Codice Civile art. 2639 - Estensione delle qualifiche soggettive (1).

Rosa Pezzullo

Estensione delle qualifiche soggettive (1).

[I]. Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.

[II]. Fuori dei casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi.

(1) V. nota al Titolo XI.

Inquadramento

La nuova formulazione dell'art. 2639, così come risultante dalla riforma del diritto penale societario del 2002, è stata accolta con favore, sia dalla dottrina, che dalla giurisprudenza. Essa, infatti, condizionando l'estensione delle qualifiche soggettive nell'ambito dei reati societari a stringenti parametri normativi, nonché ad una valutazione caso per caso, ha superato l'annosa disputa dottrinale tra i sostenitori della teoria formale e i sostenitori della teoria realistico-funzionale (La Spina, 341).

I primi individuavano i soggetti attivi dei reati societari propri esclusivamente in coloro i quali erano dotati della formale qualifica civilistica, escludendo, in tal modo, l'ammissibilità di figure soggettive di fatto. Secondo tale teoria, infatti, una soluzione contraria, ampliando l'area del penalmente rilevante fino a ricomprendervi figure prive della qualifica soggettiva esplicitamente prevista dalle norme incriminatrici, avrebbe violato il principio di legalità materiale penale ed, in particolare, il divieto di analogia. Peraltro, la maggior parte delle norme penal-societarie prevede reati propri, ossia reati a soggettività ristretta predeterminata dal legislatore; gli autori, infatti, dei reati societari sono innanzitutto le persone fisiche che rivestono una certa qualifica soggettiva (Ricci, 201).

Al contrario, la teoria realistico- funzionale, prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, valorizzava l'effettivo svolgimento delle funzioni, assicurando il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale sancito dall'art. 27 Cost.

I sostenitori di detta teoria evidenziavano, inoltre, che siffatta conclusione non era il frutto di un procedimento analogico, bensì di una interpretazione estensiva, strumentale a colmare vuoti di tutela lasciati dal legislatore (La Spina, 341).

La giurisprudenza di legittimità più risalente evidenziava come anche l'amministratore di fatto rispondesse di bancarotta (reato per il quale maggiormente si poneva il problema dell'estensione di responsabilità), perché tale qualifica era da ritenersi spettante non solo al rappresentante legale dell'ente di fronte ai terzi, dovendosi in questa materia aver riguardo alla concreta sussistenza dell'effettivo potere di gestione, più che alla carica ufficiale (Cass. pen. V, n. 1072/1970). Invero, l'amministratore di fatto di una società fallita doveva ritenersi penalmente responsabile dei fatti di bancarotta da lui compiuti, non solo come eventuale correo dell'amministratore di diritto, ma anche autonomamente (Cass. pen. V, n. 4590/1976).

Anche in materia civile, antecedentemente all'odierna formulazione dell'art. 2639 c.c., la giurisprudenza di legittimità affermava che le norme che disciplinano l'attività degli amministratori regolano il corretto svolgimento dell'amministrazione della società e, quindi, si applicano non solo a coloro che sono stati immessi nelle funzioni di amministratore con le forme stabilite dalla legge, ma anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto dall'assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita (Cass. I, n. 1925/1999).

La novella legislativa ha optato per un'equiparazione tra amministratore di fatto e di diritto non automatica, ma condizionata a presupposti e limiti ben definiti, derivanti dalla continuità e significatività dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. In linea con lo spirito che ha animato la riforma dei reati societari, l'introduzione del nuovo art. 2639 c.c. è stata preordinata a dare effettività al diritto penale societario e a porre un freno alla diffusa prassi giurisprudenziale, che, attraverso un'interpretazione estensiva, aveva provato a colmare lacune di tutela da tempo segnalate dalla più attenta dottrina penalistica.

Nonostante il merito attribuito alla nuova norma, va, tuttavia, osservato che la dottrina non ha mancato di evidenziare come il divieto di analogia, formalmente rispettato, potrebbe sostanzialmente risultare aggirato dal potere discrezionale del giudice che, in mancanza di elementi oggettivi, resta comunque insindacabile (Capirossi, 776).

La struttura della norma: le tre categorie di soggetti attivi.

La norma in commento prevede l'equiparazione di tre categorie di soggetti attivi.

Al primo comma, l'art. 2639 c.c. parifica al soggetto formalmente investito della funzione civilistica, sia colui che è tenuto a svolgere la stessa funzione, ma diversamente qualificata, che colui che esercita, in maniera continuativa e significativa, i poteri tipici inerenti alla stessa qualifica o funzione.

Il secondo comma, invece, estende in via generale la punibilità anche a coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità di pubblica vigilanza di amministrare la società, ferma restando la più grave disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali.

La prima e la terza categoria

In ordine alla prima delle tre categorie appena elencate, ossia i soggetti incaricati di svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, si evidenzia che tale equiparazione è espressione del principio di irrilevanza della denominazione formale rispetto al contenuto della funzione. Con essa, infatti, il legislatore ha voluto evitare che la diversità di tipo meramente nominalistico della qualifica ricoperta, determini l'impunità al soggetto che abbia commesso il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice.

Si tratta, in particolare, delle ipotesi in cui il soggetto agente riveste una qualifica o svolge una funzione che non corrisponde nominalmente a quella indicata nella fattispecie di reato (Palladino, 3089) e, specificamente, si tratta dell'equiparazione tra i destinatari del precetto penal-societario preindividuati dal legislatore e soggetti che non lo sono formalmente, ma funzionalmente, in base a quel complesso di poteri e doveri attribuiti ad un determinato soggetto per il compimento degli atti tipici della gestione sociale (Ricci, 205).

La dottrina dominante, avallata anche dal disposto dell'art. 223-septies disp. att. c.c., ritiene che la norma in esame si applichi anche alle ipotesi nelle quali la società abbia adottato modelli alternativi di amministrazione e controllo, introdotti con il d.lgs. n. 6/2003, e si applichi perciò ai componenti del consiglio di gestione, nelle società di capitali con sistema dualistico, ovvero ai componenti del consiglio di amministrazione nelle società con sistema monistico. La mancata espressa previsione delle figure in questione nella formulazione dell'art. 2639 si giustifica con il fatto che la riformulazione della norma in commento è avvenuta in un momento temporale antecedente alla introduzione dei nuovi meccanismi di organizzazione e controllo societario.

A differenza della seconda estensione soggettiva (i soggetti di fatto) in queste ipotesi una formale investitura esiste, sebbene diversa da quelle proprie del sistema tradizionale (La Spina, 345).

Infine, quanto all'ultima delle tre equiparazioni operate dalla norma de qua, il comma 2 dell'art. 2639 c.c. prevede che le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall' autorità giudiziaria o dall' autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi (sebbene con clausola di riserva che fa salvi i casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione). Nella Relazione al d.lgs. si precisa che tale disposizione va letta nel suo stretto rapporto con la contestuale abrogazione delle norme in tema di delitti commessi dagli amministratori giudiziali e dai commissari governativi, mirando a ricostruire un sistema coerente, ovvero a rispondere all' esigenza di razionalizzazione dell'intera materia. Più precisamente, non essendo stati riprodotti i reati «propri» degli amministratori giudiziari e dei commissari governativi, in passato contemplati dagli artt. 2636 e seguenti c.c., si è reso necessario dettare la disposizione de qua, allo scopo estendere soggettivamente le nuove fattispecie, realizzabili dagli amministratori, anche alle suddette figure.

Si nota, inoltre, che la clausola di riserva a favore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, qualora applicabili, è oggi anch'essa strutturata in linea assolutamente generale, facendo riferimento a tutte le fattispecie sanzionatorie relative agli amministratori, nonché a tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (Veneziani, 309-310).

La seconda categoria

Quanto alla seconda delle tre estensioni soggettive, essa si riferisce ai soggetti di fatto, e cioè a coloro che, pur privi di una formale investitura, esercitano in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti ad una determinata qualifica. La suddetta previsione ha, quindi, ad oggetto, oltre alla figura più discussa (quella dell'amministratore di fatto), anche le qualifiche soggettive suscettibili di analoghi fenomeni, quali l'imprenditore, il datore di lavoro, il liquidatore, il direttore generale, il sindaco e revisore di fatto, la cui individuazione risulta, però, molto meno agevole rispetto alla citata figura dell'amministratore di fatto.

Prima dell'attuale formulazione dell'articolo 2639 c.c., la giurisprudenza non è stata univoca sul criterio da utilizzare ai fini della suddetta equiparazione.

Se da un lato, infatti, l'indirizzo prevalente riteneva sussistente la responsabilità dell'amministratore di fatto, ad esempio, nel reato di bancarotta da reato societario – perché la qualifica di amministratore spetta in sede penale non solo al soggetto nominato, secondo le norme sulle società commerciali, ma anche a chi di fatto eserciti il potere di gestione nelle attività sociali, in modo concreto, tanto da essere legittima la condanna dell'amministratore di fatto anche in caso di assoluzione degli amministratori legali, atteso il carattere personale della responsabilità penale quando ricorrano tutti gli estremi obiettivi e soggettivi del reato (Cass. pen. V, n. 560/1972; Cass. pen. V, n. 542/1972) – controversa si presentava la questione del contenuto rilevante dell'attività dell'amministratore di fatto ai fini dell'equiparazione e dei rapporti con la responsabilità concorrente dell'amministratore di diritto.

La Suprema Corte all'uopo evidenziava come, l'amministratore di fatto, per poter essere correttamente definito tale, e dunque intraneus, dovesse risultare organicamente inserito nella compagine societaria, con funzioni gerarchiche e direttive. Al riguardo, si affermava che la posizione dell'amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, andava determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l'attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituivano la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. In tale prospettiva, dunque, la disciplina sostanziale finiva per tradursi, in via processuale, nell' accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall'organico inserimento del soggetto in qualsiasi momento dell'iter di organizzazione, produzione, e commercializzazione dei beni e servizi in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (Cass. pen. V, n.9222/1998).

Precisava, altresì, la S.C. che in una società di capitali, l'amministratore «di fatto» può essere ritenuto penalmente responsabile per violazione dei doveri connessi all'attività gestoria (oltre che nelle ipotesi in cui possa ravvisarsi «concorso» nel fatto-reato secondo i principî generali) soltanto allorché sia provata l'estraneità alla gestione del rappresentante legale. In altri termini, se il rappresentante legale esplica funzioni gestionali non è configurabile l'amministratore di fatto, pur potendosi avere gestione di fatto in relazione a singole attività: in questi casi, però, il gestore risponde soltanto per gli atti da lui posti in essere, ma non gli si può ascrivere di non aver compiuto atti spettanti all' amministratore di diritto nei quali egli non aveva l'obbligo di ingerirsi e non si è ingerito (Cass. pen. III, n. 12965/1994).

Dunque, a fronte di quegli orientamenti che richiedevano un esercizio sistematico e rilevante dei poteri tipici, vi era un altro orientamento che faceva leva su un criterio di mera effettività.

La Cassazione civile sottolineava, in prevalenza, come l'individuazione della figura dell'amministratore di fatto presupponesse, pur sempre, che le funzioni gestorie in concreto svolte avessero carattere sistematico, e non si esaurissero nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea ed occasionale (Cass. I, n. 9795/1999).

Il novello art. 2639 c.c. ha recepito l'indirizzo che àncora l'equiparazione tra amministratore di fatto e di diritto sia a precisi requisiti positivi – esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici rispetto ai poteri tipici della funzione (Musco, 18) – che all'implicito requisito negativo del difetto di formale investitura. L'intervento del legislatore, in particolare, sembra aver precisato in maniera più puntuale i contorni delle figure di fatto: il riferimento testuale ad un esercizio dei poteri tipici «in modo continuativo» si presenta molto più deciso e pregnante rispetto a quell'indirizzo che si limitava a richiedere un «minimo di continuità» nell'esercizio delle funzioni (Veneziani, 302).

L'ambito applicativo del primo comma e l'amministratore di fatto

In presenza della clausola di riserva con la quale il primo comma dell'art. 2639 c.c. espressamente autolimita la propria operatività ai reati previsti dal Titolo XI, la dottrina si è interrogata innanzitutto sulla possibilità di estendere le equiparazioni soggettive di cui a tale comma anche a fattispecie non contenute nel predetto Titolo XI e segnatamente agli illeciti amministrativi e agli illeciti penalmente rilevanti in materia tributaria e fallimentare.

In relazione alla prima equiparazione soggettiva, fermo restando il divieto di estensioni sfavorevoli, va evidenziato che dalla formulazione dell'art. 223-septies, comma 2, disp. att. c.c., è chiaramente evincibile la sua operatività con riferimento a tutte le disposizioni presenti nelle leggi speciali «compatibili», comprese le disposizioni penali (Veneziani, 975).

Quanto alla materia fallimentare, la soluzione per lo più accolta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza è quella che predica l'operatività della norma anche per i reati fallimentari. Si fa leva, infatti, sulla considerazione che tale norma non svolge alcuna funzione incriminatrice, ma si limita a recepire orientamenti giurisprudenziali già consolidati anche in altri settori. In tale prospettiva si evidenzia, inoltre, che i criteri stabiliti nella norma possono essere considerati canoni interpretativi cui attenersi in generale, anche al fine di evitare ingiustificate differenze di trattamento e che, pertanto, dovranno orientare l'interprete nell'individuazione dei soggetti di fatto anche oltre i limiti dell'ambito qui considerato (Palladino, 3091).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, in proposito, che la configurazione nell'art. 2639 della nozione di amministratore di fatto non comporta che questi possa essere ritenuto autore esclusivamente dei reati societari e non anche di quelli fallimentari.

Nei reati di bancarotta in ambito societario, soggetto attivo può essere anche colui che svolga in via di mero fatto le funzioni di amministratore, poiché le fattispecie legali non introducono alcuna distinzione tra ruolo corrispondente ad una carica formale ed analoga funzione esercitata in via di fatto. Una tale distinzione non è stata introdotta dal testo riformato dell'art. 2639 c.c. – modificato dall'art. 1 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 – ove la responsabilità di colui che svolga in via di mero fatto le funzioni tipiche del diritto societario è stata espressamente prevista quanto alle relative fattispecie criminose, giacché il legislatore ha semplicemente inteso fornire un riscontro letterale ad una soluzione già consolidata in via interpretativa, e d'altra parte la materia fallimentare è disciplinata in via autonoma, così restando suscettibile di autonoma ricostruzione (Cass. pen. V, n. 36630/2003).

Il fatto che l'art. 2639 c.c. reciti: «per i reati previsti dai presente titolo ai soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione», non sta evidentemente a significare che l'amministratore di fatto, così descritto dal legislatore, sia figura che possa sussistere unicamente in relazione alle disposizioni di cui al titolo undecimo del predetto codice; sta viceversa a significare che, nell'ambito del codice civile, per amministratore di fatto, deve intendersi colui che risponda alla descrizione sopra riportata. Ciò non implica che, in tema di delitti di bancarotta, il soggetto attivo non possa più essere anche l'amministratore di fatto. Vale a dire: nell'ambito dei reati societari, la figura dell'amministratore di fatto è normativamente delineata dall'art. 2639 c.c.; nell'ambito dei reati fallimentari, anche in ossequio all'istituto del concorso nel reato proprio, la figura dell'amministratore di fatto continua a essere quella individuata dalla giurisprudenza. Vale poi la pena di notare che la descrizione normativa di tale figura di autore (nel cc) costituisce la ricezione del prodotto dell'elaborazione giurisprudenziale (Cass. pen. V, n. 39535/2012).

 

In definitiva, la configurazione nell'art. 2639 c.c. della nozione di amministratore di fatto non comporta che questi possa essere ritenuto autore esclusivamente dei reati societari e non anche di quelli fallimentari (Cass. pen. V, n. 39535/2012).

 Analoghi problemi relativi all’eventuale vulnus del principio del divieto di analogia in malam partem in materia penale, si sono posti anche con riferimento all’estensione dell’operatività dell’art. 2639 ai reati tributari. Tuttavia, così come già evidenziato in tema di reati fallimentari, anche qui dottrina e giurisprudenza prevalenti accolgono la tesi positiva e considerano i requisiti della continuità e significatività, clausole generali funzionali all’identificazione della figura dell’amministratore (Bersani, 7412).

 In proposito più volte la S.C. in merito ai reati fiscali ha evidenziato che il soggetto che assuma, in base alla disciplina prevista dall’art. 2639, la qualifica di amministratore «di fatto», è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall’amministratore di diritto, al quale è sostanzialmente equiparato (Cass. pen. III, n. 33385/2012).

In relazione alla qualifica di amministratore di fatto in seno alle società cartiere si è affermato che in tema di reati tributari, la prova della posizione di amministratore di fatto di una società "schermo", priva di reale autonomia e costituita per essere utilizzata come "cartiera" in un meccanismo fiscalmente fraudolento volto a evadere le imposte, si traduce in quella del ruolo di ideatore e organizzatore del suddetto sistema fraudolento, atteso che non è ipotizzabile l'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico in un ente solo formalmente operante (Cass. pen. III, n. 20052/2022). Invero, i criteri  stabiliti dall'art. 2639, c.c. per individuare l'amministratore di fatto nell'ambito di società e imprese che operano nel contesto economico non appaiono trasferibili ed applicabili in un contesto nel quale la società è la mera veste attraverso cui si pongono in essere condotte di reato. La società in tali casi assume il ruolo di "schermo" per l'autore materiale del reato, fenomeno tipico delle società c.d. cartiera. Si tratta, come è noto, di società priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata come "cartiera" in un meccanismo fiscalmente fraudolento volto ad evadere le imposte, sicché, la dimostrazione della figura dell'amministratore di fatto si traduce in quella del ruolo di ideatore ed organizzatore del suddetto sistema fraudolento, non essendo ipotizzabile  l'accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico all'interno di un ente solo formalmente operante (Cass. pen. V, n. 31823/2020).

In conclusione, deve considerarsi recessiva quella dottrina che considera l'equiparazione dell'amministratore di fatto all'amministratore di diritto, di cui all'art. 2639, valida solo all'interno del titolo cui la norma fa espresso riferimento. Secondo tale minoritario orientamento, infatti, in caso contrario ci si troverebbe in presenza di un'applicazione analogica non consentita in materia penale.

 

Ciononostante, la soluzione prevalente sembra andare nella direzione dell'operatività dei criteri enunciati dall'articolo in commento, oltre gli stretti confini derivanti dall'interpretazione strettamente letterale. Si ritiene, infatti, che il legislatore della riforma penale societaria non abbia inteso introdurre elementi di rottura rispetto al passato, ma piuttosto recepire indicazioni maturate in una prassi che non è per niente ristretta alla giurisprudenza in tema di reati societari, ma che ha trovato anzi il suo terreno più fertile proprio nel settore della bancarotta, oltre che in ambito civilistico (Bersani, 7413).

La nozione di amministratore di fatto, introdotta dal art. 2639 c.c. postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione. Nondimeno, «significatività» e «continuità» non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. (Cass. pen. V, n. 22413/2003; Cass. pen. V, n. 43388/2005). Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Cass. pen. V, n. 35346/2013; Cass. pen. V, n. 8479/2016). Inoltre, pur essendo l'amministratore «di fatto» (della società fallita) gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l' amministratore «di diritto», sicché, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Cass. pen. V, n. 39593/2011), tuttavia, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore «di fatto» (quanto ai reati tributari) non occorre appunto l'esercizio di «tutti» i poteri tipici dell'organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Cass. pen. III, n. 22108/2014).

Ampia si presenta la casistica nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, in merito agli elementi di volta in volta valorizzati, al fine di ritenere sussistente la qualifica di amministratore di fatto. In alcuni casi, la Suprema Corte ha ritenuto congruamente motivata la sentenza di merito, nella quale la qualità di amministratore di fatto è stata desunta con riferimento alla prestazione di determinate garanzie personali fornite dal soggetto alle banche e ad un'accertata attività manipolatoria di bilanci e contabilità, a dimostrazione del suo diretto interesse nella conduzione della società e del concreto esercizio di un ruolo gestorio, confermato, peraltro, da testimonianze di dipendenti e fornitori (Cass. pen. V, n. 22413/2003), ovvero dal ritrovamento di lettere sottoscritte in qualità di amministratore delegato, dalla circostanza dell'avvenuto incasso di assegni intestati alla società, dalla spendita della propria qualifica di dirigente, dall'imposizione di direttive in ordine ai pagamenti, dalle garanzie personali fornite alle banche (Cass. pen. V, n. 43388/2005). Inoltre, è stato ritenuto, che la prova della qualifica di amministratore di fatto può trarsi anche dal conferimento di una procura generale «ad negotia», quando questa, per l'epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l'attribuzione di autonomi e ampi poteri, sia sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale. In tale fattispecie, la S.C. ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata, la quale ha ravvisato la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta, ritenendo non rilevante la circostanza che l'imputato, a fronte del conferimento di una procura generale rilasciata sin dalla costituzione della società ed avente ad oggetto ampi poteri, avesse poi in concreto compiuto un unico atto gestorio (Cass. pen. V, n. 2793/2014).

In senso contrario,  è stato, invece, evidenziato che, in tema di bancarotta fraudolenta, la qualifica di amministratore di fatto di una società non può trarsi solo dal conferimento di una procura generale “ad negotia”, ma richiede l’individuazione di prove significative e concludenti dello svolgimento delle funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività imprenditoriale, anche a mezzo dell’attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa (Cass. pen.V,  n. 4865/2021).

È stata esclusa, inoltre, la qualità di amministratore di fatto nel caso in cui la gestione della società da parte di chi non ricopre la qualifica di amministratore legale viene ad essere esplicata, sia pure con stabilità, solamente in un determinato ambito dell'attività sociale (risanamento delle posizioni debitorie della società con gli istituti di credito) e con riferimento ad uno specifico e circoscritto compito, mentre l'attribuzione a detto soggetto della qualifica di amministratore di fatto può trovare applicazione esclusivamente in relazione ad atti inerenti al settore della sua operatività (Cass. pen. V, n. 5893/2005).

In dottrina è stato evidenziato come il criterio della continuità di esercizio dei poteri tipici consenta di espungere dal novero dei soggetti attivi coloro che compiono atti di gestione solo episodici. È necessario, infatti, che la condotta dell'agente si protragga nel tempo e che sia segno di un inserimento organico del soggetto nell'attività di impresa. Alla continuità – requisito di carattere quantitativo e temporale – il legislatore affianca, poi, il requisito della significatività, di carattere qualitativo, la cui puntuale definizione viene rimessa quasi completamente all'interprete. Nella norma, infatti, manca qualsiasi elemento da cui trarre la conclusione circa la possibilità di valutare il requisito de quo dal punto di vista quantitativo – della rilevanza economica – oppure qualitativo, ossia dell'importanza degli affari trattati (Mazzacuva, Amati, 5).

In ogni caso, si ritiene che la ragione giustificatrice del presupposto della significatività dei poteri esercitati si annidi nella necessità di evitare che responsabilità penali proprie di chi esercita la gestione complessiva della società, possano essere attribuite a coloro che, invece, svolgono attività gestionali settoriali o di limitata tipologia (Rossi, 976).

Si ritiene, infine, che qualora non sia accertata la sussistenza dei requisiti di cui al primo comma dell'articolo in esame, non vi siano ostacoli a che il soggetto privo della qualifica in esame possa essere ugualmente chiamato a rispondere del reato, questa volta però a titolo di concorso (Veneziani, 305-306).

La responsabilità penale dell'amministratore di fatto e dell'amministratore di diritto

È ormai pacifica, sia in dottrina che in giurisprudenza, la conclusione che la responsabilità penale dell'amministratore di fatto non esclude la punibilità anche dell'amministratore di diritto. Si ritiene ammissibile, infatti, una forma di responsabilità mediante omissione anche in capo a quel soggetto che riveste solo formalmente la qualità di amministratore: il cd. prestanome, o testa di legno.

Al riguardo, la dottrina ha parlato di «rovesciamento del paradigma», proprio per descrivere il fenomeno in forza del quale l'amministratore di diritto, da indefettibile autore del reato societario, diviene concorrente nel reato posto in essere dal gestore effettivo, del quale ne risponde ex art. 40, cpv, c.p. (concorso omissivo improprio), per non aver adempiuto ai propri obblighi di vigilanza e controllo (La Spina, 355).

La S.C., infatti, ha precisato che l'amministratore di una società risponde del reato societario o fallimentare contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto. Tale responsabilità risulta fondata sulla accettazione della carica, che attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo ed il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico — per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato — o a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Cass. pen. III, n. 22919/2006). L'accettazione della carica di amministratore, invero, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l'assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all'art. 2932 c.c. (Cass. pen. V, n. 31885/2009).

La S.C. ha, poi, meglio evidenziato che sussiste la responsabilità dell' amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, con l'amministratore di fatto, non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma secondo, c.p., l'evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita (Cass. pen. V, n. 44826/2014). In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto, ad esempio, immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha reputato sussistente il concorso dell' amministratore di diritto con quello di fatto in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, rilevando che la consapevolezza delle attività distrattive e la mancata volontà di impedirle era dimostrata dalla circostanza che egli ricopriva tale carica quando vennero perfezionati gli atti di compravendita – che necessitavano della sua partecipazione – dei beni della società fallita, venduti per un prezzo inferiore al loro valore e rivenduti dalla società acquirente a prezzi notevolmente superiori.

Dunque, l'amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall'amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell'art. 40, comma secondo, c.p., per non avere impedito l'evento che aveva l'obbligo giuridico (art. 2392 c.c.) di impedire, mentre, dal punto di vista soggettivo, se sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l'amministratore effettivo compiva atti, quali la distruzione, l'occultamento, o la dissipazione dei beni sociali, ovvero esponeva o riconosceva passività inesistenti, come desumibile dagli stessi verbali del consiglio di amministrazione (Cass. pen. V, n. 11938/2010). In particolare, ad integrare il dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l'elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale (Cass. pen. V, n. 38712/2008; Cass. pen. V, n. 50348/2014).

In tema di false comunicazioni sociali, la S.C. ha evidenziato come ai fini della configurabilità del concorso dell'amministratore di una società in reato commesso da altro amministratore (o da altro esponente societario) per non avere impedito l'evento, è sufficiente che egli si sia rappresentata la probabilità del fatto illecito altrui e, ciò nonostante, abbia persistito nella colpevole inerzia, così accettando il rischio del verificarsi dell'evento pregiudizievole all'ente (Cass. pen. V, n. 45513/2008).

Quanto alla possibilità di incriminare l'amministratore di diritto a causa della posizione di garanzia da questi rivestita, occorre precisare che la dottrina ha evidenziato come la posizione di garanzia non vada identificata nella mera assunzione della qualifica. Ciò, infatti, comporterebbe l'anticipazione del fondamento dell'addebito ad una fase addirittura anteriore al sorgere del potere impeditivo in capo al garante, con conseguente palese violazione del principî costituzionali che regolano la materia penale (Falotico, 4348).

Inoltre, atteso che, ai sensi dell'art. 2932 c.c. un obbligo di vigilanza e di controllo può dare origine ad una posizione di garanzia solo se ad esso si accompagni il potere di impedire l'evento pregiudizievole, la responsabilità dell'amministratore di diritto non potrà mai ritenersi configurata, laddove questi non abbia anche il potere di impedire la condotta illecita dell'amministratore di fatto (Artusi, 903).

Bibliografia

Artusi, Sulla correità dell'amministratore formalmente investito della funzione con l'amministratore di fatto, in Giur. it. 2012; Bersani, Amministratore di fatto e reati tributari, in Fisco 2005, n. 47; Bianconi, Commento all'art. 2639 c.c., in Leggi penali complementari, a cura di Padovani, Milano, 2007; Capirossi, Legem non curat praetor. Responsabilità civili e penali dell'amministratore di fatto, in Riv. trim. dir. pen. econ. 2005; Falotico, In tema di responsabilità del prestanome per concorso del reato mediante omissione, in Cass. pen. 2010; Gliatta, L'onere per l'amministratore formale di vigilare sull'operato dell'amministratore di fatto, in Soc. 2008; Iacoviello, La prova della responsabilità dell'amministratore di diritto e dell'amministratore di fatto nella bancarotta fraudolenta, in Fall. 2005; La Spina, Sub art. 2639 c.c. Estensione delle qualifiche soggettive, in Diritto penale dell'economia, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2017; Musco, nuovi reati societari, Milano, 2007; Mazzacuva, Amati, Diritto penale dell'economia, Problemi e casi, Padova, 2016; Ricci, I criteri per l'individuazione del soggetto responsabile in ambito societario: l'estensione delle qualifiche soggettive, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, a cura di Canzio, Cerqua, Luparìa, Milano, 2016; Rossi, I soggetti nella sistematica del diritto punitivo societario, in Giur. it. 2010.

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