Codice Civile art. 2437 - Diritto di recesso 1 .

Lorenzo Delli Priscoli

Diritto di recesso 1.

[I]. Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti:

a) la modifica della clausola dell'oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell'attività della società;

b) la trasformazione della società;

[c) il trasferimento della sede sociale all'estero;]2

d) la revoca dello stato di liquidazione;

e) l'eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo comma ovvero dallo statuto;

f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell'azione in caso di recesso;

g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.

[II]. Salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso all'approvazione delle deliberazioni riguardanti:

a) la proroga del termine;

b) l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.

[III]. Se la società è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con il preavviso di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, non superiore ad un anno.

[IV]. Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso.

[V]. Restano salve le disposizioni dettate in tema di recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento.

[VI]. È nullo ogni patto volto ad escludere o rendere più gravoso l'esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi previste dal primo comma del presente articolo.

 

[1] V. nota al Capo V.

[2] Lettera soppressa dall'art. 51, comma 1, d.lgs. 2 marzo 2023, n. 19.  Ai sensi dell'art. 56, comma 2, del medesimo decreto, il citato art. 51 si applica a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto. La società che ha trasferito la sede statutaria all'estero prima di tale data mantenendo l'iscrizione nel registro delle imprese continua a essere regolata dalla legge italiana e, ai fini della giurisdizione e della legge applicabile, la sua sede si considera ubicata presso il registro delle imprese presso il quale ha mantenuto l'iscrizione. Per l'applicazione, v., inoltre, quanto disposto dai commi 1, 4 e 5 del d.lgs. n. 19, cit.

Inquadramento

L'art. 2437 c.c. disciplina il diritto di recesso dei soci di s.p.a. ed è una delle norme che, con la riforma del diritto delle società di capitali del 2003, più ha avuto delle modifiche significative, a causa del notevole ampliamento, rispetto al passato, delle ipotesi in cui il recesso è consentito. Per comprendere al meglio il senso e la portata di tali novità, occorre guardare al diritto di recesso non isolatamente, ma parallelamente alla disciplina dell'alienazione delle azioni da una s.p.a., riuscendosi così ad avere una visione d'insieme delle reali possibilità per il socio di «uscita» dalla società («exit», per usare il fortunato termine anglosassone utilizzato per descrivere questo fenomeno: Daccò, 1397; V. Di Cataldo, 246).

Il termine exit è mutuato dal linguaggio economico e accomuna fenomeni giuridici, quali il recesso e l'alienazione di partecipazioni, che pur essendo molto diversi hanno, dal punto di vista economico, una notevole interdipendenza, che con la riforma è stata recepita in maniera evidente anche dal diritto: ad esempio alcuni vincoli alla circolazione delle partecipazioni sono validi solo in quanto sia consentito al socio che non abbia votato a favore degli stessi di recedere dalla società. La tematica dell'exit coinvolge due aspetti centrali della vita delle società di capitali: da un lato, in maniera più immediata, quello del pericolo della depatrimonializzazione della società, che è insito nel recesso del socio, e dall'altro – in maniera meno diretta ma non meno importante – quello del finanziamento della stessa. Con riferimento a quest'ultimo punto si deve infatti osservare che la concorrenzialità dei mercati internazionali si è sempre più accentuata, e per incentivare la competitività delle imprese italiane il legislatore ha ritenuto indispensabile favorire il più possibile l'accesso delle società al mercato dei capitali. Il collegamento tra competitività delle imprese e accesso al mercato dei capitali di rischio costituisce infatti il primo punto della legge delega (cfr. la lettera a, del comma 1 dell'art. 1, l. n. 366/2001). È infatti un risultato che può dirsi ormai acquisito che la propensione all'investimento aumenta quando si è consapevoli dell'esistenza della possibilità di un pronto e rapido disinvestimento. In effetti, uno dei pilastri delle società di capitali, che ne ha determinato nei secoli il successo, è da sempre stato costituito, insieme alla limitazione della responsabilità dei soci ai soli conferimenti, proprio dalla possibilità di un agevole disinvestimento. Sembra che la riforma delle società di capitali del 2003, nell'intento di favorire l'accesso della società ai finanziamenti, si sia preoccupata di assicurare ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilità e senza dover temere «sorprese» (Delli Priscoli, 26).

Non solo infatti sono aumentate le ipotesi legali di recesso, ma l'analisi di queste ultime e di quelle relative ai vincoli apponibili alla circolazione delle azioni e delle quote permette di concludere che al socio è garantito, al momento dell'entrata nella società, che le possibilità diexitnon potranno diminuire nel corso della vita dell'ente collettivo senza che allo stesso socio sia concesso di uscire dalla società, ad un prezzo tendenzialmente corrispondente al valore di mercato delle azioni o delle quote. In effetti, sia la possibilità di fare affidamento sul mantenimento delle ipotesi di exit esistenti al momento dell'entrata nella società sia quella di poter contare su un valore corretto di liquidazione sono ritenute dalla legge così importanti che specifiche ipotesi di recesso sono proprio costituite dall'eliminazione di una qualsiasi di queste cause e dalla modifica dei criteri per la determinazione del valore di liquidazione della partecipazione (Delli Priscoli, 26).

Con la riforma sono dunque messe in crisi quelle definizioni di recesso fondate esclusivamente sulla reazione del socio ad una modifica radicale della società decisa a maggioranza. Questo istituto tende dunque ad adeguarsi alle necessità dell'investitore che decide di vendere i propri titoli per calcoli che il più delle volte prescindono da eventuali iniziative della società da lui non condivise (si pensi al recesso parziale, a quello degli assenti e degli astenuti, a quello dai gruppi previsto dalle lettere a) e c) del primo comma dell'art. 2497-quater c.c. – ove già dal dato testuale è esplicito il riferimento alla modifica delle condizioni di rischio dell'investimento – del riconoscimento di un valore di liquidazione tendenzialmente corrispondente a quello di mercato e infine a quello dalle società costituite a tempo indeterminato). Sembra dunque che la disciplina dell'exit si sforzi oggi di rispondere ad una duplice esigenza: quella del socio che partecipa alle decisioni della società e che non ne condivida una di particolare importanza e quella del socio investitore che ritiene non più conveniente la sua partecipazione all'ente collettivo (Stella Richterjr., 395).

Tra questi due distinti profili di socio, il legislatore sembra aver privilegiato quello dell'investitore, mentre minori opportunità sembra avere il socio che, pur non disponendo di una parte rilevante del capitale sociale, si proponga di incidere nella società in maniera significativa. Si è infatti passati, per molte decisioni, da un diritto di veto del socio ad uno semplicemente di exit e pertanto i diritti del singolo si sono indubbiamente indeboliti a favore di una maggiore libertà d'azione della maggioranza (Campobasso, 456; Delli Priscoli, 28).

È dunque ormai minoritaria l'opinione di chi ritenga tuttora il recesso societario un istituto avente carattere eccezionale in quanto la normativa in tema di recesso dettata per le società sarebbe applicazione del più generale principio contenuto nell'art. 1372 c.c., secondo cui il recesso, al di fuori dei casi espressamente previsti dalle parti, ha carattere eccezionale: nel disciplinare il diritto di recesso nelle società di capitali il legislatore avrebbe adottato il medesimo criterio, ossia avrebbe stabilito dei casi in cui il recesso è espressamente previsto dalla legge, rimettendo alle parti la possibilità di individuarne ulteriori; se, tuttavia, le parti, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, non prevedono ulteriori ipotesi negoziali di recesso, il diritto allo scioglimento del vincolo contrattuale deve intendersi limitato alle sole ipotesi previste dal legislatore. Non può non sottolinearsi, a parte le considerazioni già svolte, la completa estraneità della disciplina contrattuale da quella societaria (si pensi soltanto alla tipicità delle società e alla possibile atipicità del contratto, alla disponibilità degli interessi delle parti nel contratto e alla disciplina inderogabile relativa alle norme in tema di bilancio e all'integrità del capitale sociale a tutela dei terzi: Bertino, 1437).

Rapporti fra disciplina legale e autonomia privata.

Fra i principî generali individuati dalla legge delega in materia di società di capitali (sia per azioni che a responsabilità limitata) vi è quello di ampliare l'autonomia statutaria. Infatti, accanto ad un aumento delle ipotesi di recesso previste dalla legge, inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico e la cui violazione è causa di nullità (secondo un'impostazione che non ha subito modifiche con la riforma), è prevista altresì la novità consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre pur indicate dalle legge ma considerate derogabili; inoltre, un altro importante strumento che la riforma delle società ha lasciato all'autonomia statutaria è costituito dalla possibilità di determinare autonomamente, in caso di recesso, il valore di liquidazione delle azioni o delle quote, anche se esso deve sempre tendenzialmente rispecchiare l'effettivo valore di mercato (cfr. art. 2437-ter c.c.): Delli Priscoli, 45; Stella Richterjr., 396.

Le nuove ipotesi legali di recesso e l'ampio ruolo offerto all'autonomia statutaria rendono possibile l'individuazione di casi di recesso non aventi come causa una qualche decisione della società: è espressamente prevista la possibilità per il socio di società di capitali «chiusa» di uscire da una società contratta a tempo indeterminato; è discusso il problema dell'ammissibilità di una clausola che attribuisca la facoltà di recesso ad nutum anche quando tali società siano contratte a tempo determinato; è consentito il recesso non solo dei dissenzienti ma anche degli assenti e degli astenuti; è espressamente previsto che non debba essere necessariamente una deliberazione a legittimare il recesso (cfr. l'art. 2437-bis c.c., che stabilisce per tale ipotesi un termine diverso per l'esercizio del recesso).

Con la riforma delle società di capitali l'istituto del recesso assume un ruolo chiave per le esigenze di finanziamento della società: quanto più sarà facile recedere e quanto più corrispondente all'effettivo valore sarà il valore di liquidazione tanto più facilmente sarà possibile per la società reperire finanziamenti. Al contempo però sarà tanto più alto per la società il rischio di un suo repentino depauperamento: le scelte riservate all'autonomia statutaria dovranno allora muoversi alla ricerca del migliore equilibrio possibile tra questi due scenari (Campobasso, 561; Delli Priscoli, 47).

Il recesso parziale, degli assenti e degli astenuti

Secondo il primo comma dell'art. 2437 c.c., hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti determinati argomenti. Viene pertanto attribuita espressamente la possibilità di un recesso parziale. Lo scopo che si propone la norma è di attribuire al socio la più ampia gamma di possibili decisioni circa il proprio eventuale disinvestimento: questa consapevolezza infatti può servire a convincere il socio a far confluire nella società risorse finanziare anche notevoli, sapendo di poter poi differenziare la destinazione di tali risorse in ipotesi di mutate condizioni di rischio all'interno della società. Quest'impostazione è peraltro coerente con la nuova disciplina della s.p.a., che tende a porre al suo centro l'azione piuttosto che la persona del socio, ed è un evidente segnale della scelta del legislatore di tenere in considerazione anche le esigenze del socio-investitore e non più solo quelle del socio interessato alla gestione della società, per il quale il recesso costituisce la massima espressione del suo dissenso da una scelta della maggioranza. La relazione governativa sottolinea che tale scelta è stata effettuata per venire incontro alle esigenze del socio che, mutate le condizioni di rischio o comunque il quadro operativo della società a seguito della delibera cui non ha votato in modo favorevole, voglia rischiare di meno ma ciò nonostante voglia anche continuare ad essere socio. In tal modo si cerca di “trattenere” quella parte del patrimonio sociale che, nel caso in cui si ponesse al socio l'alternativa secca tra il restare integralmente o uscire del tutto, potrebbe pure essere perduta. Peraltro il ragionamento potrebbe rovesciarsi, ipotizzando che un socio, a seguito di una delibera da lui non condivisa, non perverrebbe mai alla decisione estrema di lasciare completamente la società; venendogli invece attribuita l'opportunità di “alleggerire” la propria partecipazione, potrebbe decidere, essendo ad esempio divenute più rischiose le condizioni di partecipazione alla società, di continuare a farne parte con un pacchetto azionario più ridotto (Delli Priscoli, 49; Ferri, 746).

La società costituita a tempo indeterminato

Forse l'innovazione più significativa per quanto riguarda le nuove ipotesi di recesso a tutela del socio investitore è quella che consente di uscire, con il solo onere di dover concedere un preavviso, da una società costituita a tempo indeterminato. Tale fattispecie infatti prescinde completamente sia da una decisione della società in relazione alla quale il socio abbia espresso il suo dissenso sia conseguentemente anche da qualsiasi modificazione delle condizioni di rischio. Questa ipotesi dunque, combinata all'innovazione che consente di ottenere un valore pieno di liquidazione e a quella che permette di recedere solo per una parte delle partecipazioni, attribuisce al socio di una s.p.a. costituita a tempo indeterminato di mutare la destinazione di tutto o parte del suo investimento all'esito di un processo decisionale completamente indipendente da eventuali scelte strategiche della società che non si condividano. Nel momento in cui viene costituita una società infatti, quand'anche essa nasca da un contratto, si crea un soggetto giuridico in grado di entrare in contatto con i terzi, che gode di vita autonoma rispetto ai soggetti che l'hanno creato e che è fisiologicamente destinato a durare potenzialmente all'infinito. Pertanto, quello che ha durata perpetua quando viene costituita una società a tempo indeterminato è la società stessa, e non anche un ipotetico vincolo a carico dei soci, che sono liberi in qualsiasi momento di negoziare sul mercato le azioni; al contrario, nelle società di persone, il diritto di recesso si giustifica anche nel caso di società contratta per tutta la vita di un socio in ragione della difficoltà di cedere la quota di partecipazione ad essa. Tale argomento è confermato dalla scelta legislativa (art. 2437, comma 3, c.c.) di escludere la facoltà di recesso dalle società che, in quanto quotate in un mercato regolamentato, non offrono problemi relativi al reperimento di acquirenti. Diverso è invece il discorso per quanto riguarda una modifica statutaria, adottata a maggioranza, diretta ad eliminare la facoltà di recesso in caso di proroga della società. In tal caso infatti l'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c. stabilisce espressamente che il socio dissenziente ha diritto di recedere. Tale norma si spiega perché in questo caso la modifica è successiva rispetto all'entrata nella società del socio, che aveva pertanto fatto affidamento su di un diverso assetto relativo alla possibilità di uscita nel tempo. Nessun affidamento da tutelare invece può essere naturalmente vantato nel caso in cui, in una società che già preveda il divieto di recesso per l'ipotesi di proroga, questa venga effettivamente decisa Campobasso, 443, Delli Priscoli, 45; Ferri, 778).

In giurisprudenza, si afferma che la norma di cui all'art. 2437, comma 3, c.c., propriamente dettata con riguardo a società per azioni il cui statuto non contempli espressamente un termine di durata del contratto sociale, non è suscettibile di applicazione analogica ai casi in cui il termine di durata, ancorché determinato, sia “largamente superiore alle aspettative di vita di un socio”, di talché essendo in tali casi affetto da illegittimità il recesso esercitato invocando le tutele di cui alla norma de quo (Cass. n. 4716/2020).

Ipotesi tipizzate di recesso

Il diritto di recesso legale del socio, sancito dagli artt. 2532 e 2437 c.c. (nei rispettivi testi anteriori alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6/2003), non può essere limitato o soppresso, neppure da clausole statutarie, senza violare la norma di legge attributiva del diritto potestativo, mentre, qualora tale facoltà trovi la sua fonte nelle clausole statutarie e, dunque, sorga con l'atto costitutivo come manifestazione della volontà negoziale, è suscettibile di essere disciplinata e conformata attraverso clausole che specifichino le situazioni legittimanti il relativo esercizio, oppure lo limitino o condizionino, prevedendo (come nella specie) la necessità, per la sua efficacia, di una positiva constatazione del consiglio d'amministrazione circa l'effettiva ricorrenza della situazione legittimante il recesso stesso (Cass. I, n. 2979/2016).

La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società (Cass. I, n. 22303/2013).

L'art. 2437 c.c., elenca alla lettera g), tra le ipotesi legittimanti il recesso, «le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione». La delibera assembleare che muti il quorum per le assemblee straordinarie, riconducendolo a previsione legale, non giustifica il diritto del socio al recessoex art. 2437, lett. g), c.c., perché l'interesse della società alla conservazione del capitale sociale prevale sull'eventuale pregiudizio di fatto subito dal socio, che non vede inciso, né direttamente né indirettamente, il suo diritto di partecipazione agli utili ed il suo diritto di voto a causa del mutamento del quorum (Cass. I, n. 13875/2017).

In tema di recesso dalla società di capitali, l'espressione "diritti di partecipazione" di cui all'art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. - pur nell'ambito di una interpretazione restrittiva della norma, tesa a non incrementare a dismisura le cause che legittimano l'uscita dalla società - comprende, in ogni caso, i diritti patrimoniali che derivano dalla partecipazione e, tra questi, quello afferente la percentuale dell'utile da distribuire in base allo statuto; ne consegue che la modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell'utile di esercizio, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l'abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione, in considerazione dell'aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza (Cass. n. 13845/2019). Nella giurisprudenza di merito, sul punto, si è affermato che spetta il recesso, ai sensi della lett. g) dell'art. 2437 c.c., in caso di delibera dell'assemblea volta a modificare lo statuto di una società per azioni, così da rimettere al consiglio di amministrazione la proposta sugli utili netti di bilancio da destinare ai soci (ancorché non vincolante per l'assemblea), in sostituzione della precedente previsione statutaria ai sensi della quale ai soci spettava una percentuale fissa dell'80% in proporzione del valore delle azioni salvo diversa decisione dell'assemblea (Trib. Bologna 28 dicembre 2018, in Giur. comm., 2021, 2, II, 434).

La deliberazione di modifica della facoltà riconosciuta al socio di farsi rappresentare in assemblea onde esercitare il diritto al voto non può essere considerata, al fine del sorgere del diritto di recesso del socio, sotto il profilo della modifica dello statuto sociale concernente i diritti di partecipazione. Certamente, invece, potrebbe parlarsi di delibera modificativa dello statuto concernente i diritti di voto ove ad esempio si introducessero categorie di soci a voto plurimo ovvero si riconoscesse ai soci sovventori, ma non cooperatori, il diritto di voto, ovvero ove l'esercizio del diritto di voto dei soci cooperatori fosse sottoposto a specifiche condizioni. In buona sostanza, la facoltà riconosciuta al socio di delegare la partecipazione in assemblea a terzi ed ivi esercitare il diritto di voto non concerne in sé il riconoscimento del diritto di voto riconnesso alla qualifica di socio, ma inerisce solo ad una modifica delle facoltà e del diritto di farsi rappresentare in assemblea, cosa in sé diversa dal riconoscimento del diritto di voto. Il socio, dunque, nonostante tale modifica continua a godere dei medesimi diritti di voto precedenti, che non sono toccati, né direttamente, né indirettamente, dalla modifica statutaria (Trib. Venezia 26 febbraio 2021).

La modifica statutaria che incide in via eventuale e indiretta sulla misura dei c.d. superbenefici stabiliti dallo statuto (consistenti nelle somme che residuano dagli utili netti annuali, all'esito delle destinazioni statutarie, e che devono essere distribuite agli azionisti e a quei soggetti, non azionisti, che hanno effettuato sovvenzioni alla società) non consente agli azionisti di esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 2437 c.c., in quanto non ne risultano modificati i diritti di partecipazione ex art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. (Trib. Torino 18 gennaio 2021, in Foro it., 2021, 9, 1, 2937).

In tema di s.p.a., per il legittimo esercizio del diritto di recesso del socio ai sensi dell'art. 2437, comma 2, lett. b), c.c. è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria che comporti l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non essendo richiesta alcuna indagine in ordine alla rilevanza sostanziale di tale modifica rispetto alla disciplina precedente (Cass. n. 20546/2022. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito, che aveva escluso la legittimità del recesso a seguito della modifica statutaria che aveva sottratto al diritto di prelazione dei soci i trasferimenti di azioni a società direttamente o indirettamente controllate, sul presupposto che tale modifica non aveva determinato un mutamento sostanziale della clausola di prelazione).

In materia di società per azioni la deliberazione di riduzione della durata della società che comporti il passaggio dal regime a tempo indeterminato a quello a tempo determinato non attribuisce al socio diritto di recesso alla stregua della disciplina dettata dall'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c., posto che tale diritto è riconosciuto solo nei casi di eliminazione delle cause di recesso derogabili previste dalla legge e di eliminazione delle ulteriori clausole di recesso previste dallo statuto (Cass. n. 6280/2022).

Giustifica l'esercizio del recesso il trasferimento della sede sociale all'estero, in quanto anche esso importa un mutamento delle condizioni dell'investimento importando l'applicazione di una diversa normativa nazionale (lett. c.). Tuttavia, l'art. 51, d.lgs. n. 19/2023 ha soppresso tale causa di recesso. La eliminazione è dovuta alla introduzione dell'art. 2510-bis il quale disciplina il trasferimento della sede all'estero, specificando che il trasferimento  all'estero della sede statutaria è posto in essere mediante trasformazione in conformità alle disposizioni che regolano le operazioni di trasformazione transfrontaliera e internazionale.

Nelle s.p.a., pur non esistendo delle norme che permettano di attribuire «diritti particolari» ad alcuni soci come per le s.r.l., ve ne sono altre che consentono di raggiungere un risultato analogo: il comma 4 dell'art. 2346 c.c., che attribuisce all'atto costitutivo la possibilità di prevedere un'assegnazione delle azioni diversa rispetto a quella spettante in proporzione alla parte di capitale sottoscritta; e l'art. 2351, comma 3, c.c., che autorizza lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in relazione alla quantità di azioni possedute, a limitare il diritto di voto o a disporne scaglionamenti (Delli Priscoli, 149).

La differenza più rilevante tra l'art. 2468 c.c. in tema di s.r.l. e gli artt. 2346 e 2351 c.c. in tema di s.p.a. è che nella prima norma il privilegio è assegnato ad personam (ed è dunque intrasferibile) mentre nelle seconde le limitazioni o i benefici vengono attribuiti in maniera anonima, ovverosia in relazione ad un certo numero di azioni possedute. E proprio agli artt. 2346 e 2351 c.c. si ritiene faccia riferimento l'art. 2437 comma 1, lett. g), c.c., quando attribuisce il diritto inderogabile di recesso in caso di modificazione dello statuto concernente i diritti di voto o di partecipazione. L'attribuzione della facoltà di recesso rende palese che anche a maggioranza sarà a possibile apportare queste modifiche. Queste ultime, sulla falsariga di quanto accade per i diritti particolari del socio nelle s.r.l., potranno consistere nell'attenuazione, nell'inasprimento o nella eliminazione di una certa limitazione del diritto di voto, o nel cambiamento dei criteri di distribuzione delle azioni, e pertanto incideranno sì direttamente solo su alcuni soci, ma provocheranno effetti indiretti anche su tutti gli altri. La facoltà di recesso spetterà dunque a tutti i soci dissenzienti o assenti che, direttamente o indirettamente, vengano danneggiati. Così, ad esempio, l'eliminazione di una limitazione del diritto di voto contemplata dallo statuto in virtù del disposto dell'art. 2351, comma 3, c.c., nell'avvantaggiare il socio che subiva tale restrizione, determina uno svantaggio in capo agli altri soci, che vedono diminuire il proprio potere di incidere sulle decisioni della società, e che pertanto saranno legittimati a recedere qualora non abbiano concorso con il loro voto all'approvazione della delibera (Delli Priscoli, 152).

Ipotesi di recesso completamente nuove rispetto alla disciplina precedente la riforma del 2003, e chiaramente dirette a tenere conto delle esigenze del socio investitore, sono poi quelle previste dalla lett. a ) e dalla lett. c ) del comma 1 dell'art. 2497-quaterc.c., in tema di recesso dalle società (che possono essere sia per azioni che a responsabilità limitata) sottoposte a direzione e coordinamento. L'ipotesi di cui alla lettera c) appare il frutto di un contemperamento fra l'interesse a che fosse riconosciuta la facoltà di recesso per il solo fatto dell'entrata in un gruppo o dell'uscita da esso (in relazione al mutamento delle condizioni di rischio che può discendere dall'assoggettamento all'altrui attività di direzione e coordinamento) e quello a che invece non fosse concessa tale facoltà, (il relazione al timore che il rischio di una repentina depatrimonializzazione avrebbe scoraggiato l'aggregazione delle società in gruppi). Infatti, secondo la lettera c) dell'art. 2497-quater c.c., l'inizio e la cessazione dell'attività di direzione e coordinamento costituiscono sì un presupposto per l'esercizio del recesso, ma di per sé non sono sufficienti, dovendosi altresì allegare un'alterazione delle condizioni di rischio dell'investimento. Un contemperamento fra opposti interessi sembra essere anche alla base dell'ipotesi prevista dalla seconda parte della lettera a), che consente il recesso quando la società o l'ente che eserciti la direzione e il coordinamento abbia deliberato una modifica del suo oggetto sociale che alteri in modo sensibile le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta a direzione e coordinamento. Si è voluto infatti mediare tra l'esigenza del socio di uscire dalla società in corrispondenza di un evento rilevante quale la modifica dell'oggetto sociale della controllante – che facilmente può determinare il pericolo di un cambio di strategia della società controllata – e l'esigenza di un controllo sull'effettiva consistenza di questo pericolo. Quel che più preme evidenziare è che in entrambe le fattispecie prese in considerazione emerge il rinvio ad un presupposto – l'alterazione del rischio dell'investimento – che da un lato palesa in maniera evidente la volontà del legislatore di tener conto delle esigenze del socio-investitore, e dall'altro sembra però di difficile accertamento, di modo che la sua sussistenza o meno potrebbe dar luogo a contestazioni. Sotto quest'ultimo profilo dunque appaiono relegate in secondo piano le esigenze – poste a tutela dei terzi – di stabilità e certezza delle ipotesi di recesso legali, che anche a seguito della riforma sembrano proprie sia delle s.p.a. che di quelle a responsabilità limitata, in relazione alla centralità del ruolo che in esse tuttora svolge il principio di fissità del capitale sociale. La prima parte della lettera a) dell'art. 2497-quater c.c., attribuendo la facoltà di recesso ai soci della società controllata in caso di trasformazione eterogenea della società controllante (Cass. I, n. 3770/1983), senza che sia richiesto il verificarsi di ulteriori presupposti, risponde sempre alla ratio di attribuire la facoltà di recesso al socio investitore quando siano mutate profondamente le condizioni di rischio. In tal caso infatti l'alterazione di quest'ultime è presunto, in considerazione del radicale mutamento di rotta che subisce la società controllante con il cambiamento del suo scopo sociale. Peraltro, anche negli artt. 2437 c.c. e 2473 c.c. è possibile individuare ipotesi di recesso che fanno riferimento a presupposti «sostanzialistici»: nelle s.p.a. l'art. 2437, lett. a), c.c., contempla la modifica della clausola dell'oggetto sociale che consenta un cambiamento significativo dell'attività della società, mentre nelle s.r.l. l'art. 2473 c.c. contempla un'ipotesi di recesso – il compimento di un'operazione che comporti la sostanziale modifica dell'oggetto della società (Delli Priscoli, 154).

La seconda parte del comma 1 dell'art. 2355- bisc.c. stabilisce che lo statuto può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietare il trasferimento delle azioni. Tale norma costituisce la strumento più importante dell'intera riforma per consentire alla società di impedire l' exit del socio. Infatti, nel caso in cui in questi cinque anni non vengano prese decisioni che legittimino il recesso del socio, quest'ultimo non ha possibilità in alcun modo di uscire dalla società durante tale non breve periodo di tempo. Analogo risultato non può invece essere raggiunto mediante l'introduzione di clausole che subordinino l'efficacia dell'alienazione delle azioni al mero gradimento della società (contemplate dal comma 2 dello stesso art. 2355-bis c.c.), perché allora tale clausola non è valida se non è prevista la possibilità di uscire dalla società (mediante acquisto delle azioni da parte della società o dei soci o mediante il procedimento di recesso) allorché la società neghi il placet alla vendita delle azioni. Pertanto, sembrerebbe concreto il rischio per il socio di trovarsi improvvisamente «prigioniero» per cinque anni della società, perché nel momento in cui tale divieto fosse introdotto, il socio non avrebbe la via d'uscita contemplata dall'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c., che consente il recesso ogniqualvolta venga eliminata una causa di recesso prevista dalla legge o stabilita dallo statuto ma derogabile (e in questo caso nessuna causa di recesso sarebbe stata eliminata). Tuttavia, poiché il divieto di alienazione costituisce un vincolo alla circolazione dei titoli azionari, il diritto di recesso viene attribuito mediante la previsione di cui al comma 2, lett. b), dell'art. 2437 c.c., che consente appunto il recesso in caso di introduzione di restrizioni alla circolazione delle azioni. Potrebbe peraltro osservarsi che tale disposizione normativa, al contrario di quelle previste dal comma 1 dello stesso articolo, è derogabile mediante un'apposita previsione statutaria, ma in tal caso allora troverebbe applicazione la norma poc'anzi ricordata (e non derogabile) che consente il recesso in caso di eliminazione di una o più cause di recesso. In conclusione nelle s.p.a. l'introduzione di un divieto di alienazione, valido se contenuto entro i cinque anni, consente tuttavia sempre al socio dissenziente di recedere dalla società. Il limite massimo di cinque anni sembra costituire il contemperamento tra le esigenze della società di protezione dello start-up nei primi cinque anni di vita e alla conservazione dell'originaria compagine sociale e quelle che sono alla base del principio che condanna i vincoli perpetui o comunque eccessivamente prolungati nel tempo. Tale principio, ricordato a proposito della società costituita a tempo indeterminato, e in quell'occasione ritenuto richiamato non a proposito perché esiste comunque la diversa via d'uscita dell'alienazione della partecipazione, nel caso del divieto di alienazione invece è richiamato correttamente, perché effettivamente, in assenza di occasioni di recesso (che potrebbero presentarsi durante il periodo in cui il divieto è in vigore, ma senza alcuna certezza), il socio non ha possibilità di uscita dalla società (Delli Priscoli, 159).

È stato affermato dalla Cassazione che il contrasto inconciliabile fra i soci di una società personale, benché non espressamente previsto dall'art. 2272 c.c. tra le cause di scioglimento della società, può assumere rilevanza a tal fine ove si risolva in un ostacolo al conseguimento dell'oggetto sociale; intervenendo sul tema la Cassazione ha ribadito che, perché tale effetto si determini in una società di persone di due soci, è necessario che il conflitto tra essi sia tale da rendere impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale: in caso contrario potrà solo sussistere una giusta causa di recesso dalla società (Cass. I, n. 18243/2004).

Sull'applicabilità in via analogica del recesso per giusta causa dalle società di persone

Secondo una definizione ormai sufficientemente consolidata dall'elaborazione della giurisprudenza e della dottrina civilistica e giuslavoristica (molto più scarso è invece il contributo proveniente dall'ambito societario), la giusta causa legittimante il recesso consiste in un avvenimento che, intervenendo durante lo svolgimento del rapporto, determina la prevalenza dell'interesse di una parte alla sua estinzione su quello dell'altra alla sua conservazione. La giusta causa può considerarsi un fatto giuridico che opera sulle vicende contrattuali, determinando un'alterazione delle stesse tali da giustificare lo scioglimento immediato del contratto tramite recesso. L'interprete dovrà dunque selezionare gli avvenimenti della realtà, filtrandoli attraverso lo schermo della giusta causa, per individuare quelli che possono legittimamente determinare lo scioglimento del rapporto. Proprio per questo motivo si ritiene che la giusta causa funge da elemento mediatore tra realtà sociale e realtà giuridica e si avvicina a «concetti valvola» quali la correttezza (Sangiorgi, 553).

Deve ritenersi che solo nelle s.r.l., che l'autonomia statutaria può strutturare per alcuni aspetti sulla falsariga delle società di persone, dove l'amministrazione è lasciata ai soci, dove lo statuto può riservare al loro consenso unanime il potere e la responsabilità di prendere le decisioni più importanti, e dove la persona del socio assume una sua rilevanza tipologica (in contrapposizione alle s.p.a. ove il ruolo centrale è assunto dall'azione e dove è indifferente il soggetto possessore delle azioni stesse) ben possa rinvenirsi quell'affectio societatis, il cui venir meno costituisce una giusta causa di recesso. Per affectio societatis si intende la volontà dei contraenti di collaborare tra loro nell'esercizio di un'attività economica per il perseguimento di uno scopo comune, quello della divisione degli utili. La nozione di affectio societatis è strettamente dipendente dal concetto di contratto con comunione di scopo quale è quello di società: per poter perseguire congiuntamente uno stesso scopo, i soci devono necessariamente collaborare tra di loro nel corso del rapporto, sia pure con forme, modalità e intensità diverse a seconda della tipologia della società (Delli Priscoli, 89; M. Stella Richterjr., 404).

La giurisprudenza non manca di sottolineare lo stretto legame fra la nozione di giusta causa e la rottura del rapporto fiduciario: secondo Cass. I, n. 9840/2002, la giusta causa della revoca dell'amministratore societario richiede sempre un quid pluris rispetto al mero dissenso, (alla radice invece di ogni recesso ad nutum), ossia esige situazioni sopravvenute che minino il pactum fiduciae, elidendo l'affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell'organo di gestione.

In effetti, anche nelle s.r.l. che l'autonomia statutaria ha portato ad assomigliare alle società di persone, può ben ritenersi che senza una collaborazione, sia pur minima, sarebbe impossibile quell'esercizio in comune di un'attività economica che è alla base della definizione del contratto di società e che dunque è elemento fondante di tutte le tipologie di società. La presenza di una componente personalistica nelle società responsabilità limitata è testimoniata, nella filosofia della riforma, dalla presenza in tale tipologia societaria di soci che partecipano in prima persona all'attività di gestione dell'impresa – che ben potrebbero avvertire l'esigenza di far valere una giusta causa – e dalla conseguente assenza di soci investitori. La possibilità di recedere per giusta causa da alcune s.r.l. non sembra poi porsi in contrasto con il favor societatis che ispira il nostro ordinamento e che consiste nella tendenza alla conservazione in vita degli organismi produttivi. Infatti, alla luce di quanto sinora riferito, non può certo dirsi che dall'agevolazione, entro certi limiti, della facoltà di uscita dalla società discenda automaticamente un indebolimento della stessa; al contrario si è sottolineato che un rapido dinamismo dei capitali destinati alla partecipazione in società facilita la circolazione della ricchezza – contribuendo così a favorire la migliore allocazione possibile delle risorse – e attrae investimenti verso gli apparati produttivi societari proprio per la certezza della possibilità di un rapido smobilizzo. Infine, a favore della recedibilità per giusta causa dalla s.r.l. (e non anche invece dalla s.p.a.) si può ancora osservare che dalle norme in tema di conferimenti (art. 2464 ss. c.c.) e in genere da quelle poste a tutela dell'integrità del capitale sociale può notarsi un prevalere delle esigenze di avviare comunque l'impresa, agevolando al massimo la formazione del capitale sociale, su quelle dirette a garantire l'effettiva consistenza dello stesso, così che per ipotesi una s.r.l. – al contrario di una s.p.a. – ben potrebbe essere costituita dal solo apporto lavorativo dei soci (il riferimento è all'art. 2464 c.c., che consente che venga conferito ogni elemento suscettibile di valutazione economica). Si noti anche l'art. 2465 c.c., che, a differenza del corrispondente art. 2343 c.c. dettato in tema di s.p.a., non prevede né la necessità di una relazione di un esperto nominato dal presidente del Tribunale né la possibilità di una revisione della stima dei crediti o dei beni in natura da parte di amministratori e sindaci. Inoltre l'ammontare minimo del capitale sociale delle s.r.l. è solo un dodicesimo rispetto alle s.p.a. (diecimila euro contro centoventimila: cfr. rispettivamente art. 2463, n. 4, c.c. e 2327 c.c.) (Masturzi, 905; Rando, 589).

Il preavviso nell'esercizio del recesso.

L'art. 2437, comma 3, c.c. stabilisce che se una s.p.a. è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con un preavviso di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, ma comunque non superiore ad un anno. L'art. 2473, comma 2, c.c. prevede poi che, nel caso di s.r.l. contratta a tempo indeterminato, il diritto di recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno sei mesi; l'atto costitutivo può prevedere un periodo di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno.

Dalle norme sopra citate si ricava che nell'arco temporale compreso tra i sei mesi e l'intero anno è lasciato all'autonomia dei soci prendere la decisione che si riterrà più opportuna circa la durata del preavviso, che dovrà comunque essere esplicitamente indicata nello statuto. La modifica del termine di preavviso (e in particolare un suo aumento) potrebbe pertanto significare un sostanziale cambiamento delle condizioni di permanenza all'interno della società, rendendo notevolmente più difficoltosa l'uscita dalla stessa. D'altro canto tale modifica non è contemplata tra le cause legali che legittimano il recesso, mentre lo è invece (cfr. art. 2437, comma 1, lett. e, c.c.) l'eliminazione di una o più cause di recesso che siano previste dallo statuto o dalla legge ma considerate derogabili.

Sembra però che tale mancata previsione non costituisca una lacuna normativa colmabile attraverso un procedimento di applicazione analogica della norma poc'anzi citata. Infatti, è vero che la modifica dello statuto consistente nel prolungamento del termine di preavviso costituisce un'alterazione delle condizioni di uscita dalla società di capitali, ma tale modifica incontra comunque il limite legale di un anno massimo di preavviso. Non può pertanto individuarsi la stessa ratio che giustifica la norma di cui all'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c., che si riferisce alle ipotesi ben più drastiche della completa eliminazione di una causa di recesso: il legislatore ha ritenuto meritevoli di tutela – e prevalenti su quelle dei terzi e della società stessa al mantenimento dell'integrità del capitale sociale – le esigenze del socio dissenziente solo nel caso di completa eliminazione di una o più cause di recesso, non anche nel caso in cui l'esercizio dello stesso sia reso più gravoso.

Occorre inoltre riflettere circa l'eventuale sussistenza della necessità di concedere un periodo di preavviso anche per le altre tipologie di recesso (salvo il caso di quello per giusta causa, rispetto al quale, è ontologicamente estranea la concessione di un preavviso), ovverosia quelle determinate da una decisione dell'assemblea alla quale non si sia preso parte. La soluzione negativa sembra farsi preferire in giurisprudenza, perché il legislatore non ha «dimenticato» l'esistenza del problema del recesso, ma lo ha disciplinato prevedendolo solo per il caso della società a tempo indeterminato. Tale scelta non si presenta affatto arbitraria in quanto un periodo per così dire fisiologico di attesa del socio prima dell'effettiva messa in azione della procedura di liquidazione è offerto dal termine di novanta giorni entro il quale la società, revocando la delibera che ha dato occasione al socio di recedere, può porre nel nulla l'esercizio del suo recesso (Cass. I, n. 5173/1999).

Pertanto, il socio ha un interesse alle vicende della società fino al momento dell'effettivo rimborso delle sue azioni. Il termine per l'esercizio del recesso è un termine di decadenza, perché la società e i terzi non possono convivere a lungo nell'incertezza circa la decisione del socio di esercitare o meno la sua facoltà. Ne consegue logicamente che non è valida la ratifica – esercitata oltre il detto termine – del recesso che fosse stato per ipotesi esercitato da un non legittimato.

Peraltro, i soci che prendano una decisione che legittimi il recesso del dissenziente, sono ben consapevoli del rischio che il socio possa effettivamente uscire dalla società, e possono inoltre decidere di revocarla quando il numero e la qualità dei recessi venga valutato come un evento che arreca un danno maggiore rispetto ai vantaggi attesi dalla delibera approvata. Nel caso della società a tempo indeterminato, il recesso può arrivare invece all'improvviso e senza che i soci possano far nulla per impedirlo: ben si comprende allora in questo caso la necessità di un preavviso.

Ad ogni modo, quale che sia il motivo per cui si recede, e anche quando il recesso sia effettuato per giusta causa e quindi senza un preavviso, rimane naturalmente sempre valido l'obbligo di agire rispettando i canoni della correttezza principio la cui validità anche in materia societaria non è mai stata seriamente posta in dubbio. Pertanto il recesso dovrà essere esercitato cercando di salvaguardare il più possibile gli interessi degli altri soci e della società, nei limiti in cui ciò non comporti per il recedente un apprezzabile sacrificio, e anche un recesso esercitato mediante un preavviso di lunghezza corrispondente ai limiti contrattualmente previsti può dar luogo ad una condotta contraria a buona fede, se il recesso è esercitato al solo scopo di recare danno alla società (Gambino, 165).

Di tale principio è stata fatta applicazione con riferimento al recesso soprattutto in materia bancaria: cfr. Cass. n. 2642/2003, secondo cui il termine per il preavviso di cui all'art. 1845 c.c. può essere fissato convenzionalmente dalle parti, salvo il rispetto della buona fede in executivis.

Bibliografia

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