Decreto legislativo - 3/07/2017 - n. 112 art. 3 - Assenza di scopo di lucroAssenza di scopo di lucro 1. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 16, l'impresa sociale destina eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento dell'attivita' statutaria o ad incremento del patrimonio. 2. Ai fini di cui al comma 1, e' vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati, a fondatori, soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di qualsiasi altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto. Nelle imprese sociali costituite nelle forme di cui al libro V del codice civile e' ammesso il rimborso al socio del capitale effettivamente versato ed eventualmente rivalutato o aumentato nei limiti di cui al comma 3, lettera a). Ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma, si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili: a) la corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi individuali non proporzionati all'attivita' svolta, alle responsabilita' assunte e alle specifiche competenze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni; b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessita' di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attivita' di interesse generale di cui all'articolo 2, comma 1[, lettere b), g) o h)]1; c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per la distribuzione di dividendi dal comma 3, lettera a); d) l'acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale; e) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, a condizioni piu' favorevoli di quelle di mercato, a soci, associati o partecipanti, ai fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, a coloro che a qualsiasi titolo operino per l'organizzazione o ne facciano parte, ai soggetti che effettuano erogazioni liberali a favore dell'organizzazione, ai loro parenti entro il terzo grado ed ai loro affini entro il secondo grado, nonche' alle societa' da questi direttamente o indirettamente controllate o collegate, esclusivamente in ragione della loro qualita', salvo che tali cessioni o prestazioni non costituiscano l'oggetto dell'attivita' di interesse generale di cui all'articolo 2; f) la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di quattro punti al tasso annuo di riferimento. Il predetto limite puo' essere aggiornato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. 2-bis. Ai fini di cui ai commi 1 e 2, non si considera distribuzione, neanche indiretta, di utili ed avanzi di gestione la ripartizione ai soci di ristorni correlati ad attivita' di interesse generale di cui all'articolo 2, effettuata ai sensi dell'art. 2545-sexies del codice civile e nel rispetto di condizioni e limiti stabiliti dalla legge o dallo statuto, da imprese sociali costituite in forma di societa' cooperativa, a condizione che lo statuto o l'atto costitutivo indichi i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantita' e alla qualita' degli scambi mutualistici e che si registri un avanzo della gestione mutualistica.2 3. L'impresa sociale puo' destinare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti: a) se costituita nelle forme di cui al libro V del codice civile, ad aumento gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato dai soci, nei limiti delle variazioni dell'indice nazionale generale annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati, calcolate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) per il periodo corrispondente a quello dell'esercizio sociale in cui gli utili e gli avanzi di gestione sono stati prodotti, oppure alla distribuzione, anche mediante aumento gratuito del capitale sociale o l'emissione di strumenti finanziari, di dividendi ai soci, in misura comunque non superiore all'interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; b) a erogazioni gratuite in favore di enti del Terzo settore diversi dalle imprese sociali, che non siano fondatori, associati, soci dell'impresa sociale o societa' da questa controllate, finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilita' sociale. [1] Lettera modificata dall'articolo 29, comma 3, del D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito con modificazioni dalla Legge 3 luglio 2023, n. 85. [2] Comma inserito dall'articolo 3, comma 1del D.Lgs 20 luglio 2018, n.95. InquadramentoL'assenza di scopo di lucro costituisce certamente il carattere peculiare dell'impresa sociale, ma il legislatore non si limita a riprodurre il consueto richiamo in negativo agli enti che operano senza fini di lucro, descrivendo invece le particolari finalità dell'impresa, che si vuole volte a fini generali. Peraltro, nonostante l'importante novità dell'originario d.lgs. n. 155/2006 quanto al possibile utilizzo della forma societaria, restava l'assoluto divieto di distribuzione degli utili, laddove una società commerciale, per sua natura, deve poter remunerare l'investimento nel capitale di rischio. Da cui la considerazione che, verosimilmente, un investitore razionale, che pur volesse non trascurare i profili etici delle proprie scelte, difficilmente avrebbe effettuato apporti di capitale in una società, alla quale è totalmente preclusa la possibilità di remunerare l'investimento, preferendo allora operare erogazioni liberali a favore di enti non profit costituiti in forme più consuete, alle quali erano associate forme di deduzione fiscale dal reddito o di detrazione dall'imposta del soggetto erogante (Sbardella, Silvetti, Remunerazione, n. 13). Pertanto, la legge delega n. 106/2016 ha indicato, all'art. 6, principî e criteri direttivi per il riordino e la revisione della disciplina dell'impresa sociale, nell'ambito della riforma del terzo settore, ove la novità più evidente è l'attenuazione del divieto di distribuire utili. Il comma 1, lett. d), dell'art. 6 ha infatti previsto «forme di remunerazione del capitale sociale», pur nella prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell'oggetto sociale, rinviando alle «condizioni e comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente». In sostanza, la norma in esame ammette che un'impresa sociale possa distribuire dividendi, applicando al capitale sociale effettivamente versato il tasso di interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato fino a due punti e mezzo percentuali, in analogia con quanto previsto dall'art. 2514, comma 1, lett. a), c.c. per le cooperative a mutualità prevalente. Per quanto riguarda l'impresa sociale in forma di società, la misura massima degli utili distribuibili è stata ritenuta un limite eccessivamente rigido, specie per le imprese sociali organizzate sotto forma di società commerciali di persone e di capitali, che potrebbero necessitare di una maggiore flessibilità, ferma restando l'esigenza di garantire la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell'oggetto sociale. Onde l'affermazione che il legislatore delegante abbia inteso promuovere l'esercizio dell'impresa sociale soprattutto da parte delle cooperative, commisurando la distribuzione di utili in base al regime proprio di quelle a mutualità prevalente (Sbardella, Silvetti, Remunerazione, § 3). Limiti alla distribuzione degli utiliL'art. 3 d.lgs. n. 112/2017, nell'attuare la delega, in primo luogo ha imposto la destinazione degli utili allo svolgimento dell'attività dell'ente ed alla formazione delle riserve; in secondo luogo, ha escluso la distribuzione di utili e di riserve, mentre nelle società si ammette il rimborso del conferimento, con limitata rivalutazione. Si noti che il divieto di dividendi è posto non soltanto con riguardo ai soci, ma ad ogni altra categoria (fondatori, soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali), con l'aggiunta che è vietato anche il conseguimento indiretto di tale distribuzione, che essa attiene ad ogni posta comunque denominata e che riguarda anche il momento dello scioglimento del singolo rapporto sociale. In aggiunta, il legislatore ha operato un lungo elenco di fattispecie che costituiscono distribuzione indiretta di utili: dalla corresponsione agli organi sociali in forma di compenso sproporzionato (classica fattispecie di conflitto d'interessi per la giurisprudenza di legittimità) o ai lavoratori oltre la percentuale del quaranta per cento rispetto ai contratti collettivi; dalla remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle partecipazioni al capitale in misura superiore a un dato tasso, all'acquisto sovrastimato di beni o servizi da terzi, o, viceversa, alle vendite a prezzi inferiori a quelli di mercato, in favore di soci, organi od altri soggetti che a qualunque titolo operino per l'organizzazione, e parenti vari; sino al pagamento a soggetti diversi dalle banche di interessi passivi in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori ad un certo tasso. Si tratta di alcune operazioni nei cui confronti, al fine di rendere effettivo il divieto di attività speculativa nelle ordinarie imprese sociali, opera una presunzione di distribuzione indiretta di utili, che sono presunzioni assolute («in ogni caso»). Tuttavia, è invece espressamente consentito, in forza del comma 3, alle sole imprese sociali in forma di società di destinare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali: a) ad aumenti gratuiti di capitale, a norma dell'art. 2438 c.c., tuttavia in limiti assai ridotti (variazioni dell'indice Istat nell'esercizio sociale) e previo abbattimento delle perdite maturate; b) alla distribuzione di dividendi, sempre se in misura non superiore all'interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato. Lo stesso comma consente, altresì, erogazioni liberali a favore di enti del terzo settore, che non siano però imprese sociali, e solo se finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale. In tal modo, il legislatore ha trovato un compromesso. Invero, si imponeva la regolamentazione del lucro soggettivo: infatti, la dottrina economico-giuridica reputa il divieto di perseguirlo funzionale per la stessa fiducia degli utenti nell'efficiente gestione dell'attività non profit, in quanto, di regola, la particolare condizione dei destinatari del servizio non permette un adeguato giudizio sui risultati. Onde la clausola di divieto del lucro assicura contro il moral hazard e permette ai soggetti finanziatori dell'ente, soci o esterni, di ridurre i rischi che i gestori ne ricavino vantaggi privati (Mosco, par. 6). Si osserva, dall'altro lato, come il divieto assoluto di lucro non sia sempre la soluzione ottimale, avendo le analisi economiche palesato che ciò, come è intuitivo, implica una limitata capacità per gli enti non profit di adeguare le proprie strutture a riduzioni o aumenti della domanda, e, più in generale, il divieto totale di divisione degli utili si sconta sulla qualità dei servizi (Mosco, ibidem, anche sulla scorta di esperienze straniere); né, naturalmente, attira investimenti. Ecco, dunque, la principale innovazione della riforma del 2016: permettere una, sia pur limitata, remunerazione del capitale. Inoltre, il decreto correttivo n. 95/2018 ha inserito, all'art. 3 in commento, un comma 2-bis, con il quale ha inteso escludere che possa qualificarsi come «distribuzione di utili», neppure «indiretta», la ripartizione ai soci di «ristorni correlati ad attività di interesse generale», come definita dal precedente art. 2, «effettuata ai sensi dell'articolo 2545-sexies del codice civile e nel rispetto di condizioni e limiti stabiliti dalla legge o dallo statuto, da imprese sociali costituite in forma di società cooperativa, a condizione che lo statuto o l'atto costitutivo indichi i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e alla qualità degli scambi mutualistici e che si registri un avanzo della gestione mutualistica». In sostanza, in tal modo si è permessa la distribuzione dei ristorni nelle imprese sociali che abbiano scelto il tipo della società cooperativa. La ripartizione di ristorni ai soci cooperatori di cooperative imprese sociali, pertanto, neppure è soggetta al limite che attiene alla distribuzione dei dividendi, previsto al medesimo art. 3, comma 3, lett. a). La valutazione della riforma da parte di taluno non è interamente positiva, in quanto si teme che prevedere un'eccezione al divieto assoluto di lucro soggettivo solo per le imprese sociali penalizzi le altre figure e che non si assicuri davvero il carattere «sociale» dell'impresa così denominata, sebbene essa al pari degli altri enti imprenditoriali del terzo settore benefici di agevolazioni pubbliche, anche contributive, o di donazioni private, e, se è una cooperativa sociale onlus, del 5 per mille dei contribuenti; onde si invoca l'autoregolamentazione di settore e statutaria, anche facendo leva su meccanismi incentivanti e di controllo, per esempio sul principio comply or explain di diritto societario (Mosco, par. 6). La mancanza dello scopo di lucroIl codice del '42 detta all'art. 2082 c.c. una definizione di imprenditore che non opera nessun riferimento allo scopo di lucro, anche attesa la contestuale disciplina di società cooperative, delle mutue assicuratrici e dei consorzi con attività esterna. Ma è palese come tali ultime figure non erano affatto viste in chiave altruistica, essendo in tali enti il perseguimento di uno scopo non lucrativo ipotesi eccezionale e marginale; e, nel fenomeno cooperativo come in quello consortile l'impresa era destinata, secondo il sistema originario del codice, a soddisfare in via esclusiva o prevalente solo i bisogni dei partecipanti: nelle cooperative, per sostituire il terzo imprenditore ed ottenere un risparmio di spesa o una sovra-remunerazione del lavoro, dei prodotti o servizi conferiti o ricevuti; nei consorzi, addirittura per tutelare il profitto prodotto dalle imprese consorziate. Dal loro canto, nell'impianto originario del c.c. gli enti volti ad un fine altruistico-ideale – associazioni e fondazioni – lo realizzano essenzialmente mediante attività di erogazione a carico di associati e finanziatori pubblici e privati, non invece di iniziative produttive imprenditoriali. La Costituzione del '48, con l'affermazione dei principî di libertà d'associazione e di impresa privata, crea le premesse per un cambiamento radicale: onde, in seguito, si è progressivamente affermata l'opinione che la fattispecie «impresa» non include lo scopo lucrativo, risultando a riguardo sufficiente il rispetto di un metodo di gestione idoneo a realizzare il pareggio tra costi e ricavi a salvaguardia dell'economicità dell'attività esercitata (Mosco, par. 2). L'impresa non si identifica ormai, né sotto il profilo teorico, né sotto il profilo operativo, con un'attività svolta per mero fine di lucro, attese le varie figure che nell'ordinamento contemplano l'assenza di questo scopo. Ma, sebbene la massimizzazione del valore per gli azionisti sia nozione ora sostituita con quella produzione di beni e servizi alle condizioni più favorevoli per chi ne fruisce, resta dunque l'esigenza di economicità e l'efficienza della gestione imprenditoriale. In uno sguardo comparato, si osserva che la non profit enterprise è diffusa anche negli altri Paesi, europei e no: si menzionano, ad esempio, nuove forme ibride societarie, quali le inglesi le Community Interest Company e le americane Low Profit Limited Liability Company (c.d. L3C) s.r.l., queste ultime svolgenti attività a basso profitto nel settore dell'istruzione e della solidarietà sociale (Mosco, L'impresa non speculativa, par. 2). La dottrina osserva come, in generale, attese le evoluzioni del diritto positivo sui gruppi associativi di diritto privato – imperniata tradizionalmente su un criterio di specializzazione fondato sullo scopo: lucrativo, altruistico-ideale, mutualistico, consortile – si ha ora che questa «tavola degli scopi è divenuta negli ultimi anni assai più articolata e nuancée, con previsione anche di figure miste rispetto a quelle della nomenclatura codicistica originaria» ( d'Alessandro , Il mantello di San Martino , par. 12). Per la Cassazione, del pari, è dato acquisito che la nozione di imprenditore, ai sensi dell'art. 2082 c.c., va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività: ed ai fini dell'industrialità dell'attività svolta (art. 2195, comma 1, c.c.), per integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio. Dunque, lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, poiché è configurabile attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (c.d. lucro oggettivo), requisito quest'ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine non speculativo (Cass. VI, n. 30647/2017; Cass. VI, n. 29905/2017; Cass. VI, n. 14250/2016; Cass. II, n. 9041/2016; Cass. S.U., n. 5069/2016, in tema di fondazione bancaria; Cass. I, n. 6835/2014; Cass. sez. lav., n. 4983/2014 e Cass. sez. lav., n. 22873/2010, in tema di licenziamento illegittimo; Cass. S.U., n. 30175/2011; Cass. III, n. 16612/2008; Cass. III, n. 20815/2006, in tema di attività di alloggio svolta in un complesso universitario religioso; Cass. V, n. 22644/2004, in tema di attività d'impresa rilevante ai fini dell'applicazione della disciplina dell'i.v.a.; Cass. sez. lav., n. 16435/2003, sulla attività svolta dalla comunità ebraica di Venezia nella gestione di una casa di riposo; Cass. III, n. 4690/2003, sull'attività di palestra sportiva; Cass. I, n. 9513/1999; Cass. I, n. 7061/1994; Cass. I, n. 5839/1992; v. pure Cass. sez. lav., n. 17971/2006, in tema di partecipazione di organizzazione sindacale di categoria a società di capitali controllate, strumentalmente demandate alla gestione di alcuni settori di attività). La Cassazione (Cass. I, n. 22955/2020) rileva che l'art. 1 l.fall. stabilisce i requisiti per l'acquisto della qualità di imprenditore mediante rinvio all'art. 2082 c.c., il quale non include tra essi lo “scopo di lucro” (v. ora art. 121 c.c.i.i.). La concezione, propria dell'epoca del codice di commercio, che lo scopo di guadagno inteso in senso soggettivo costituisse requisito essenziale per l'acquisto della qualità di imprenditore è oggi tramontata. L'eliminazione del requisito dello scopo di lucro segni un elemento di discontinuità anche ideologica rispetto al codice di commercio, essendo state ricondotte alla fattispecie generale l'impresa pubblica, l'impresa mutualistica e l'impresa sociale. Il c.c. enuncia, infatti, una nozione unitaria di impresa, comprensiva di quella privata e di quella pubblica (art. 2093 c.c.), e per quest'ultima è appunto richiesta esclusivamente l'osservanza del criterio di economicità della gestione, intesa quale remunerazione dei fattori produttivi impiegati, nell'osservanza di una generale regola di condotta per l'intervento imprenditoriale dei pubblici poteri. Nell'impresa, per la sua natura di attività, gli elementi teleologici possono assumere rilievo solo sul piano oggettivo, in quanto si obiettivizzano nel modo di svolgimento della medesima attività. L'attività deve essere “economica”: ossia deve essere caratterizzata dal criterio di economicità, nel senso che essa va svolta con modalità tali da soddisfare l'esigenza che sia astrattamente idonea a coprire i costi di produzione, alimentandosi con i suoi stessi ricavi, senza comportare erogazioni a fondo perduto. Il requisito dello scopo di lucro, quindi, va escluso solo qualora l'attività sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l'erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti (Cass. III, n. 16612/2008; Cass. lav., n. 16435/2003; Cass. S.U., n. 3353/1994), sicché l'intento di lucro, così come ogni altra soggettiva previsione od aspettativa dell'agente, degrada a semplice motivo giuridicamente irrilevante. Lo scopo lucrativo soggettivo neppure è richiesto dalla disciplina dell'impresa sociale, in commento. Detto convincimento è anche affermato dai giudici di merito, in quanto si assume la qualità d'imprenditore commerciale, anche se non ricorra lo scopo di lucro, quando sussistano gli estremi della obiettiva economicità dell'esercizio (es. Trib. Padova 2 novembre 2001, in Soc., 2002, 583, n. Porcari e Fall., 2002, 1218, n. Iannello; Trib. Napoli 19 gennaio 2000, in Dir. fall., 2001, II, 507; Trib. Napoli 6 novembre 1989, in Giust. civ., 1989, I, 2691, sull'attività didattica a fini commerciali; Trib. Roma 29 luglio 1987, in Dir. lav., 1987, II, 501, con riguardo all'esigenza di non fermarsi a generiche certificazioni prodotte dagli interessati, ma di verificare la concreta situazione, nella specie di una casa di cura gestita da ente ecclesiastico; Trib. Venezia 8 giugno 1984, in Dir. fall., 1985, II, 159; e v. Trib. Catania 14 luglio 1998, in Giur. comm., 2000, II, 47). Lo stesso afferma il giudice amministrativo, secondo cui, in conformità alle statuizioni della Corte di giustizia dell'Unione europea ed alla nostra disciplina nazionale, la definizione di impresa non discende da presupposti soggettivi, ma da elementi puramente oggettivi, quali l'offerta di beni e servizi da scambiare con altri soggetti, onde anche soggetti senza scopo di lucro possono partecipare alle procedure per l'affidamento di contratti pubblici, alla condizione che esercitino anche attività d'impresa funzionale ai loro scopi e sempre che quest'ultima possibilità trovi riscontro nella disciplina statutaria del singolo soggetto giuridico (Cons. St. III, n. 116/2016, in Foro amm., 2016, 19; Cons. St. V, n. 84/2015; Cons. St. III, n. 5882/2012, Giurisdiz. amm., 2012, I, 1609 e Riv. amm., 2013, 344, n. Capasso; Cons. St. V, n. 4539/2010, in Foro amm.-Cons. St., 2010, 1485; Cons. St. VI, n. 3897/2009, fra l'altro in Giurisdiz. amm., 2009, I, 888 e Giorn. dir. amm., 2010, 151, n. Mento); ed il principio del c.d. «utile necessario» non è estensibile a soggetti che operano per scopi non economici, bensì sociali o mutualistici, per i quali l'obbligatoria indicazione di un utile d'impresa si tradurrebbe in una prescrizione incoerente con la relativa vocazione non lucrativa, con l'imposizione di un'artificiosa componente di onerosità della proposta; ne deriva che, diversamente da quanto accade per gli enti a scopo di lucro, l'offerta senza utile presentata da un soggetto che tale utile non persegue non è, solo per questo, anomala o inaffidabile in quanto non impedisce il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio stricto sensu economico (Cons. St. V, n. 3855/2016, in Foro amm., 2016, 2114; T.A.R. Molise 24 settembre 2008, n. 715, in Contr. Stato e enti pubbl., 2009, 23, con nota di Santoro). Quanto alla Corte di giustizia dell'Unione europea, per essa è costantemente sufficiente che l'attività economica consista nella produzione e nell'offerta di beni e servizi in un determinato mercato, onde ciò che rileva non è il perseguimento di un qualche margine di utile, bensì la circostanza che la struttura dell'offerta sia tale da garantire uno svolgimento efficiente ed efficace del servizio, e ciò indipendentemente dallo status giuridico di tale entità e dalle sue modalità di finanziamento (fra le altre, cfr. Corte giustizia UE 27 giugno 2017, C-74/16, Congregación de Escuelas Pías, punto 41, in Foro it., 2017, IV, 409; 10 gennaio 2006, C-222/04, Cassa di risparmio di Firenze, punto 107, in Foro it., 2006, IV, 249; 3 marzo 2011, C-437/09, Ag2R; 29 settembre 2011, C-521/09, Elf Aquitaine; 29 marzo 2011, C-201/09, 216/09, ArcelorMittal; 26 marzo 2009, C-113/07, Selex Sistemi Integrati; 1° luglio 2008, C-49/07, MOTOE, punti 22 e 27; 9 dicembre 2008, n. 442/07, Verein Radetzky, in Giur. dir. ind., 2008, 1338; 16 marzo 2004, C 264/01, C 306/01, C 354/01 e C 355/01, AOK Bundesverband, punto 46; 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a C-184/98, Pavlov, punti 75, 77; 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione/Italia, punti 37, 38; 11 dicembre 1997, C-55/96, Job Centre, punto 21; 16 novembre 1995, C-244/94, Federation francaise des societes d'assurances, punto 14; 23 aprile 1991, C-41/90, Hoefner, p. 32; 23 aprile 1991, C-41/90, Hofner e Elser, punto 21; 16 giugno 1987, 118/85, Commissione/Italia, punto 7). La Corte di giustizia UE (Corte giust., sez. VIII, 7 luglio 2022, C-213/21 e I, Italy Emergenza Cooperativa Sociale, in Soc , 2023, 21, nota di Cusa, in tema di appalti pubblici) ha operato una ricostruzione del diritto delle organizzazioni imprenditoriali, tracciando con nettezza il confine tra organizzazioni lucrative e organizzazioni non lucrative. In tal senso è anche la Commissione europea (sin da 30 gennaio 1995, 95/188/CE, Colegio Oficial de Agentes de la Propiedad Industrial) ed il Tribunale dell'Unione europea (Trib. I grado Comunità europee, sez. VIIIT, 15 settembre 2016, n. 220/13; 4 marzo 2003, n. 319/99, in Foro it., 2003, IV, 331, n. Cerbo e Cons. St., 2003, II, 565, n. Antonucci). Dunque, la nozione di impresa in ambito unionale è più economica che giuridica ed è costruita sul concetto di attività economica, nel senso individuato dalla citata giurisprudenza della Corte di giustizia: ai fini della nozione di impresa comunitaria, nessuna rilevanza può attribuirsi all'elemento soggettivo, sia sotto il profilo della qualifica dell'attività (di impresa o professionale, di lavoro autonomo e di esercente attività c.d. protette), sia sotto il profilo della struttura propria del soggetto (persona fisica o ente collettivo; soggetto di diritto privato o di diritto pubblico), in quanto il soggetto passivo è identificato in funzione dell'attività economica svolta. Né rileva, quindi, il modo in cui i singoli ordinamenti nazionali definiscono l'ente o la persona fisica cui la suddetta attività economica fa capo. Differenze dalla società benefitMentre le società benefit restano società lucrative, le imprese di cui alla normativa in commento, quali forme associative non profit, vedono invece ammesso un ridotto lucro soggettivo. La società benefit, dunque, s'inserisce nella scia dell'impresa sociale, essendo entrambe strumenti volti a realizzare finalità d'interesse generale, ma da questa si distingue in relazione a due profili principali: da un lato, l'attività della società benefit non è limitata a specifici settori tassativamente fissati dalla legge, essendo ogni scelta al riguardo rimessa all'autonomia privata, come pure l'individuazione del beneficio comune cui orientare l'attività sociale; dall'altro lato, nella società benefit sussiste normalmente lo scopo di lucro, laddove, nell'impresa sociale, il legislatore del 2006 aveva posto il divieto assoluto di distribuirli (Lenzi, par. 1), e, nella riforma del 2016, si è previsto solo un limitato tasso di distribuibilità. Dunque, solo la società benefit è chiamata ad armonizzare, da un lato, l'interesse dei soci agli utili, e, dall'altro lato, gli interessi della comunità. E solo in quella il perseguimento del beneficio comune, in via concorrente con il fine di lucro, è elemento costitutivo della fattispecie (v. sub «Società benefit», nel commento all'art. 1 l. n. 208/2015). Differenze dalla responsabilità sociale dell'impresaNé bisogna confondere l'impresa sociale, come l'intero terzo settore, con il tema della responsabilità sociale d'impresa, o corporate social responsibility (CSR). Quest'ultima attiene in pieno, infatti, al settore delle società lucrative, per le quali si predica da qualche tempo l'importanza di conciliare il business con altri interessi generali e sociali «non negoziabili», su base volontaria. La responsabilità sociale delle imprese può essere ricondotta all'art. 41, comma 2, Cost., il quale dispone che l'impresa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o pregiudicare la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Inoltre, l'art. 50, par. 2, lett. g) del trattato FUE, nell'ambito della libertà di stabilimento, prevede che il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione esercitano le funzioni loro attribuite, «g) coordinando, nella necessaria misura e al fine di renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell'art. 54, secondo comma per proteggere gli interessi tanto dei soci come dei terzi». La Commissione europea si è occupata del tema nel Libro verde intitolato Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese del 18 luglio 2001, e, quindi, con la Comunicazione 25 ottobre 2011, intitolata «Il partenariato per la crescita e l'occupazione: fare dell'Europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese». Inoltre, va ricordata la direttiva sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie (Direttiva 2014/95/UE), però relativa solo alle imprese di maggiori dimensioni, i c.d. enti di interesse pubblico (società quotate, banche, assicurazioni, ecc.) con almeno 500 dipendenti, che potrà sia permettere di conoscere e confrontare le informazioni di carattere ambientale, sociale, lavorative, e così via, sia di intraprendere le azioni previste per le false comunicazioni. Inoltre, la Direttiva (UE) 2017/828 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017, di modifica della Direttiva 2007/36/CE sui diritti degli azionisti, per quanto riguarda l'incoraggiamento dell'impegno a lungo termine dei medesimi, prevede: - al 14° considerando: che il «maggiore coinvolgimento degli azionisti nel governo societario delle società rappresenta una delle leve che possono contribuire a migliorare i risultati finanziari e non finanziari delle società, anche per quanto riguarda i fattori ambientali, sociali e di governo, in particolare ai sensi dei principî di investimento responsabile sostenuti dalle Nazioni Unite. In aggiunta, il maggiore coinvolgimento di tutti i portatori di interesse, in particolare dei dipendenti, nel governo societario è un fattore importante per garantire che le società quotate adottino un approccio più a lungo termine, che deve essere incoraggiato e preso in considerazione»; - al 22° considerando: che il «gestore di attivi dovrebbe inoltre informare l'investitore istituzionale se il gestore di attivi adotti decisioni di investimento sulla base di una valutazione dei risultati a medio e lungo termine della società partecipata, compresi i risultati non finanziari, e in caso affermativo secondo quali modalità. Dette informazioni sono particolarmente utili per stabilire se il gestore di attivi adotta un approccio alla gestione degli attivi attivo e orientato al lungo periodo e tiene conto delle questioni sociali, ambientali e di governante»; - al 29° considerando, che i «risultati degli amministratori dovrebbero essere valutati utilizzando criteri sia finanziari sia non finanziari, inclusi, ove del caso, fattori ambientali, sociali e di governo». E, nel testo, l'art. 3-octies della detta Direttiva (UE) 2017/828, intitolato alla «politica di impegno», impone che gli investitori istituzionali e i gestori di attivi, come gli Stati assicurano, «sviluppano e comunicano al pubblico una politica di impegno», la quale «descrive le modalità con cui monitorano le società partecipate su questioni rilevanti, compresi la strategia, i risultati finanziari e non finanziari nonché i rischi, la struttura del capitale, l'impatto sociale e ambientale e il governo societario ...». In sostanza, la direttiva sui diritti degli azionisti chiede agli investitori istituzionali di considerare, tra i parametri che guidano le proprie «politiche di impegno», i risultati anche non finanziari delle imprese partecipate. Un obbligo in capo agli investitori, si ritiene, che è in grado di influenzare indirettamente i comportamenti delle società quotate, incentivando iniziative socialmente responsabili, con l'obiettivo di attrarre investimenti. Si tenta, così, di sollecitare le imprese lucrative a tenere conto anche degli interessi degli stakeholders. Uno dei primi settori di emersione è stato quello della tutela dell'ambiente, con la quale l'industria sovente confligge, alla ricerca di uno c.d. sviluppo sostenibile, ad esempio riducendo – fermo l'obiettivo del profitto – le emissioni inquinanti e curando il rispetto degli ecosistemi ambientali; accanto a ciò, ulteriori ambiti di impatto sono quelli delle condizioni di lavoro, della leale collaborazione con le imprese della filiera produttiva, con le autorità e le organizzazioni territoriali e nazionali, nonché il generale rispetto sostanziale delle leggi, non solo fiscali (Mosco, par. 7, che rileva come i contenuti siano diversi a seconda del territorio nel quale opera l'impresa: nei paesi in via di sviluppo si privilegia il progresso sociale, negli altri specie la tutela ambientale). L'attrattiva, per le imprese a scopo di lucro, di tali codici sta nei vantaggi competitivi in termini di rafforzamento della reputazione e del valore dei marchi (Conte, 131) e nella volontà di mitigare i rischi legali di un'attività attenta solo alla massimizzazione degli utili (Benatti, I codici etici, 559). In concreto, le imprese hanno adottato codici etici, costituito comitati etici interni o predisposto spontaneamente i c.d. bilanci sociali e di sostenibilità, oppure scelto di sottoporsi alla valutazione di agenzie specializzate (Conte, 109). Vari studi hanno tentato di verificare gli effetti sulle performances aziendali dell'adozione di condotte socialmente responsabili: alcune analisi rilevano in prospettiva redditività significativamente superiori per le imprese certificate socialmente responsabili rispetto alle imprese non certificate; sebbene, tuttavia, nel breve pe-riodo, emergano piuttosto degli svantaggi in ragione degli ingenti costi sostenuti per l'adozione dei relativi comportamenti (Mosco, par. 7). Quanto ai numeri, il rapporto dell'Osservatorio Socialis 2016 riporta che l'80% delle imprese italiane con oltre 80/100 dipendenti dichiara di impegnarsi in iniziative di etica aziendale di carattere sociale, ambientale o culturale. 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Identità e sviluppo in un quadro di riforma, in Rapporto Iris Network Istituti di Ricerca sull'Impresa Sociale, Trento, Altreconomia, 2014, 67. |