Codice Civile art. 1277 - Debito di somma di danaro.

Rosaria Giordano

Debito di somma di danaro.

[I]. I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale [14 c.p.c.].

[II]. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima.

Inquadramento

La norma in esame sancisce il cd. principio nominalistico, in virtù del quale le obbligazioni pecuniarie si estinguono con una quantità di pezzi monetari aventi corso legale nell'ordinamento al momento del pagamento, pari all'importo nominale indicato all'atto della costituzione del debito.

Tale principio implica che viene posto a carico del debitore il rischio della diminuzione del potere di acquisto della moneta che si verifica nell'ipotesi di inflazione (Di Majo, 233).

Portata ed ambito applicativo del principio nominalistico

La disposizione in commento afferma il principio cd. nominalistico, per il quale le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro si estinguono avendo riguardo all'importo nominale, anche se differente da quello effettivo al momento dell'adempimento, fissato in sede di costituzione del debito.

Le obbligazioni pecuniarie si identificano soltanto nei debiti che siano sorti originariamente come tali e, cioè, aventi ad oggetto, sin dalla loro costituzione, la prestazione di una determinata somma di denaro (Cass. VI, n. 34944/2021).

Al principio nominalistico soggiacciono le solo obbligazioni di valuta, ossia quelle aventi ad oggetto sin dall'origine una somma di denaro, mentre lo stesso non opera rispetto alle obbligazioni valore, aventi quale oggetto originario cose o attività diverse dal denaro, tra le quali rientrano le obbligazioni risarcitorie (Di Majo, 261).

Secondo un orientamento ormai consolidato l'obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale costituisce debito di valore, la cui monetizzazione, in quanto sostitutiva della prestazione, è sottratta all'applicazione del principio nominalistico proprio delle obbligazioni pecuniarie (Cass. II, n. 11381/1996).

La S.C. ha chiarito che l'obbligo di pagare una somma di danaro da determinarsi in base ad un criterio preventivamente stabilito dà luogo ad un debito pecuniario, tale essendo non solo ogni debito in cui l'assetto originario della prestazione consista in una somma di danaro già quantificata, ma anche quello in cui l'oggetto dell'obbligazione sia una somma determinabile in base a criteri di computo precostituiti sin dal momento della nascita dell'obbligazione stessa (cfr. Cass. I, n. 13649/2013, per la quale, di conseguenza, gli utili dovuti in forza del contratto di associazione in partecipazione costituiscono un'obbligazione di valuta cui è applicabile il principio nominalistico e non sono suscettibili, quindi, di rivalutazione monetaria).

Nelle obbligazioni di valore invece l'oggetto diretto ed originario della prestazione consiste in una cosa diversa dal denaro, rappresentando la moneta solo un bene sostitutivo di una prestazione con diverso oggetto, mentre sono di valuta le obbligazioni aventi fin dall'origine ad oggetto una somma di denaro, a nulla rilevando l'eventuale indeterminatezza della prestazione pecuniaria, suscettibile di esatta quantificazione solo all'esito dell'operazione di liquidazione (Cass. n. 634/1995, in Giust. civ., 1996, 10, I, 2683). Nelle obbligazioni risarcitorie, il creditore deve essere risarcito, mediante la corresponsione degli interessi compensativi, del danno che si presume essergli derivato dall'impossibilità di disporre tempestivamente della somma dovuta e di impiegarla in maniera remunerativa, sicché la liquidazione del danno da ritardato adempimento, ove il debitore abbia pagato un acconto prima della quantificazione definitiva, deve avvenire: a) devalutando l'acconto ed il credito alla data dell'illecito; b) detraendo l'acconto dal credito; c) calcolando gli interessi compensativi mediante l'individuazione di un saggio scelto in via equitativa, da applicare prima sull'intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva (cfr. Cass., n. 25817/2017).

In particolare, come precisato anche nella recente giurisprudenza di legittimità, nell'obbligazione di risarcimento del danno determinato da un fatto illecito gli interessi compensativi vanno determinati con riferimento al periodo che decorre dalla data del sinistro a quella della pubblicazione della sentenza che ha provveduto ad accertare l'"an" e a liquidare il "quantum debeatur", con la conseguenza che, ove la sentenza d'appello riformi quella di primo grado rideterminando l'importo dovuto, la quantificazione va ricondotta, relativamente al termine finale, al momento della pubblicazione della decisione che definisce il gravame (Cass. III, n. 9194/2020).

Casistica

L'obbligazione di risarcire il danno è una tipica obbligazione di valore avendo la funzione, non di consegnare una determinata somma, ma quella di ricostruire integralmente il patrimonio del danneggiato, seppure elargendo, per equivalente, un somma di denaro, sicché al creditore spettano sia la rivalutazione (per compensare il valore intrinseco del bene perduto) che il lucro cessante (per compensare il mancato uso del bene perduto) utilizzando la tecnica di un tasso di interesse da determinare equitativamente (cfr., in sede applicativa, App. Roma III, 2 agosto 2017, n. 5260).

Si è ritenuto, sull'assunto per il quale la risoluzione del contratto per inadempimento a seguito della pronuncia costitutiva del giudice priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti, che l'obbligo restitutorio relativo all'originaria prestazione pecuniaria, anche in favore della parte non inadempiente, ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno — da provarsi dal creditore — rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell'art. 1224 c.c. (Cass. III, n. 21926/2015).

Il credito dell'avvocato per il pagamento dei compensi professionali costituisce un credito di valuta (che non si trasforma in credito di valore per effetto dell'inadempimento del cliente) soggetto al principio nominalistico, la cui rivalutazione monetaria non può essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere adeguatamente dimostrato il pregiudizio patrimoniale risentito a causa del ritardato pagamento del credito, senza che possa trovare applicazione la disciplina dell'art. 429 c.p.c. Dalla mora conseguente all'inadempimento del cliente discende, quindi, la corresponsione degli interessi nella misura legale, salvo che l'avvocato creditore dimostri il maggior danno ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c., il quale, può, peraltro, ritenersi esistente in via presuntiva, sempre che il creditore alleghi che, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. II, n. 20547/2019).

L'obbligazione di pagamento dei canoni di locazione costituisce un debito di valuta e, come tale, non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta e, pertanto, spetta al creditore di allegare e dimostrare il maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali ex art. 1224, comma 2, c.c. (Cass. VI, n. 14158/2020). Lo stesso principio opera con riferimento agli oneri accessori (Cass. III, n. 23157/2014).

Costituisce debito di valuta l'obbligazione di restituzione della somma ricevuta a titolo di prezzo dal venditore, derivante dall'avvenuta risoluzione per inadempimento del contratto, in quanto ha ad oggetto l'originaria prestazione pecuniaria e non il risarcimento del danno spettante all'adempiente, sicché non è ammessa la rivalutazione automatica di detta somma, rivalutazione riguardante unicamente l'aspetto risarcitorio e dovuta solo nel caso in cui la parte adempiente fornisca la prova di aver subito un pregiudizio in conseguenza della svalutazione monetaria (Cass. S.U., n. 12942/1992).

L'obbligo di restituzione di una somma di denaro conseguente alla risoluzione di un contratto, mentre configura un debito di valuta quando grava sulla parte incolpevole, costituisce invece un debito di valore allorché obbligata alla restituzione è la parte che con la propria inadempienza ha causato la risoluzione del contratto: pertanto, poiché l'adempimento di un debito di valore postula la reintegrazione effettiva della situazione patrimoniale del creditore, la parte, che in base al contratto di poi risolto per sua colpa abbia ricevuto la somma di denaro, è obbligata alla restituzione di detta somma, adeguata alla sopravvenuta svalutazione monetaria (Cass. II, n. 8834/1990).

L'equo compenso di cui all'art. 1664, comma 2, c.c. costituisce sostanzialmente una integrazione del prezzo di appalto e non un risarcimento conseguente a comportamenti imputabili al committente, pertanto allo stesso deve essere attribuita la natura di debito di valuta, insuscettibile di rivalutazione automatica in forza del principio nominalistico di cui all'art. 1277 c.c. ed assoggettabile ad adeguamento monetario ex art. 1224, comma 2, c.c., come maggior danno da svalutazione verificatasi durante la mora del debitore (Cass. I, n. 1289/1989).

L'azione di riduzione del prezzo dell'appalto, prevista dall'art. 1668, comma 1, c.c., pur avendo natura diversa da quella di risarcimento dei danni prevista dalla medesima norma, è anch'essa un rimedio che tende a riparare le conseguenze di un inadempimento contrattuale: pertanto, la somma liquidata a tale titolo non è soggetta al principio nominalistico ed è perciò rivalutabile in relazione al diminuito potere di acquisto della moneta (Cass. II, n. 4839/1988).

Il risarcimento del danno derivante dalla perdita di cose trasportate deve essere considerato come debito di valore, avendo la funzione di ristabilire l'equilibrio economico turbato dall'inadempimento del vettore e di porre il creditore nella stessa simulazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l'inadempimento; ne consegue che il relativo credito si sottrae al principio di cui all'art. 1277 c.c. ed è soggetto a rivalutazione monetaria, con liquidazione degli interessi legali sulla somma rivalutata (Cass. III, n. 7116/1987).

Clausole di indicizzazione

Per evitare gli effetti dell'operare del principio nominalistico rispetto alle obbligazioni di valuta, è ricorrente la stipula di clausole monetarie o di garanzia del valore o di garanzia monetaria o di indicizzazione, che sono finalizzate a garantire gli interessati dai rischi derivanti dai mutamenti del valore della moneta, escludendo l'applicazione del principio nominalistico attraverso l'impiego di un sistema di determinazione quantitativa della prestazione monetaria diverso da quello del mero riferimento all'unità valutaria e normalmente basato sul valore di mercato di determinati beni o servizi (Di Majo, 247).

La giurisprudenza riconosce la legittimità di tali clausole in quanto volte a mantenere l'equilibrio tra la prestazione già eseguita e la controprestazione da eseguire in futuro sono pienamente lecite ed efficaci giacché rispondono ad un interesse meritevole di tutela e non in contrasto con il principio nominalistico (Cass. n. 1913/1963).

Peraltro, è stato precisato che una clausola di indicizzazione non può considerarsi più efficace dopo che l'ammontare effettivo del quantum, su richiesta del creditore sia stato determinato con sentenza passata in giudicato, la quale abbia condannato il debitore a pagare una somma di denaro corrispondente alla integrale rivalutazione del debito originario (Cass. III, n. 4468/1985).

Rifiuto del pagamento effettuato con mezzi diversi dalla moneta avente valore legale

Nelle obbligazioni pecuniarie, in mancanza di specifiche pattuizioni circa le modalità di pagamento, il debitore deve adempiere con moneta avente corso legale, potendosi desumere anche dal comportamento delle parti l'esistenza di un accordo tacito tale da far ritenere derogato detto principio (Cass. n. 20643/2014).

Occorre interrogarsi sulla possibilità che il creditore rifiuti l'offerta di adempimento in moneta non avente corso legale oppure in mezzi di pagamento diversi dalla moneta (Ascarelli, 61).

Secondo l'orientamento più risalente, l'adempimento avvenuto con mezzi di pagamento diversi dalla moneta contante costituisce una prestazione diversa da quella dovuta, che può produrre l'effetto liberatorio solo qualora sia accettata dal creditore (Breccia, 272).

Peraltro, secondo alcuni autori il rifiuto di mezzi di pagamento diversi dal danaro deve reputarsi illegittimo qualora sia contrario a buona fede (Bianca, 170).

Questa evoluzione si è registrata anche all'interno della giurisprudenza di legittimità.

Più in particolare, secondo l'orientamento tradizionale, l'adempimento in modalità diverse dal pagamento di una somma di denaro in moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento costituirebbe sempre una datio in solutum.

È stato a riguardo affermato, ad esempio, che l'invio di un assegno circolare al creditore, da parte del debitore obbligato al pagamento di una somma di denaro, si traduce in una datio in solutum, illegittima quando non vi sia il consenso del creditore, ovvero in difetto di una espressa previsione di legge, e rappresenta altresì una violazione del principio secondo cui un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore, in quanto tale modalità implica la sostituzione del luogo di pagamento con la sede dell'istituto bancario presso cui il titolo stesso è riscuotibile (Cass. n. 1939/2003).

Secondo un'analoga impostazione interpretativa, l'invio di un titolo di credito improprio, quale un vaglia postale, per effettuare il pagamento del canone di locazione, non ha efficacia liberatoria se non venga accettato dal creditore — locatore, sia perché, a norma dell'art. 1277 c.c., i debiti pecuniari si estinguono solo con moneta avente corso legale nello Stato, sia perché, a norma dell'art. 1182 c.c., essi debiti vanno adempiuti nel domicilio del creditore al tempo della scadenza, e l'invio del vaglia comporta la sostituzione di questo domicilio con la sede dell'ufficio postale presso cui il titolo è riscuotibile; tuttavia l'efficacia liberatoria può ravvisarsi qualora la pregressa e prolungata accettazione dei canoni nella forma suddetta manifesti tacitamente il consenso del creditore, ai sensi dell'art. 1197 c.c., alla prestazione diversa da quella dovuta, e tale comportamento del creditore può essere idoneo anche ad escludere lo stato soggettivo di colpa del debitore inadempiente e quindi la mora idonea a permettere la risoluzione del contratto (Cass. n. 9595/1998).

In sostanza, in accordo con la giurisprudenza di legittimità meno recente, l'invio di assegni (non solo bancari ma anche circolari) da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di danaro si configura come datio in solutum o, più precisamente, come proposta di una datio pro solvendo, la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può essere manifestato anche con comportamento concludente), ovvero dalla sua accettazione, che è configurabile quando trattenga e riscuota l'assegno inviatogli. In quest'ultima ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della condizione «salvo buon fine» o «salvo incasso», di norma inerente all'accettazione di un credito, anche cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario (Cass. II, n. 3427/1998).

Peraltro, si è in seguito registrata un'evoluzione nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che ha portato al superamento dell'orientamento tradizionale mediante una valorizzazione del canone di buona fede oggettiva.

È stato così sancito il principio per il quale nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 € o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare: nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo, da valutare secondo le regole della correttezza e della buona fede oggettiva, mentre l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio per il debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno (Cass. S.U., n. 26617/2007). Nella recente esperienza applicativa si è ritenuto che, in presenza di una copertura garantita, l'assegno postale vidimato può essere equiparato agli assegni circolari emessi dagli istituti bancari quale mezzo di pagamento alternativo al denaro contante (Trib. Roma X, 6 luglio 2017, n. 13717).

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno inoltre riconosciuto l'efficacia liberatoria per il debitore del pagamento tramite assegno non solo circolare ma anche bancario, costituendo anche tale ultimo titolo un normale mezzo di pagamento (Cass. S.U., n. 13658/2010): tuttavia, in questa ipotesi l'estinzione del debito si perfeziona solo nel momento dell'effettiva riscossione della somma portata dal titolo, poiché la consegna dello stesso deve considerarsi effettuata, salva diversa volontà delle parti, pro solvendo (Cass. II, n. 14372/2018). Il pagamento effettuato mediante assegno bancario - il quale non costituisce mezzo di pagamento di sicura copertura - può essere rifiutato dal creditore, in presenza di una ragionevole giustificazione, la cui ricorrenza implica un apprezzamento che si sostanzia in un giudizio di fatto rimesso alla valutazione del giudice di merito (Cass. n. 9490/2021). Il giustificato motivo che consente al creditore di rifiutare il pagamento del prezzo mediante assegni bancari può risiedere nell'incertezza circa la provenienza dei titoli e nella difficoltà di verificarne la copertura (Cass. II, n. 20643/2014).

Analogamente, si è affermato che nelle obbligazioni pecuniarie l'assegno di traenza costituisce idoneo mezzo di offerta della prestazione e di pagamento ai sensi dell'art. 1277 c.c.: il pagamento con esso effettuato, che può essere dal creditore rifiutato solamente per giustificato motivo, da valutarsi secondo le regole della buona fede oggettiva o correttezza, estingue l'obbligazione, con effetto liberatorio per il debitore solamente al momento del concreto conseguimento da parte del creditore della giuridica disponibilità della somma di denaro indicata nel titolo (Cass. III, n. 19427/2008). In sostanza, poiché l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria va inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le parti devono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza, se il debitore paga con assegno circolare, attese le caratteristiche dell'assegno di traenza, connotate dalla precostituzione della provvigione, lo stesso integra un sistema che assicura al creditore la disponibilità della somma dovuta, sicché il pagamento effettuato con tale mezzo può essere rifiutato dal creditore solo per giustificato motivo, che il creditore stesso deve allegare e, all'occorrenza, anche provare, fermo che l'effetto liberatorio per il debitore si verifica quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di danaro, ricadendo sul debitore il rischio della inconvertibilità dell'assegno (Cass. III, n. 6291/2008).

In un recente precedente, la Corte di cassazione, poi, nel respingere la tesi per la quale un'obbligazione non poteva ritenersi estinta mediante cessione di credito, ha affermato che la norma in esame non limita l'estinzione dell'obbligazione al versamento di denaro, ma si limita a regolare quale tipo di moneta possa essere utilizzata per adempiere ad un'obbligazione pecuniaria, con la conseguenza che la causa estintiva di un'obbligazione pecuniaria non si limita al solo versamento di denaro (Cass. III, n. 23664/2017).

Per altro verso, la giurisprudenza di legittimità appare incline, invece, ad attribuire valenza solutoria al pagamento del prezzo della compravendita tramite la cessione di cambiali, avendo quest'ultima natura di strumento per la circolazione del credito e non di pagamento (Cass. II, n. 22708/2017).

Non si può trascurare, tuttavia, il generale assunto per il quale la norma in esame ha carattere dispositivo e, quindi, cessa di operare quando esiste una manifestazione di volontà, espressa o presunta, del creditore in tal senso, ovvero: a) quando esiste un accordo espresso tra debitore assegnante e creditore assegnatario; b) quando preesiste una pratica costante tra le parti nel senso di attribuire efficacia solutoria alla consegna, in pagamento, di assegni circolari; c) quando la datio pro solvendo dell'assegno in luogo del contante sia consentita da usi negoziali (Cass. III, n. 3254/2007).

Bibliografia

Bianca, Diritto civile, IV, L'obbligazione, Milano, 1997; Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991; Di Majo, voce Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir., Milano, 1979; Distaso, voce Somma di denaro (Debito di), in Nss. D.I., Torino, 1970; Inzitari, L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria nella società contemporanea: tramonto della carta moneta e attribuzione pecuniaria per trasferimento della moneta scritturale, in Banca borsa tit. cred. 2007, n. 2, 133; Mastropaolo, voce Obbligazione, V, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. giur., Roma, 1990.

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