Decreto legislativo - 6/09/2005 - n. 206 art. 130 - (Obblighi del venditore e condotta del consumatore) 1 .(Obblighi del venditore e condotta del consumatore)1. 1. Il venditore non è vincolato dalle dichiarazioni pubbliche di cui all'articolo 129, comma 3, lettera d), quando, anche alternativamente, dimostra che: a) non era a conoscenza della dichiarazione pubblica in questione e non poteva conoscerla con l'ordinaria diligenza; b) la dichiarazione pubblica è stata adeguatamente corretta entro il momento della conclusione del contratto con le stesse modalità, o con modalità simili a quelle con le quali è stata resa; c) la decisione di acquistare il bene non è stata influenzata dalla dichiarazione pubblica. 2. Nel caso di beni con elementi digitali, il venditore è obbligato a tenere informato il consumatore sugli aggiornamenti disponibili, anche di sicurezza, necessari al fine di mantenere la conformità di tali beni, e a fornirglieli, nel periodo di tempo: a) che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, date la tipologia e la finalità dei beni e degli elementi digitali, e tenendo conto delle circostanze e della natura del contratto, se il contratto di vendita prevede un unico atto di fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale; oppure b) indicato all'articolo 133, commi 2 o 3, a seconda dei casi, se il contratto di vendita prevede una fornitura continuativa del contenuto digitale o del servizio digitale nell'arco di un periodo di tempo. 3. Se il consumatore non installa entro un congruo termine gli aggiornamenti forniti a norma del comma 2, il venditore non è responsabile per qualsiasi difetto di conformità derivante unicamente dalla mancanza dell'aggiornamento pertinente, a condizione che: a) il venditore abbia informato il consumatore della disponibilità dell'aggiornamento e delle conseguenze della mancata installazione dello stesso da parte del consumatore; e b) la mancata, o errata, installazione dell'aggiornamento da parte del consumatore non sia dovuta a carenze delle istruzioni di installazione fornite dal venditore al consumatore. 4. Non vi è difetto di conformità ai sensi dell'articolo 129, comma 3, e dell'articolo 130, comma 2, se, al momento della conclusione del contratto di vendita, il consumatore era stato specificamente informato del fatto che una caratteristica particolare del bene si discostava dai requisiti oggettivi di conformità previsti da tali norme e il consumatore ha espressamente e separatamente accettato tale scostamento al momento della conclusione del contratto di vendita. [1] Articolo modificato dall'articolo 15 del D.Lgs. 23 ottobre 2007 n.221 e successivamente sostituito dall'articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 4 novembre 2021, n. 170. Le presenti modifiche acquistano efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2022 e si applicano ai contratti conclusi successivamente a tale data. InquadramentoUno tra i settori più importanti della disciplina del diritto dei consumatori è rappresentato dalla regolamentazione della vendita dei beni di consumo, la cui implementazione ha preso avvio con l'adozione della direttiva 1999/44/CE, concernente taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, che ha tratto ispirazione anche dalla Convenzione di Vienna dell'11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili. La direttiva del 1999 trovò attuazione nell'ordinamento italiano tramite il d.lgs. n. 24/2002, con il quale furono introdotti nel codice civile gli articoli 1519-bis — 1519-nonies, la cui disciplina è stata infine trasposta all'interno del codice del consumo, d.lgs. n. 206/2005, agli articoli 128-135. Tale quadro normativo, poi, è stato integrato dalle modifiche apportate in attuazione della direttiva 2011/83/UE agli articoli 61 e 63 cod. cons., in tema di consegna e passaggio del rischio, che in forza dell'art. 60 cod. cons. trovano applicazione ai “contratti di vendita”, inclusi quelli di vendita di beni di consumo di cui agli articoli 128 ss. cod. cons. Attraverso la direttiva 1999/44/CE, il legislatore europeo si è posto l'obiettivo di innalzare il livello di tutela del consumatore acquirente di beni mobili, con una disciplina che si colloca nel solco della Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale. A differenza di quest'ultima però, che non riguarda l'acquisto di merci per uso personale, familiare o domestico, la direttiva del 1999 si riferisce esclusivamente alla vendita di beni di consumo, cioè a qualunque acquisto o richiesta di fornitura effettuati da un consumatore che agisce per scopi privati, il quale si interfaccia con un professionista per acquistare o richiedere beni mobili, nuovi o usati, preconfezionati o da produrre. In fase di attuazione, dapprima con il recepimento all'interno del codice civile e poi nel codice del consumo, il legislatore italiano si è limitato ad una ripetizione pedissequa della normativa europea, suscitando molte critiche e generando delle difficoltà interpretative che sono state raramente risolte per via giurisprudenziale (Dona, 137 ss.). Si è peraltro osservato che la direttiva 1999/44/CE presenta un'inversione di tendenza rispetto al diritto comune della vendita e pure rispetto alla vendita internazionale di cose mobili, in quanto con l'intervento del legislatore comunitario si è introdotto un sistema gerarchico dei rimedi che privilegia quelli di tipo ripristinatorio, collocando in una posizione sotto-ordinata la risoluzione e la riduzione del prezzo. Diversamente, nella disciplina della vendita internazionale, i rimedi tradizionali della risoluzione e della riduzione del prezzo mantengono un ruolo centrale (Di Majo, 93 ss.). Come precisato, la direttiva 1999/44/CE, adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione europea il 25 maggio 1999, riguardante «taluni aspetti dei contratti di vendita e delle garanzie concernenti beni di consumo», è stata attuata dal legislatore italiano con l'introduzione dell'apposito paragrafo 1-bis all'interno della Sezione II, Capo I, Titolo III, Libro IV del codice civile, con il d.lgs. n. 24/2002; tali norme sono poi confluite integralmente, con l'aggiunta di un nuovo comma al vecchio art. 1519-nonies c.c., nella parte IV, Titolo III, Capo I (e unico) del codice del consumo, artt. 128-135. Sul piano contenutistico, il legislatore italiano si è sostanzialmente limitato a riprodurre le disposizioni della direttiva sul piano interno, senza compiere uno sforzo concreto per porre rimedio ai molti profili critici della direttiva (Maniaci, Art. 128 – Ambito di applicazione e definizioni, 773 ss.). In tal senso si è sottolineato come l'operazione di trasposizione, ‘taglia e incolla', sia stata realizzata con un automatismo tale da non aver neppure corretto alcuni errori materiali, come quello presente nell'art. 1519-quater, comma 7, lett. b) c.c., che si riferiva a un comma sesto invece che quinto (De Nova, 2006, 391 ss.). L'intervento comunitario in materia di vendita di beni di consumo muove dalla constatazione, da parte del legislatore europeo, delle molteplici differenze esistenti nelle diverse legislazioni nazionali in tema di vendita. L'innovazione normativa si è concentrata sui profili di responsabilità della parte venditrice di beni di consumo in caso di non conformità di questi ultimi al contratto, prevedendo in queste ipotesi una vera e propria gerarchia di rimedi per soddisfare al meglio gli interessi dei consumatori a livello europeo. Si è introdotta così una garanzia di conformità del bene, di durata biennale, con un trattamento uniforme per tutte le ipotesi di anomalie materiali della cosa e con un insieme di rimedi e tutele articolato ma omogeneo. A ben vedere, si tratta di una disciplina di tipo settoriale, poiché non concerne tutti i casi di vendita ma soltanto quelli tra professionisti e consumatori relativi a beni qualificabili come «di consumo» (Capilli, 1068 ss.). La disciplina della vendita dei beni di consumo, come chiarito dalla stessa intitolazione della direttiva 1999/44/CE, concerne soltanto taluni aspetti della vendita, intervenendo in particolare sulla conformità del bene di consumo venduto e sulla garanzia commerciale. La direttiva 1999/44/CE è una misura di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, adottata dalla CE a norma dell'art. 95 del Trattato C.E., per assicurare l'instaurazione del “mercato interno”, al fine di tutelare i consumatori e promuovere i loro interessi. Si tratta dunque di un provvedimento che mira alla realizzazione del mercato interno attraverso l'eliminazione degli ostacoli presenti per la libera circolazione delle merci e che, al contempo, vuole assicurare la protezione dei consumatori tutelandone gli interessi economici e promuovendo il diritto all'informazione. Con tale provvedimento il legislatore europeo non si proponeva un'armonizzazione completa delle normative nazionali in materia, come del resto risulta dalla stessa intitolazione della direttiva che concerne soltanto ‘taluni aspetti' della vendita dei beni di consumo e delle garanzie ad essi relative: in particolare, dunque, dei contratti di consumo si disciplinano fondamentalmente gli aspetti inerenti la conformità del bene al contratto e le garanzie convenzionali offerte dai produttori e dai rivenditori ai consumatori. Si tratta di una direttiva di c.d. armonizzazione minimale, che ha lasciato liberi gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni volte ad assicurare ai consumatori dei livelli di tutela più elevati (De Cristofaro, 1 ss.). A seguito degli interventi normativi menzionati, nel nostro ordinamento si è creato un triplice statuto normativo della vendita, tra la disciplina generale, la vendita dei beni di consumo e la vendita internazionale, con una frammentazione che è stata messa in discussione da molti interpreti anche perché, quantomeno, al momento di attuare la direttiva del 1999, che si caratterizzava per essere un provvedimento di armonizzazione minimale, il legislatore italiano avrebbe potuto cercare di riorganizzare le norme sul tema con un miglior raccordo tra le stesse. Tuttavia ciò non è avvenuto, né con il d.lgs. n. 24/2002 di attuazione della direttiva, né in occasione dell'adozione del codice del consumo con il d.lgs. n. 206/2005. Come è stato osservato, al regime generale del contratto di compravendita si sono venuti ad affiancare e contrapporre due regimi speciali, quello delineato secondo le prescrizioni della direttiva sulla vendita dei beni di consumo, applicabile nei casi in cui un professionista abbia alienato a un consumatore un bene mobile, e quello della vendita internazionale di cui alla Convenzione di Vienna del 1980, nel caso di vendite internazionali di beni mobili concluse tra commercianti. Si dubita dell'opportunità di una tale stratificazione normativa, quantomeno con riferimento alla vendita di beni mobili, poiché risulta poco razionale che il professionista debba essere gravato dall'obbligo di consegnare un bene conforme al contratto quando vende a un consumatore o ad un imprenditore con sede in un altro Stato, mentre sarà gravato dal diverso obbligo di garantire il compratore contro i vizi della cosa se il bene viene trasferito a un imprenditore con sede Italia (De Cristofaro, 1 ss.). Come pure è stato messo in luce, l'obiettivo dell'intervento europeo sulla vendita dei beni di consumo, come avvenuto in altri ambiti del diritto dei consumatori, era quello di implementare un complesso di regole quanto più possibile uniformi nei diversi paesi membri, per tutta una serie di tipi di negozi di cui sono parti i professionisti e i consumatori. Nel fare ciò la direttiva ha comunque lasciato impregiudicato l'esercizio di altri diritti già riconosciuti in capo ai soggetti coinvolti e ha poi previsto l'inderogabilità in peius delle sue norme, creando in questo modo un'intelaiatura più articolata nella quale la tutela finale è il frutto della combinazione di disposizioni che intervengono su più livelli, quelle specifiche della direttiva e quelle del tipo contrattuale adottato dalle parti. La direttiva, ispirata alla Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili, ha adottato una serie di soluzioni nuove rispetto a quelle tradizionali del sistema italiano, mettendo gli interpreti di fronte ad un non facile compito ricostruttivo. Il venditore professionista italiano, così, quando vende a un soggetto non consumatore è tenuto a garantire che la cosa sia immune da vizi, mentre quando si ricade nell'ambito applicativo della disciplina in commento dovrà consegnare un bene conforme al contratto (Cherti, 163 ss.). Il modello di tutela prescelto dal legislatore europeo, pedissequamente recepito sul piano interno, si compone di un nucleo minimo di tutela, incentrato sui criteri di conformità dei beni al contratto e sui rimedi esperibili, cui si aggiunge un nucleo più ampio di tutela che interviene sul piano eventuale della garanzia convenzionale. Volendo sottolineare i punti centrali della disciplina sulla vendita dei beni di consumo si può osservare che essa, in particolare, concerne il trasferimento di beni mobili, abbraccia diversi tipi contrattuali (nonostante la sua intitolazione), raggruppa diverse tipologie di vizi e di difetti della cosa venduta, conferisce un ruolo centrale al momento della consegna del bene, appronta un sistema di rimedi finalizzato ad una tutela del consumatore di tipo satisfattivo e pone regole di chiarezza, trasparenza e completezza nella redazione delle condizioni delle eventuali garanzie (Genovese, 1250 ss.). L'attuazione della direttiva 1999/44/CE e la successiva adozione del codice del consumoCome è stato osservato in dottrina, fin dai primi programmi della Comunità economica europea furono annunciate delle iniziative legislative in materia di garanzia e assistenza post vendita, al fine di introdurre una politica finalizzata alla protezione e informazione dei consumatori; così, nel piano d'azione triennale per la protezione del consumatore pubblicato nel 1990, la Commissione sottolineò la necessità di una disciplina delle garanzie nella vendita per favorire il commercio transfrontaliero e un migliore funzionamento del mercato interno. Coerentemente, nella proposta modificata di direttiva sulle clausole abusive, si prospettò un primo intervento di armonizzazione per garantire ai consumatori il diritto di fruire di beni (e servizi) conformi all'oggetto del contratto di vendita. Il Consiglio però, data la particolare rilevanza della materia, invitò la Commissione ad una valutazione più meditata e a presentare una proposta di direttiva per l'armonizzazione normativa del settore. La Commissione, quindi, nel Libro Verde del 1993 sulle garanzie dei beni di consumo e dei servizi post vendita, espose un'analisi dettagliata dei regimi normativi presenti negli Stati membri in materia nonché delle problematiche presenti e propose delle possibili soluzioni per l'incentivazione del commercio transfrontaliero e il miglioramento della tutela dei consumatori (Genovese, 1245 ss.). Con specifico riferimento alla direttiva 1999/44/CE, si è evidenziato come questa abbia avuto un forte impatto sul sistema delle garanzie e dei rimedi nelle vendite ai consumatori, le cui finalità erano appunto quelle di offrire una maggiore tutela ai consumatori negli scambi transfrontalieri per ottenere un incremento di questi ultimi, per un maggiore sviluppo del mercato interno. Si è poi osservato come dall'adozione della direttiva siano stati compiuti molti passi verso la creazione di un diritto europeo uniforme. Per quanto concerne gli esiti dell'applicazione della normativa sulla vendita dei beni di consumo, alcuni autori li hanno valutati positivamente, in particolare con riferimento ai livelli di protezione del consumatore (Capilli, 1068 ss.). Come anticipato, la direttiva 1999/44/CE ha trovato attuazione nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 24/2002 il quale, nonostante si trattasse di un provvedimento di armonizzazione c.d. minimale, si è limitato ad una fedele riproduzione nell'ambito domestico, sollevando le critiche di molti interpreti che auspicavano quantomeno l'implementazione di un'intelaiatura normativa di coordinamento delle regole in materia di vendita di beni mobili; tale disciplina è stata poi trasposta senza particolari modifiche all'interno del codice del consumo (v. supra). Il quadro normativo è stato ulteriormente arricchito in forza del d.lgs. n. 21/2014, di attuazione direttiva 2011/83/UE, con cui sono stati inseriti nel codice del consumo gli attuali articoli 61 e 63 in punto di consegna e di passaggio del rischio (per un esame della relativa disciplina si veda infra). L'adozione del codice del consumo ha rappresentato un momento di svolta significativo per la tutela dei consumatori, in particolare per la rilevanza che il nuovo “ordinamento” ha assunto sul piano della politica del diritto. Nella complessiva opera di razionalizzazione del sistema ha assunto un rilievo di primo piano il capo I del titolo III, dedicato appunto alla vendita dei beni di consumo, che aveva già trovato attuazione con il d.lgs. n. 24/2002. Nel sistema di regole creato in attuazione della disciplina europea, si è quindi introdotto il concetto di «conformità del bene al contratto», quale nuovo parametro per la tutela dell'acquirente consumatore, che si incentra così sulla necessaria conformità al contratto del bene venduto nonché sulla previsione di appositi rimedi esperibili a fronte del difetto (Lombardi, 422 ss.). L'ambito applicativo della disciplina sulla vendita dei beni di consumoIl capo I, titolo III, parte IV del codice del consumo, dedicato alla vendita dei beni di consumo, si apre con l'art. 128 che individua l'ambito applicativo della disciplina ivi contenuta, che riguarda taluni aspetti dei contratti di vendita e delle garanzie concernenti i beni di consumo. In questo articolo sono poi inserite tutta una serie di importanti perimetrazioni del raggio d'applicazione così preliminarmente indicato. Innanzitutto, sul piano oggettivo, si precisa che sono equiparati ai contrati di vendita i contratti di permuta, di somministrazione, di appalto, d'opera e ogni altro contratto che sia comunque finalizzato alla fornitura di beni di consumo (per quanto concerne i beni di consumo si rinvia infra). Circa l'ampiezza del perimetro applicativo della disciplina in esame, in un recente arresto la Corte di Giustizia, 7 settembre 2017, causa C-247/16, Heike c. Falk, ha avuto modo di precisare che la direttiva 1999/44 trova applicazione non solo per i contratti di vendita in senso stretto, ma anche per talune categorie di contratti che comportano una prestazione di servizi le quali, secondo il diritto nazionale applicabile, possono essere qualificate come contratti di prestazione di servizi, contratti d'opera, contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o da produrre. Tali fattispecie possono essere qualificate come ‘contratti di vendita', ai sensi della direttiva, se la prestazione di servizi è soltanto accessoria alla vendita. In dottrina si è evidenziato come nella norma in commento emergano i tratti caratteristici di una particolare tecnica legislativa, che legifera per gruppi di contratti anziché per tipo contrattuale. Così, alla vendita viene equiparata la somministrazione e ciò tiene conto del fatto che in altri sistemi giuridici quest'ultimo contratto non costituisce una tipologia autonoma rispetto alla vendita; poi l'estensione riguarda anche la permuta, rispetto alla quale tuttavia non tutte le disposizioni in esame risultano applicabili, come quella per la riduzione del prezzo; ancora, l'appalto, il contatto d'opera e tutti gli altri contratti finalizzati alla fornitura di beni di consumo, siano essi da fabbricare o da produrre. Sorgono dubbi in merito alla possibilità di includere anche il contratto di leasing poiché in ogni caso risulta difficile equiparare il lessor al venditore (De Nova, 2002, 16 ss.). Altri autori, peraltro, hanno osservato che benché debba ormai dirsi raggiunta l'autonomia tipologica del contratto di leasing finanziario, almeno dal punto di vista qui prescelto potrebbe essere ravvisata una equiparazione alla vendita con riserva di proprietà, considerato che le caratteristiche di tale negozio portano a vedere in esso uno strumento idoneo a consentire l'acquisto del bene piuttosto che il suo semplice godimento (per ulteriori approfondimenti sul punto si veda Mannino, 31 ss.). Si è osservato che la scelta di introdurre una disciplina transtipica, comune ad un gruppo di contratti, ha trascurato di sondare i limiti di compatibilità di una siffatta opzione, il più evidente dei quali è rappresentato dall'inapplicabilità della riduzione del prezzo alla permuta (Genovese, 1252 ss.). In merito al perimetro del campo applicativo della disciplina in esame, ci si è chiesti se questo possa includere, nelle ipotesi di contratti finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o da produrre, i casi in cui la materia prima sia fornita dal consumatore: la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili, esclude espressamente dal proprio campo d'applicazione i casi in cui vi sia una prevalenza della manodopera o della fornitura di servizi rispetto alla consegna del bene; poiché nella direttiva non è stata inserita una simile limitazione, si dovrebbe propendere per ritenere estensibile a queste ipotesi la disciplina sulla vendita dei beni di consumo (Dona, 138 ss.). In termini analoghi, si è osservato che possono ricomprendersi nella nozione di «vendita», di cui alla normativa in esame, tutti i contratti a titolo oneroso mediante i quali un professionista si impegna a procurare a un consumatore la disponibilità materiale e giuridica di un «bene di consumo», essendo irrilevante che nel contratto prevalga la componente del dare ovvero quella del facere, rientrandovi anche i casi in cui i materiali per la produzione del bene siano stati forniti dal consumatore; sono pertanto «vendite» sia i contratti ad efficacia reale che quelli ad efficacia meramente obbligatoria (De Cristofaro, 2 ss.). Un altro nodo problematico riguarda il caso degli omaggi collegati all'acquisto degli altri beni. Si è ritenuto che il riconoscimento della garanzia di cui alla vendita di beni consumo dipenda dalla singola fattispecie presa in considerazione: così, se l'omaggio viene acquistato in un momento successivo alla vendita, come a seguito della presentazione di punti, sembrerebbe piuttosto configurarsi un caso di promessa al pubblico; se l'acquisizione è contestuale e collegata alla vendita, invece, dovrebbe ammettersi un'assimilazione normativa (Dona, 138 ss.). Peraltro, altri autori hanno ritenuto che nelle c.d. «vendite con incentivo» o «vendite accompagnate dalla promessa di omaggi e premi», l'oggetto omaggiato dovrebbe essere coperto dalla garanzia pure in caso di acquisto successivo (Capilli, 1080). Per quanto concerne i presupposti soggettivi dell'applicazione della presente normativa, è necessario che il contratto sia concluso tra un consumatore e un venditore. Come avvenuto per altre discipline trasposte all'interno del codice del consumo, per le definizioni generali si deve avere riguardo all'art. 3 cod. cons., integrate poi da quelle speciali di cui all'art. 128, comma 2 cod. cons. Dunque per la definizione di ‘consumatore' si rimanda a quella generale, mentre per quanto attiene alla posizione del contraente forte, questo viene qui individuato nel “venditore”, cioè qualunque persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nell'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, conclude i contratti di cui al primo comma dell'art. 128. A tale proposito, si è osservato che il valore della definizione di venditore è di tipo meramente descrittivo, nel senso che si limita a chiarire che tale figura sussiste non soltanto in caso di conclusione di un contratto di vendita ma pure gli altri contratti previsti (Romeo, 819 ss.). Peraltro, si è affermato che, per evitare possibili ambiguità applicative, sarebbe stato più appropriato designare la controparte del consumatore con il termine professionista, essendo la disciplina in discorso applicabile anche a contratti diversi dalla compravendita (De Cristofaro, 2 ss.). Come è stato affermato dalla Corte di Giustizia nel noto precedente Ferenschild c. JPC Motor, 13 luglio 2017, causa C-133/16, il giudice nazionale adito relativamente ad una controversia concernente un contratto che può rientrare nel campo applicativo della direttiva 1999/44/CE, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari o possa disporne mediante semplice richiesta di chiarimenti, è tenuto a verificare se l'acquirente possa essere qualificato come consumatore nell'accezione della direttiva medesima, anche se quest'ultimo non ha espressamente rivendicato tale qualità. Corte di Giustizia, 9 novembre 2016, causa C-149/15, Wathelet c. Garage Bietheres, ha precisato che ai sensi dell'art. 1, par. 2, lett. c), della direttiva 1999/44/CE, la nozione di “venditore” deve essere interpretata nel senso che si riferisce anche ad un professionista che agisce in veste di intermediario per conto di un privato e che non abbia adeguatamente informato il consumatore acquirente del fatto che il proprietario del bene venduto è un privato, questione che deve essere accertata dal giudice del rinvio sulla base di tutte le circostanze del caso di specie. Ciò, a prescindere dal fatto che l'intermediario sia stato remunerato o meno per la sua attività. Segue. La nozione di bene di consumoTrattando sempre dell'ambito oggettivo di applicazione della normativa in esame, si pone il problema di individuare i beni qualificabili come “di consumo”. Ai sensi dell'art. 128 cod. cons., si tratta di qualsiasi bene mobile, anche da assemblare, da fabbricare e da produrre; si ricomprendono anche i beni usati ma soltanto per i difetti non derivanti dall'uso normale della cosa e tenuto conto del tempo del pregresso utilizzo; sono peraltro esclusi i beni oggetto di vendita forzata o comunque venduti secondo altre modalità dalle autorità giudiziarie, anche mediante delega ai notai, l'acqua e il gas quando non commerciati in quantità limitata o determinata, nonché l'energia elettrica. Ai sensi dell'art. 128, comma 1, lett. a) cod. cons., è bene di consumo qualsiasi bene mobile, anche da assemblare, ad esclusione dei beni oggetto di vendita forzata e dell'acqua e del gas (ove non confezionati) e dell'energia elettrica. Dunque, come è stato osservato in dottrina, la qualificazione di un bene come di consumo non deriva da sue qualità intrinseche, effettivamente oggettive, quanto piuttosto dalla destinazione al mercato dei consumatori, quindi da una connotazione soggettiva. Per questa ragione si sono esclusi dal novero dei beni di consumo l'energia elettrica, l'acqua e il gas, quando sono acquistati nei relativi mercati regolamentati, poiché in tali casi l'esigenza di protezione viene assolta dalla relativa disciplina di settore. Si è evidenziato poi che l'acqua è il gas sono beni di consumo quando confezionati in volumi delimitati o in quantità determinate, come per le bottiglie d'acqua e le bombole del gas, poiché in tali circostanze non si rientra nei relativi mercati regolamentati. L'esclusione generale dell'energia elettrica, invece, deriva dal fatto che nei casi in cui questa sia contenuta in altri oggetti, come nelle batterie, è quest'ultimo il bene che si considera trasferito e non l'energia come da esso separata, quindi l'applicabilità della disciplina sulla vendita dei beni di consumo è implicita (Dona, 141 ss.). Come è stato sottolineato da autorevole dottrina, se si guarda alla definizione di bene di consumo, il tratto distintivo oggettivo si integra con quello di tipo soggettivo: la vendita dei beni di consumo è tale in quanto il contratto è concluso da un consumatore con un professionista. Sul piano oggettivo, piuttosto, alla luce della nozione di conformità contenuta nella direttiva europea e della previsione del rimedio sostitutorio, si può ritenere che si debba trattare di beni prodotti in serie (De Nova, 16 ss.). Peraltro, si è osservato che se è vero che il concetto di conformità presuppone degli standards di riferimento, tipici dei prodotti realizzati in serie, sembra tuttavia irragionevole escludere di per sé i prodotti artigianali o quelli con lavorazioni individuali, salvo il caso in cui il bene costituisca un unicum non raffrontabile con beni dello stesso tipo (Dona, 142 ss.). In senso difforme si è osservato che, anche nel caso di un bene costituente un unicum, potrebbero trovare applicazione le presunzioni di conformità di cui all'art. 129 cod. cons., considerato che le condizioni richieste dalla normativa non devono necessariamente coesistere, dovendo essere invece presenti le circostanze di volta in volta pertinenti allo specifico contratto posto in essere. D'altra parte, un bene infungibile ben può essere riparato mentre il rimedio della sostituzione può incontrare il limite della sua impossibilità o eccessiva onerosità ai sensi dell'art. 130 cod. cons. (Capilli, 1084 ss.). Per quanto attiene alla particolare ipotesi dei beni usati, anch'essi vengono presi in considerazione dalla disciplina sulla vendita dei beni di consumo ma, come ha cura di specificare il comma terzo dell'art. 128 cod. cons., soltanto per i difetti che non siano derivati dall'uso normale del bene e comunque tenuto conto del loro pregresso utilizzo. La previsione dell'applicabilità della garanzia anche ai beni usati è stata definita come una delle novità più appariscenti introdotte dalla disciplina europea. Tuttavia, sono sorti dubbi interpretativi su cosa debba intendersi per «difetti non derivanti dall'uso normale della cosa». Innanzitutto, se questa costituisse una mera applicazione della regola generale di cui all'art. 129, comma 3 cod. cons., essa risulterebbe priva di utilità. Ma poi, una garanzia dovuta per tutti i casi di vizi derivanti da un uso anomalo della cosa finisce col riconoscere in capo al venditore un generale dovere di “messa a punto” dei beni usati, quantomeno in tutti i casi in cui vi sia una diminuita funzionalità del bene per l'utilizzo particolare che ne è stato fatto, se anormale (Dona, 143 ss.). Per quanto concerne i beni immateriali, si è osservato che l'art. 1, comma 2, lett. b), della direttiva 199/44/CE, qualifica come beni di consumo «qualsiasi bene mobile materiale». Peraltro, da un lato, trattandosi di armonizzazione c.d. minimale, i legislatori degli Stati membri ben potevano innalzare i livelli di tutela introdotti in materia; dall'altro lato, per quanto riguarda la normativa italiana, l'art. 128, comma 2, lett. a) cod. cons., non circoscrive l'applicabilità della disciplina ai soli beni materiali (Dona, 142 ss.). Con riferimento alla garanzia dovuta per la vendita di beni di consumo usati, la Corte di Cassazione ha precisato che il riferimento al bene come usato significa che la promessa del venditore è legata allo stato della cosa conseguente allo specifico utilizzo che ne è stato fatto e che le qualità di quest'ultima si intendono ridotte in ragione dell'uso; l'usura cui deve farsi riferimento per escludere la garanzia è quella concreta derivante dall'effettivo utilizzo che è stato fatto del bene, non quella che presenterebbe in astratto una cosa analoga usata secondo la comune diligenza (Cass. II, n. 5251/2004). La necessaria conformità del bene al contrattoL'art. 129 cod. cons., innanzitutto, sancisce l'obbligo per il venditore di consegnare al consumatore beni che siano conformi al contratto di vendita. Una delle questioni più dibattute in dottrina circa la conformità dei beni di consumo, attiene al suo inquadramento dogmatico, se cioè con essa sia stato abbandonato il sistema della ‘garanzia', intesa come vincolo la cui violazione è fonte di una responsabilità speciale per imperfetta attuazione del risultato traslativo, a favore di una responsabilità ordinaria del venditore per inadempimento; e poi, se così fosse, si è posto il problema di individuare l'obbligazione inadempiuta, come «obbligazione di conformità del bene al contratto» ovvero «obbligazione di consegnare beni conformi al contratto», con le relative conseguenze in punto di inquadramento dei rimedi appositamente previsti, di riparazione e di sostituzione. Problemi analoghi si sono posti rispetto alla Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili: qui, la dottrina maggioritaria si è orientata verso il superamento dell'istituto della garanzia e per la configurazione di un'ipotesi di ordinaria responsabilità per inadempimento di un'obbligazione; tale impostazione risulta condivisibile anche rispetto alla conformità nella vendita dei beni di consumo, ravvisando nell'obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto un'autonoma obbligazione (De Franceschi, 212 ss.). Come pure è stato osservato, la dottrina ha assunto posizioni diverse circa l'inquadramento dogmatico di questa situazione giuridica, tra chi ne ha proposto una lettura come di una vera e propria obbligazione scaturente dal contratto di vendita, chi l'ha comunque ricondotta alla nozione di garanzia, ecc. Peraltro, nonostante le indubbie difficoltà interpretative esistenti, in considerazione della lettera della norma, della ratio ad essa sottesa e dell'interpretazione tradizionalmente proposta dell'art. 35 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili, la soluzione preferibile è quella che ravvisa nel caso di specie un'obbligazione vera e propria, distinta ed autonoma sia rispetto all'obbligazione di trasferire la proprietà del bene che rispetto all'obbligazione di consegna in senso stretto: dunque, un'obbligazione di risultato, il cui adempimento impone che il bene ricevuto dal consumatore sia integralmente rispondente alla volontà negoziale delle parti, espressa o presunta (De Cristofaro, 5 ss.). Per quanto concerne la nozione di conformità, il Giudice di Pace di Ascoli Piceno, 14 aprile 2009, in Dir. e lav. Marche, 2009, 1-2, 129, in merito alla compravendita di un'autovettura ha rilevato che la l'applicazione della garanzia legale della vendita dei beni di consumo usati non comporta che il veicolo debba essere perfetto, ma semplicemente che esso risulti conforme al contratto, cioè che l'acquirente sia stato puntualmente edotto su ciò che stava acquistando. Ai sensi del secondo comma dell'art. 129 cod. cons., un bene si presume conforme al contratto quando, se pertinenti, coesistono le seguenti circostanze: il bene è idoneo all'uso cui normalmente sono deputati beni dello stesso tipo; il bene corrisponde alla descrizione fatta dal venditore e possiede le qualità del modello o del campione che sono stati presentati al consumatore; il bene presenta le qualità e le prestazioni abituali che il consumatore può attendersi da un bene dello stesso tipo, considerata la natura di questo e le dichiarazioni pubbliche fatte dal venditore (o dal produttore, dal suo agente o rappresentante) sulle specifiche del bene; inoltre, qualora il consumatore abbia comunicato al venditore di voler utilizzare il bene per un uso particolare e quest'ultimo abbia accettato una tale circostanza, anche per fatti concludenti, per essere conforme il bene dovrà essere idoneo anche a tale utilizzo. Come è stato evidenziato, le presunzioni contenute nell'art. 129, comma 2 cod. cons., attengono all'individuazione dei contenuti dell'obbligazione gravante sul professionista e non alla distribuzione degli oneri probatori tra le parti. Tali regole trovano applicazione soltanto nel caso in cui le parti non abbiano definito in maniera esauriente le qualità e le caratteristiche del bene (De Franceschi, 214 ss.). In tal senso si è osservato che le qualità e le caratteristiche che il bene di consumo deve avere, sono innanzitutto quelle individuate nel regolamento negoziale adottato dalle parti; in mancanza di pattuizioni in proposito, ovvero qualora queste non siano dimostrabili, sovvengono allora le regole suppletive di cui al secondo comma dell'art. 129 cod. cons. (Maniaci, Art. 129 – Conformità al contratto, 781 ss). Le caratteristiche individuate alla lett. a) riguardano l'attitudine del bene ad essere sfruttato rispetto ai normali usi corrispondenti ai beni appartenenti al medesimo tipo; per quanto attiene alle due presunzioni indicate alla lett. b), si ritiene che queste siano alternative tra loro; all'interno della lett. c) il legislatore ha voluto ricomprendere tutte le qualità del bene che il consumatore può ragionevolmente attendersi sul piano del suo utilizzo; alla lett. d) infine, si precisa che l'accettazione da parte del venditore della intenzione del consumatore di destinare il bene ad un particolare utilizzo, lo vincola alla conformità in tal senso (Camilletti, 827 ss.). Tra i vizi dunque possibili, si è soliti distinguere tra quelli quantitativi, comunque riconducibili alla mancanza di conformità secondo la disciplina in esame, e quelli qualitativi. Un problema interpretativo si è invece posto nel caso di aliud pro alio, quando il bene consegnato è del tutto diverso rispetto a quello previsto in contratto: certa dottrina ha ritenuto di ricondurre anche tale ipotesi al difetto di conformità, mentre secondo altri autori si tratterebbe più correttamente di un caso di mancata consegna, poiché qui si impedisce definitivamente l'attuazione del rapporto contrattuale. A favore della prima ricostruzione, si è osservato che benché in tali casi non sia possibile ricorrere al rimedio della riparazione, certamente risulterebbe percorribile la via della sostituzione, evitando in questo modo che il consumatore possa sovvertire la gerarchia dei rimedi approntati dall'art. 130 cod. cons. (De Franceschi, 218 ss.). A questo proposito si è evidenziato che la formulazione normativa risulta sufficientemente ampia da ricomprendere anche l'ipotesi di aliud pro alio e che in tal modo si ottiene una semplificazione del sistema e si evita di incorrere nelle sottigliezze linguistiche che hanno portato certa giurisprudenza a distinguere tra vizio, difformità e diversità (Girolami, 826 ss.). In tema di aliud pro alio, recentemente la Cass. II, n. 10045/2018, ha avuto modo di precisare che tale ipotesi ricorre non soltanto quando la cosa consegnata risulta del tutto difforme da quella contrattata, appartenendo ad un genere del tutto diverso, ma anche quando essa è priva delle caratteristiche funzionali necessarie al soddisfacimento degli interessi dell'acquirente, ovvero presenti dei difetti che la rendano inservibile; in questo ultimo caso, in particolare, è necessario che la specifica utilizzazione del bene sia stata espressamente prevista da entrambe le parti nella negoziazione. Si è posto il problema della riconducibilità al difetto di conformità del caso in cui il bene presenti dei vizi giuridici, cioè quando questo manchi dei requisiti legalmente necessari, ad esempio ai fini fiscali, di sicurezza, in materia di tutela dell'ambiente, ecc., ovvero quando esso sia gravato da oneri o vincoli non previsti in contratto. Secondo la dottrina maggioritaria, dovrebbero essere ricondotte alla mancanza di conformità le mere ‘irregolarità giuridiche', presenti quando il bene difetti delle qualità o delle caratteristiche che, in forza di norme pubblicistiche, devono essere presenti in beni dello stesso tipo; invece, per tutti gli altri vizi giuridici, dovrebbe trovare applicazione il regime delineato dalla disciplina codicistica della compravendita (De Franceschi, 218 ss.). Peraltro, le ragioni per le quali la maggioranza degli interpreti è portata ad escludere un difetto di conformità in caso di vizi giuridici del bene, sono non tanto di ordine sistematico quanto piuttosto di opportunità, date dal fatto che il regime dei vizi giuridici nella disciplina generale della compravendita risulta sotto certi aspetti di maggior favore per l'acquirente; rientrano invece nella nozione di difetto di conformità le mere ‘irregolarità giuridiche' (G. De Cristofaro, 7 ss). I commi terzo e quarto dell'art. 129 cod. cons., peraltro, intervengono a limitare l'estensione della conformità dovuta. Così, il difetto di conformità non sussiste nel caso in cui, al momento della conclusione del contratto, questo era conosciuto dal consumatore ovvero avrebbe dovuto conoscerlo con l'ordinaria diligenza oppure ancora se il difetto deriva da istruzioni o materiali forniti dal consumatore medesimo (art. 129, comma 3 cod. cons.). Poi, con specifico riferimento alle circostanze sulle ‘dichiarazioni pubbliche' di cui al comma 2, lett. c), il venditore non è vincolato alle dichiarazioni se dimostra che, anche alternativamente: non ne era a conoscenza né poteva esserlo con l'ordinaria diligenza; la dichiarazione è stata corretta entro la conclusione del contratto in modo da essere conoscibile al consumatore; la dichiarazione non ha influenzato la decisione di acquistare il bene di consumo (art. 129, comma 4 cod. cons.). Il comma quinto dell'art. 129 cod. cons., infine, si occupa specificamente del difetto di installazione, equiparandolo al difetto di conformità se essa era compresa nel contratto di vendita ed è stata realizzata dal venditore o sotto la sua responsabilità, ovvero se il prodotto è concepito per essere installato dal consumatore e l'errata installazione è dipesa da una carenza nelle relative istruzioni. Il difetto di installazione, dunque, può sussistere sia nel caso in cui si rendano necessarie una o più operazioni per consentire ad un bene, di per sé già idoneo all'impiego, di entrare in funzione nel contesto spaziale ove questo è destinato ad essere effettivamente utilizzato, sia quando la cosa debba essere assemblata attraverso la combinazione di una pluralità di elementi. In tali casi, il professionista può farsi appositamente carico del compimento di tali operazioni, ovvero può rimetterne l'esecuzione al consumatore limitandosi a fornirgli le istruzioni necessarie a tal fine: nella prima ipotesi sul venditore grava un'obbligazione di facere accessoria a quella principale, ma pure nella seconda il venditore è vincolato da un'obbligazione accessoria, quella di procurare al consumatore delle istruzioni adeguate. In caso di inadempimento di tali obbligazioni, evidentemente, essendo il difetto insorto successivamente alla consegna, a rigore il venditore non potrebbe essere ritenuto inadempiente rispetto a quanto previsto dall'art. 129, comma 1 cod. cons.; così interviene il comma quinto dell'art. 129 cod. cons., che equipara queste ipotesi a quella del difetto di conformità del bene, legittimando il consumatore all'esperimento dei rimedi previsti in materia (De Cristofaro, 7 ss.). La Corte di Giustizia, 16 giugno 2011, cause riunite C-65/09 e C-87/09, Weber c. Wittmer, ha affermato che l'art. 3, nn. 2 e 3 della direttiva 1999/44/CE deve essere interpretato nel senso che, quando un bene di consumo sia reso conforme mediante sostituzione, qualora esso sia stato installato dal consumatore in buona fede prima della comparsa del difetto, il venditore è tenuto egli stesso alla rimozione del bene difforme dal luogo in cui è stato installato e ad installarvi il bene sostitutivo, ovvero a sostenere le spese necessarie per tale rimozione e per l'installazione del bene sostitutivo. Ciò, a prescindere dal fatto che il venditore, in forza del contratto di vendita, fosse tenuto o meno ad installare il bene di consumo inizialmente acquistato. La tutela del consumatore nel caso di difformità del beneL'art. 130 cod. cons., si apre con una norma, contenuta al primo comma, di grande importanza, con la quale si afferma che il venditore è responsabile in tutti i casi in cui il bene ricevuto dal consumatore presenti dei difetti di conformità al momento della consegna. Si tratta evidentemente di una norma che pone una responsabilità in capo al professionista di tipo oggettivo, che dunque prescinde dall'accertamento di una sua colpa in merito. Così, qualunque difetto di conformità, a prescindere dalla sua entità, rende responsabile il venditore nei confronti del consumatore e legittima quest'ultimo all'esperimento dei rimedi previsti dall'art. 130 cod. cons. L'entità del difetto, invero, potrà soltanto incidere sulla possibilità di ricorrere al rimedio della risoluzione del contratto, escluso per il caso del difetto di lieve entità (v. infra). La possibilità di esperire i rimedi in questione, non è subordinata all'esistenza di una colpa in capo al professionista, dato che non rileva la circostanza che al momento della conclusione del contratto quest'ultimo fosse a conoscenza (o non potesse ignorare) la sussistenza del difetto, né che l'esistenza del difetto fosse riconducibile al caso fortuito o ad una condotta tenuta dal professionista medesimo (De Franceschi, 223 ss.). Nel caso in cui sussista un difetto di conformità del bene ricevuto dal consumatore, l'art. 130 cod. cons., attribuisce a quest'ultimo la possibilità di esperire una serie di rimedi gerarchicamente ordinati, tra riparazione, sostituzione, riduzione del prezzo e risoluzione del contratto, ai sensi dei commi successivi di tale articolo (art. 130, comma 2 cod. cons.): invero, mentre il comma secondo prevede il diritto del consumatore di richiedere la riparazione o la sostituzione del bene, il comma settimo prevede la possibilità di richiedere la riduzione del prezzo ovvero la risoluzione del contratto soltanto in presenza di specifici presupposti. La definizione di riparazione del bene viene offerta dall'art. 128, comma 2, lett. d) cod. cons., che la individua nel ripristino del bene di consumo necessario per renderlo conforme al contratto di vendita. Il comma nono dell'art. 130, precisa che a seguito della denuncia della difformità da parte del consumatore, il venditore può proporre al primo qualsiasi rimedio disponibile. In tal caso, il consumatore dovrà accettarlo o rigettarlo scegliendo un rimedio diverso; peraltro, se il consumatore aveva già scelto un altro rimedio, il venditore è vincolato ad esso, a meno che il consumatore accetti il rimedio alternativo eventualmente proposto. Come è stato sottolineato, invero, dopo aver fissato il principio generale sulla responsabilità del venditore, l'art. 130 cod. cons. prevede i rimedi esperibili dal consumatore attraverso un'articolazione gerarchicamente graduata di essi, dove si accorda la precedenza agli strumenti della riparazione e della sostituzione, in un'ottica di conservazione del sinallagma contrattuale (De Franceschi, 233 ss.). La Corte di Giustizia, 17 aprile 2008, causa C-404/06, Quelle c. Bundesverband, ha sottolineato che il consumatore può esigere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto ‘in seconda battuta', qualora non sia possibile ottenere il ripristino della conformità del bene mediante la sua riparazione o sostituzione. I quattro rimedi menzionati sono tra loro tendenzialmente alternativi e sono esperibili per il semplice fatto della presenza del difetto di conformità, cioè a prescindere dall'esistenza di una condotta dolosa o colposa del professionista, del produttore o di un terzo. Il consumatore ha facoltà di scegliere il rimedio di cui avvalersi ma non gode di una discrezionalità assoluta in proposito, essendo questi articolati secondo un criterio gerarchico, per il quale la riparazione e la sostituzione si configurano come rimedi primari, mentre la riduzione del prezzo e la risoluzione del contratto assumono un ruolo secondario o sussidiario (Maniaci, Art. 130 – Diritti del consumatore, 788 ss.). Il consumatore può innanzitutto richiedere, senza dover sostenere spese e a sua scelta, che il bene sia riparato o sostituito, salvo il caso in cui il rimedio prescelto comporti delle spese irragionevoli per il venditore rispetto all'altro rimedio (art. 129, comma 3 cod. cons.); a tal fine si deve tenere conto del valore che il bene avrebbe avuto senza il difetto di conformità, dell'entità del difetto e dell'eventualità che il rimedio alternativo possa essere esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore (art. 129, comma 4 cod. cons.). Il comma quinto dell'art. 130 cod. cons. precisa che la riparazione o la sostituzione devono essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenuto conto della natura del bene e dello scopo per cui tale bene è stato acquistato. La Corte di Giustizia, 16 giugno 2011, c. riunite C-65/09 e C-87/09, Weber c. Wittmer e Putz c. Medianess, ha ribadito che le spese indicate al comma 6 dell'art. 130 cod. cons. costituiscono un elenco meramente esemplificativo e non tassativo. Pertanto, restano esclusi tutti i costi della sostituzione e della riparazione, non solamente quelli relativi alla spedizione, alla mano d'opera e ai materiali. Per quanto concerne la nozione di “notevoli inconvenienti”, questi si riferiscono a quelle circostanze che comportano un inconveniente senza incidere sulla conformità del bene, quali la perdita di valore di mercato della cosa o la mancanza di interesse del consumatore a ricevere il bene reso conforme, a causa di una sopravvenienza (Scarpello, 41 ss.). La Corte di Giustizia, 17 aprile 2008, causa C-404/06, Quelle c. Bundesverband, ha affermato che l'art. 3 della direttiva 1999/44/CE deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale che consenta al professionista, che abbia venduto un bene non conforme, di esigere dal consumatore un'indennità per l'uso di tale bene fino alla sostituzione con un bene nuovo. Come anticipato, poi, il comma settimo dell'art. 129 cod. cons. indica i presupposti in presenza dei quali il consumatore può richiedere, anziché la riparazione o la sostituzione del bene, a sua scelta, una congrua riduzione del prezzo ovvero la risoluzione del contratto. Il consumatore potrà ricorrere a tali ulteriori rimedi nei casi in cui: la riparazione e la sostituzione siano impossibili o eccessivamente onerose (lett. a); il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione entro il congruo termine di cui al comma 5 (lett. b); la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore. Ai sensi del comma decimo, peraltro, il difetto di conformità di lieve entità non consente l'esperimento del rimedio risolutorio. I rimedi della riduzione del prezzo e della risoluzione del contratto costituiscono diritti potestativi, attraverso il cui esercizio il consumatore può modificare il contenuto del contratto ovvero sciogliersi dal relativo vincolo con un atto unilaterale, il quale può concretizzarsi in una domanda giudiziale ovvero in una dichiarazione stragiudiziale, anche priva di forma scritta, inviata al professionista. La riduzione del prezzo determina la parziale estinzione dell'obbligazione pecuniaria gravante sul consumatore, il quale ha quindi diritto di trattenere ovvero di pretendere la restituzione della relativa somma; per il calcolo della misura della riduzione dovuta, alcuni autori hanno ritenuto di dover far riferimento alla differenza tra il valore del bene oggetto del contratto e quello del bene effettivamente consegnato al consumatore, mentre per altri si dovrebbe piuttosto ricorrere al criterio della misura percentuale in cui il difetto incide sul valore di mercato del bene. Il rimedio della risoluzione del contratto, con lo scioglimento del vincolo contrattuale tra le parti, comporta l'estinzione dei diritti e degli obblighi sorti a seguito della conclusione del negozio e, qualora esso sia esperito mediante un atto stragiudiziale, l'effetto risolutorio dovrebbe ritenersi prodotto dal momento in cui la dichiarazione giunge all'indirizzo del professionista (Maniaci, Art. 130 – Diritti del consumatore, 792 ss.). La disciplina in esame è poi completata dall'art. 132, che regola i termini entro cui far valere il difetto di conformità (v. infra). La Corte di Giustizia, 3 ottobre 2013, causa C-32/12, Duarte c. Autociba, ha precisato che la direttiva 1999/44/CE osta alla legislazione di uno Stato membro che non consenta al giudice nazionale di riconoscere d'ufficio il rimedio della riduzione del prezzo, sussistendone i presupposti, quando il consumatore abbia agito soltanto per la risoluzione del contratto ma questa non possa essere concessa a causa del carattere minore del difetto lamentato. Come è stato precisato dal Trib. Monza 9 maggio 2016, da un punto di vista generale relativamente alla garanzia per vizi della cosa venduta, l'acquirente può agire per la risoluzione del contratto ovvero per la riduzione del prezzo, salvo il diritto di risarcimento ex art. 1494 c.c., mentre l'azione di esatto adempimento finalizzata ad ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta può essere esperita soltanto in particolari ipotesi di legge, come appunto nella vendita di beni di consumo. Sul punto si vedano anche: Cass. II, n. 22690/2015 e Cass. S.U., n. 19702/2012; nella giurisprudenza di merito si veda poi Trib. Monza 11 giugno 2013. La sentenza Trib. Foggia 31 marzo 2011, per l'ipotesi in cui il difetto di conformità si riverberi sui diritti della persona costituzionalmente garantiti, ha ritenuto ammissibile la tutela cautelare urgente del consumatore nella compravendita di beni di consumo per ottenere il ripristino della conformità del bene senza spese mediante sostituzione. BibliografiaCamilletti, La vendita di beni di consumo, in Contratti, 2016, 8-9, 823-835; Capilli, La vendita di beni di consumo. Garanzie e rimedi, in G. 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