Limiti successori al trasferimento delle partecipazioni: clausola di intrasferibilitàInquadramentoIl principio di carattere generale prevede la libera trasferibilità, sia inter vivos che mortis causa, delle partecipazioni: in particolare per le società per azioni ed in accomandita per azioni (dato il rinvio di cui all'art. 2454 c.c.) la norma di riferimento è l'art. 7 del r.d. 29 marzo 1942, n. 239, il quale, disciplinando gli obblighi pubblicitari in caso di morte del socio, sancisce il trasferimento in favore dell'acquirente una volta accertatene le condizioni di legittimazione. Per le società a responsabilità limitata, invece, è l'art. 2469 c.c. che prevede la libera trasferibilità mortis causa delle quote. Ciò vuol dire che, a seguito dell'apertura della successione, verificata l'insussistenza di clausole limitative della circolazione, l'erede con l'accettazione dell'eredità, o il legatario (per il quale non è necessaria l'accettazione ai sensi dell'art. 649 c.c.), divengono automaticamente soci a seguito degli adempimenti prescritti dalla legge. Da qui si rileva la sostanziale differenza con la disciplina sopra esposta relativa alle società di persone, nelle quali la disciplina legale vuole che in successione non vada la quota, bensì il diritto alla liquidazione. La regola di carattere generale, come accennato, può essere derogata con l'introduzione nello statuto di clausole limitative alla circolazione. Con il d.lgs. n. 6/2003 il legislatore è intervenuto sul forte dibattito creatosi negli ultimi anni ed ha modificato gli artt. 2355-bis, 2437,2437-bis, 2437-ter, 2437-quater c.c. per le società per azioni e gli artt. 2469 e 2473 c.c. per le società a responsabilità limitata, andando ad attribuire ampio respiro all'autonomia negoziale relativamente alla gestione della partecipazione alla morte del socio; così, conformemente a quanto già affermato dalla giurisprudenza, ha riconosciuto legittimo l'inserimento di una disciplina convenzionale volta ad adattare il funzionamento della società alle esigenze o volontà dei soci. Partendo dalle s.p.a., il penultimo comma dell'art. 2355-bis, c.c. estende ai trasferimenti mortis causa la disciplina sul gradimento del “comma precedente” della medesima norma, applicandola a tutte le clausole che limitano il trasferimento della partecipazione. Il legislatore ha cosi reso legittima l'introduzione di limiti statutari per “chiudere” la società e mantenere inalterata la compagine sociale ma, per bilanciarne gli effetti, ha avuto premura di creare un sistema di exit, stabilendo che tali clausole siano efficaci a condizione che in favore degli eredi sia previsto il diritto ad ottenere il controvalore. Difatti il terzo comma della norma in commento prevede che sia riconosciuto il diritto di recesso, o l'obbligo di acquisto, quale condizione di efficacia di tutte le clausole che limitino latu sensu la circolazione mortis causa. In caso contrario, esse sono da ritenere inefficaci, in quanto limitative dei diritti degli eredi o legatari a subentrare nel posizione del de cuius. All'apertura della successione i soggetti delati, con l'accettazione dell'eredità, dovranno essere messi dinanzi a tale alternativa e quindi delle due l'una: o possono entrare in società, nell'identica posizione del de cuius con conseguente iscrizione nel libro soci – rectius Registro delle Imprese – oppure devono sempre avere una possibilità di exit, con il diritto alla liquidazione della partecipazione (acquisita iure successionis, ad un valore congruo, determinato secondo i criteri di cui all'art. 2437-ter, c.c. Formula
CLAUSOLA DI INTRASFERIBILITÀ Le partecipazioni non possono essere trasferite mortis causa a favore degli eredi o dei legatari che avranno diritto ad ottenere la liquidazione della stessa calcolata secondo le modalità di cui all'art. 2437 c.c. CommentoLa clausola di intrasferibilità mortis causa delle azioni pone in primis un problema di natura esegetica di cui si è discusso e cioè il mancato richiamo nel terzo comma dell'art. 2355-bis c.c. del primo comma della norma, il quale prevede la possibilità di inserire nello statuto limiti alla circolazione delle azioni: per alcuni autori, in un'interpretazione più letterale della norma, ciò legittima l'inapplicabilità della clausola di lockup ai trasferimenti mortis causa. Altri autori, secondo una visione più condivisibile, non comprendono per quale motivo non possa essere prevista una tale clausola: trovano così certamente spazio i correttivi previsti dal penultimo comma, riconoscendo il diritto di recesso o l'obbligo di acquisto, quale condizione di efficacia, non solo di queste, ma di tutte le clausole che limitano la circolazione mortis causa (è da precisare che prima della riforma tali clausole erano sanzionate dai giudici della S.C. con la nullità, in quanto in contrasto con il principio di libera trasferibilità delle azioni, così Cass. n. 10970/1996, in Giur. comm. 1998, II, 31, con nota di Sciuto, La clausola statutaria atipica di s.p.a. fra “mancanza” e “nullità parziale” dell'atto costitutivo). In presenza di detti correttivi, rebus sic stantibus, si può ritenere ammissibile una clausola di intrasferibilità mortis causa, purché agli eredi sia sempre riconosciuto il contro valore o mediante liquidazione o mediante disinvestimento. Con una clausola di siffatto tipo, però, essi non divengono mai parte della compagine sociale: ex adverso essi acquistano, a seguito dell'apertura della successione, direttamente il diritto alla liquidazione delle azioni. |