Codice di Procedura Civile art. 806 - Controversie arbitrabili 1 .Controversie arbitrabili1. [I]. Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge. [II]. Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro. [1] L'articolo, è stato così sostituito dall'art. 20, d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006. . Ai sensi dell'art. 27, comma 3, d.lg. n. 40, cit., la disposizione si applica alle convenzioni di arbitrato stipulate dopo la data di entrata in vigore del decreto. Il testo precedente recitava: «Compromesso. [I]. Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli articoli 429 e 459, quelle che riguardano questioni di stato e di separazione personale tra coniugi e le altre che non possono formare oggetto di transazione». InquadramentoL'arbitrato costituisce uno strumento di risoluzione delle controversie alternativo rispetto alla giurisdizione civile ordinaria, nel senso che le parti rimettono concordemente la decisione della lite al giudizio di un terzo privato, piuttosto che al giudice dello Stato (Merone, § 1). La norma in commento, modificata dal d.lgs. n. 40/2006, consente di demandare alla decisione degli arbitri, mediante la stipula di una convenzione di arbitrato, tutte le controversie che attengono a diritti disponibili per le parti, nonché quelle in materia di lavoro (diversamente da quanto avveniva nella legislazione previgente) nell'ipotesi di previsione da parte della legge o di contratti collettivi di lavoro). Come è stato ribadito anche di recente in giurisprudenza, l'indisponibilità del diritto costituisce un limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l'inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con il quale si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass. VI, n. 9344/2018). Profili generaliL'arbitrato costituisce uno strumento di risoluzione delle controversie alternativo rispetto alla giurisdizione civile, in quanto le parti rimettono concordemente la decisione della lite al giudizio di un terzo privato, piuttosto che al giudice dello Stato (Merone, § 1). La Corte costituzionale ha da lungo tempo fugato i dubbi circa la compatibilità con l'art. 24 Cost. dell'arbitrato sottolineando che, nei limiti in cui l'ordinamento attribuisce rilevanza all'autonomia privata, ogni soggetto giuridico può ben svolgere la propria autonomia per la soluzione delle controversie di suo interesse e ricorrere ad un mezzo, come quello dell'arbitrato, che è legittimato da un regolamento del diritto di azione, valido nel limite in cui su questo diritto la volontà singola opera efficacemente (Corte cost. n. 127/1977). Ne deriva, per eadem ratio, l'illegittimità costituzionale di forme di arbitrato obbligatorio (cfr. Corte cost. n. 127/1977; Corte cost. n. 188/1991). Disponibilità dei diritti oggetto della controversia demandata agli arbitriLa norma in commento limita la possibilità di devolvere in generale le controversie ad arbitri a quelle vertenti su diritti disponibili e non più, come in precedenza, a quelle (unitamente ad altre ipotesi specificamente elencate dal vecchio testo dell'art. 806) che non possono formare oggetto di transazione, con riguardo alla previsione dell'art. 1966 c.c. In dottrina si ritiene, in prevalenza, che l'inderogabilità o imperatività della norma che regola il diritto non renda automaticamente quest'ultimo indisponibile, rimanendo viceversa tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista (cfr. Ricci, 265). Questa posizione è accolta anche nella giurisprudenza della S.C., all'interno della quale è stato affermato il principio secondo cui, in tema di arbitrato, l'indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l'inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con il quale si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass. VI, n. 9344/2018). È escluso che siano compromettibili le controversie che prevedono l'intervento del pubblico ministero, in ragione del pubblico interesse ad esse sotteso e della conseguente indisponibilità dei diritti coinvolti (Auletta, 336; Bove, II, 476; Ruffini, 495). In materia societaria, l'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003, dettando una specifica disciplina per l'arbitrato, ha ammesso la compromettibilità delle liti in caso di disponibilità dei diritti e di inerenza di essi al rapporto sociale, escludendola per le controversie nelle quali la legge preveda l'intervento obbligatorio del PM, sicché è dominante in dottrina l'indirizzo che opina nel senso della generalizzata compromettibilità (Salvaneschi, 59). Limiti all'arbitrabilità derivanti dalla natura del procedimentoProcedimenti cautelari Poiché gli arbitri sono privi di poteri cautelari, viene in primi luogo in rilievo l'art. 669-quinquies c.p.c. per il quale, se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri, anche non rituali, o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito. Come evidenziato, la disposizione si ricollega al divieto per gli arbitri di emanare provvedimenti cautelari, sancito dall'art. 818 c.p.c.: tale regola, in quanto espressione di una risalente concezione tendente a negare a soggetti diversi dai giudici togati il potere di emanare provvedimenti suscettibili di immediata attuazione coattiva, è stata aspramente criticata da una parte della dottrina (Carpi, 1990, 1259). Rispetto all'operatività della regola per la quale il ricorso cautelare deve essere proposto, anche in presenza di convenzione di arbitrato, dinanzi al giudice che sarebbe stato competente per il merito si è dibattuto se l'indicazione nella clausola compromissoria di una sede dell'arbitrato diversa da quella del foro del giudice che sarebbe stato competente in mancanza della stessa a conoscere della controversia costituisca una convenzione di deroga alla competenza territoriale ai sensi dell'art. 28 c.p.c. La tesi sfavorevole ad attribuire la valenza di accordo di deroga della competenza territoriale alla sede dell'arbitrato, è stata avallata anche dalla giurisprudenza di merito all'interno della quale si è affermato che la previsione nella clausola compromissoria che l'arbitrato avrà sede in un determinato luogo non configura un accordo sulla competenza territoriale ex art. 28 c.p.c. e pertanto, poiché — come indicato dall'art. 669-quinquies c.p.c. — occorre fare astrazione dalla clausola compromissoria il giudice competente per i fini cautelari deve essere determinato come se tale clausola non fosse stata apposta e non sussiste la competenza cautelare del giudice indicata al solo fine dello svolgimento dell'arbitrato (Trib. Napoli, 5 maggio 2001, in Dir. industriale, 2002, 31, con note di Peroni e Giunchino; contra, prima dell'emanazione della l. n. 353/1990, Trib. Milano, 13 giugno 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1988, 575). La possibilità di domandare tutela cautelare al giudice competente per il merito una volta stipulata una clausola compromissoria per arbitrato irrituale ovvero nel corso di tale procedimento, è stata invece espressamente riconosciuta dal legislatore soltanto in sede di modifica del testo dell'art. 669-quinquies ad opera della l. n. 80/2005. Tale riforma, peraltro, ha lasciato aperti alcuni problemi interpretativi derivanti dalla necessità di coordinare il principio della compatibilità tra arbitrato irrituale e tutela cautelare con la natura strumentale, anche sotto il profilo strutturale, dei provvedimenti cautelari di carattere conservativo. In effetti, già prima del richiamato intervento del legislatore sull'art. 669-quinquies c.p.c., la dottrina che propendeva per la compatibilità tra arbitrato libero e tutela cautelare si era domandata anche come assicurare in questi casi il rispetto della regola, posta dall'art. 669-octies c.p.c., per la quale, concessa una misura cautelare ante litem va poi dato inizio, a pena di inefficacia della stessa, al giudizio di merito entro un determinato termine. Le soluzioni erano state articolate. In particolare, in accordo con un primo orientamento, la concessione della tutela cautelare avrebbe travolto il patto compromissorio, con la conseguente necessità di instaurare la causa dinanzi al giudice ordinario (Arieta, 744 ss.). Per la dottrina dominante, nel termine previsto per l'instaurazione del giudizio di merito a pena di inefficacia della misura cautelare le parti sarebbero state onerate di proporre la domanda di arbitrato irrituale (Sassani, 710 ss.). Più complesso è il problema del coordinamento dell'odierno art. 669-quinquies c.p.c., nella parte in cui riconosce la possibilità di domandare tutela cautelare anche nell'ipotesi di sottoscrizione di un patto compromissorio per arbitrato irrituale, con l'art. 669-novies, comma 4, c.p.c., il quale equipara la sentenza al lodo arbitrale, nell'ipotesi di conclusione dell'arbitrato irrituale con una pronuncia favorevole alla parte che aveva ottenuto la cautela poiché il lodo irrituale ha valore di determinazione negoziale di per sé insuscettibile di exequatur (Saletti, 62). Secondo alcuni deve ritenersi che la misura cautelare sopravviva al lodo, fermo restando che, qualora si tratti di misura conservativa e quindi a strumentalità forte, nel termine di sessanta giorni di cui all'art. 669-octies, comma 1, la parte beneficiaria della stessa sarebbe onerata di agire in sede giudiziale per l'adempimento (v. già Trib. Civitavecchia 11 marzo 2005, in Corr. merito, 2005, 514). Se di regola, nell'ambito di una controversia compromessa in arbitri, i poteri cautelari spettano al giudice statuale, in dipendenza del divieto di cui all'art. 818 c.c., quest'ultima norma fa salvi i casi in cui è la legge stessa a disporre diversamente. A tal riguardo, il d.lgs. n. 5/2003, introduttivo dell'oggi abrogato processo societario, contiene una disposizione, l'art. 34, sopravvissuto all'abrogazione attuata mediante l'art. 54 l. n. 69/2009, che ha istituito l'arbitrato societario, speciale forma di arbitrato destinato a definire controversie relative ai rapporti interni alle società commerciali: controversie tra i soci, tra i soci e la società, tra quest'ultima e gli organi sociali, con riferimento a diritti disponibili relativi al rapporto sociale. La norma stabilisce inderogabilmente modalità di formazione della clausola compromissoria statutaria. Il successivo art. 35, sotto la rubrica: «Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale», stabilisce tra l'altro, al comma 5, che: «La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell'articolo 669-quinquies c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera». Si tratta di un'eccezionale ipotesi derogatoria della regola generale dettata dall'art. 818 c.p.c., secondo cui, come si è visto, l'adozione dei «sequestri» e degli «altri provvedimenti cautelari», in caso di controversia compromessa in arbitri, è devoluta alla competenza esclusiva dell'autorità giudiziaria ordinaria. La regola, che è espressione di un principio come abbiamo visto radicato, viene ribadita anche dallo stesso art. 35, comma 5, in cui viene precisato che la compromissione in arbitri di una controversia societaria non preclude, ai sensi dell'art. 669-quinquies c.p.c., il ricorso della parte al «giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito» per il rilascio della tutela cautelare. Ed anzi, il ricorso alla tutela cautelare dinanzi al giudice ordinario è stata ammessa, con l'art. 35, prima ancora della novella dell'art. 669-quinquies c.p.c. di cui si è detto, anche nel caso di arbitrato societario «non rituale». Ciò detto, il menzionato art. 35, comma 5, enuclea dunque una eccezione all'ordinaria regola codicistica, riservando agli arbitri l'autonomo potere di sospendere l'efficacia della delibera assembleare impugnata. La natura cautelare e, in particolare, inibitoria di tale misura sospensiva (v. Trib. Padova 21 febbraio 2000, in Soc., 2000, 1119) rende, dunque, la previsione dell'art. 35, comma 5, unica nel sistema. Esecuzione forzata Il «monopolio» della sovranità della giurisdizione statale è posto a fondamento della tradizionale concezione che esclude in capo agli arbitri i poteri coercitivi riservati alla competenza inderogabile del giudice ordinario (cfr. già Cass. n. 3365/1937). In una recente decisione della S.C. si è ritenuto, peraltro, che la clausola compromissoria riferita genericamente a qualsiasi controversia nascente da un determinato rapporto giuridico cui essa inerisce può essere interpretata — con giudizio riservato al giudice di merito — nel senso che rientrano nella competenza arbitrale anche le opposizioni all'esecuzione forzata, salvo che si controverta di diritti indisponibili, mentre non sono compromettibili in arbitri le opposizioni agli atti esecutivi, in quanto la verifica dell'osservanza di regole processuali d'ordine pubblico riguarda diritti di cui le parti non possono mai liberamente disporre (Cass. III, n. 7981/2018). Tutela monitoria Per altro verso, è stato più volte enunciato il principio in virtù del quale l'esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo (atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l'emissione di provvedimenti inaudita altera parte), ma impone a quest'ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull'esistenza della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la contestuale remissione della controversia al giudizio degli arbitri (Cass. I, n. 8166/1999). Procedimenti di convalida di licenza o sfratto Variegate sono le tesi espresse in ordine alla possibilità per il locatore, una volta stipulata una convenzione d'arbitrato, di adire il Tribunale con richiesta di convalida della domanda di licenza o sfratto. In particolare, secondo un primo orientamento, la peculiare natura del procedimento per convalida di sfratto, quale procedimento a cognizione piena con annessione di effetti legalmente predeterminati alla mancata comparizione o alla mancata opposizione dell'intimato, e la relativa struttura improntata alla speditezza ed economicità procedimentale appaiono, difatti, difficilmente compatibili con il procedimento che si svolge dinanzi all'arbitro, nel quale appare, pertanto, non ipotizzabile un rinvio alle formalità ed ai meccanismi del procedimento disciplinato dagli artt. 657 e ss. c.p.c. (v., per tutti, Fazzalari, 38). In questa direzione si è affermato, in sede applicativa, che tra le controversie non deferibili ad arbitri rientrano tutte quelle per le quali è prevista la competenza funzionale ed inderogabile del g.o. come, in particolare, i procedimenti speciali di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione e di sfratto per morosità, previsti dagli artt. 657 e 658 c.p.c.; ciò tuttavia limitatamente alla prima fase a cognizione sommaria, non sussistendo, invece, alcuna preclusione a che nella fase successiva a cognizione piena la causa sia decisa nel merito da arbitri (Trib. Salerno I, 4 maggio 2007). Secondo un'altra impostazione, ove la controversia relativa alla cessazione o alla risoluzione del contratto per scadenza del termine o morosità sia stata oggetto di clausola compromissoria o di compromesso, ciò determina una rinuncia del locatore a servirsi del procedimento di convalida, con la conseguenza che va riconosciuta la competenza degli arbitri, senza che possano essere pronunciati i provvedimenti ex artt. 663 e 665 c.p.c. (Pret. Roma 18 luglio 1996, in Arch. loc., 1997, 422). Procedimenti possessori Secondo un primo indirizzo della S.C., le cause possessorie sono compromettibili in arbitri con l'unica limitazione dell'impossibilità di pronuncia, in quanto carenti dei relativi poteri d'imperio, dei provvedimenti interdittori attinenti alla reintegrazione ed alla manutenzione, pur sempre rinunciabili (Cass. n. 10839/1992). In senso diverso si è ritenuto che la clausola compromissoria che sia stata pattuita con riguardo ad un determinato contratto ed alle controversie che possano insorgere tra le parti contraenti in relazione alla sua esecuzione non può trovare applicazione nel caso che tali controversie abbiano natura possessoria, non potendo gli arbitri (sia rituali che irrituali) adottare provvedimenti coercitivi (Cass. n. 8399/1990; Cass. n. 1144/1979), sicché la denuncia di nuova opera, quando sia rivolta in via urgente alla sospensione immediata dei lavori e, successivamente, al ripristino della situazione antecedente alla lesione del diritto reale di cui si invoca la tutela possessoria o petitoria, non può essere oggetto della cognizione arbitrale, né in fase cautelare né in ordine al giudizio a cognizione piena, richiedendo necessariamente l'esercizio giudiziale di poteri coercitivi (Cass. n. 9909/2009). Arbitrato in materia di lavoroL'arbitrato in materia di lavoro, in precedenza disciplinato dal combinato disposto degli artt. 806 (che escludeva tali controversie dal campo dell'arbitrabilità) e 808, comma 2 (secondo cui le medesime potevano essere decise da arbitri solo se previsto nei contratti e accordi collettivi di lavoro, purché ciò avvenisse senza pregiudizio della facoltà di adire l'autorità giudiziaria, con previsione di nullità della clausola compromissoria che autorizzasse a pronunciare secondo equità ovvero dichiarasse il lodo non impugnabile), è oggi regolato dal comma 2 della norma in commento, applicabile a tutte le convenzioni di arbitrato stipulate dopo il 2 marzo 2006, secondo cui dette controversie possono essere decise da arbitri solo se è previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro (cfr. Borghesi, 821). La previsione dell'arbitrato nei contratti collettivi rappresenta solo un pre-requisito, cui deve necessariamente seguire la convenzione arbitrale fra singolo lavoratore e datore di lavoro, sia essa una clausola compromissoria contenuta nel contratto di lavoro individuale, sia essa un compromesso a lite già sorta (così Zucconi Galli Fonseca, 459). L'arbitrabilità è invece esclusa per le controversie di previdenza ed assistenza, stante l'art 147 disp. att., secondo cui nelle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, sono privi di qualsiasi efficacia vincolante, sostanziale e processuale, gli arbitrati rituali, gli arbitrati irrituali. Casistica Qualora, per effetto della stipulazione di una convenzione per prestazioni mediche specialistiche, tra l'Asl e il medico si sia instaurata una collaborazione coordinata e continuativa, con carattere prevalentemente personale, è invalida, per effetto del combinato disposto dell'art. 409, comma 1, n. 3), c.p.c. e dell'art. 808, comma 2, c.p.c, la clausola arbitrale che demandi ad un arbitro la risoluzione di controversie sorte per effetto della convenzione, con conseguente nullità del relativo lodo arbitrale, se tale facoltà non sia prevista da accordi o contratti collettivi di lavoro e non sia comunque garantita la facoltà per le parti di adire l'Autorità giudiziaria (Cass. I, n. 18319/2012). Ad esempio, la distribuzione di azioni ai dipendenti mediante l'utilizzo delle stock option ha la finalità di incentivarne la produttività con la possibilità di realizzare una plusvalenza e costituisce una diffusa forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili, consentita ex art. 2099, ultimo comma, c.c., sicché ogni controversia fra la società ed il suo dipendente in ordine alla loro spettanza rientra nella competenza del giudice ordinario, secondo il rito speciale, ed è compromettibile in arbitri, ai sensi dell'art. 806 c.p.c., solo se i contratti collettivi lo prevedano (Cass. n. 15217/2016). Natura dell'arbitrato ritualeAttraverso l'arbitrato le parti pervengono alla decisione di una controversia mediante l'attività degli arbitri, senza ricorrere ai giudici dello Stato. Con riferimento all'arbitrato cd. rituale, si sono contrapposti, sulla questione dei rapporti con la giurisdizione, essenzialmente due orientamenti, anche all'interno della giurisprudenza di legittimità. Per sua parte, la S.C. ha in un primo momento affermato che, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, che prevedano il ricorso all'arbitrato, rituale o irrituale, la deduzione della devoluzione della controversia insorta al collegio arbitrale, e non al giudice ordinario, non configura una questione di giurisdizione, bensì, nel primo caso (arbitrato rituale), di competenza, nel secondo, di proponibilità della domanda, con la conseguenza che, in entrambi i casi, il regolamento di giurisdizione eventualmente proposto è inammissibile (Cass. S.U., n. 15/2000, in Foro pad., 2001, n. 1, 37, con nota di Rubino Sammartano). Questo orientamento era stato rivisitato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, ricondotta la decisione arbitrale, in ogni caso, all'autonomia negoziale e alla sua legittimazione a derogare alla giurisdizione, per ottenere una decisione privata della lite, basata non sullo ius imperii, ma solo sul consenso delle parti, hanno affermato il principio in virtù del quale il deferimento della controversia agli arbitri è stato così configurato quale deroga alla giurisdizione, con l'ulteriore conseguenza che ogni questione concernente la deferibilità della medesima agli arbitri è stata intesa quale questione di merito e non di giurisdizione, poiché attinente alla validità della convenzione arbitrale (Cass. S.U., n. 527/2000, tra l'altro in Riv. dir. proc., 2001, n. 1, 254, con nota di E.F. Ricci, in Giust. civ., 2001, n. 3, 761, con nota di Monteleone, in Corr. giur., 2001, n. 1, 51, con nota di Ruffini). In sostanza, secondo tale impostazione interpretativa, in tema di arbitrato rituale la questione conseguente all'eccezione di compromesso sollevata dinanzi al giudice ordinario, adito sebbene la controversia fosse stata deferita ad arbitri, attiene al merito e non alla competenza in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all'azione giudiziaria (ne consegue che, ancorché formulata nei termini di decisione di accoglimento o rigetto di un'eccezione d'incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di un'eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sé va riguardata come decisione pronunziata su questione preliminare di merito, impugnabile con l'appello e non ricorribile in cassazione con regolamento di competenza: Cass. III, n. 14234/2004, sulla scia di Cass. S.U., n. 9289/2002, in Giust. civ., 2003, I, n. 4, 717, con nota di Punzi, nonché in Corr. giur., 2003, n. 4, 461, con nota di Fornaciari; tuttavia, nel senso che l'inammissibilità del regolamento di competenza avverso la sentenza con cui il giudice adito pronunci, accogliendola o respingendola, su eccezione relativa all'esistenza di compromesso o di clausola compromissoria per arbitrato rituale o irrituale, non osta alla convertibilità del regolamento medesimo in ordinario ricorso per cassazione, ove ricorrano tutti i requisiti formali e sostanziali per tale impugnazione, v. Cass. I, n. 6165/2003). La riforma di cui al d.lgs. n. 40/2006 ha peraltro configurato espressamente i rapporti tra arbitrato e giurisdizione in termini di competenza (cfr. Cass., n. 19546/2015). Anche di recente si è quindi affermato che stabilire se una controversia spetti, o meno, alla cognizione degli arbitri integra — a seguito di overruling giurisprudenziale dovuto alla pronuncia delle S.U. n. 24153/2013 — una questione di competenza, sicché, nell'ipotesi di declinatoria della competenza da parte del giudice statale, trova applicazione anche l'art. 50 c.p.c., attesa la necessità di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda originariamente proposta davanti a quest'ultimo (Cass. n. 1101/2016). Da ultimo le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel ribadire che l'attività degli arbitri rituali ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, ha precisato che, invece, il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione (Cass. S.U. n. 23418/2020, la quale ha affermato che, pertanto, la questione circa l'eventuale non compromettibilità ad arbitri della controversia, per essere la stessa riservata alla giurisdizione del giudice amministrativo, integra una questione di giurisdizione che, ove venga in rilievo, il giudice dell'impugnazione del lodo arbitrale è tenuto ad esaminare e decidere anche d'ufficio). L'eccezione di compromesso sollevata innanzi al giudice ordinario, adito sebbene la controversia sia stata deferita ad arbitri, attiene al merito e non alla giurisdizione o alla competenza, in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all'azione giudiziaria: ne deriva che, seppure formulata in termini di accoglimento o rigetto di una eccezione di incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di una eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sé, deve essere considerata come decisione pronunciata su questione preliminare di merito, perché inerente alla validità o all'interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria, con la conseguenza che essa deve essere impugnata mediante appello, formandosi il giudicato ove questo non sia proposto (Cass. II, n. 21177/2019). Casistica L'azione per l'accertamento della natura usuraria degli interessi dovuti in base ad un contratto di leasing, con la conseguente condanna della controparte alla restituzione di quanto indebitamente percepito a tale titolo, è suscettibile di deferimento alla decisione degli arbitri ai sensi dell'art. 806 c.p.c., in quanto ha ad oggetto un diritto disponibile, senza che la dedotta nullità del contratto posto a base della domanda, che concerne, invece, il merito della pretesa, sia sufficiente ad escludere la competenza arbitrale, risultando illogico fare dipendere l'operatività della convenzione di arbitrato dalla decisione sul merito della controversia (Cass. n. 1119/2016). L'embargo internazionale, in quanto misura sanzionatoria, e non meramente sospensiva, volta ad inibire i rapporti commerciali con un determinato Stato, rende immediatamente inammissibile il ricorso all'arbitrato per la loro risoluzione, ed irreversibile l'azione promossa dinanzi al giudice competente secondo la lex fori, senza che dall'avvenuta revoca di quella sanzione possa derivare una recuperata arbitrabilità della controversia, non conoscendo l'ordinamento nazionale la validità sopravvenuta degli atti e dei negozi giuridici (Cass. n. 23893/2015). Spetta al giudice italiano, e non agli arbitri, la decisione sull'invalidità sopravvenuta di una clausola compromissoria per indisponibilità del diritto oggetto della controversia in conseguenza di embargo internazionale — qualificabile come factum principis — impositivo di un divieto esterno alle prestazioni contrattuali, attesa la natura sovranazionale dello ius superveniens, che si impone su qualunque disciplina particolare prefigurata dalle parti contraenti e la cui disapplicazione comporterebbe conseguenze sanzionatorie per lo Stato tenuto ad assicurarne il rispetto (Cass. n. 23893/2015). È stata ritenuta compromettibile la controversia sorta da un contratto di franchising in ordine al diritto, contrattualmente escluso, di recesso della società affiliata pur quando l'esercizio si chiuda in perdita, diritto che la stessa società assumeva essere invece indisponibile in forza dell'art. 41 Cost. (Cass. n. 8376/2000). Il diritto alle restituzioni e al risarcimento del danno per la violazione di diritti indisponibili ancorché traggano origine da un illecito penale, rientrano nella disponibilità delle parti (Cass. n. 664/1988). La domanda di risarcimento per danno da mobbing, avanzata dal socio di una società cooperativa nei confronti della compagine sociale in relazione a prestazioni lavorative ricomprese nell'oggetto sociale, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei, permanendo la distinzione con il rapporto sociale, sicché, in forza dell'art. 806 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 40/2006, ratione temporis applicabile), la clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi, non è idonea a impedire la valida adizione dell'autorità giudiziaria (Cass. n. 18110/2015). Deve escludersi che, mediante la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto, la deroga alla giurisdizione del giudice ordinario e il deferimento agli arbitri si estendano a controversie relative ad altri contratti ancorché collegati al contratto principale, cui accede la predetta clausola. In particolare qualora uno statuto societario preveda la devoluzione a un collegio arbitrale di ogni controversia tra i soci, la stessa deve essere interpretata — in mancanza di espressa volontà contraria — nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie inerenti al rapporto societario e relative pretese aventi la loro causa petendi nel medesimo contratto sociale. Deriva da quanto precede, pertanto, che non esiste la deroga alla giurisdizione ordinaria — prevista dalla detta clausola — con riguardo alla controversia nascente dall'inadempimento relativo alla mancata esecuzione di un contratto preliminare di vendita di quote della detta società. Nella specie, infatti, il contratto sociale costituisce il presupposto storico sullo sfondo del quale si innesta l'azione proposta, ma non la causa petendi della stessa, perché l'inadempimento denunciato, essendo un comportamento rilevante solo sotto il profilo ricollegabile alla risoluzione dello stesso, è un fatto che non sostanzia alcun legame con gli obblighi derivanti dal contratto di società al quale soltanto si riferisce la clausola arbitrale sottoscritta dalle medesime parti (Cass. n. 7501/2014). La clausola compromissoria contenuta nello statuto consortile non va riferita alle sole controversie derivanti dal contratto sociale ma si estende anche a quelle relative all'assegnazione di lavori alle consorziate e alla successiva loro esecuzione, posto che l'affidamento delle opere non assurge ad autonomo contratto a prestazioni corrispettive fra l'ente consortile e le imprese aderenti, configurandosi, piuttosto, quale mero atto esecutivo del predetto contratto sociale, mediante il quale l'ente ripartisce tra le consorziate i lavori assunti in appalto nei confronti di terzi (Cass. VI, n. 25054/2017: nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto la competenza del collegio arbitrale sulla controversia afferente la pretesa di pagamento avanzata nei confronti di un consorzio da parte di una banca cessionaria del credito dovuto ad una cooperativa consorziata in relazione a lavori edili ad essa affidati in virtù del rapporto sociale). In sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, in quanto l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è in ogni caso (si tratti cioè di arbitrato rituale o di arbitrato irrituale) paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento o dalla apertura della procedura di amministrazione straordinaria, dell'avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l'accertamento di un credito verso l'impresa sottoposta alla procedura concorsuale, allo speciale, ed inderogabile, procedimento di verificazione dello stato passivo (Cass. S.U., n. 9070/2003, in Corr. giur., 2004, n. 3, 320, con nota di Montanari). Controversie in materia societaria L'arbitrato in materia societaria si caratterizza per la possibilità, oltre che di stipulare convenzioni d'arbitrato canoniche, purché si verta in tema di diritti disponibili, per quella di ricorrere al cd. arbitrato endosocietario secondo le previsioni dettate dagli artt. 34 e ss. del d.lgs. n. 5/2003. Ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003 gli atti costitutivi delle società (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio), mediante clausole compromissorie, possono prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. Gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro. La clausola compromissoria statutaria deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, e si caratterizza poiché, a pena di nullità, deve conferire il potere di nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina deve essere richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. Alla luce di tali previsioni normative, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera dei soci e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta rilevabile d'ufficio - ove non fatta valere altra e diversa causa di illegittimità in via d'azione - con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario (Cass. S.U., n. 16556/2020). In ragione dell'indisponibilità dei diritti che vengono in rilievo in tale ipotesi, non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge preveda l'intervento obbligatorio del pubblico ministero. Le controversie aventi relative alla validità di delibere assembleari, qualora abbiano un oggetto disponibile, possono essere devolute in arbitri, anche se non ne è fatta espressa menzione nella clausola compromissoria contenuta nello statuto della società (Cass. VI, n. 17283/2015). È stato tuttavia precisato che non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio della società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, poiché, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili (Cass. VI, n. 20674/2016). Non sono compromettibili in arbitri le controversie afferenti l'accertamento della violazione delle norme inderogabili dirette a garantire la chiarezza e precisione del bilancio (Cass. VI, n. 17950/2015, in Giur. comm., 2016, II, 737, con nota di Corsi; in senso analogo v. anche Cass. VI, n. 18671/2012, in Riv. arb., 2013, n. 4, 913, con nota di Salvaneschi; contra Trib. Modena, sez. I, 25 novembre 2011, in Riv. arb., 2012, n. 4, 871, con nota di Piergrossi e De Santis; Trib. Napoli 9 giugno 2010, in Giur. comm., 2012, n. 1, II, 220, con nota di Serra ). Analogamente, non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale di cui all'art. 2447 c.c., per violazione delle norme sulla redazione della situazione patrimoniale ex art. 2446 c.c., vertendo tale controversia, al pari dell'impugnativa della delibera di approvazione del bilancio per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, su diritti indisponibili, essendo le regole dettate dagli artt. 2446 e 2447 c.c. strumentali alla tutela non solo dell'interesse dei soci ma anche dei terzi (Cass. I, n. 14665/2019, in Giur. it., 2019, n. 11, 2484, con nota di RUGGIERI). In sostanza, come ribadito in sede di merito, le norme che stabiliscono i principi di veridicità, chiarezza e precisione del bilancio non solo sono imperative, ma trascendono l'interesse del singolo, essendo dettate a tutela, oltre che dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche all'affidamento di tutti i soggetti che entrano in contatto con la società: ne deriva che, in quanto coinvolgente i predetti interessi, la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della delibera di approvazione del bilancio per difetto degli indicati requisiti attiene a diritti indisponibili, con la conseguenza che non può costituire oggetto di deferimento al giudizio degli arbitri (Trib. Bologna, sez. spec. Impresa, 14 febbraio 2018, n. 489). Nella medesima prospettiva, si è ritenuto che le controversie coinvolgenti interessi indisponibili come la revoca dell'amministratore di una s.a.s. per violazione delle norme sulla redazione dei bilanci sono sottratte alla compromettibilità in arbitri (Cass. I, n. 18600/2011, in Guida al dir., 2011, n. 43, 62, con nota di Micali). Il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, sicché le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo interno dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale, nella specie, quello al compenso), sono compromettibili in arbitri, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Cass. n. 2759/2016). La controversia avente ad oggetto la legittimità del recesso del socio di una s.p.a., coinvolgendo esclusivamente lo status del predetto ed il suo diritto, di natura esclusivamente patrimoniale, alla liquidazione del valore delle azioni, attiene a diritti disponibili ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo ad un arbitrato rituale, sia esso di diritto comune che endosocietario (Cass. n. 10399/2018). Attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c., soltanto le controversie relative all'impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell'art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la controversia che abbia ad oggetto l'interpretazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea di una società a responsabilità limitata, in cui si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio di amministrazione, in quanto suscettibile di transazione, può essere deferita ad arbitri (Cass. n. 16265/2013). Nella recente giurisprudenza di merito si è invece ritenuto che la clausola compromissoria presente nello statuto ed avente ad oggetto questioni relative alla legittimità o meno di modifiche apportate al regolamento interno della società è pienamente valida, in quanto queste riguardano esclusivamente gli interessi dei soci e il funzionamento interno, temi irrilevanti per i terzi estranei alla compagine sociale (Trib. Roma, sez. spec. Impresa, 23 febbraio 2016, in Societàpiù, 2016). Sul piano processuale, l'art. 35 dello stesso d.lgs. n. 5/2003 prevede che la domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto deve essere depositata presso il registro delle imprese ed è accessibile ai soci. Nel procedimento è consentito l'intervento di terzi ex art. 105 c.p.c. ovvero di altri soci sino alla prima udienza di trattazione. Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri devono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell'art. 829, comma 2 c.p.c. quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari. Inoltre, il lodo è sempre impugnabile, anche in deroga alle previsioni in tema di arbitrato internazionale, ai sensi degli artt. 829, comma 1, e 831 c.p.c. In ragione della specificità di tali previsioni, le S.U. della Corte di cassazione hanno chiarito che, stante la disciplina transitoria dettata dall'art. 27 d.lgs. n. 40/2006, l'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore del suddetto decreto, ma nel caso di arbitrato societario la legge cui lo stesso art. 829, comma 3 c.p.c. rinvia, per stabilire se è ammessa l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è l'art. 36 d.lgs. n. 5/2003, che espressamente ammette l'impugnazione dei lodi per tali motivi (Cass. S.U., n. 9285/2016). La stessa S.C. ha poi chiarito che nella dizione dell'art. 36 d.lgs. n. 5/2003, che impone la decisione arbitrale secondo diritto e sempre impugnabile per errores in judicando, ove riguardante invalidità delle delibere assembleari, deve comprendersi anche, per via estensiva, l'arbitrato su quelle delle delibere consiliari, viziate ai sensi dell'art. 2388 c.c., in quanto la ratio degli artt. 34 ss. d.lgs. n. 5/2003 è ampliare la tutela del socio verso il “frutto” del potere di deliberazione nelle società e di chiarire così, per tutte le delibere, i limiti oggettivi dell'arbitrato societario, sicché sarebbe irragionevole escludere dall'ambito applicativo dell'art. 36 d.lgs. n. 5/2003 gli arbitrati su delibere consiliari, posta l'assimilabilità tra impugnative di delibere dell'assemblea dei soci e del consiglio di amministrazione già sostenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6/2003 e da questa recepita con la riformulazione dell'art. 2388 comma 4 c.c. che fa esplicito rinvio, per le impugnative di delibere consiliari, agli artt. 2377 e 2378 c.c., dedicati a quelle di delibere assembleari (Cass. I, n. 28/2013). Un'altra peculiarietà dell'arbitrato societario è l'attribuzione agli arbitri dell'eccezionale potere nelle controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera. In tema di arbitrato societario, la clausola compromissoria prevista dall'atto costitutivo di società, che preveda la decisione di qualunque controversia insorta tra i soci e la società sia decisa da un arbitro amichevole compositore nominato dall'autorità giudiziaria su istanza della società, non è lesiva del diritto del socio di agire a tutela dei suoi diritti, in quanto l'art. 810 c.p.c., il quale prevede che, nel caso di inerzia di una delle parti nella nomina del proprio arbitro, l'altra parte possa chiedere che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale, deve ritenersi applicabile analogicamente, ricorrendo l'eadem ratio, ove sia rimessa all'autorità giudiziaria la nomina dell'unico arbitro e sia previsto che la relativa istanza venga presentata da una specifica parte e questa non abbia attivato il procedimento malgrado il sollecito dell'altra parte (Cass. n. 2189/2013). La controversia sulla nullità della delibera assembleare di una società a responsabilità limitata, in relazione all'omessa convocazione del socio, soggetta al regime di sanatoria previsto dall'art. 2379-bis c.c., è compromettibile in arbitri, atteso che l'area della non compromettibilità è ristretta all'assoluta indisponibilità del diritto e, quindi, alle sole nullità insanabili (Cass. n. 15890/2012). Il principio dell'autonomia della clausola compromissoria rispetto al negozio di riferimento vale in relazione all'arbitrato rituale ma non a quello irrituale. Quest'ultimo, infatti, integra la volontà delle parti, dando vita ad un negozio di secondo grado, che trae la sua ragione d'essere dal negozio nel quale la clausola è inserita e non può sopravvivere alle cause di nullità che facciano venire meno la fonte stessa del potere degli arbitri (Cass. n. 5105/2012). Attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c., soltanto le controversie relative all'impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell'art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la controversia che abbia ad oggetto l'interpretazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea di una società a responsabilità limitata, in cui si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio di amministrazione, in quanto suscettibile di transazione, può essere deferita ad arbitri (Cass. n. 16265/2013). Controversie in materia locatizia Le più rilevanti questioni circa la deferibilità ad arbitri delle controversie locatizie erano poste dalla legislazione vincolistica, con particolare riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 54 e 79 l. n. 392/1978. A riguardo, occorre considerare, infatti, che la prima norma prevedeva il divieto assoluto di deferibilità agli arbitri delle controversie in materia di canone locativo, interpretata dalla giurisprudenza in senso estensivo, come riguardante qualsiasi questione relativa alla determinazione del canone dell'immobile locato, incluse quelle concernenti la revisione, l'adeguamento o l'aggiornamento del canone stesso è stata abrogata per effetto dell'art. 13 l. n. 431/1998. Quanto all'art. 79, anch'esso fatto oggetto di espressa abrogazione dalla l. n. 431/1998, limitatamente alle locazioni abitative, si è sostenuto che il divieto di arbitrabilità delle controversie fosse implicitamente da rinvenire nel divieto di pattuizioni che conferissero al locatore vantaggi in contrasto con le disposizioni della l. n. 392/1978. La S.C. aveva quindi più volte enunciato il principio per il quale in materia di locazioni di immobili urbani disciplinate dalla l. n. 392/1978, tutte le questioni relative alla determinazione del canone, in esse comprese le questioni concernenti l'integrazione e l'aumento, ovvero l'aggiornamento (artt. 24 e 32) e l'adeguamento (art. 25) del detto canone, sia se riguardino locazioni abitative sia se riguardino locazioni di immobili destinati ad uso diverso, non possono formare oggetto di pronuncia arbitrale per nullità della clausola compromissoria, a norma dell'art. 54 della stessa l. n. 392/1978 (cfr. Cass. III, n. 15470/2007, che ha ritenuto ricompresa nell'ambito dell'art. 32 della legge indicata la clausola contrattuale che prevedeva la maggiorazione del canone in caso di spese sostenute dal locatore per interventi straordinari in quanto incidente sull'aggiornamento ISTAT, essendo idonea a determinare la base di calcolo del canone, e, in applicazione del suindicato principio, ha ritenuto che la controversia avente ad oggetto l'applicabilità di detta pattuizione rientra tra quelle per le quali la legge c.d. dell'equo canone ha previsto la nullità della clausola compromissoria; nel senso dell'operatività del principio anche con riguardo alla clausola compromissoria che, stipulata prima, sia però destinata a perfezionarsi e ad operare, con la nomina degli arbitri e la pronuncia del lodo, dopo l'entrata in vigore della citata l. n. 392/1978, atteso che la nuova legge, senza derogare al principio della irretroattività, è diretta a regolare non l'atto generatore del rapporto, ma gli effetti di esso non ancora esauriti v., tra le altre, Cass. III, n. 3949/1988, in Giust. civ., 1989, I, 1, 122, con nota di Izzo). In accordo con l'impostazione rigorosa della giurisprudenza di legittimità, il lodo pronunciato in violazione del divieto di compromettibilità in arbitri è nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c. (Cass. I, n. 9211/1999, in Foro it., 2000, I, 2, 555, con nota di Piombo). È stato tuttavia precisato che il divieto di compromettibilità in arbitri, stabilito con riferimento alle controversie relative alla determinazione del canone dall'art. 54 l. n. 392/1978, non preclude agli arbitri — investiti della domanda di rescissione per eccessiva sproporzione tra il corrispettivo dovuto al locatore ed il godimento dell'immobile — di confrontare il canone corrisposto in forza di un precedente contratto di locazione e quello della cui sproporzione si controverte, atteso che tale valutazione incidentale non ha alcuna incidenza sulla determinazione del canone precedentemente pattuito, il quale viene in rilievo solo come parametro indiziario della dedotta lesione ultra dimidium (Cass. n. 6284/2013). Sulla questione della permanente operatività del divieto in questione per le cause che involgono contratti di locazione ad uso diverso da quello abitativo, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che la clausola che deferisce ad arbitri le controversie relative all'aumento del canone dei contratti di locazione ad uso non abitativo è applicabile in quanto, da un lato, non viola l'art. 54, l. n. 392/1978, il quale, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, deve intendersi abrogato anche con riferimento alle locazioni di immobili ad uso non abitativo; dall'altro lato, la medesima clausola, non attenendo, in ogni caso, a diritti indisponibili, non viola il divieto di cui all'art. 806 c.p.c. (Cass. S.U., n. 14861/2017, in Corr. giur., 2017, n. 10, 1185, con nota di Cuffaro). Ne deriva che, attualmente, anche in materia locatizia, la possibilità di deferire la decisione delle controversie agli arbitri trova quale unico limite, secondo quanto previsto dalla disposizione in esame, l'indisponibilità dei diritti oggetto delle stesse (v., tra gli altri, Bove, §§ 1 ss.). Controversie nei confronti della Pubblica Amministrazione La necessaria correlazione ad una situazione di diritto soggettivo implica che non possa essere demandata ad arbitri la cognizione e decisione di controversie in tema di interessi legittimi, salve differenti e specifiche previsioni normative (v., tra le più recenti, Cass. VI, n. 28533/2018, in Giur. it., 2019, n. 3, 636, con nota di BACCAGLINI). Ne deriva che, al fine di valutare la compromettibilità inarbitrato di una controversia derivante dall'esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere a tale strumento di risoluzione delle controversie solo se abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell'art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo (Cass. I, n. 2738/2021). Costituisce invero principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, in tema di arbitrato, è preclusa la compromettibilità in arbitri delle controversie relative ad interessi legittimi, con riferimento alle posizioni soggettive dei privati su cui incidono gli atti autoritativi della P.A., in quanto sottratte alla disponibilità delle parti (Cass. I, n. 2126/2014). Si è quindi affermato che è inammissibile il ricorso all'arbitrato per la risoluzione di controversie aventi ad oggetto situazioni soggettive inerenti gli accordi di cui all'art. 11, l. n. 241/1990, nel cui novero rientrano anche le convenzioni urbanistiche, non potendosi escludere la persistenza, pur nell'ambito di un rapporto convenzionale di lottizzazione, di un potere discrezionale dell'Amministrazione, in presenza del quale verrebbe anche meno il presupposto dell'arbitrabilità, che è quello dell'inerenza della controversia a diritti soggettivi (Cons. St. IV, n. 2568/2010). Peraltro, a seguito della riforma di cui all'art. 6 della l. n. 205/2000 è stata prevista la deferibilità ad arbitri delle controversie demandate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (sulla non retroattività della norma, in quanto la stessa non contempla una clausola di salvezza delle clausole compromissorie esistenti v. Cass. S.U., n. 9952/2009). Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno precisato che, tuttavia, il richiamato art. 6, comma 2, l. n. 205/2000, nel prevedere che le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto, è norma di stretta interpretazione, posto che l'accordo delle parti, espresso nel patto compromissorio, indirettamente comporta una deroga alla giurisdizione, avendo l'effetto di affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo, la cognizione di controversie che, in assenza dell'arbitrato, sarebbero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e, pertanto, stante il carattere eccezionale della citata norma, essa, in presenza di devoluzione al giudice amministrativo quale titolare esclusivo della tutela giurisdizionale, è applicabile solo quando la posizione azionata abbia consistenza di diritto soggettivo, sicché non è sufficiente la mera idoneità della pretesa a formare oggetto di transazione (cfr. Cass. S.U., n. 14090/2004, la quale ha di conseguenza precisato che il predetto art. 6, comma 2, non è applicabile quando la situazione giuridica azionata abbia natura di interesse legittimo; l'intervento in materia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione si correla alla circostanza che la questione circa la non deferibilità ad arbitri della controversia, per essere la stessa riservata alla giurisdizione del giudice amministrativo, proposta, non già in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, ma come motivo di ricorso avverso la sentenza della corte d'appello che abbia pronunciato sull'impugnazione del lodo, si configura come questione di giurisdizione, e deve pertanto essere esaminata in quanto tale, atteso che l'espressione «motivi attinenti alla giurisdizione», di cui al numero 1 dell'art. 360 c.p.c., richiamato dall'art. 374 c.p.c. nella delimitazione di uno degli ambiti di competenza delle sezioni unite, deve ritenersi comprensiva dell'ipotesi in cui si tratti di risolvere un problema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in funzione dell'accertamento della compromettibilità ad arbitri, e quindi della validità del compromesso o della clausola compromissoria, come chiarito da Cass. S.U., n. 8212/2004. In sostanza, la non deferibilità della controversia al giudizio arbitrale, per essere la stessa devoluta alla giurisdizione di legittimità od esclusiva del giudice amministrativo, dà luogo, non ad una questione di giurisdizione in senso tecnico, bensì ad una questione di merito attinente all'esistenza e alla validità del compromesso, fermo restando che — esclusa la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione — rientra pur sempre nelle attribuzioni delle Sezioni Unite la questione del riparto della giurisdizione quante volte essa si ponga in funzione della compromettibilità in arbitri della controversia, atteso che il giudice dell'impugnazione per nullità non può passare dalla fase rescindente del giudizio a quella rescissoria se non dopo aver accertato la sussistenza della propria giurisdizione sulla controversia: Cass. S.U., n. 17205/2003). Sul punto si è evidenziato che la questione avente a oggetto la deferibilità ad arbitri di una controversia che l'ordinamento giuridico attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non comporta l'insorgenza di una questione di riparto della giurisdizione ma nel caso in cui l'apposizione e la sottoscrizione della clausola per arbitrato rituale sia avvenuta nella vigenza dell'art. 6 l. n. 205/2000, il patto compromissorio produce l'effetto di privare l'autorità giudiziaria adita del potere di pronunciarsi sulla questione sottopostale, dovendo la stessa essere devoluta agli arbitri, in quanto l'exceptio compromissi si configura come una eccezione propria e in senso stretto, avendo per oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell'esercizio della giurisdizione statale (T.A.R. Catania (Sicilia) III, 25 maggio 2011, n. 1285). È stato nondimeno precisato che, ai sensi dell'art. 6, comma 2 l. n. 205/2000, in materia di giurisdizione esclusiva, alla quale appartiene la controversia in esame, è ammesso soltanto il ricorso all'arbitrato rituale di diritto e non a quello irrituale. Invero, la ratio della norma consiste nella rilevanza dei pubblici interessi comunque coinvolti nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, in quanto benché la p.a., nel suo operare negoziale, si trovi su un piano paritetico a quello dei privati, ciò non significa che vi sia una piena ed assoluta equiparazione della sua posizione a quella del privato, poiché l'Amministrazione è comunque portatrice di un interesse pubblico cui il suo agire deve in ogni caso ispirarsi: ne consegue che alla stessa è preclusa la possibilità di avvalersi dello strumento del c.d. arbitrato irrituale o libero, poiché in tal modo il componimento della vertenza verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) individuati, nell'ambito di una pur legittima logica negoziale, in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, perciò, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta (T.A.R. Catania (Sicilia) III, 12 marzo 2010, n. 621). 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