Decreto legislativo - 24/02/1998 - n. 58 art. 147 quinquies - Requisiti di onorabilità 1

Salvatore Providenti

Requisiti di onorabilità 1

Art. 147-quinquies.

1. I soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e direzione devono possedere i requisiti di onorabilità stabiliti per i membri degli organi di controllo con il regolamento emanato dal Ministro della giustizia ai sensi dell'articolo 148, comma 4.

2. Il difetto dei requisiti determina la decadenza dalla carica.

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Inquadramento

Gli artt. da 147-ter a 147-quinquies TUF disegnano una sorta di regime speciale dell'organo amministrativo delle società con azioni quotate. Tale regime è stato voluto principalmente dalle c.d. «leggi sul risparmio» (termine che ricomprende la l. 28 dicembre 2006, n. 262, ed il successivo d.lgs. 29 dicembre 2016, n. 303, correttivo della medesima) successive agli scandali finanziari che hanno riguardato alcune società quotate italiane all'inizio degli anni 2000, fra i quali particolare clamore hanno suscitato i casi Parmalat e Cirio.

Si tratta di un regime attinente principalmente alla composizione dell'organo; in particolare la composizione dell'organo amministrativo delle società con azioni quotate presenta una serie di specialità, riguardanti la rappresentanza delle minoranze, la presenza di amministratori dotati di requisiti di indipendenza, la rappresentanza di genere, i requisiti di onorabilità.

Altre regole, più attinenti a doveri di comportamento degli amministratori di società con azioni quotate, si trovano altrove nello stesso TUF (ad esempio l'art. 150, in materia di collegio sindacale, che indirettamente prescrive un obbligo degli amministratori di informare i sindaci sulle operazioni di maggior rilievo o, ancora, l'art. 104, sugli obblighi degli amministratori in caso di promozione di un'offerta pubblica d'acquisto o di scambio sulle azioni della società) o nel codice civile (ad esempio la disciplina sulle operazioni con parti correlate, di cui all'art. 2391-bis c.c., come integrata dal Regolamento Consob del 2010).

Altra fonte importante di disciplina sia della composizione, che del funzionamento dell'organo amministrativo delle società con azioni quotate si trova nel Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana, aggiornato nel luglio 2015 e poi, da ultimo, a gennaio 2020 assumendo la denominazione di Codice di Corporate Governance. Il Codice ha ormai anche una rilevanza legislativa, essendo esplicitamente previsto dall'art. 149, comma 1, lett. c-bis), TUF che i collegi sindacali (e gli organi che svolgono la medesima funzione nei modelli alternativi) ne controllino il rispetto da parte delle società che abbiano dichiarato di aderivi. Ulteriore richiamo legislativo è quello contenuto nella disciplina sulla relazione sul governo societario, di cui all'art. 123-bis del TUF, secondo cui (comma 2, lett. i) le società devono informare il pubblico anche sull'«adesione ad un codice di comportamento in materia di governo societario promosso da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria, motivando le ragioni dell'eventuale mancata adesione ad una o più disposizioni, nonché le pratiche di governo societario effettivamente applicate dalla società al di là degli obblighi previsti dalle norme legislative o regolamentari».

La materia è meno armonizzata a livello comunitario rispetto ad altre attinenti la sfera del mercato finanziario. Vanno però segnalate norme comunitarie sulla materia attigua della relazione sul governo societario (da ultimo, art. 20 della Direttiva sui bilanci n. 203/34/UE del 26 giugno 2013 e la Raccomandazione Europea sul governo societario e sul principio comply or explain n. 2014/208/UE del 9 aprile 2014) ed una importante Raccomandazione Europea sugli amministratori indipendenti (n. 2005/162/CE del 15 febbraio 2005).

Il voto di lista e gli amministratori di minoranza

In primo luogo, l'art. 147-ter, inserito per la prima volta con la legge sul risparmio del 2005 e più volte integrato e modificato (nel 2011, ad esempio, per introdurre le quote di genere), prevede innanzi tutto, al comma 1, il sistema del voto di lista.

In sostanza, la nomina degli amministratori nelle società per azioni quotate italiane non avviene con le maggioranze ordinariamente previste per l'assemblea ordinaria dagli articoli del codice civile ma attraverso un'attribuzione dei «posti» da consigliare a liste che si presentano contrapposte tra loro. Le norme civilistiche sull'assemblea continuano a valere per aspetti come il quorum costitutivo o i casi di impugnabilità, mentre per la convocazione, ferme restando le modalità, cambiano i termini (sul punto si torna oltre).

In base al meccanismo legale (che costituisce un requisito minimo per le previsioni statutarie) l'attribuzione non è proporzionale né maggioritaria in senso stretto: il minimo legale è che vi sia almeno un amministratore non estratto dalla lista che prende più voti (sul punto si torna oltre).

La scelta compiuta nel 2005, con l'introduzione del voto di lista e dell'amministratore di minoranza, ha costituito un parziale cambio di paradigma rispetto alle scelte originariamente fatte con il TUF del 1998, che avevano alle spalle un impianto teorico per alcuni versi contrastante con la previsione di amministratori di minoranza (sul punto, fra gli altri, Denozza, 767).

L'impianto era quello della presenza delle minoranze all'interno dell'organo di controllo (collegio sindacale) e non dell'organo gestorio, anche se, pur affermando un principio di obbligatorietà della presenza di almeno un sindaco di minoranza, veniva lasciato un ampio margine agli statuti sulle modalità di elezione ed, in particolare, sulle percentuali necessarie per la presentazione delle liste.

Tale impianto teorico è stato, però, solo in parte modificato, visto che le due discipline dell'amministratore e del sindaco di minoranza, come modificate dalla legge sul risparmio, rimangono profondamente diverse, nel presupposto che il luogo di elezione per la presenza delle minoranza rimane comunque l'organo di controllo.

La disciplina sugli amministratori continua a rimettere agli statuti una notevole autonomia, fissando soltanto paletti, a cui le società devono attenersi; i paletti, riguardanti principalmente le soglie percentuali di presentazione e di voto e i criteri di autonomia delle liste fra loro, sono comunque più stringenti di quelli preesistenti nel TUF per i soli sindaci. La disciplina dei sindaci, invece, prevede un più incisivo intervento regolamentare della Consob che mira a rendere il più possibile effettiva la presenza dei rappresentanti dei soci non di controllo nell'organo.

Uno dei punti principali del sistema è che gli statuti, oltre a dover prevedere che l'elezione degli amministratori avvenga con voto di lista, stabiliscono la soglia minima per presentarla. Nella legge è prevista una quota massima del 2,5% (1 quarantesimo) con possibilità per la Consob di prevedere quote più basse o anche più alte in via regolamentare, «tenendo conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate».

L'autorità lo ha fatto stabilendo (art. 144-quater del Regolamento Emittenti) un meccanismo crescente di soglie minime che va dallo 0,5% all'1% e al 2,5% ed in casi particolari al 4,5%. Si è inoltre impegnata a pubblicare annualmente la soglia risultante dall'applicazione del meccanismo (art. 144-septies Regolamento Emittenti), fornendo così un servizio agli emittenti e agli altri operatori.

È altresì possibile per gli statuti stabilire che la soglia non valga soltanto per la presentazione delle liste, ma anche (fino alla metà) come requisito di ottenimento di voti in assemblea: la previsione è collegata al presunto rischio che vi siano soci che aiutino a presentare le liste, ma poi si disinteressino all'effettivo destino del consiglio da eleggere.

Di particolare rilievo è la previsione dell'art. 144-quater, comma 6, del Regolamento, secondo cui le società di nuova quotazione possono chiedere al momento della domanda di ammissione di mantenere, in occasione del primo rinnovo successivo all'ammissione, la soglia del 2,5%.

Una disciplina parzialmente diversa hanno le società cooperative con azioni quotate (dove pure il voto di lista è sempre stato presente nell'ambito delle scelte di autonomia statutaria, come strumento utile alla coagulazione fra azionisti dispersi) per le quali l'art. 135 TUF (come modificato a giugno 2012, a seguito di pressioni da parte del mondo delle banche popolari) prevede, in via generale, che le soglie percentuali previste dal codice o dal TUF si applichino sul numero dei soci, invece che sul capitale. In tal modo, per tali società è messo a fortemente in discussione l'intero sistema del voto di lista, finalizzato all'elezione di amministratori di minoranza nelle quotate, come congegnato dal TUF. L'art. 147-ter, comma 1, TUF si limita a prevedere che le società cooperative quotate possono stabilire le soglie anche in deroga all'art. 135, il che rimette completamente all'autonomia statutaria il meccanismo.

In realtà, prima della modifica dell'art. 135, operata nel 2012, l'art. 144-quater del Regolamento Emittenti della Consob conteneva (ai commi 4 e 5) regole anche per le società cooperative quotate che tentavano di realizzare un'effettiva rappresentanza delle minoranze (sostanzialmente imponendo una soglia particolarmente bassa sul capitale da affiancare ad una soglia sul numero dei soci); tali previsioni sono state poi abrogate, a seguito della citata modifica legislativa.

Nel frattempo erano intervenute sentenze del giudice amministrativo che avevano confermato la legittimità delle norme regolamentari, attestando la non contrarietà ai principî generali del modello cooperativo (nella particolare forma che assume nelle banche popolari quotate) del sistema del voto di lista con garanzia di elezione di rappresentanti delle minoranze sia nel consiglio di amministrazione che nel collegio sindacale (cfr. T.A.R. Lazio 28 marzo 2008, n. 2684).

Per capire come avvenga la presentazione delle liste e quali siano i connessi obblighi di trasparenza delle società quotate può essere utile ricordare alcune scadenze.

La prima è quella di 40 giorni prima della data prevista per l'assemblea. Infatti, ai sensi del comma 2 dell'art. 125-bis TUF, «nel caso di assemblea convocata per l'elezione mediante voto di lista dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, il termine per la pubblicazione dell'avviso di convocazione è anticipato al quarantesimo giorno precedente la data dell'assemblea», rispetto al termine ordinario di 30 giorni previsto dal comma 1 dello stesso articolo.

La seconda scadenza è quella di 25 giorni prima dell'assemblea, prevista direttamente dall'art. 147-ter, comma 2, TUF; entro tale data le liste vanno depositate dai soci proponenti presso la sede della società anche attraverso mezzi di comunicazione a distanza. È questa la data alla quale rileva il possesso da parte dei soci presentatori dei requisiti minimi di partecipazione previsti dalla legge e dal Regolamento Consob. Strettamente connessa è la terza scadenza di 21 giorni prima dell'assemblea, prevista sempre dalla medesima norma, per la pubblicazione delle liste depositate da parte della società.

Sulle modalità di pubblicazione delle liste interviene il Regolamento Emittenti della Consob (art. 144-octies); particolare enfasi è posta sulla conoscenza delle caratteristiche professionali dei candidati e sull'indicazione dei requisiti di indipendenza (quelli prescritti dall'art. 148 TUF, da norme di settore o da codici di auto-regolamentazione di associazioni di categoria o di mercati regolamentati, «se lo statuto lo prevede»).

Le date indicate sono antecedenti a quella che è ormai la data centrale per ogni assemblea di società per azioni quotate, che è la data della c.d. «record date». In proposito l'art. 83-sexies, secondo comma, TUF, inserito nell'ambito della disciplina su gestione accentrata e dematerializzazione degli strumenti finanziari nel 2010, in attuazione della Direttiva sui diritti degli azionisti n. 2007/36/CE dell'11 luglio 2007, prevede che la data in cui devono essere possedute le azioni che attribuiscono il diritto di voto è il settimo giorno di mercato aperto antecedente la data dell'assemblea.

Come noto, la norma in questione, apparentemente relativa a un dettaglio tecnico, ha in realtà costituito una piccola rivoluzione nel funzionamento della governance delle società quotate italiane, facilitando la partecipazione alle assemblee degli investitori istituzionali (ed in particolare dei fondi).

L'art. 7 della Direttiva comunitaria impone agli Stati membri:

- che non vi sia alcun requisito di deposito, trasferimento o registrazione delle azioni prima dell'assemblea (imponendo dunque il ribaltamento della vecchia impostazione preista dall'art. 2370 c.c. italiano, già in parte modificato dalla riforma del diritto societario del 2003 che consentiva di derogare in via statutaria all'obbligo di deposito);

- che non vi siano divieti o limiti alla possibilità di trasferire le azioni tra la data di registrazione e la data dell'assemblea;

- che la legittimazione all'esercizio del voto sia connessa alla detenzione delle azioni ad una data antecedente l'assemblea (appunto la record date);

- che tra l'ultima data utile per la convocazione dell'assemblea e la data di registrazione decorrano almeno 8 giorni liberi.

Il legislatore italiano era dunque tenuto ad uniformarsi a tali prescrizioni ed ha esercitato il margine di discrezionalità esistente sulla data, collocandola in un momento molto vicino all'assemblea, tenuto conto che comunque alcuni giorni liberi devo essere lasciati per gli adempimenti – di rilascio della certificazione e comunicazione all'emittente – richiesti agli intermediari sub-depositari dei titoli dematerializzati. Si consideri che partendo dalla convocazione 40 giorni prima la norma comunitaria avrebbe consentito di stabilire la data sin da 30 prima dell'assemblea (che sono tendenzialmente più di 20 di mercato aperto).

Fra le altre, una ricostruzione, ma ricca di spunti interessanti, delle problematiche giuridiche connesse a tale scelta del legislatore europeo e (in sede attuativa) di quello italiano è quella di Angelici, 2015, 67 ss. Uno dei punti centrali è evidentemente quello della possibile scissione tra legittimazione all'esercizio del voto e titolarità effettiva dei titoli. Le analisi empiriche dimostrano che dall'anno di prima effettiva applicazione della record date alle assemblee di società quotate italiane (2011) la partecipazione alle assemblee di investitori istituzionali e la connessa elezione di rappresentanti delle minoranze è significativamente aumentata (si veda Bianchi, 5 ss., oltre alle varie Relazioni sulla Corporate Governance della Consob, da ultimo quella dell'anno 2017, disponibile sul sito internet dell'Autorità).

La conseguenza più importante del voto di lista è l'obbligo che almeno un componente del consiglio sia espressione della seconda lista o, meglio, della più votata fra le liste non collegate quella che ha avuto più voti. È il c.d. amministratore di minoranza.

Centrale nella disciplina è l'individuazione di quali siano le liste collegate fra loro. Un punto di riferimento è costituito da una previsione regolamentare Consob (art. 144-quinquies del Regolamento Emittenti) formalmente riferita al diverso caso del voto di lista per l'elezione dell'organo di controllo (sul cui svolgimento la Consob gode, dal 2006, di un potere regolamentare pieno, non limitato, a differenza di quanto avviene per l'organo amministrativo, all'individuazione delle soglie percentuali minime per la presentazione, oltre che ad aspetti di trasparenza), ma di fatto riferibili (anche applicando, se necessario, il canone di interpretazione analogica) anche al caso delle liste per l'organo di amministrazione.

Secondo tale previsione:

«1. Sussistono rapporti di collegamento rilevanti ai sensi dell'articolo 148, comma 2, del Testo unico, fra uno o più soci di riferimento e uno o più soci di minoranza, almeno nei seguenti casi: a) rapporti di parentela; b) appartenenza al medesimo gruppo; c) rapporti di controllo tra una società e coloro che la controllano congiuntamente; d) rapporti di collegamento ai sensi dell'articolo 2359, comma 3 del codice civile, anche con soggetti appartenenti al medesimo gruppo; e) svolgimento, da parte di un socio, di funzioni gestorie o direttive, con assunzione di responsabilità strategiche, nell'ambito di un gruppo di appartenenza di un altro socio; f) adesione ad un medesimo patto parasociale previsto dall'articolo 122 del Testo unico avente ad oggetto azioni dell'emittente, di un controllante di quest'ultimo o di una sua controllata.

2. Qualora un soggetto collegato ad un socio di riferimento abbia votato per una lista di minoranza l'esistenza di tale rapporto di collegamento assume rilievo soltanto se il voto sia stato determinante per l'elezione del sindaco».

Una volta verificata l'inesistenza del collegamento dalla «seconda» lista viene tratto un amministratore. Occorre considerare che un numero significativo di società quotate (specialmente fra le maggiori e fra quelle che hanno costituto oggetto di un processo di privatizzazione) ha previsto statutariamente la presenza di un numero maggiore di amministratori di minoranza.

L'amministratore di minoranza non ha compiti specifici ed è, da diversi punti di vista, un amministratore come gli altri. Certo, è l'ipotesi normale che lo stesso sia non esecutivo ed è possibile che abbia i requisiti per essere considerato indipendente, con la conseguenza che normalmente svolgerà funzioni di supervisione sulle attività gestorie compiute da altri amministratori (in genere delegati ed esecutivi), da svolgere specialmente attraverso la partecipazione a comitati interno all'organo amministrativo. Soltanto per il sistema monistico, d'altra parte, è imposto ex lege che l'amministratore di minoranza sia in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza dei sindaci (in sostanza è una sorta di predestinato a far parte del comitato per controllo sulla gestione).

Gli amministratori indipendenti

La presenza obbligatoria e le funzioni degli amministratori indipendenti

Oltre al voto di lista con la connessa presenza di almeno un amministratore di minoranza, l'art. 147-ter, comma 4, TUF prevede anche, in via generale, per le società con azioni quotate l'obbligo di avere almeno 1 amministratore indipendente (2 se il consiglio è composto da più di sette membri) in possesso dei requisiti previsti per i sindaci delle quotate dall'art. 148, comma 3, «nonché, se lo statuto lo prevede», degli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria.

La norma fa salve le società che abbiano adottato il modello monistico, per le quali rimane ferma la previsione dettata dall'art. 2409-septiesdecies, comma 2, c.c. (secondo cui «almeno un terzo dei componenti del consiglio di amministrazione deve essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall'articolo 2399, primo comma, e, se lo statuto lo prevede, di quelli al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati»).

In sostanza, in quelle società che, per obbligo di legge, devono avere almeno un terzo di amministratori indipendenti la nozione applicabile rimane, anche nelle quotate, quella che il codice civile prevede per i sindaci delle società non quotate; nelle altre, con il modello tradizionale (o dualistico, se il consiglio di gestione ha più di quattro membri), la nozione applicabile è quella più stringente del TUF.

Tale apparente facilitazione per il sistema monistico è però significativamente limitata dalla previsione di cui al successivo art. 148, comma 4-ter, secondo cui al comitato per il controllo sulla gestione si applicano i requisiti di indipendenza previsti per i sindaci dal precedente comma 3. Dunque, soltanto agli amministratori indipendenti che non entrano a far parte del comitato per il controllo sulla gestione è applicabile la norma del codice civile, mentre per chi ne entra a far parte (vale a dire per almeno tre amministratori) è richiesto il rispetto della norma sui sindaci del TUF.

A prescindere dal modello adottato, ipotizzando che molte società quotate abbiano consigli di amministrazione con più di sette membri e che il rappresentante delle minoranze non abbia con la società o il gruppo di appartenenza rapporti rilevanti ex art. 148, comma 3, d.lgs. n. 58/1998consegue dall'insieme delle previsioni che nei consigli saranno normalmente presenti almeno tre componenti in possesso dei requisiti di indipendenza applicabili ai sindaci delle quotate.

In realtà, il numero e la qualità degli amministratori indipendenti sta progressivamente aumentando. Dai Rapporti Consob sulla Corporate Governance dell’anno 2022 e degli anni precedenti si ricava, ad esempio, che, tenendo conto di entrambe le categorie (quelli previsti in base ad obblighi di legge e quelli previsti in sede di adesione al Codice di autodisciplina (ora Corporate Governance), sono ormai in media più di 5 per società quotata, pesando per più del 50% della composizione complessiva dei consigli.

Si noti che anche per gli intermediari le Istruzioni di Vigilanza di Banca d'Italia per il governo societario delle banche del 6 maggio 2014 prescrivono che: «Nell'organo con funzione di supervisione strategica, almeno un quarto dei componenti devono possedere i requisiti di indipendenza». Organi di supervisione strategica sono in quella sede il consiglio di amministrazione nei modelli tradizionale e monistico, il consiglio di sorveglianza in quello dualistico.

Il richiamo operato dal TUF alla norma sul monistico e la scelta di lasciare inalterata la disciplina di tale modello aiuta a comprendere il senso dell'obbligo di avere un amministratore indipendente e le funzioni che tale figura deve svolgere.

La presenza obbligatoria di amministratori indipendenti determina, come è stato detto con riguardo al modello monistico (così, fra gli altri, Mosca, 762) una polarizzazione degli amministratori intorno alle due funzioni della gestione e del controllo.

Muovendo da tale constatazione, assume particolare rilievo quanto previsto dall'art. 2381 c.c., con riguardo al controllo da parte del plenum del consiglio sull'operato dei delegati, alla trasparenza sulla gestione, alla revocabilità delle deleghe in ogni momento. Nel contesto delle quotate (come in quello più generale del modello monistico) appare particolarmente rispondente ai principî di fondo un'interpretazione dei poteri degli amministratori non esecutivi, ed in particolare di quelli investiti di specifiche funzioni, nel senso di attribuire ad essi poteri adeguati al compimento delle funzioni che sono loro attribuite, a partire da una piena valorizzazione del «dovere di agire informati» e della possibilità di chiedere ai delegati o al comitato esecutivo di fornire informazioni in consiglio, ai sensi del sesto comma dell'art. 2381.

Del resto, gli amministratori indipendenti, anche nelle società che adottano il modello tradizionale, sono destinati ad avere un ruolo decisivo nei comitati costituiti all'interno del consiglio, in attuazione in generale di principî di buona governance ed in particolare di quanto previsto dal Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate e dal Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana, a cui la gran parte delle società aderisce.

Gli amministratori che fanno parte di comitati possono considerarsi soggetti incaricati dello svolgimento di particolari compiti che, pur non essendo tecnicamente di gestione, sono essenziali al buon esito della gestione stessa; nell'esercizio dei propri compiti è dunque normale che essi abbiano interlocuzioni sia con quegli amministratori che si occupano di aspetti specifici, i quali rientrino nella competenza dei comitati di cui gli indipendenti fanno parte, sia con chi, all'interno della struttura dell'impresa, si occupa di tali aspetti.

Coerente è in tal senso la previsione del codice di Corporate Governance (raccomandazione 17 sub art. 3) secondo cui “I comitati hanno la facoltà di accedere alle informazioni e alle funzioni aziendali necessarie per lo svolgimento dei propri compiti, disporre di risorse finanziarie e avvalersi di consulenti esterni, nei termini stabiliti dall’organo di amministrazione”.

Nel precedente Codice di autodisciplina (criterio 4.C.1, lett. e, della versione 2015, immutato rispetto alle versioni precedenti) era detto che: «nello svolgimento delle proprie funzioni, i comitati hanno la facoltà di accedere alle informazioni e alle funzioni aziendali necessarie per lo svolgimento dei loro compiti, nonché di avvalersi di consulenti esterni, nei termini stabiliti dal consiglio di amministrazione» e che «l’emittente mette a disposizione dei comitati risorse finanziarie adeguate per l’adempimento dei propri compiti, nei limiti del budget approvato dal consiglio».

Si ricorda che, in base al principio 4.P.1. del Codice di autodisciplina, «Il consiglio di amministrazione istituisce al proprio interno uno o più comitati con funzioni propositive e consultive secondo quanto indicato nei successivi articoli».

Secondo il medesimo codice, i comitati di maggior rilievo sono il comitato per le nomine (previsto dall'art. 5 e composto in maggioranza da amministratori indipendenti), il comitato per la remunerazione (previsto dall'art. 6) ed il comitato controllo e rischi (previsto dall'art. 7), entrambi costituiti inegralmente da amministratori indpendenti o, in alternativa, da una maggioranza di indipendenti fra i quali deve esservi il presidente. Al comitato controllo e rischi sono frequentemente affidate le funzioni che il Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate affida agli ammnistratori indipendenti o a un comitato da essi composto (cfr. commento subart. 2391-bis c.c. in questo Codice).

Del resto, gli amministratori indipendenti, anche nelle società che adottano il modello tradizionale, sono destinati ad avere un ruolo decisivo nei comitati costituiti all'interno del consiglio, in attuazione in generale di principî di buona governance ed in particolare di quanto previsto dal Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate e dal Codice di Autodisciplina (ora Corporate Governance) di Borsa Italiana, a cui la gran parte delle società aderisce.

Gli amministratori che fanno parte di comitati possono considerarsi soggetti incaricati dello svolgimento di particolari compiti che, pur non essendo tecnicamente di gestione, sono essenziali al buon esito della gestione stessa; nell'esercizio dei propri compiti è dunque normale che essi abbiano interlocuzioni sia con quegli amministratori che si occupano di aspetti specifici, i quali rientrino nella competenza dei comitati di cui gli indipendenti fanno parte, sia con chi, all'interno della struttura dell'impresa, si occupa di tali aspetti.

Coerente è in tal senso la previsione del codice di Corporate Governance (raccomandazione 17 sub art. 3) secondo cui “I comitati hanno la facoltà di accedere alle informazioni e alle funzioni aziendali necessarie per lo svolgimento dei propri compiti, disporre di risorse finanziarie e avvalersi di consulenti esterni, nei termini stabiliti dall'organo di amministrazione”.

Nel precedente Codice di autodisciplina (criterio 4.C.1, lett. e, della versione 2015, immutato rispetto alle versioni precedenti) era detto che: «nello svolgimento delle proprie funzioni, i comitati hanno la facoltà di accedere alle informazioni e alle funzioni aziendali necessarie per lo svolgimento dei loro compiti, nonché di avvalersi di consulenti esterni, nei termini stabiliti dal consiglio di amministrazione» e che «l'emittente mette a disposizione dei comitati risorse finanziarie adeguate per l'adempimento dei propri compiti, nei limiti del budget approvato dal consiglio».

Si ricorda che, in base alla raccomandazione 16 sub art. 3, l’attuale Codice prevede che: “L’organo di amministrazione istituisce al proprio interno comitati con funzioni istruttorie, propositive e consultive, in materia di nomine, remunerazioni e controllo e rischi”. Inoltre “Le funzioni che il Codice attribuisce ai comitati possono essere distribuite in modo differente o accorpate anche in un solo comitato, purché sia fornita adeguata informativa sui compiti e sulle attività svolte per ciascuna delle funzioni attribuite e siano rispettate le raccomandazioni del Codice per la composizione dei relativi comitati”.

Nel seguito della medesima raccomandazione lil Codice lascia all’organo di amministrazione maggiore flessibilità sulla costituzione dei comitati rispetto alla precedente versione. Rimane comunque fermo che i principali comitati (salve possibili semplificazioni) sono: il comitato per le nomine , il comitato per la remunerazione ed il comitato controllo e rischi . Al comitato controllo e rischi sono frequentemente affidate le funzioni che il Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate affida agli ammnistratori indipendenti o a un comitato da essi composto (cfr. commento sub art. 2391-bis c.c. in questo Codice).

Nel commento al Principio 2.c.5 del codice previgente era  chiarito che: «Il contributo degli amministratori non esecutivi risulta particolarmente utile sulle tematiche in cui l’interesse degli amministratori esecutivi e quello degli azionisti potrebbero non coincidere, quali la remunerazione degli stessi amministratori esecutivi e il sistema di controllo interno e di gestione dei rischi». Tale impostazione appare ancora attuale.

I comitati, anche nel nuovo Codice, possono non essere costituiti da società aderenti al codice, qualora il consiglio di amministrazione sia composto almeno per la metà di indipendenti e si organizzi al fine di dedicare importanti risorse principalmente di tempo alle questioni di cui dovrebbero occuparsi i comitati. Il tutto (secondo il principio comply or explain) previa informazione al mercato sulle ragioni della scelta e sulle modalità organizzative individuate.

Sulla base del nuovo Codice (raccomandazioni 13 e 14 sub art. 3) un ruolo di particolare rilievo può essere svolto dal lead indipendent director In proposito:

“13. L’organo di amministrazione nomina un amministratore indipendente quale lead independent director: a) se il presidente dell’organo di amministrazione è il chief executive officer o è titolare di rilevanti deleghe gestionali; b) se la carica di presidente è ricoperta dalla persona che controlla, anche congiuntamente, la società; c) nelle società grandi, anche in assenza delle condizioni indicate alle lettere a) e b), se lo richiede la maggioranza degli amministratori indipendenti.

14. Il lead independent director: a) rappresenta un punto di riferimento e di coordinamento delle istanze e dei contributi degli amministratori non esecutivi e, in particolare, di quelli indipendenti; b) coordina le riunioni dei soli amministratori indipendenti”.

La particolare rilevanza del ruolo degli amministratori esecutivi e indipendenti è significativamente attestata in giurisprudenza, specialmente in quella penale ed in quella civile relativa alle sanzioni amministrative irrogate dalle Autorità indipendenti.

In materia penale si veda, ad esempio, Cass. pen. V, n. 28932/2011, che ha chiuso un aspetto della vicenda Parmalat/Tanzi condannando per manipolazione informativa alcuni esponenti aziendali, fra cui anche un amministratore indipendente. La Corte, dopo aver premesso che l'amministratore indipendente è «privo di funzioni esecutive e proiettato ad una autonomia di giudizio (requisito che consente nel sistema anglosassone di privarsi dell'organo di sorveglianza), ma qualificato da specifici requisiti di eleggibilità contrassegnati da terzietà rispetto agli amministratori ordinari ... sicché per costoro è accentuata (nei voti del legislatore) la funzione di controllo sull'amministrazione», precisa che «la riforma della disciplina della società, portata dal d.lgs. n. 6/2003, ha indubbiamente alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe», essendo «stato formalmente rimosso il generale “obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione”», ma anche che «non può trascurarsi che quest'ultimo dovere è stato chiaramente sostituito dall'onere di “agire informati” e correlato al potere di richiedere informazioni ai delegati ... esso è agevolmente rinvenibile tuttora (secondo autorevole e condivisa dottrina civilistica) nel dovere di diligenza».

Muovendo da tali basi la Corte conclude che «l'amministratore indipendente è soggetto pur sempre collocato dall'ordinamento in una posizione di garanzia, cioè di protezione di interessi diffusi propri di categorie (azionisti, creditori, dipendenti, ecc.) che non dispongono di adeguati strumenti di conoscenza della realtà societaria» e che si tratta di un «soggetto la cui funzione, regolata dalla disciplina del codice civile, conosce espressi doveri e correlativi poteri (anzi, per quelli indipendenti, marcati obblighi di vigile attenzione ...)».

La giurisprudenza sulle sanzioni amministrative previste dal TUF ha in più occasioni confermato sanzioni ad amministratori non delegati, muovendo da principî simili a quelli ora delineati, utilizzando principalmente la categoria del concorso omissivo colposo. Decisioni del genere riguardano sia il settore degli intermediari (nel quale, salvi i casi di banche quotate, non si applicano le regole speciali sugli amministratori delle società con azioni quotate ma sono presenti altre norme che impongono agli esponenti requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza) sia quello degli emittenti, che in genere sono società con azioni o altri strumenti finanziari quotati o soggetti che con esse entrano in contatto.

L'imputabilità degli illeciti agli amministratori non delegati in materia di sanzioni della parte Emittenti del TUF è stata affermata di solito ad esito di un esame del caso concreto e, in particolare, della rilevanza della «vicenda» societaria cui l'illecito accertato inerisce, nonché della conoscenza o conoscibilità dei fatti in relazione ai quali sono emerse le irregolarità. In particolare, sulla conoscibilità incide la rilevanza oggettiva dei fatti occorsi sulla vita societaria e/o la presenza di «segnali» dell'esistenza di irregolarità.

Un esempio in cui è stata confermata dalla Cassazione (Cass. II, n. 1293/2010) una precedente decisione della Corte d'appello di Milano, che aveva ritenuto presente la responsabilità degli esponenti aziendali diversi dall'amministratore delegato in termini di «concorso omissivo colposo» ai sensi dell'art. 5 della l. n. 689/81, riguarda un caso di mancata promozione da parte della società dell'OPA obbligatoria prevista dall'art. 106, comma 1, TUF, addebitata oltre che agli amministratori anche ai sindaci.

La configurabilità del concorso omissivo colposo nell'illecito del delegato in materia di sanzioni amministrative della Consob è affermata più in generale da Cass. S.U., n. 20933/2009, secondo cui «l'omissione di vigilanza ... è perfettamente compatibile con la rappresentabilità degli illeciti da impedire – e, dunque, con la colpa: ... non occorre ... la prova che il “garante primario” in effetti conoscesse in concreto ogni aspetto dell'attività posta in essere dai “garanti secondari”, essendo sufficiente la solo “potenzialità di conoscenza”»: e tale possibilità di conoscenza si presume «salva la prova di fatti impedienti».

Particolarmente chiara, anche nel disegno di un equilibrio tra avvenuta abrogazione dell'obbligo di vigilanza sul «generale andamento della gestione» di cui all'art. 2392 c.c. pre-riforma e mantenimento di ipotesi di responsabilità egli amministratori non delegati è la più recente Cass. n. 17441/2016, edita su Giur. it., 2017, con nota di Cagnasso e Riganti, La responsabilità degli amministratori deleganti, secondo cui «la responsabilità degli amministratori privi di specifiche deleghe operative non può oggi discendere da una generica condotta di omessa vigilanza, tale da trasmodare nei fatti in responsabilità oggettiva, ma deve riconnettersi alla violazione del dovere di agire informati, sia sulla base delle informazioni che a detti amministratori devono essere somministrate, sia sulla base di quelle che essi stessi possono acquisire di propria iniziativa. In definitiva gli amministratori (i quali non abbiano operato) rispondono delle conseguenze dannose della condotta di altri amministratori (i quali abbiano operato) soltanto qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto tali da sollecitare il loro intervento, ovvero abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati. Ne discende che, nel contesto normativo attuale, gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito “fatti pregiudizievoli” dei quali abbiano acquisito in positivo conoscenza (anche per effetto delle informazioni ricevute ai sensi del terzo comma dell'art. 2381 c.c.) ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, di propria iniziativa, ai sensi dell'obbligo posto dall'ultimo comma dell'articolo 2381 c.c.: per il che occorre che la semplice facoltà di «chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società» sia innescata, così da trasformarsi in un obbligo positivo di condotta, da elementi tali da porre sull'avviso gli amministratori alla stregua della “diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze”: altrimenti si ricadrebbe nella configurazione di un generale obbligo di vigilanza che la riforma ha invece volutamente eliminato».

Da ultimo è stata ribadita l'importanza del ruolo della potenziale responsabilità degli amministratori non esecutivi in società bancarie e quotate da Cass. II, n. 18846/2018, depositata il 16 luglio 2018 riguardante sanzioni amministrative Consob.

In dottrina si è sviluppato negli ultimi anni un intenso dibattito sul punto. Alcuni, seppure con accenti diversi, sottolineano l'importanza della funzione di controllo che le nuove norme dell'art. 2381 c.c. (ed in particolare la previsione in odine al «dovere di agire informati») attribuiscono agli amministratori non delegati, ed in questo contesto anche agli amministratori indipendenti (ad es., Rordorf, 143; Nazzicone; Stella Richter M. jr., 663, nonché Stella Richter M. jr., 2013, 19 ss.; Regoli, 1121 ss., che però sottolinea che solo in condizioni «emergenziali» e «patologiche» di sospetto derivante dalla incompletezza o scorrettezza delle informazioni ricevute sarà possibile un «maggior grado di attivazione individuale del singolo amministratore»; Giannelli, 507 ss.). Altri sottolineano maggiormente la riduzione della responsabilità degli amministratori non delegati dopo l'eliminazione dall'art. 2392 c.c. dell'«obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione» (maggiormente attestati su tale ultima posizione sono Montalenti, che ha operato in più occasioni una sistematica ricostruzione delle varie forme di responsabilità, da ultimo in Montalenti, 2013, 42 ss., e Bonelli, 89 ss. Di particolare interesse su questi temi anche la ricostruzione di Angelici, 2013, 1 ss. Una ricostruzione completa della dottrina in materia può trovarsi in Riganti).

I requisiti di indipendenza

I requisiti per essere considerati amministratori indipendenti sono individuabili, come visto, in due norme principali riguardanti le incompatibilità dei sindaci: l'art. 2399 c.c. e l'art. 148, comma 3, TUF, a sua volta richiamato dall'art. 147-ter, comma 4.

Vi è poi un peso significativo delle previsioni del Codice di Corporate Governance (già di autodisciplina) di Borsa Italiana, a sua volta influenzato dalla Raccomandazione della Commissione Europea 2005/162/CE del 15 febbraio 2005.

Pur rinviando al commento alle previsioni sui sindaci per maggiori dettagli, si segnalano in questa sede alcune peculiarità degli amministratori.

In effetti è solo con la disciplina relativa agli amministratori nel sistema monistico che le incompatibilità dei sindaci di cui all'art. 2399, comma 1, c.c. sono state definite per la prima volta «requisiti di indipendenza» dall'art. 2409-septiesdecies c.c. Norma chiave per comprendere la trasformazione può essere considerata la categoria residuale degli «altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza», presente sia nella norma civilistica che in quella del TUF.

Essa venne inserita per la prima volta nella norma civilistica con la riforma del diritto societario traendo ispirazione dalla previsione del Codice di autodisciplina delle società quotate di Borsa Italiana s.p.a. che, fra i requisiti di indipendenza degli amministratori, indicava, nella versione vigente al momento della riforma del 2003, l'assenza di relazioni economiche con la società o con il gruppo «di rilevanza tale da condizionarne l'autonomia di giudizio» (paragrafo 3.1).

La categoria residuale degli «altri» rapporti può essere utilizzata per considerare fonte di incompatibilità anche prestazioni d'opera non continuative ma di significative dimensioni o rapporti finanziari non connessi ad attività professionali. Inoltre, l'esplicito riferimento all'indipendenza come bene da perseguire consente di fornire una chiave interpretativa all'intera disposizione che può contribuire a risolvere i casi dubbi sulla base di un criterio teleologico.

Un caso di particolare interesse è quello della possibilità degli amministratori indipendenti di una società per azioni quotate di esserlo anche in società controllate, senza che tale evenienza ne mini il requisito, trattandosi formalmente di un incarico di amministratore in una società controllata, che sarebbe incompatibile per un sindaco, ma potrebbe non esserlo per un amministratore, se la funzione nella controllata è analoga a quella svolta nella capogruppo.

In proposito la Comunicazione Consob n. 10046789 del 20 maggio 2010 ha ritenuto, dopo una lunga ed approfondita disamina anche alla luce dei principî contenuti nel Codice di Autodisciplina e nella Raccomandazione della Commissione Europea, che «la definizione di amministratore indipendente prevista dal combinato disposto degli articoli 147-ter, comma 4, e 148, comma 3, del TUF, consenta la nomina di un amministratore indipendente di una quotata come amministratore indipendente in una o più controllate della quotata senza che ciò determini di per sé la perdita dell'indipendenza. Occorre tuttavia monitorare che la pluralità di incarichi non possa configurare quei “rapporti di natura patrimoniale” con la società o le società del gruppo “che ne compromettano l'indipendenza”, previsti dal medesimo art. 148, comma 3, del TUF».

I requisiti di indipendenza possono essere integrati statutariamente con quanto previsto da codici di autodisciplina adottati da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati. In caso di integrazione il possesso del requisito aggiuntivo di indipendenza diventa condizione necessaria per far parte del nucleo di amministratori indipendenti previsto come obbligatorio dalla legge.

È, peraltro, possibile per le società con azioni quotate aderire al Codice senza per questo modificare lo statuto; in tal caso i requisiti aggiuntivi, ma soprattutto gli amministratori indipendenti in più rispetto al minimo previsto dalla legge, saranno conseguenza dell'adesione al Codice, ma non adempimento ad una legge, con la conseguenza che la perdita dei requisiti non potrà determinare ipotesi di decadenza.

A ben vedere, rispetto alle citate nozioni legislative soltanto quella del Codice adottato da Borsa Italiana a.p.a. è a tutti gli effetti una nozione di indipendenza che aspira a riempire di contenuti concreti uno stato d'animo difficilmente afferrabile dal legislatore, muovendo da principî generali e tentando di darne esemplificazioni cogenti, mentre quelle dettate dai citati articoli del codice civile o del TUF rimangono strutturate come previsioni di incompatibilità che, anche con il fine di promuovere l'indipendenza e prevenire il conflitto d'interessi, prescrivono “cosa il componente di un organo di controllo non può essere” nel medesimo periodo in cui ricopre l'incarico.

Sul punto era molto chiaro l’incipit del criterio applicativo 3.C.1. del Codice (ultima versione del luglio 2015, in linea con le precedenti) secondo cui: «Il consiglio di amministrazione valuta l’indipendenza dei propri componenti non esecutivi avendo riguardo più alla sostanza che alla forma e tenendo presente che un amministratore non appare, di norma, indipendente nelle seguenti ipotesi, da considerarsi come non tassative».

La versione attuale del codice, successiva all’ampia rielaborazione conclusa nel marzo 2006,  agli ulteriori aggiustamenti portati a termine nel novembre 2011 e nel luglio 2015 e alla ulteriore rielaborazione (con cambio di denominazione) di gennaio 2020 definisce indipendenti: “gli amministratori non esecutivi che non intrattengono, né hanno di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con la società o con soggetti legati a quest’ultima, relazioni tali da condizionarne l’attuale autonomia di giudizio”, definizione sostanzialmente identica a quella già presente nel Principio 3.P.1. nella versione del 2015.

La nuova definizione, rispetto a quella preesistente, opera però un cambiamento nella direzione di una maggiore certezza delle ipotesi di non indipendenza, realizzata tramite alcune indicazioni presenti nei criteri di cui all’art. 2 del Codice, che fanno anche rinvio a definizioni quantitative da stabilire tramite norme interne alle società.

La nozione di indipendenza del Codice è, del resto, ormai entrata a far parte del quadro normativo vigente, grazie al formale riconoscimento di equivalenza (ai fini dell'applicazione del Regolamento sulle operazioni con parti correlate adottato con delibera Consob n. 17389 del 23 giugno 2010) fatto dalla stessa Consob con la Comunicazione n. 10078683 del 24 settembre 2010, contenente orientamenti interpretativi per l'applicazione del suddetto regolamento ufficiale. L'Autorità ritiene che i criteri attualmente previsti dal Codice di autodisciplina adottato dal Comitato per la Corporate Governance siano «almeno equivalenti a quelli dell'articolo 148, comma 3, del Testo Unico». Pertanto «si considereranno ...“amministratori indipendenti” ai fini del Regolamento gli amministratori riconosciuti come tali dalle società in applicazione dei principî e dei criteri applicativi del Codice di autodisciplina».

Viene altresì precisato che «tale valutazione è basata su un confronto del  livello di indipendenza complessivamente richiesto dal Testo unico, da un lato, con quello offerto dall'applicazione dei criteri del Codice di autodisciplina, dall'altro».

Invero, «la maggiore restrittività dei requisiti dell'articolo 148 Testo unico su alcuni singoli aspetti (ad esempio, indicazione più dettagliata del grado di parentela rilevante) è, infatti, più che compensata dalla più ampia indicazione di ipotesi significative di assenza di indipendenza e dall'esistenza di un principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma che guida l'applicazione dei criteri del Codice e che comporta una forte responsabilizzazione delle società stesse».

Peraltro, la Comunicazione in parola non è stata aggiornata dopo l’emanazione del nuovo Regolamento sulle operazioni con parti correlate avvenuta con delibera Consob del né dopo l’emanazione del nuovo Codice di Corporate Governance. In concreto però la Consob ha lasciato che le società applicassero i nuovi requisiti degli amministratori indipendenti anche per la formazione dei comitati competenti in materia di operazioni con parti correlate.

Può essere utile a capire lo stato dell'arte sul tema dell'indipendenza il confronto tra le tre previsioni, quella del codice civile, quella del TUF e quella del Codice di Borsa Italiana , nella nuova versione del 2020.

ART. 2399 C.C. ART. 148, COMMA 3, TUF RACCOMANDAZIONI 6 E 7 SUB ART. 2 DEL CODICE DI CG DI BORSA ITALIANA
Non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall'ufficio: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall'articolo 2382; b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza. Non possono essere eletti sindaci e, se eletti, decadono dall'ufficio: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall'articolo 2382 del codice civile; b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società od alle società da questa controllate od alle società che la controllano od a quelle sottoposte a comune controllo ovvero agli amministratori della società e ai soggetti di cui alla lettera b) da rapporti di lavoro autonomo o subordinato ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o professionale che ne compromettano l'indipendenza.

6. L’organo di amministrazione valuta l’indipendenza di ciascun amministratore non esecutivo subito dopo la nomina nonché durante il corso del mandato al ricorrere di circostanze rilevanti ai fini dell’indipendenza e comunque con cadenza almeno annuale. Ciascun amministratore non esecutivo fornisce a tal fine tutti gli elementi necessari o utili alla valutazione dell’organo di amministrazione che considera, sulla base di tutte le informazioni a disposizione, ogni circostanza che incide o può apparire idonea a incidere sulla indipendenza dell’amministratore7. Le circostanze che compromettono, o appaiono compromettere, l’indipendenza di un amministratore sono almeno le seguenti:

a) se è un azionista significativo della società;

b) se è, o è stato nei precedenti tre esercizi, un amministratore esecutivo o un dipendente: - della società, di una società da essa controllata avente rilevanza strategica o di una società sottoposta a comune controllo; - di un azionista significativo della società;

c) se, direttamente o indirettamente (ad esempio attraverso società controllate o delle quali sia amministratore esecutivo, o in quanto partner di uno studio professionale o di una società di consulenza), ha, o ha avuto nei tre esercizi precedenti, una significativa relazione commerciale, finanziaria o professionale: - con la società o le società da essa controllate, o con i relativi amministratori esecutivi o il top management; - con un soggetto che, anche insieme ad altri attraverso un patto parasociale, controlla la società; o, se il controllante è una società o ente, con i relativi amministratori esecutivi o il top management;

d) se riceve, o ha ricevuto nei precedenti tre esercizi, da parte della società, di una sua controllata o della società controllante, una significativa remunerazione aggiuntiva rispetto al compenso fisso per la carica e a quello previsto per la partecipazione ai comitati raccomandati dal Codice o previsti dalla normativa vigente;

e) se è stato amministratore della società per più di nove esercizi, anche non consecutivi, negli ultimi dodici esercizi;

f) se riveste la carica di amministratore esecutivo in un’altra società nella quale un amministratore esecutivo della società abbia un incarico di amministratore;

g) se è socio o amministratore di una società o di un’entità appartenente alla rete della società incaricata della revisione legale della società;

h) se è uno stretto familiare di una persona che si trovi in una delle situazioni di cui ai precedenti punti.

L’organo di amministrazione predefinisce, almeno all’inizio del proprio mandato, i criteri quantitativi e qualitativi per valutare la significatività di cui alle precedenti lettere c) e d).

Nel caso dell’amministratore che è anche partner di uno studio professionale o di una società di consulenza, l’organo di amministrazione valuta la significatività delle relazioni professionali che possono avere un effetto sulla sua posizione e sul suo ruolo all’interno dello studio o della società di consulenza o che comunque attengono a importanti operazioni della società e del gruppo ad essa facente capo, anche indipendentemente dai parametri quantitativi.

Oltre alle definizioni legislative e a quelle del Codice di Corporate Governance ne esiste un'altra, che in qualche modo le ispira. Si tratta della nozione presente nella Raccomandazione della Commissione Europea «sul ruolo degli amministratori senza incarichi esecutivi o dei membri del consiglio di sorveglianza delle società quotate e sui comitati del consiglio d'amministrazione o di sorveglianza» n. 2005/162/CE del 15 febbraio 2005, ed in particolare del suo Capitolo 13 e dell'Allegato II.

Il Paragrafo 13.1 della raccomandazione può costituire, per la sua chiarezza e sinteticità, un importante punto di riferimento interpretativo: «Un amministratore dovrebbe essere considerato indipendente soltanto se è libero da relazioni professionali, familiari o di altro genere con la società, il suo azionista di controllo o con i dirigenti di entrambi, che creino un conflitto di interessi tale da poter influenzare il suo giudizio».

L'Allegato II contiene in forma discorsiva una serie di esempi di indipendenza o di sua mancanza, che costituiscono indicazioni per gli stati membri, ma il Paragrafo 13.2 precisa, fra l'altro, che «dovrebbe spettare fondamentalmente allo stesso consiglio d'amministrazione o di sorveglianza stabilire come si determini l'indipendenza. Il consiglio d'amministrazione o di sorveglianza può ritenere che, anche se un determinato amministratore soddisfa tutti i criteri stabiliti a livello nazionale per la valutazione dell'indipendenza degli amministratori, egli non possa essere considerato indipendente a causa della situazione specifica della persona o della società. Si può verificare anche il contrario».

Nel sistema dualistico i requisiti di indipendenza devono essere posseduti, nelle società con azioni quotate, a differenza di quanto avviene per quelle non quotate, da tutti i componenti (cfr. artt. 148, commi 4-bis e 3, TUF) del consiglio di sorveglianza. Pertanto un organo che assume alcune delle funzioni del consiglio di amministrazione (ad esempio assume la c.d. supervisione strategica, approva il bilancio consolidato) la presenza di una quota di indipendenti è largamente garantita.

L'art. 147-quater del TUF si è però preoccupato di garantire la presenza di almeno un indipendente nel caso in cui in concreto il consiglio di gestione sia un organo che, per le sue dimensioni, non sembra avere caratteristiche puramente esecutive.

Da questa preoccupazione nasce la norma secondo cui quando il consiglio di gestione è composto da almeno quattro membri almeno uno deve possedere i requisiti di indipendenza previsti i per i sindaci dall'art. 148, comma 3, dello stesso TUF.

Seppure in modo meno esplicito di quanto avvenga per i sindaci, anche l'indipendenza degli amministratori deve considerarsi prevista a pena di decadenza dalla carica. Sul piano letterale in tal senso depone in modo chiaro l'ultimo inciso del comma 3 dell'art. 147-ter, secondo cui «l'amministratore indipendente che, successivamente alla nomina, perda i requisiti di indipendenza deve darne immediata comunicazione al consiglio di amministrazione e, in ogni caso, decade dalla carica». Non sembra possibile ritenere che l'amministratore decada soltanto qualora perda il requisito ed invece rimanga in carica se non l'abbia dall'inizio.

Del resto, vi sono altri indizi normativi che vanno inequivocabilmente nella direzione indicata: l'indipendenza è valutata sulla base delle norme del collegio sindacale (art. 2399 c.c.; art. 148 TUF) che prevedono i requisiti a pena di ineleggibilità o decadenza; il combinato disposto tra artt. 2382 e 2387 c.c. (in materia di previsione statutaria da part delle società per azioni ordinarie di requisiti, fra l'altro, di indipendenza degli amministratori) prescrive la decadenza come sanzione.

Nel caso in cui vi siano più amministratori (o se del caso più di 2 amministratori) in possesso dei requisiti di indipendenza previsti ex lege potrebbe porsi il problema se l'amministratore che li perda o che non li abbia ab initio possa comunque restare nel consiglio, se permangano altri amministratori in possesso di tali requisiti in numero sufficiente. Potrebbe in proposito ritenersi che sia più corretto far conseguire la decadenza soltanto nel caso in cui la presenza di un numero di amministratori indipendenti maggiore di quello minimo richiesto dalla legge sia previsto dallo statuto; ove invece si tratti di un «goldplating» volontario rispetto alle previsioni di legge o di statuto (ad esempio in adesione al Codice di corporate governance della società di gestione del mercato), la perdita dei requisiti da parte di un amministratore determinerebbe soprattutto obblighi di trasparenza circa la nuova situazione e la sua eventuale incidenza sulla modalità di formazione dei comitati e sul rispetto di regole per le quali rileva la presenza in consiglio di più amministratori indipendenti, come ad esempio quelle sulle operazioni con parti correlate.

A differenza di quanto previsto per i sindaci (art. 148, comma 4-quater, TUF), non vi è l'attribuzione alla Consob di un potere di intervento (per i sindaci previsto «in caso di inerzia» da parte dell'organo ammnistrativo «su richiesta di qualsiasi soggetto interessato o qualora» l'Autorità «abbia avuto comunque notizia dell'esistenza della causa di decadenza»), rimanendo la questione dell'eventuale decadenza integralmente rimessa all'ordinario operare dei meccanismi civilistici.

Le quote di genere

Il comma 1-ter dell'art. 147-ter stabilisce la disciplina delle quote di genere. Sul tema, v. anche, nella Parte XII, sub “Società di imprenditoria femminile”.

Si tratta di una disciplina introdotta con la l. n. 120/2011 sia per i consigli di amministrazione che per gli organi di controllo (in particolare collego sindacale, nel modello tradizionale o consiglio di sorveglianza, nel modello dualistico) che vede la sua ragion d'essere più a ragioni di ordine generale connesse alla piena realizzazione anche in ambito economico del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, che nelle esigenze tipiche del diritto societario e di quello del mercato finanziario. Ciò nonostante può dirsi che anche la norma sulle quote di genere appartiene a quella categoria di norme e di principî di corporate governance che mirano a far somigliare sempre meno i luoghi decisionali delle società e della finanza a un old boys club. In sostanza ogni apertura dei board a soggetti diversi da quelli tradizionalmente investiti di funzioni gestorie può costituire uno strumento utile a ridurre i rischi di non considerazione degli interessi generali o comunque di outsiders convolti nella gestione dell'impresa quotata.

Interessanti spunti sulla ratio sottostante la previsione obbligatoria delle quote di genere possono trovarsi fra gli altri in Vella, 21 ss.

Si ricorda che costituisce oggetto della Relazione sul governo societario (art. 123-bis, comma 2, lett. d-bis, TUF) anche «una descrizione delle politiche in materia di diversità applicate in relazione alla composizione degli organi di amministrazione, gestione e controllo relativamente ad aspetti quali l'età, la composizione di genere e il percorso formativo e professionale, nonché una descrizione degli obiettivi, delle modalità di attuazione e dei risultati di tali politiche. Nel caso in cui nessuna politica sia applicata, la società motiva in maniera chiara e articolata le ragioni di tale scelta».

In sintesi la disciplina, che ha natura provvisoria per un periodo in realtà molto lungo, impone che per tre mandati consecutivi sia garantita la presenza nel consiglio di almeno un terzo di esponenti del «genere meno rappresentato». In base alla norma transitoria (art. 2 l. 12 luglio 2011, n. 120), l'obbligo sorge dal primo rinnovo successivo a un anno dall'entrata in vigore della legge (e dunque a partire dai rinnovi del 2013 per le società che chiudono il bilancio al 31 dicembre ed in occasione del primo mandato la quota minima di rappresentanza può essere ridotta a un quinto.

Il sistema è completato da poteri Consob di intimazione e sanzione pecuniaria nel caso di mancato rispetto, che, in caso di inadempimento ad un doppio richiamo, possono persino condurre alla decadenza dell'intero consiglio (cfr. sia la norma di legge, sia l'art. 144-undecies.1 del Regolamento Emittenti, attuativo della medesima).

Originale, rispetto alle altre parti del TUF, è che in questo caso la sanzione pecuniaria è prevista direttamente dalla norma che prescrive l'obbligo (lo stesso art. 147-ter, comma 1-ter). Entrambi, obbligo e sanzione, incombono direttamente sulla società.

Le norme si applicano anche al consiglio di amministrazione del modello monistico. Inoltre, in base all'art. 147-quater, comma 1-bis, nel modello dualistico la disciplina sulle quote di genere sarà applicabile anche al consiglio di gestione nel solo caso in cui lo stesso abbia almeno 3 componenti. Ove non si arrivi a tale numero, nel modello in questione la disciplina sarà applicabile soltanto al consiglio di sorveglianza in forza delle norme (contenute nel successivo art. 148) che impongono quote di genere anche negli organi di controllo, a partire dal collegio sindacale.

Sulla base di quanto risulta dal Rapporto CONSOB sulla Corporate Governance delle società quotate italiane dal 2013 al 2022 la percentuale di donne presenti nei board di tali società è passata da circa il 16% a circa il 42%, il che conferma l’efficacia delle norme sulle quote di genere.

L'onorabilità dei componenti degli organi amministrativi

La legge sul risparmio del 2005 (l. n. 262/2005) ha ritenuto opportuno imporre che tutti i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e direzione nelle società con azioni quotate siano dotati di requisiti di onorabilità, anche in tal caso scegliendo (come fatto per l'indipendenza) come punto di riferimento quanto previsto dall'ordinamento (art. 148, comma 4, TUF e Regolamento attuativo emanato dal Ministro della giustizia di concerto con quello dell'economia, sentite Consob, Banca d'Italia e Ivass, ad oggi d.m. n. 162 del 30 marzo 2000) per i sindaci. A tale scopo è stato introdotto l'art. 147-quinquies, il cui comma 2 stabilisce che «il difetto dei requisiti determina la decadenza dalla carica».

Anche in tal caso, a differenza di quanto previsto per i sindaci o, come visto, in casi limite per le quote di genere non vi è l'attribuzione alla Consob di un potere di intervento, rimanendo la questione dell'eventuale decadenza integralmente rimessa all'ordinario operare dei meccanismi civilistici.

Potrebbe rivestire maggior interesse, come ipotesi di impossibilità di svolgere la funzione di esponenti aziendali di società quotate conseguente a comportamenti antigiuridici tenuti, la sanzione amministrativa accessoria prevista in occasione della violazione di alcune norme del TUF, consistente nell'«incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell'ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate» (così l'art. 187-quater, primo comma del TUF, in materia di abusi di mercato). Nel caso degli abusi di mercato, la sanzione va da due mesi a tre anni sulla base di una valutazione della Consob quando irroga la sanzione. Una sanzione accessoria simile è prevista dall'art. 191 TUF, in materia di violazione della disciplina sulle offerte al pubblico.

Bibliografia

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