Codice Civile art. 1175 - Comportamento secondo correttezza .Comportamento secondo correttezza. [I]. Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza [1183 2, 1206, 1227 2, 1337, 1338, 1358, 1375, 1460 2, 1686 2, 1690 2, 1710 2, 1746, 1759, 1800 2, 1805, 1914, 2106, 2598 n. 3; 88 c.p.c.] (1). (1) Articolo così modificato dall'art. 32 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 287. InquadramentoI comportamenti delle parti del rapporto obbligatorio (sia il debitore sia il creditore) devono essere improntati, nella fase attuativa dello stesso, al canone della correttezza. La norma fa riferimento alla correttezza o alla buona fede oggettiva, concetti tra cui ricorre una sostanziale omogeneità (Bianca, 86). La buona fede in senso oggettivo deve essere intesa come dovere di comportarsi lealmente ed onestamente nella fase genetica ed attuativa del rapporto obbligatorio, diversamente dalla buona fede soggettiva, sintomatica dell'ignoranza di ledere l'altrui diritto. La correttezza, lealtà e buona fede oggettiva individuano delle clausole generali, destinate ad essere definite dal giudice in relazione alle sollecitazioni sociali e alle particolarità dei casi concreti (Rescigno, 178). Al canone di buona fede oggettiva sono attribuite due funzioni eterogenee (Di Majo, in Comm. S.B., 1988, 304; Rovelli, 424). Secondo una prima impostazione della dottrina, la correttezza costituisce uno strumento di integrazione del contenuto dell'obbligazione e rappresenta una fonte di doveri ulteriori, ossia di obblighi accessori di protezione e sicurezza delle parti, che si aggiungono a quelli direttamente previsti da norme specifiche o dal contratto. Sicché si potrebbero esigere dal debitore (ma anche dal creditore) condotte non concernenti strettamente l'esecuzione della prestazione: tali condotte si tradurrebbero nella prescrizione di doveri di cooperazione, avviso, informazione, custodia (Cannata, in Tr. Res., 1999, 46). Per l'effetto, la violazione di tali doveri accessori sarebbe riparabile, indipendentemente dall'inadempimento della prestazione principale. Secondo un altro indirizzo, la correttezza si configurerebbe non già come fonte di doveri integrativi, bensì come criterio di valutazione dei comportamenti delle parti, specie in executivis, in relazione al contenuto del rapporto e alle circostanze del fatto ed in funzione di correzione dello strictum ius, ove questo dovesse produrre risultati ingiusti o comunque inopportuni (Breccia, in Tr. I.Z., 1991, 232; Natoli, in Tr. C.M., 1974, 37). Ne discende che, attraverso la clausola di buona fede, sarebbe attenuato il rigido giudizio di sussunzione del fatto alla legge. Ma, in ogni caso, l'inosservanza della buona fede non genererebbe autonoma responsabilità. Altra tesi qualifica piuttosto la correttezza come limite all'esercizio di una pretesa (Bianca, 86), idonea a prevenire o ad evitare un'attuazione abusiva del diritto. Non è escluso che le due funzioni indicate (integrazione e valutazione) possano coesistere. La giurisprudenza della Suprema Corte dà atto di tale duplicità di funzioni. Così ad es.Cass. II, n. 656/2025: “i princìpi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175,1366e1375 c.c., rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (Cass. Civ. Sez. 3, n. 20106 del 18/09/2009, Rv. 610222 – 01; conf., ex multis, Cass. Civ. n. 20106/2009).”. La buona fede oggettiva si distingue dalla diligenza. Infatti, il dovere di diligenza di cui all'art. 1176 è riferito solo ed esclusivamente al debitore, mentre la correttezza esprime un canone reciproco, che riguarda entrambe le parti del rapporto (Breccia, in Tr. I.Z., 1991, 230, 356; Di Majo, in Comm. S.B., 1991, 295). Ovvero la correttezza avrebbe attinenza con il contenuto del rapporto obbligatorio, contribuendo ad individuare ciò che è dovuto; per converso, la diligenza si riferirebbe all'attività strumentale richiesta ai fini dell'adempimento di ciò che è, appunto, oggetto dell'obbligazione. L'impiego dei principi di correttezza, in funzione valutativa del contegno dei soggetti dell'ordinamento, anche in termini di etica dell'agire, richiama la nozione di abuso del diritto, che si realizza quando, pur rimanendo la condotta esaminata entro i limiti formali (interni) dell'esercizio di facoltà attribuite dalla legge, di fatto determini, sul piano sostanziale, un vantaggio ultroneo rispetto ai fini che l'esercizio di quelle facoltà mira, in astratto e fisiologicamente, a raggiungere ovvero un pregiudizio eccessivo nella sfera giuridico-patrimoniale della controparte, in ragione della realizzazione di contegni meramente discriminatori, vessatori o arbitrari. L'abuso può concretarsi anche nell'impiego distorto degli strumenti processuali. Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione, che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass. n. 9200/2021;Cass. n. 22819/2010). Da ultimo, la giurisprudenza, nel settore del pubblico impiego, della tutela del lavoro subordinato e tributario, ha evidenziato il collegamento tra i criteri generali di correttezza e buona fede e la posizione di interesse legittimo di diritto privato vantata dalla parte che abbia subito gli effetti delle condotte violatrici di tali criteri, posizione che rientra appieno nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907, sicché la lesione di tale interesse è suscettibile di tutela giurisdizionale, anche in forma risarcitoria, alla condizione che l'interessato alleghi e provi la lesione e il danno patito (Cass. n. 21700/2013). Significato di correttezzaSecondo la dottrina, la correttezza o buona fede in senso oggettivo costituisce un metro di comportamento per i soggetti del rapporto nonché un criterio di ponderazione per il giudice, il cui contenuto non è a priori esattamente determinato, ma importa un'opera di concretizzazione valutativa con riferimento agli interessi in gioco e alle caratteristiche del caso specifico. Tale valutazione deve essere compiuta in base ai costumi, al traffico commerciale ed ai valori obiettivi riconosciuti dall'ordinamento in un dato momento storico, fra i quali assumono un significato primario quelli espressi dalla Costituzione. Attraverso la clausola di buona fede può essere più esattamente individuato il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, sia con riguardo agli obblighi principali, sia con riferimento agli obblighi collaterali (Cannata, in Tr. Res., 1999, 46), che possono sussistere anche dopo l'esaurimento del rapporto contrattuale. La correttezza può orientare due canoni di condotta. Il primo rileverebbe essenzialmente nella fase di formazione e interpretazione del rapporto obbligatorio ed imporrebbe la lealtà del comportamento. Il secondo atterrebbe essenzialmente alla fase esecutiva e si tradurrebbe nell'obbligo di salvaguardare l'utilità dell'altra parte nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio per l'autore della condotta (Bianca, 86). Nondimeno, in relazione alla fase dell'adempimento del rapporto obbligatorio, si è precisato, in giurisprudenza, che il rispetto delle regole della correttezza non comporta che il creditore debba agevolare l'esecuzione della prestazione del debitore o, comunque, renderla meno onerosa di quella pattuita, piuttosto lo obbliga soltanto a non renderla più disagevole o gravosa di quanto, secondo buona fede, possa attendersi (Cass. n. 2252/2000). Buona fede in senso integrativoLe regole di correttezza e buona fede vincolano il comportamento del creditore e del debitore al fine di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi contrapposti delle parti. Tanto comporta che i soggetti dell'obbligazione hanno il dovere di gestire con lealtà la situazione di asservimento determinatasi, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, evitando — per un verso — di rendere l'adempimento sproporzionatamente oneroso rispetto alla situazione concreta ed astenendosi — per un altro verso — dall'approfittare di circostanze che permetterebbero di sottrarsi ingiustamente all'adempimento, adoperandosi, invece, perché questo conservi utilità per il creditore (Cannata, in Tr. Res., 1999, 47). Il raggiungimento di tali obiettivi giustifica l'imposizione di doveri collaterali integrativi, che possono essere specificamente contemplati da puntuali norme ovvero tratti dalla clausola di buona fede. Al fine di conservare l'integrità delle rispettive ragioni, anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercuotendosi negativamente sul risultato finale perseguito nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e buona fede. In sintonia con questa ricostruzione, una parte della giurisprudenza ritiene che dalla clausola di buona fede discendano obblighi accessori o collaterali ulteriori, cui sono tenute le parti, la cui violazione determina il sorgere di una responsabilità risarcitoria a carico della parte che non vi abbia fatto fronte. Ne consegue che la buona fede si sostanzierebbe in un generale obbligo di solidarietà, derivante soprattutto dall'art. 2 Cost., che imporrebbe a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. Così, in tema di pubblico impiego privatizzato, si è ritenuto che gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali hanno natura di determinazioni negoziali, a cui devono applicarsi i criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. (Cass. n. 29206/2022), con l'effetto che, in capo al dipendente, è configurabile una posizione soggettiva di interesse legittimo di diritto privato, che rientra nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907 e sussiste anche rispetto agli atti preliminari al conferimento dell'incarico. Tale posizione è suscettibile di tutela giurisdizionale, anche in forma risarcitoria, a condizione che l'interessato ne alleghi e provi la lesione, nonché il danno subito, senza che la pretesa risarcitoria possa fondarsi sulla lesione del diritto al conferimento dell'incarico, che non sussiste prima della stipula del contratto con la P.A. (Cass. n. 7495/2015). Nello stesso senso, altro arresto in materia di contratto di assicurazione ha rilevato che l'assicuratore, come il proprio intermediario o promotore, ha il dovere primario, sulla scorta della clausola di correttezza, di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, oltre quello di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze, integrando la violazione di tali doveri una condotta negligente ex art. 1176, comma 2. In applicazione di tale principio, si è affermato che l'impresa assicuratrice — in relazione ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario — ha l'obbligo di informare il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti possano essere inferiori al capitale dal medesimo versato, benché la circolare Isvap, disciplinante ratione temporis la materia, nulla preveda al riguardo (Cass. n. 8412/2015). Ed ancora, la banca mutuante che segnali al gestore dell'archivio dei debitori insolventi (crif) il nominativo del mutuatario, il cui inadempimento all'obbligo di restituzione della somma mutuata si riveli essere conseguenza di un disguido ad esso non imputabile, integra la violazione del fondamentale dovere di solidarietà, in forza del quale ciascun contraente è tenuto a non pregiudicare ingiustificatamente le ragioni dell'altro (Cass. n. 9385/2018). In tema di conto corrente bancario, si è affermato che, in applicazione dei doveri di esecuzione del mandato secondo buona fede, l’istituto di credito, ogni qualvolta l'operazione appaia ictu oculi anomala e non rispondente agli interessi del correntista, è tenuto a rifiutarne l'esecuzione o, quantomeno, ad informare il cliente (Cass. n. 30588/2023). Buona fede in senso valutativoLa buona fede è, altresì, criterio oggettivo di valutazione di comportamenti, secondo un denominatore comune di lealtà e probità (Nicolò, 559). Il campo più vasto in cui opera la normativa sulla correttezza, secondo questa lettura, inerisce ai comportamenti esecutivi. E ciò perché in executivis la buona fede costituisce un parametro per governare le forme di discrezionalità che naturalmente si presentano in fase attuativa. Sicché, avendo la correttezza la mera funzione di temperare il rigido e astratto giudizio di conformità della condotta realizzata al parametro normativo, la valutazione negativa non può comunque giustificare una responsabilità ulteriore o sostitutiva rispetto a quella che consegue all'inadempimento della prestazione primaria. I principi di correttezza e buona fede non creerebbero, pertanto, obbligazioni autonome, ma rileverebbero soltanto come modalità di generico comportamento delle parti, ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi oppure per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti (Romano, 680). Aderendo a questo orientamento, si è osservato che le clausole generali di correttezza e buona fede non introducono nei rapporti giuridici diritti e obblighi diversi da quelli legislativamente o contrattualmente previsti, ma sono destinate ad operare all'interno dei rapporti medesimi, in funzione integrativa di altre fonti; esse, pertanto, rilevano soltanto come modalità di comportamento delle parti, al fine della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritto o di obbligo e, in quanto attengono alle modalità comportamentali ed esecutive del contratto, così come stipulato dalle parti, si pongono nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente assunta o legislativamente imposta, così concorrendo alla relativa conformazione in senso (eventualmente) ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente e consentendo al giudice di verificarne la coerenza con i valori espressi dal rapporto, garantendo, in tal modo, l'apertura del sistema giuridico a un rapporto dialettico costante con il contesto socio-economico e culturale di riferimento (Cass. n. 6763/2002). In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che nel contratto di agenzia l'attribuzione al preponente del potere di modificare talune clausole, e in particolare quella relativa al portafoglio clienti, può trovare giustificazione nell'esigenza di meglio adeguare il rapporto agli interessi delle parti, così come essi sono mutati durante il decorso del tempo, ma, affinché non venga meno la forza vincolante del contratto nei confronti di una delle parti contraenti, è necessario che tale potere abbia dei limiti e, in ogni caso, sia esercitato dal titolare con l'osservanza dei principi di correttezza e buona fede. Pertanto, è stata configurata la violazione dei principi di correttezza e buona fede, a fronte di una riduzione del portafoglio clienti nella misura dell'88%, tale da implicare la possibilità di ammettere un sostanziale recesso immediato ad opera del preponente (Cass. n. 13580/2015). Ed ancora, in tema di pubblico impiego privatizzato, si è ritenuto che la violazione dei principi di correttezza e buona fede si configura solo nell'ipotesi in cui siano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti correlati, sicché le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell'art. 1173, la loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o fatto idoneo a produrli in conformità dell'ordinamento giuridico (Cass. n. 4239/2015). Così, in materia di contratti assicurativi, la S.C. ha ammesso la proponibilità dell'azione diretta da parte della vittima di un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore della r.c.a., anche se preceduta da una richiesta stragiudiziale incompleta, ove l'assicuratore non abbia chiesto le necessarie integrazioni, ai sensi dell'art. 148, comma quinto, cod. ass., in quanto sarebbe contrario ai princìpi di correttezza e buona fede consentire all'assicuratore della r.c.a. di trarre un vantaggio -l'improponibilità della domanda giudiziale- da una condotta scorretta -non richiedere l'integrazione della richiesta stragiudiziale- (Cass. n. 32919/2022). In base alla regola di correttezza posta dall'art. 1175 c.c., si è affermato che, in caso di costituzione della caparra confirmatoria mediante consegna di un assegno bancario, ove il prenditore del titolo ometta di porlo all'incasso, senza restituirlo all'acquirente, si determina a carico del prenditore l'insorgenza di tutti gli effetti conseguenti all'integrale versamento della caparra, tra i quali l'impossibilità per il prenditore di dedurre il mancato incasso dell'assegno quale inadempimento della controparte all'obbligo di versare l'intera somma pattuita quale caparra confirmatoria (Cass. n. 10366/2022). Nella stessa prospettiva, i n tema di riscatto agrario, la giurisprudenza più recente ha evidenziato che , ai fini della tempestività del pagamento del prezzo, la disciplina dell'offerta reale deve essere applicata alla luce dei principi di buona fede e di cooperazione del creditore all'adempimento, sicché, in caso di ingiustificato rifiuto del creditore di ricevere il pagamento offerto, le norme relative agli adempimenti di cui agli artt. 1208 ss. devono essere interpretate in modo da scongiurare eccezioni di irritualità dell'offerta legate a comportamenti meramente ostruzionistici del creditore. Di conseguenza, l'offerta reale e i conseguenti effetti del riscatto devono ritenersi integrati ove la mancata ricezione del pagamento sia imputabile all'ingiustificato rifiuto del creditore di cooperare all'adempimento della prestazione (Cass. n. 33380/2022). In specie, la valutazione delle condotte delle parti sotto il profilo della buona fede si manifesta, sub specie di attenzione esigibile nel rendere informazioni chiare, precise ed esaustive, in particolari settori dell'ordinamento, in relazione alla rilevanza del bene giuridico inciso ovvero alla necessità di disporre di peculiari cognizioni tecniche: si intendono evocare gli obblighi informativi gravanti sul medico, committente, mediatore, datore di lavoro, assicuratore, banca. Ad esempio, in forza della clausola di buona fede, si è ritenuto che, in tema di trattamento sanitario volontario, il medico debba fornire adeguate informazioni circa i benefici, le modalità di intervento, l'eventuale possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie e, infine, i rischi prevedibili in sede post-operatoria (Cass. n. 23328/2019; Cass. n. 9705/1997). Categoria dell'abuso del dirittoIn base alla dottrina, la clausola di buona fede oggettiva opera altresì come punto di riferimento per sanzionare i contegni abusivi, discriminatori, vessatori o arbitrari realizzati dalle parti, sia in ambito sostanziale sia in ambito processuale (Rescigno, 179). In particolare, la figura dell'abuso del diritto è stata enucleata sotto il profilo della violazione del parametro di correttezza, che fungerebbe da limite-controllo dei comportamenti delle parti ovvero da elemento di raffronto determinante per la qualificazione in termini di inesigibilità della prestazione. L'integrazione di simili contegni consentirebbe a posteriori di avvalersi di specifici rimedi di natura inibitoria o risarcitoria, anche speciale, come accade per la condanna a titolo di responsabilità processuale aggravata, ovvero incidenti sulla procedibilità della domanda giudiziale. In adesione al ruolo della buona fede quale strumento di emersione delle condotte abusive, si è sostenuto, in giurisprudenza, in materia lavoristica, che, sebbene dalle clausole generali di correttezza e buona fede non possa derivare per il datore di lavoro l'obbligo, non previsto dalla legge o da altra fonte, di giustificare e motivare il concreto esercizio dello ius variandi, nondimeno, se tale esercizio dà luogo a una discriminazione o a una vessazione o, comunque, ad un arbitrio nei confronti del lavoratore, egli è tenuto a risarcire i danni che ne derivano. Ciò accade quando al lavoratore, pur nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate, di fatto, mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso (Cass. n. 17624/2014). Sempre facendo applicazione del principio anzidetto, si è affermato, nel caso di recesso della banca dal contratto di conto corrente bancario, che il fideiussore resta tenuto al soddisfacimento del debito, quale esistente alla data dello scioglimento del rapporto e in tale misura cristallizzato, dovendo ad esso essere raffrontato il limite di massimale della garanzia; tuttavia, gli interessi moratori maturati dopo quel momento, a causa del mancato tempestivo adempimento imputabile (anche) allo stesso fideiussore, restano, comunque, a suo carico oltre il limite del massimale della fideiussione, in applicazione della regola generale della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. per i fatti a lui riferibili, nonché dei principi di divieto dell'abuso del diritto e della correttezza nei rapporti interprivati (Cass. n. 12263/2015). La violazione della clausola di correttezza può manifestarsi anche sotto forma di abuso degli strumenti processuali, con particolare riferimento al frazionamento del credito, all'attivazione di plurimi procedimenti esecutivi senza una sostanziale utilità, all'esperimento di azioni palesemente pretestuose, alla resistenza in giudizio meramente dilatoria. Pertanto, è contrario al principio di correttezza e buona fede, e si risolve in un abuso del processo, il frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito complessivamente portato da separate fatture, qualora tale credito derivi non già da molteplici rapporti obbligatori sussistenti tra le parti, bensì da un unico contratto (Cass. n. 19898/2018; Cass. n. 4016/2016; Cass. n. 4702/2015; Cass. n. 28286/2011, in Foro it., 2012, I, 2813, con nota di Graziosi; Cass. n. 15476/2008; Cass. n. 23726/2007, in Foro it., 2008, I, 1514, con note di Palmieri e Pardolesi). Ad ogni modo, è richiesto che i crediti frazionati riguardino la medesima obbligazione. Pertanto non costituisce frazionamento del credito la proposizione, nei confronti del medesimo convenuto, di una pluralità di giudizi per compensi professionali per lo svolgimento di perizie assicurative conferite con singoli incarichi, collegati a differenti sinistri, trattandosi di crediti nascenti da distinte obbligazioni (Cass. n. 18810/2016). Per le stesse ragioni non è integrato abuso quando il credito fatto valere si riferisca ad un rapporto contrattuale annuale, al quale hanno fatto seguito ulteriori contratti, per annualità successive, idonei a determinare l'insorgenza di rapporti obbligatori distinti anche se omologhi (Cass. n. 22037/2016). Ed ancora, il frazionamento non determina abuso quando sia giustificato da ragioni oggettive (Cass. n. 20714/2018). Così l'attore che, a tutela di un unico credito, dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito, in quanto tale comportamento non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore ad una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore (Cass. n. 28 9 98/2022 ; Cass. n. 22574/2016; Cass. n. 10177/2015). La giurisprudenza di legittimità ha rilevato, inoltre, che le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, — sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale — le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183 c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2 c.p.c. (Cass. n. 6591/2019;Cass. n. 17893/2018; Cass. n. 31012/2017; Cass. S.U., n. 4090/2017). Sempre con riguardo all'ambito lavoristico, la proposizione, in giudizi separati, dell'azione per mobbing, al quale il lavoratore assuma collegato il licenziamento, e quella di impugnativa di quest'ultimo, pur già adottato al momento di presentazione del primo ricorso, non comporta un frazionamento del credito — e ciò anche se il presupposto di fatto comune delle due azioni risieda nel denunciato mobbing —, in quanto le due azioni si presentano ontologicamente diverse, essendo la prima di condanna per il risarcimento del danno per lesione di un bene della vita, ossia la salute, mentre la seconda ha natura costitutiva, cui consegue, per legge, una condanna che ha ad oggetto la tutela di un diverso bene della vita, ossia il lavoro e lo status di lavoratore (Cass. n. 19699/2017). Per analoghi motivi, qualora il lavoratore agisca in via monitoria per ottenere il pagamento di crediti retributivi e, con separato ricorso, per impugnare il licenziamento intimatogli, non sussiste un illegittimo frazionamento del credito, in quanto, benché all'interno di un unico rapporto, si è in presenza di crediti autonomi e distinti, scaturenti da diversi fatti costitutivi, aventi differenti regimi probatori e prescrizionali (Cass. n. 26464/2016). In materia di espropriazione forzata, la necessità di coordinare il principio della cumulabilità dei mezzi di esecuzione con il divieto di abuso degli strumenti processuali — ricavabile dalla previsione dell'art. 111, comma 1 Cost., nonché dall'operatività degli obblighi di correttezza e buona fede anche nell'eventuale fase patologica di una relazione contrattuale — comporta che l'emissione di un'ordinanza di assegnazione, sebbene di regola non precluda la possibilità di ottenerne altre in relazione allo stesso titolo e fino alla soddisfazione effettiva del credito, renda illegittima la scelta del creditore di intraprendere una nuova esecuzione, allorché egli sia stato integralmente soddisfatto in forza di detto provvedimento, né deduca la mancata ottemperanza all'ordine di assegnazione da parte del suo destinatario (Cass. n. 7078/2015). Nella stessa prospettiva, si è affermato che integra abuso degli strumenti processuali la condotta del creditore esecutante che, dopo l'intimazione al debitore esecutato, con un primo atto di precetto, del pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure, intimi, con successivo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre le spese e le competenze relative a tale secondo atto di precetto (Cass. n. 33443/2022). Non incorre, invece, nell'abuso del diritto i l creditore fondiario che non cooperi con il terzo acquirente del bene ipotecato per il frazionamento o la riduzione dell'iscrizione gravante sullo stesso, essendo il terzo estraneo al rapporto debitorio e disponendo di peculiari strumenti per la liberazione del bene (quali quelli disciplinati dagli artt. 2858 c.c., e 2889 c.c. e 792 c.p.c.) ( Cass. n. 36204/202 2 ). Sempre in applicazione del medesimo principio, si è evidenziato, nell'assicurazione della responsabilità civile, che il diritto dell'assicurato alla rifusione, da parte dell'assicuratore, delle spese sostenute per resistere all'azione promossa dal terzo danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, va escluso, in ossequio ai doveri di correttezza e buona fede, quando l'assicurato abbia scelto di difendersi senza avere interesse a resistere alla avversa domanda o senza poter ricavare utilità dalla costituzione in giudizio (Cass. n. 5479/2015). In tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la S.C. ha evidenziato che costituisce abuso del processo domandare in separati giudizi il risarcimento delle varie voci di danno causate dal medesimo fatto illecito (Cass. n. 8217/2024). |