti. In conclusione, il criterio della differenza tra passivo e attivo finisce con l'avere uno spazio residuale ai soli fini della liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le condizioni, con motivazione specifica delle ragioni del mancato accertamento degli effetti dannosi in concreto riconducibili alla condotta dell'amministratore (Cass. S.U., n. 9100/2015; Cass. I, n. 19733/2015; Cass. I, n. 38/2017). Tale principio trova conferma nella più recente giurisprudenza, che ribadisce che, ai fini del risarcimento del danno, si può ricorrere ad una liquidazione nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede di liquidazione giudiziale, a titolo equitativo, e non di meccanica applicazione di tale criterio (Cass. I, n. 24103/2018). Sempre in tema concorsuale, la violazione della par condicio creditorum comporta un risarcimento del danno solo per la parte superiore a quella cui i creditori beneficiari avrebbero avuto diritto in sede di riparto concorsuale (Trib. Milano 13 ottobre 2020, in Soc., 2021, 867, con nota di Brighenti). Se dunque l'inadempimento riguarda obblighi specifici, ad essi saranno correlati danni specifici, non l'intero dissesto. Per di più, la liquidazione del danno pari alla differenza, spesso astronomica, tra passivo ed attivo porta, inoltre, con sé gli inconvenienti dell'intransigibilità a condizioni accettabili e di imposte di registro elevate: al punto che gli stessi curatori preferiscono spesso limare il petitum (ed il ricorso al sequestro conservativo è spesso motivato proprio con la sproporzione tra il danno e la garanzia patrimoniale dell'amministratore). Sono valutazioni plausibili, ispirate al principio generale che un'eccessiva semplificazione in tema di prova del nesso eziologico colori il risarcimento del danno di una funzione sanzionatoria, più che ripristinatoria del patrimonio: valutazioni, che tuttavia non possono infirmare, in radice, il fondamento del criterio di liquidazione tradizionale, tenuto conto dell'obbligo specifico dell'amministratore di arrestare l'attività sociale al momento in cui la società si sia sciolta (artt. 2485-2486), o di chiedere, a tempo, il fallimento (artt. 217, primo comma, n. 4 e 224 l. fall.). Al riguardo, si potrebbe forse pensare ad una presunzione semplice di responsabilità, salva la prova dell'inimputabilità del danno derivante dall'operazione; con inversione, quindi, dell'onere della prova, in applicazione del principio giurisprudenziale della vicinanza della prova (Cass. S.U., n. 13533/2001): anche a non voler ritenere addebitabile, comunque, la dilatazione del passivo verificatasi in regime di prosecuzione dell'attività nonostante lo scioglimento della società, pur se dipendente da circostanze fortuite sopravvenute, in applicazione del canone formale enunciato dal broccardo qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu. In questa cornice concettuale, l'aggravamento della perdita, in sintesi, deriverebbe non già da singoli atti dannosi, bensì dalla prosecuzione di una gestione caratterizzata dall'eccedenza dei costi sui ricavi: prosecuzione che, una volta perso dalla società il capitale minimo, è “mala gestio” in sé, tutte le volte che una tempestiva interruzione avrebbe arrestato il prodursi di nuove perdite; e può essere consentita solo per i tempi tecnici richiesti per una proposta di concordato o una soluzione extragiudiziale. La tesi in esame si presta anche ad un'altra considerazione: la prosecuzione dell'attività, anche mediante atti in sé stessi non illeciti – quale un normale contratto di compravendita o di finanziamento – se si risolve in un danno economico che non sarebbe censurabile in una impresa attiva in forza della business judgement rule, diventa tale in una società in fase di scioglimento per perdite. Non sono mancate pronunzie di legittimità che hanno applicato i predetti principi, onerando l'amministratore della prova che nel caso concreto l'astensione dal comportamento doveroso non abbia provocato un danno; o che parte di esso si sarebbe verificata comunque, anche in caso di adozione di una condotta corretta (Cass. I, n. 7606/2011; Cass. I, n. 5876/2011). Al riguardo è da notare che, secondo la più recente giurisprudenza, nemmeno l'impossibilità di ricostruire il bilancio, per omessa o irregolare tenuta dei libri contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola, giustifica la liquidazione del danno in misura corrispondente alla differenza tra passivo e attivo accertati in ambito fallimentare: potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine dell'applicazione del criterio equitativo ove ne ricorrano le condizioni e purché siano indicate ragioni plausibili, in rapporto alle circostanze del caso concreto, che non abbiano permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore (Cass. S.U., n. 9100/2015). La giurisprudenza, in punto quantum debeatur, fa pure ricorso, in alternativa, al metodo dei decrementi patrimoniali, e cioè, al criterio della comparazione dei patrimoni netti rispettivamente registrati alla data della doverosa percezione della causa di scioglimento e alla data di messa in liquidazione della società o di fallimento: a condizione che tale utilizzo sia congruo con le circostanze del caso concreto e che, quindi, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato ed abbia specificato le ragioni ostative ad un rigoroso accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla sua condotta. (Cass. I, n. 9983/2017; Trib. Milano 22 gennaio 2016 in Soc., 2016, 610). L'indirizzo giurisprudenziale sopra illustrato, che costituisce ormai diritto vivente, ha senza dubbio corretto, opportunamente, applicazioni meccaniche e semplicistiche del criterio di liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra passivo e attivo, rivelatesi fomite di aggravi eccessivi ed ingiusti delle conseguenze risarcitorie. Non può però essere sottaciuto, in sede di analisi critica, che tale parametro conteneva, in nuce, un nucleo di verità che corre il rischio di essere ora del tutto negletto: e cioè il rilievo che le norme a tutela del capitale dovrebbero valere proprio a prevenire l'evento infausto dell'insolvenza, imponendo agli amministratori di arrestare, a tempo, l'attività, assumendo tempestivamente le misure doverose (artt. 2446, 2447, 2484), ben prima che il dissesto diventi irreversibile. Questo potrebbe forse giustificare una praesumptio hominis di imputabilità del danno derivato dalla loro mancata adozione; e quindi, sotto il profilo processuale, importare un'inversione dell'onere della prova a carico degli organi sociali, sostanzialmente conforme ai principi in tema di inadempimento di obbligazioni contrattuali (art. 1218). All'obiezione che i predetti principi concernono l'elemento psicologico della colpa, e non il nesso causale, si può forse replicare che spetta agli amministratori (e nell'ambito dei loro doveri specifici, anche ai sindaci) sottoporre a continuo monitoraggio anche gli effetti dilazionati nel tempo di decisioni assunte in un periodo in cui la società non era ancora insolvente. Non diversamente da quanto si ritiene, in tema di responsabilità per omesso intervento correttivo di inadempienze e violazioni di legge, o di statuto, commesse da precedenti amministratori (Cass. I, n. 2906/2002). La l. n. 155/2017 (Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza), all'art. 14 (Modifiche al codice civile), primo comma, ha disposto: “nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, il Governo procede alle modifiche delle seguenti disposizioni del codice civile rese necessarie per la definizione della disciplina organica di attuazione dei principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, in particolare prevedendo i criteri di quantificazione del danno risarcibile nell'azione di responsabilità promossa contro l'organo di amministrazione della società fondata sulla violazione di quanto previsto dall'articolo 2486”. Delega, significativa in parte qua della persistenza di incertezze interpretative, bisognose di una disciplina espressa. Il legislatore delegato ha mostrato un'adesione all'impostazione di fondo originaria, sia pure con temperamenti desunti dalla giurisprudenza di legittimità: disponendo, testualmente, che all'art. 2486 c.c. dopo il secondo comma è aggiunto il seguente: «Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura» (art. 378, secondo comma, d.lgs. n. 14/2019 - Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza). Il ricorso alla presunzione, sia pure relativa, alleggerisce non poco l'onere probatorio del curatore, che risultava notevolmente gravoso se riferito alla puntuale e analitica imputazione del danno a singole operazioni poste in essere dopo lo scioglimento della società; e si giustifica con l'obbligo dell'amministratore di non proseguire l'attività economica della società, una volta palesatasi una causa di scioglimento (soprattutto nell'ipotesi statisticamente più frequente della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, senza i provvedimenti di cui agli artt. 2447 e 2482-ter ): salva la prova contraria a carico dell'amministratore, ma solo nel caso di regolare tenuta delle scritture contabili. Senza tale presupposto, il criterio differenziale tra passivo e attivo accertati nelle procedure concorsuali non sembra ammettere, letteralmente, eccezioni. 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