Decreto legislativo - 10/02/2005 - n. 30 art. 21 - Limitazioni del diritto di marchioLimitazioni del diritto di marchio 1. I diritti di marchio d'impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l'uso nell'attivita' economica, purche' l'uso sia conforme ai principi della correttezza professionale: a) del loro nome o indirizzo, qualora si tratti di una persona fisica1; b) di segni o indicazioni che non sono distintivi o che riguardano la specie, la qualita', la quantita', la destinazione, il valore, la provenienza geografica, l'epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio2; c) del marchio d'impresa per identificare o fare riferimento a prodotti o servizi del titolare di tale marchio, in specie se l'uso del marchio e' necessario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio34. 2. Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, nè, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi. 3. È vietato a chiunque di fare uso di un marchio registrato dopo che la relativa registrazione è stata dichiarata nulla, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell'uso del marchio. [1] Lettera modificata dall'articolo 10, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 20 febbraio 2019, n. 15. [2] Lettera modificata dall'articolo 10, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 febbraio 2019, n. 15. [3] Lettera modificata dall'articolo 10, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 20 febbraio 2019, n. 15. [4] Comma sostituito dall'articolo 13 del D.lgs. 13 agosto 2010, n.131. InquadramentoCon il contratto di merchandising una persona fisica o giuridica, detta merchandisor, concede a un terzo, detto merchandisee, il diritto di sfruttare economicamente il proprio marchio, nome o immagine, generalmente rinomati, oppure il nome o l'immagine di un personaggio noto, affinché lo utilizzi per contraddistinguere prodotti in un diverso settore merceologico, a fronte del pagamento di un prezzo. Si ha dunque merchandising quando un nome, un'immagine o un marchio dotato di rinomanza in un determinato segmento di mercato siano concessi in uso a terzi per identificare prodotti (che devono comunque rispettare gli standard di qualità richiesti dal concedente) in settori merceologici diversi (per tutti Bausilio, 405). Anche la giurisprudenza di legittimità ha fornito una definizione simile, rilevando che il contratto di merchandising consiste nell'uso che un'impresa fa di un marchio o di un nome o dell'immagine di un personaggio noto (ne sono quindi presupposto le norme del d.lgs. n. 30/2005: v. Trib. Milano I, n. 11374/2019) per promuovere la vendita di prodotti diversi: l'attività di merchandising è la pratica di utilizzare il brand o l'immagine di un prodotto noto per venderne un altro e che essa consiste nell'insieme di attività e di azioni aventi lo scopo di promuovere la vendita di una determinata linea di prodotti, o anche di un solo prodotto, una volta che lo stesso sia stato inserito nell'assortimento di un altro punto vendita (Cass. sez. lav., n. 9106/2021; Cass. sez. lav., n. 1998/2017; in senso conforme Cass. sez. lav., n. 6896/2004; Cass. I, n. 8409/1998). La natura e il riconoscimento legislativo del contratto di merchandisingIl contratto di merchandising è indubitabilmente un contratto atipico, anche se la sua affermazione nella pratica degli affari lo rende tipico da un punto di vista sociale. La disciplina del contratto è conseguentemente demandata alla volontà delle parti ovvero, in mancanza, alla disciplina del contratto in generale e a quella dei tipi contrattuali cui può essere caso per caso assimilato (Muggia, 1 ss.). Il merchandising è contratto a prestazioni corrispettive, non disciplinato dal codice civile, al quale si applicano le norme generali sui contratti, segnatamente gli artt. da 1321 a 1469 c.c., ma cui possono analogicamente applicarsi, per frammenti di disciplina, anche le norme di taluni contratti tipici (ad esempio Bausilio, 407). La dottrina e la giurisprudenza richiamano a più riprese le norme in materia di marchi e diritti d'autore, ma negano la possibilità di rinvenire nelle pieghe ordinamentali una disciplina unitaria del fenomeno (Magni, 17; Ricolfi, 13). A seconda del caso concreto può dunque farsi riferimento alle norme sul diritto d'autore (l. n. 633/1941), ovvero al d.lgs. n. 30/2005, c.d. codice della proprietà industriale (per tutti Magni, 16-18). Il contratto di merchandising, pur non oggetto di disciplina particolare, può essere considerato contratto socialmente tipico (Trib. Milano, 28 novembre 2011). La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che al contratto misto (come può essere quello di merchandising) si applicano le norme del tipo contrattuale prevalente (Cass. III, n. 5192/1981). La direttiva 89/104/CEE sui marchi di impresa, adottata dal Consiglio europeo il 21 dicembre 1988 (poi abrogata dalla direttiva 2008/85/CE) e segnatamente l'art. 5, n. 2, ha attribuito ai singoli Stati membri la facoltà di riconoscere al titolare del marchio il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di utilizzare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa, in relazione ai prodotti o ai servizi che non sono simili a quelli per cui è stato registrato. Quanto sopra a condizione che il marchio d'impresa goda di notorietà nello Stato membro e sempre che l'uso immotivato del segno consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa. In tal modo si è accordata protezione ulteriore al marchio celebre e si è legislativamente riconosciuto, tramite l'inciso «salvo proprio consenso», il contratto di merchandising (Coccia - De Silvestri - Forlenza - Fumagalli - Musumarra - Selli, 249; Landi, 1 ss.). La norma richiamata recita precisamente come segue: «Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello Stato membro e se l'uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio d'impresa o reca pregiudizio agli stessi». La direttiva in parola è stata recepita e attuata dal d.lgs. n. 480/1992 (oggi sostituito dal già citato d.lgs. n. 30/2005), il quale tra le altre cose, all'art. 21, comma 3, attribuiva al soggetto che aveva determinato la notorietà di un nome, la possibilità di registrarlo come marchio, nonché di sfruttare economicamente la notorietà dello stesso, attraverso la manifestazione di un suo «consenso» (“L'art. 21 del r.d. n. 929/1942, è sostituito dal seguente: (...) Se notori, possono essere registrati come marchio solo dall'avente diritto, o con il consenso di questi, o dei soggetti di cui al comma uno: i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le denominazioni e sigle di manifestazioni e quelle di Enti ed associazioni non aventi finalità economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi»). Il successivo art. 22, comma 1, inoltre, modificando le condizioni di titolarità dei marchi, rendeva possibile alle imprese essere titolari di marchi in settori diversi da quelli a essa propri («L'art. 22 del r.d. n. 929/1942, è sostituito dal seguente: (...) Può ottenere una registrazione per marchio d'impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso»). La giurisprudenza ha di seguito affermato la tutelabilità dei marchi delle società sportive e in particolare di quelle di calcio professionistiche. A mero titolo esemplificativo la Corte d'Appello di Torino ha considerato tutelabile il marchio della nota società di calcio Juventus, depositato dalla stessa società per contraddistinguere prodotti cosmetici, di profumeria e farmaceutici (App. Torino 16 marzo 1994), mentre il Tribunale di Milano, intervenuto a dirimere una questione pressoché identica, ha riconosciuto la validità del marchio — stavolta della società di calcio «Inter» — in un settore merceologico diverso da quello sportivo, ovvero quello dell'editoria (Trib. Milano 28 novembre 1994). Le tipologie contrattuali e la disciplina applicabileÈ possibile distinguere all'interno del contratto di merchandising in base alla natura dei beni immateriali, potendosi conseguentemente avere: 1) il character merchandising; 2) il personality merchandising; 3) il movie merchandising; 4) l'event merchandising; 5) il trademark (o brand) merchandising. Il character merchandising riguarda l'uso del nome o dell'immagine di personaggi di fantasia e si articola a sua volta in: a) fictional characters merchandising, relativo a personaggi di fumetti e di cartoni animati; b) literary characters merchandising, relativo a personaggi di opere letterarie. Il character merchandising presuppone l'autorizzazione del titolare del diritto d'autore, sull'ovvio presupposto che gli elementi denominativi e figurativi dei personaggi di fantasia costituiscono opere dell'ingegno tutelate dalla relativa disciplina (Clemente, 1 ss.). Si applica infatti l'art. 12 della l. n. 633/1941 (c.d. legge sul diritto d'autore), il quale stabilisce, al comma 2, che l'autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l'opera in ogni forma e modo, originale e derivato, seppur nei limiti fissata dalla legge (Cagnasso - Cottino, 666). Un discorso analogo vale per il personality merchandising, relativo allo sfruttamento economico del nome o all'immagine di personaggi famosi. A esso si applicano le norme sulla protezione del nome e dell'immagine (artt. 7 e 10 c.c.), nonché quelle sui ritratti (art. 8 d.lgs. n. 30/2005; artt. 96, 97 l. n. 633/1941). Nel dettaglio l'art. 7 c.c., al comma 1, prevede testualmente che la persona alla quale si contesti il diritto all'uso del proprio nome, o che possa risentire pregiudizio dall'uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. Il successivo art. 10 c.c. puntualizza che qualora l'immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è consentita dalla legge, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei congiunti, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni. L'art. 8, comma 3 del codice della proprietà industriale chiarisce infine che, qualora notori, possono essere registrati come marchi i nomi di persona, dall'avente diritto o con il suo consenso. Assumono rilievo, come detto, anche l'art. 8, commi 1 e 2, del c.d. codice della proprietà industriale, nonché gli artt. 96 e 97 della c.d. legge sul diritto d'autore in tema di ritratti di persone fisiche. In base all'art. 96 il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, mentre il successivo art. 97 precisa che non occorre il consenso della persona oggetto del ritratto quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, oppure quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può essere esposto o messo in commercio quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata. L'art. 8 del c.d. codice della proprietà industriale chiarisce inoltre che i ritratti di persone non possono essere registrati come marchi, perlomeno senza il consenso delle medesime e neppure dopo la loro morte, se non vi è il consenso del coniuge e dei figli. In mancanza di questi ultimi, o dopo la loro morte, è invece necessario il consenso dei genitori e degli altri ascendenti ma, in mancanza o dopo la morte di questi, spetta ai parenti fino al quarto grado esprimere la loro approvazione. Deve poi osservarsi che i nomi di persona diversi da quelli di chi chiede la registrazione possono essere comunque registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha il diritto di portare tali nomi. Una terza tipologia di merchandising è data dal c.d. movie merchandising, relativo a opere cinematografiche e ai diritti di proprietà intellettuale a quelle collegati. Possono trovare applicazione i già menzionati artt. 7 e 10 c.c. in tema di diritto al nome e di diritto all'immagine, oltre agli artt. 96 e 97 della legge sui diritti d'autore in tema di ritratti, come anche, infine, gli artt. 44 e ss. della medesima legge sui diritti d'autore, nella sezione dedicata ai diritti d'autore nelle opere cinematografiche. Si consideri in particolare l'art. 45 della legge sui diritti d'autore, il quale, ai primi due commi, prevede che l'esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell'opera cinematografica spetta a chi ha organizzato la produzione dell'opera stessa, seppur nei limiti indicati dai successivi articoli, precisandosi che si presume produttore dell'opera cinematografica chi è indicato come tale sulla pellicola cinematografica (Clemente, 1 ss.). Una quarta tipologia è rappresentata dal c.d. event merchandising, relativo a eventi sportivi e culturali e al quale similmente si applica la normativa sul diritto d'autore e sulla proprietà industriale (Clemente, 1 ss.). Il trademark (o brand) merchandising, infine, è una forma di merchandising cui si applica il codice della proprietà industriale e che concerne il marchio di determinati prodotti o servizi, come: a) le status properties, cioè marchi che richiamano un'immagine di eleganza e di raffinatezza (come i marchi di celebri stilisti). b) le personification properties, vale a dire marchi che richiamano uno stile di vita improntato alla velocità e all'aggressività, come avviene per i marchi di alcune case automobilistiche; c) le popularity properties, ossia marchi particolarmente diffusi e popolari, come è il caso del marchio Coca-Cola (Clemente, 1 ss.). Proprio in riferimento al trademark merchandising la giurisprudenza di legittimità ha osservato che qualora due soggetti abbiano registrato marchi identici, ma per contraddistinguere prodotti appartenenti a settori merceologici diversi, non è possibile che uno dei due stipuli con un terzo un contratto di merchandising relativo allo sfruttamento del marchio nel settore in cui già opera l'altro (Cass. I, n. 8409/1998). Gli elementi costitutivi del contratto e le clausole più ricorrentiI tratti caratterizzanti del merchandising possono essere così individuati: a) alle fondamenta del contratto di merchandising vi è l'utilizzazione primaria di un nome, di un marchio o di un diritto della personalità idonei a realizzare la funzione promozionale che costituisce la finalità del contratto; b) vi deve poi essere il loro sfruttamento per la promozione delle vendite in settori differenti da quelli di origine; c) il che è reso possibile dall'autorizzazione concessa dal titolare del diritto a un terzo soggetto (Cagnasso-Cottino, 664). Il contratto di merchandising mira infatti a comporre: a) l'interesse del licenziatario a sfruttare la privativa del licenziante, avvalendosi della sua notorietà e prestigio; b) l'interesse del licenziante a promuovere il proprio brand a anche in settori diversi da quello originario (Clemente, 1 ss.). A proposito degli interessi del merchandisor, questi ha talvolta interesse finanche a stipulare contratti di merchandising in assenza di un corrispettivo (pur non rinunciando mai a sottoporre a penetranti controlli l'attività del licenziatario), in considerazione degli effetti negativi che potrebbero variamente conseguirne, ad esempio dalla distribuzione di prodotti di qualità inferiore a quella richiesta dal concedente. Vanno considerati, peraltro, anche gli effetti che si producono nel consumatore, il quale, pur sapendo che il prodotto acquistato non è di provenienza del titolare del simbolo, potrebbe essere indotto al suo acquisto e, infatti, ancora prima, a ritenere che il prodotto sia stato selezionato con gli stessi accorgimenti utilizzati per quello per il quale originariamente era stato creato. Nel merchandising, non a caso, i tipi contrattuali più diffusi e utilizzati sono quelli che sfruttano la popolarità del marchio mediante campagne promozionali e pubblicitarie molto penetranti ed attuate altresì mediante potenti mezzi di informazione (Bausilio, 406-407). Da quanto appena osservato deriva che il merchandising è una tecnica contrattuale che consente all'imprenditore merchandisee di ridurre in maniera considerevole le spese per la pubblicità e la promozione dei propri prodotti (Bausilio, 405 ss.; Introvigne, 113 ss.). Occorre poi rilevare che in forza del principio di libertà della forma il merchandising può essere concluso anche oralmente, sebbene nella prassi si ricorra pressoché sempre alla forma scritta (Muggia, 1 ss.). Per quanto concerne l'oggetto del contratto di merchandising, esso è costituito da un'opera dell'ingegno, da un marchio o da un diritto della personalità, ritenuti idonei a svolgere la funzione propria del contratto di merchandising in forza della notorietà acquisita in un determinato settore merceologico (c.d. utilizzazione primaria). Lo scopo del merchandising, come già osservato, è infatti quello di consentire lo sfruttamento secondario di un nome, di un marchio o dell'immagine altrui, cioè la promozione delle vendite in settori differenti da quelli di origine (Ricolfi, 60 ss.). In proposito è stata efficacemente osservato che vi è sempre un elemento comune alle varie tipologie di merchandising, rappresentato dalla forza suggestiva ed evocativa connessa alla notorietà acquisita dai beni immateriali per il tramite dell'utilizzazione primaria, utilizzata dal licenziatario interessato a promuovere prodotti o servizi anche significativamente diversi (Ricolfi, 41 ss.; Macario - Addante, 1922). L'analisi della prassi contrattuale fa emergere gli elementi che normalmente caratterizzano il contratto di merchandising. In primo luogo le parti devono identificare in maniera precisa e puntuale l'oggetto dell'accordo, specificando per quali prodotti o classi di prodotti è concessa l'utilizzazione della property del merchandisor. Deve poi essere indicato se compete al merchandisee soltanto la produzione dei beni o se egli deve occuparsi anche della distribuzione e della vendita diretta al pubblico. È poi frequente che nel testo del contratto si inserisca una clausola volta a garantire al licenziatario la facoltà di cedere a terzi il diritto acquistato con il merchandising (c.d. sublicensing), clausola che la dottrina ritiene comunemente necessaria alla luce della natura personale del contratto (Liotta - Santoro, 148; Muggia, 1 ss.). Con riferimento alle obbligazioni assunte dal merchandisor, vi è dunque quella di concedere a terzi l'uso del proprio marchio o di altro bene immateriale. Il concedente, però, sebbene metta a disposizione del licenziatario un marchio o altro segno distintivo, non assume alcuna responsabilità circa i risultati che la controparte può conseguire attraverso l'operazione di merchandising e dunque la valutazione circa il grado di prestigio e di popolarità acquisita dalla property oggetto del contratto spetta unicamente all'aspirante licenziatario. Quale corollario della prestazione principale il concedente si obbliga poi a porre in essere tutte le attività necessarie a conservare il buon nome del marchio. Generalmente, attraverso apposita clausola contrattuale, il merchandisor si riserva la facoltà di controllare la qualità e l'estetica dei prodotti collocati sul mercato (come il materiale di cui si compone il bene, le dimensioni del logo, la sua apposizione, la scelta dei colori e degli abbinamenti cromatici), di approvare in via preventiva le scelte del licenziatario in materia di politica commerciale, come per esempio tutti i fattori del marketing-mix (prezzo, canali di vendita, pubblicità), nonché di conoscere l'identità di eventuali terzi coinvolti nel processo produttivo. Così facendo il concedente conserva un diritto di controllo, seppur indiretto, sulla property, funzionale alla protezione della sua integrità e del suo prestigio (Muggia, 1 ss.; Colantuoni, 828). Con riferimento alle obbligazioni del merchandisee, questi si obbliga innanzitutto a corrispondere al concedente una somma di denaro, le c.d. royalties, corrispondenti a una percentuale del fatturato realizzato attraverso la vendita di prodotti recanti il marchio o il segno distintivo oggetto del merchandising. Le modalità di pagamento delle royalties possono variare da contratto a contratto, ma nella maggior parte dei casi si prevede che il versamento sia modulato in misura crescente in base al raggiungimento di determinate soglie di fatturato. Non è però escluso che in sede di stipula del contratto sia individuato un importo minimo, indipendentemente dal volume delle vendite realizzate dal licenziatario. Inoltre è frequente l'inserimento nel contratto di merchandising di clausole contenenti l'obbligo del licenziatario di fornire una serie di prestazioni accessorie: ad esempio l'obbligo del merchandisee di rispettare gli standard qualitativi dei prodotti fissati all'atto di stipulazione dell'accordo, con il conseguente dovere di tenere indenne il concedente da ogni eventuale azione, domanda, costo, danno o responsabilità derivante dalla fabbricazione o dalla messa in commercio del bene (Colantuoni - Pozzi - Bennati, 844; Liotta - Santoro, 165; Muggia, 1 ss.). Anche rispetto al contratto di merchandising trova ovviamente applicazione la clausola di buona fede contrattuale di cui all'art. 1375 c.c. La giurisprudenza di merito ne ha ad esempio affermato la rilevanza rispetto a un contratto di merchandising relativo ai personaggi di cartoni animati, che però erano stati oggetto di continue modifiche apportate dall'emittente al palinsesto. Il Tribunale aveva ritenuto che anche in mancanza di espressa pattuizione di specifici obblighi, la condotta del creditore (ovvero l'emittente) che non preservi l'interesse della controparte (ovvero il merchandisee) ma che dia luogo a continui cambiamenti di palinsesto, così alimentando la disaffezione degli utenti, deve ritenersi una condotta non conforme alla clausola di buona fede contrattuale, la quale dovrebbe invece connotare lo svolgimento del rapporto. Precisamente è stato affermato che contratto di merchandising è un contratto atipico e a prestazioni corrispettive, in forza del quale il titolare di un'entità, che riscuote successo presso il pubblico, ne consente in licenza, dietro compenso, l'utilizzo a un terzo affinché questi se ne avvalga nella commercializzazione di beni e/o servizi eterogenei rispetto a quelli per il quale l'entità ha successo. La clausola generale di buona fede e correttezza, si è ricordato, opera tanto sul piano del comportamento del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto. Nel caso richiamato, in applicazione del principio di buona fede, il pagamento del prezzo andava correlato all'obbligo della creditrice licenziataria di attivarsi perché i beni di cui aveva consentito l'utilizzo fossero apprezzati presso il pubblico, impegnandosi a effettuare una programmazione con modalità tali da non generare disaffezione degli utenti per le immagini concesse in licenza, a nulla rilevando che tale obbligo non fosse stato specificamente pattuito. Anche in mancanza di espressa previsione legale di specifici obblighi, una condotta del creditore che non preservi l'interesse della controparte, ma che al contrario dia luogo a continui cambiamenti di palinsesto, alimentando la disaffezione degli utenti, è invero condotta non conforme alla clausola di buona fede, incidente sul funzionamento del sinallagma. (Trib. Milano 13 febbraio 2014). Il merchandisor può anche concedere un diritto di esclusiva relativamente a una determinata categoria merceologica o zona commerciale. Il diritto di esclusiva può essere previsto anche in favore del licenziatario ovvero essere reciproco. Nella prima ipotesi il merchandisor si priva della possibilità di utilizzare la property per le medesime finalità del merchandisee, direttamente o per il tramite di altri licenziatari, in via assoluta o limitatamente al territorio indicato nel contratto. Nel caso di esclusiva reciproca al concedente non è invece permesso di cedere l'uso del marchio o di altro segno distintivo in favore di terzi concorrenti del licenziatario e, allo stesso tempo, a quest'ultimo non è consentito l'uso di properties di imprese concorrenti con quella della controparte. I contraenti possono prevedere che il diritto acquisito dal licenziatario sia esercitabile su scala mondiale, oppure che sia limitato a una determinata area geografica. Al fine di evitare che a fronte della concessione di un diritto di esclusiva territoriale il licenziatario non sfrutti adeguatamente la licenza, predisponendo un programma di merchandising per un numero di Paesi ridotto rispetto a quanto pattuito contrattualmente, il concedente, attraverso la predisposizione di una specifica clausola, può riservarsi il diritto di recedere dal contratto nel caso in cui non rispetta i termini di penetrazione nei vari Stati. La dottrina ha infine ipotizzato che il merchandisor possa riservarsi la facoltà di concedere una licenza concorrente a un terzo, verificandosi così una parziale decadenza dell'esclusiva, piuttosto che un'ipotesi di risoluzione del contratto (Colantuoni, 830; Liotta - Santoro, 147; Muggia, 1 ss.). Il merchandising è un contratto di durata in ragione degli ingenti investimenti connessi all'utilizzazione secondaria del segno distintivo del concedente. Devono ritenersi ammissibili, inoltre, sia la stipulazione di un accordo di durata indeterminata, con pattuizioni specifiche circa la possibilità di disdetta delle parti, sia l'individuazione di un termine prima del quale il contratto non può essere risolto (Colantuoni, 830; Muggia, 1 ss.). Secondo una prassi consolidata, le parti stabiliscono obblighi reciproci per la fase successiva all'estinzione del rapporto. In particolare è frequente che stabiliscano il periodo (generalmente tra i tre e i sei mesi), successivo alla scadenza del contratto, entro il quale è consentito al licenziatario di smaltire le riserve di magazzino immettendole sul mercato. Altre volte il concedente si riserva la facoltà di esercitare un diritto di opzione per l'acquisto dei prodotti invenduti. È infine frequente che il contratto di merchandising contenga clausole risolutive espresse, ad esempio nel caso di contraffazione del marchio o di presentazione di rendiconti di vendita falsificati, al fine di ridurre l'importo delle royalties dovute. La clausola risolutiva espressa può ovviamente essere collegata anche ai comportamenti del merchandisor, ad esempio al caso di mancato rinnovo della registrazione del marchio o di mancato pagamento delle tasse annuali. La tutela civilistica dei marchiÈ a questo punto opportuno dare atto degli strumenti predisposti dal legislatore per tutelare il titolare di un marchio, ovvero gli artt. 20 e 21 del c.d. codice della proprietà industriale (recentemente modificati dal d.lgs. n. 15/2019), ove sono indicati i diritti conferiti dalla registrazione del marchio e i relativi limiti. In dettaglio l'art. 20, primo comma, lettera a ) riconosce al titolare del marchio di impresa il diritto di vietare a terzi l'uso di un marchio identico per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è registrato. In tal caso l'avvenuta contraffazione prescinde dalla confondibilità, per cui si ritiene che l'impresa che utilizzi un segno identico a quello registrato è responsabile anche qualora inserisca il c.d. disclaimer, ovvero l'avvertimento che i prodotti non sono ufficiali e non provengono dal titolare del marchio anteriore (Palma, 1 ss.). Come si è visto, una tutela così rigorosa è riservata ai casi in cui l'identità dei beni e dei segni è pressoché totale oppure ai casi in cui le differenze sono complessivamente trascurabili. Costituisce dunque contraffazione del marchio figurativo composto di tre strisce parallele la diffusione di un marchio costituito da quattro strisce parallele apposto su prodotti identici a quelli su cui è apposto il primo marchio. Il caso appena indicato ha riguardato la società Adidas, che ha adito il Tribunale di Bari al fine di accertare la contraffazione da parte di un'impresa che aveva apposto sui propri prodotti di abbigliamento un marchio a quattro strisce parallele, simile al marchio della società attrice (Trib. Bari 28 giugno 2010). La Corte d'Appello di Milano si è invece pronunciata rispetto al caso di una società che aveva riprodotto su due diversi modelli di borsa la lettera «H», usata dalla casa di moda Hermes per identici prodotti, rilevando che gli invocati elementi di differenziazione erano marginali e irrilevanti e che infatti il consumatore medio non era in grado di cogliere minime varianti del marchio capaci di differenziare e distinguere le due imprese (App. Milano 17 settembre 2008). La lettera b ) dell'art. 20, comma 1 chiarisce poi che il titolare del marchio o del segno distintivo ha il diritto di vietare a terzi di far uso di un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se, a causa dell'identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o i servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni (per una recente applicazione della giurisprudenza si veda Trib. Brescia imprese, n. 1843/2023, con riferimento all'uso del marchio denominativo e figurativo Brescia Calcio). A proposito del giudizio di confondibilità dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il giudice debba procedere a un esame comparativo dei marchi, non però analitico, ovvero consistente nella particolare disamina e nella separata valutazione di ogni singolo elemento, ma unitario e sintetico, mediante un apprezzamento complessivo che tiene conto di tutti gli elementi salienti. Per stabilire quindi se i due segni sono confondibili il giudizio deve essere condotto tenendo presente la normale diligenza e avvedutezza del consumatore al quale i prodotti contraddistinti sono destinati. Può costituire contraffazione, ad esempio, l'utilizzo di un marchio simile per settore d'abbigliamento affine, anche nel caso di due società che producono rispettivamente vestiario donna e uomo. Detta confondibilità nasce infatti dall'idoneità del prodotto a soddisfare il medesimo bisogno, così che la clientela, attesa l'ontologica vicinanza tra i prodotti offerti al mercato, sia indotta, per la somiglianza dei due segni, a confondere i produttori (Palma, 1 ss.). In proposito la giurisprudenza di legittimità ha ad esempio precisato che anche rispetto ai prodotti della celebre Valentino s.p.a., pur destinati a un pubblico specialistico e qualificato, può concretizzarsi il rischio di confusione del marchio, posto che l'affinità merceologica dei prodotti rende sovrapponibile la fascia dei consumatori medi con quella degli esperti. Nel caso in esame la predetta società aveva domandato l'accertamento del rischio di confondibilità dei marchi ai sensi dell'art. 20 comma 1 lettera b) del codice della proprietà industriale ad opera della società Florence Fashions Jersey Limited. Tale società utilizzava per la classe 25 (abbigliamento) il marchio «Giovanni Valentino», che veniva infine ritenuto dalla Corte idoneo a generare tra il pubblico il rischio di confusione e tale dunque da far presumere che entrambi i segni distintivi facessero capo alla stessa impresa o fossero comunque collegati. Tale pericolo venne accertato sulla base della rinomanza acquisita nel tempo dal marchio dello stilista (Cass. I, n. 24909/2008). Altra pronuncia della giurisprudenza ha riguardato la società Naman s.r.l., che aveva convenuto in giudizio Daniel & Mayer s.r.l., operante nel settore d'abbigliamento, per violazione dell'art. 20, comma 1, lettera b) del codice della proprietà industriale nonostante i prodotti fossero destinati a consumatori finali diversi e a mezzo di reti di distribuzione e di vendita diverse. La Corte di Cassazione ha nondimeno ritenuto i marchi confondibili, anche in considerazione dell'uso della medesima parola «Mayer», seppure in un caso come patronimico e nell'altro come prenome. I marchi avevano peraltro la stessa lunghezza, non rilevando la lettera «e» inclusa solo nel marchio della convenuta (Cass. I, n. 15957/2012). La Suprema Corte ha ribadito detti principi rilevando che il giudizio di affinità di un prodotto rispetto ad un altro, coperto da un marchio notorio o rinomato, deve essere formulato (anche nel sistema normativo previgente alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 480/1992) secondo un criterio più ampio di quello adoperato per i marchi comuni. In relazione ai marchi cosiddetti celebri, infatti, deve accogliersi una nozione più ampia di affinità, che tenga conto del pericolo di confusione cui può incorrere il consumatore medio, attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti, non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico e non caratterizzati, di per sé, da alta specializzazione (Cass. I, n. 14315/1999). Il rischio di confondibilità non viene meno neppure nel caso di un marchio patronimico, ovvero nel caso in cui sia apposto un qualsiasi altro segno in aggiunta ad altro marchio, poiché il consumatore medio generalmente non attribuisce rilievo al segno ulteriore, rilevando la diversità dei rispettivi prodotti e delle rispettive imprese. Il rischio di confusione viene invece meno quando i suddetti marchi, pur affini, si differenziano con riferimento al loro nucleo ideologico (Palma, 1 ss.). Sulla base di tale assunto la Suprema Corte, chiamata ad accertare l'esistenza del rischio di confusione tra i marchi «Diana» e «Diana de Silva», ha escluso il rischio di confusione tra marchi complessi, figurativi e denominativi, entrambi per accessori moda, ritenendo trattarsi di segni sufficientemente differenziati. Il primo marchio, infatti, era costituito dal nome Diana, sovrapposto al disegno di un'antilope rapante, ed evocava il legame con gli animali di cui si lavorano le pelli per la realizzazione degli accessori. Il secondo, invece, era costituito da una composizione grafica formata da un quadro all'interno del quale si trovava la sigla stilizzata «DdS» e al di sotto, in caratteri più piccoli, il patronimico «Diana de Silva», indicava semplicemente il nome e cognome di una donna legata alla casa produttrice (Cass. I, n. 3984/2004). Nell'ipotesi in cui un segno, seppur simile a un marchio già registrato, venga usato con funzione decorativa e non distintiva del prodotto, non si realizza confusione e non vi è lesione del diritto di marchio altrui, con l'esclusione dei casi in cui il segno imitato è riconosciuto come rinomato e gode dunque di una tutela più ampia. In particolare la somiglianza tra due marchi deve essere valutata alla luce dell'impressione suscitata dal marchio di nuova registrazione. In taluni casi, infatti, dopo aver condotto una valutazione di somiglianza visiva, fonetica e di significato, è stato accertato che, nel caso di marchio complesso e in determinate circostanze, nell'impressione del pubblico di riferimento, potevano risultare dominanti una o più componenti, così da non generare come conseguenza il rischio di confusione. L'art. 20, comma 1, lett. c) del codice della proprietà industriale riconosce poi il divieto di utilizzare segni identici o simili al marchio registrato anche per prodotti o servizi non affini, venendo in tal modo riconosciuta la c.d. tutela ultramerceologica, che il nostro ordinamento attribuisce ai marchi rinomati, di cui viene appunto sfruttata la notorietà per ottenere un vantaggio indebito. La disciplina del marchio rinomato attribuisce particolare tutela a segni che comunicano un messaggio dal forte valore simbolico e psicologico. In alcuni casi, poi, pur mancando il rischio di confusione, il pubblico può comunque attribuire al prodotto o al servizio dell'imitatore le caratteristiche positive che riconosce nel marchio originale. Per tale motivo detti segni godono di una tutela più ampia, ultramerceologica come detto, posto che la rinomanza è un fattore dinamico e incidente sulla determinazione dell'ambito merceologico della tutela, non come fattore storico verificabile a una certa data, bensì come un trend, e cioè una tendenza a invertire i termini nei quali si estrinseca comunemente la funzionalità distintiva. L'ampiezza della tutela trova fondamento nel riconoscere al marchio, non solo la classica funzione distintiva, ma anche la funzione economica, attrattiva e comunicazionale, con lo scopo di tutelare, da un lato, il titolare del marchio, a fronte degli investimenti effettuati e contro l'indebito vantaggio che può essere ottenuto tramite lo sfruttamento da parte di terzi non autorizzati della celebrità del marchio copiato, e, dall'altro, i consumatori, non solo nella fase di acquisto, ma anche in quella successiva. Il marchio che gode di rinomanza possiede in sé un particolare potere simbolico-attrattivo che, nel tempo, consente al marchio di diventare simbolo del glamour, con conseguente potere di orientare o influenzare le scelte dei consumatori. L'agganciamento parassitario all'immagine del marchio celebre imitato induce quindi il pubblico dei consumatori a operare un collegamento psicologico, anche inconscio, tra i due segni, permettendo al contraffattore di acquisire indebitamente uno spazio specifico sul mercato che altrimenti non avrebbe occupato. Nell'art. 20, comma 1, lettera c), peraltro, vi è un riferimento al concetto di pregiudizio, inteso come situazione in cui il marchio dell'imitatore trasmette al pubblico un messaggio che, oltre a contenere un richiamo al marchio imitato, comporta una sorta di contaminazione dell'immagine, provocando la diluizione e l'infangamento del potere evocativo e del valore simbolico trasmesso dal segno (Palma, 1 ss.). In proposito la Corte di Giustizia dell'Unione europea, nel caso che ha coinvolto General Motors Corporation e Yplon SA., ha specificato che il marchio è notorio quando conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi contraddistinti da detto marchio e che il giudicante, nel compiere tale verifica, deve considerare l'intensità, l'ambito geografico e la durata del suo uso, nonché l'entità degli investimenti realizzati dall'impresa per promuoverlo. Orbene, l'art. 5, n. 2 della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, deve essere interpretato nel senso che, per beneficiare di una tutela ampliata a prodotti o servizi non simili, un marchio d'impresa registrato deve essere conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi da esso contraddistinti (CGUE, 14 settembre 1999). In senso conforme si è espresso, ad esempio, il Tribunale di Bologna, il quale, accertata la notorietà del marchio della società Pollini Retail s.p.a., operante nel settore abbigliamento e accessori, ha vietato alla convenuta Pollinitrax s.r.l., operante nel settore dei trasporti, di usare il dominio www.pollini.it (Trib. Bologna 6 febbraio 2009). Ancora, secondo la Suprema Corte, l'intensità della tutela riconosciuta dalla legge a un segno distintivo muta a seconda del grado di originalità di cui il medesimo è dotato. Sotto questo profilo, dunque, il segno viene definito debole giacché la protezione che la legge gli assicura impedisce l'imitazione da parte del concorrente degli elementi caratteristici che, operando sul suo contenuto o aggiungendosi ad esso, arricchiscono la descrittività e per l'appunto ne costituiscono una caratteristica e giustificano la identificazione di un tasso di originalità meritevole di tutela. È l'accertamento di fatto che, caso per caso, individua il confine tra segno forte e segno debole giacché, da un lato, marchi forti non sono soltanto quelli cosiddetti di fantasia ma anche quelli costituiti da parole del linguaggio comune, dall'altro marchi deboli non sono da considerarsi semplicemente i marchi indicativi della natura o della funzione del prodotto, ma possono essere anche parole del linguaggio comune ovvero divenute comuni nel linguaggio commerciale (Cass. I, n. 21601/2012). L'art. 21, comma 1, lett. b), del codice della proprietà industriale riguarda il marchio evocativo delle caratteristiche del prodotto e le possibilità dei terzi di usare il corrispondente termine senza con ciò interferire nel diritto di esclusiva del titolare del marchio. La lettera c ) della medesima norma concerne invece l'uso del marchio altrui per indicare la destinazione di un prodotto/servizio, in considerazione del fatto che alcuni beni sono strumentali ad altri. Al secondo comma si afferma poi che non è consentito fare uso del marchio in modo contrario alla legge, né in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi d'imprese, prodotti o servizi altrui, o in maniera da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato. Il fatto che il consumatore, ad esempio, non sia stato messo a conoscenza della cessione del marchio, di per sé non costituisce inganno, dovendosi quindi analizzare caso per caso il comportamento del cessionario, al fine di evitare che questo possa falsamente far credere che esiste ancora un legame con il cedente. Nell'ambito del codice di proprietà industriale si ricordano, inoltre, gli art. 124, 125, 126 e 129, i quali stabiliscono che una volta accertata la violazione del diritto di proprietà industriale, possa essere impedita la fabbricazione, il commercio e l'uso di quanto costituisce violazione del diritto e, inoltre, nel caso di violazione dei diritti di marchio, può essere ordinata la distruzione di esso e delle confezioni. In tali casi, appurata la violazione, il giudice dispone un risarcimento per il danneggiato e a seconda della gravità dei fatti può ordinare la pubblicazione totale o parziale della sentenza. Il codice civile offre però anche un'ulteriore tutela, avuto riguardo agli effetti che la contraffazione ha sul mercato, seguendo l'obiettivo di proteggere la libera iniziativa economica in un quadro di concorrenza leale. Tale disciplina trova riscontro in particolare nell'art. 2598 c.c. Si parla ad esempio di concorrenza sleale per confondibilità quando viene imitata la forma esteriore dotata di efficacia individualizzante, cioè idonea, proprio in virtù della capacità distintiva, a far sì che il consumatore medio ricolleghi il prodotto a una determinata impresa (Palma, 1 ss.). La tutela penaleAppare infine utile richiamare talune pronunce della magistratura penale secondo cui i marchi costituiti da segni notori in campo extra-commerciale, come i simboli delle squadre di calcio, devono essere protetti contro l'uso di segni eguali o simili, anche quando questo uso non è effettuato in funzione distintiva, ma è comunque in grado di evocare per il pubblico dei consumatori il messaggio collegato al marchio merchandising (Coccia - De Silvestri - Forlenza - Fumagalli - Musumarra - Selli, 250; Landi, 1 ss.). Si è dunque affermato che le condotte di rilievo penale sono essenzialmente riconducibili ai reati di contraffazione, di riproduzione pedissequa del segno protetto, di alterazione e di riproduzione degli elementi fondamentali del segno protetto. A tal proposito l'art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell'ingegno o di prodotti industriali) presidia il bene della fede pubblica contro gli attacchi insiti nella contraffazione o alterazione del marchio o di altri segni distintivi, mentre l'art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) tende ad assicurare che agli scambi commerciali siano estranee pratiche fraudolente. La prima norma incriminatrice esige dunque la contraffazione, che consiste nella riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo, o l'alterazione, che invece ricorre quando la riproduzione è parziale, ma tale da potersi confondere col marchio originario o col segno distintivo. Per un caso giurisprudenziale recente si veda Cass. pen. V, n. 35235/2023. L'art. 517 c.p. prescinde invece dalla falsità, richiedendo piuttosto l'equivocità dei marchi e delle indicazioni illegittimamente usati, tali da ingenerare la possibilità di confusione con prodotti similari da parte dei consumatori comuni (Cass. pen. V, n. 7720/1996). La giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che integra il delitto di cui all'art. 474 c.p. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto, ad esempio di magliette da gioco di società sportive con marchio contraffatto, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la configurabilità della cosiddetta contraffazione grossolana, su cui da ultimo App. Napoli VI, n. 16434/2023. Sul punto si è infatti ritenuto che l'art. 474 c.p. tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o nei segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione. Si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno. Può peraltro parlarsi di reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (Cass. pen., n. 41815/2013). Si è affermato però, in senso parzialmente contrario alla pronuncia di cui sopra, che il reato di cui all'art. 474 c.p. è configurabile qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno i terzi, così ingenerando confusione tra contrassegno e prodotto originali e quelli non autentici, e quindi errore circa l'origine e la provenienza del prodotto. Si è così escluso che la mancanza del marchio tecnico dello sponsor sulle magliette poste in vendita, con stemma e sponsor delle varie squadre di calcio (Messina, Juventus, Inter, Roma) — la quale integra, tutt'al più un'ipotesi di falsificazione parziale — faccia venir meno gli estremi del reato di cui all'art. 474 c.p. (Cass. pen. II, n. 518/2005). Altra pronuncia degna di nota ha riguardato una società accusata di avere importato dalla Cina uno stock di 31.000 prodotti, recanti marchi contraffatti di Milan, Inter e Juventus, sui quali era apposta sopra la dicitura «falso d'autore». Al riguardo va anche ricordato che la legge ha accordato una speciale tutela al marchio registrato e che tale tutela non può essere aggirata neppure con la dicitura «falso d'autore», poiché la contraffazione è in sé sufficiente e decisiva per la violazione del bene tutelato. La confusione che la norma vuole scongiurare è tra i marchi, e non tra prodotti, cioè tra quello registrato e quello illecitamente riprodotto, e ciò che la legge punisce è la riproduzione, senza averne titolo, del marchio registrato su un prodotto industriale. Ne consegue, in definitiva, che il prodotto è solo il veicolo dei marchi e la legge impone che non vengano riprodotti (in modo pedissequo o con modifiche che non ne alterino i caratteri principali che lo connotano) illecitamente su prodotti industriali (Cass. pen. II, n. 6845/2015; in senso conforme Cass. pen. II, n. 28423/2012). Del resto la pronuncia poc'anzi analizzata (Cass. pen. II, n. 6845/2015) si pone in linea di continuità con una celebre sentenza della Corte di Giustizia europea, relativa a un caso che aveva coinvolto la nota società di calcio inglese Arsenal Football Club. Il club aveva giudizialmente richiesto che fosse vietata la vendita a un tale sig. Reed, titolare di un chiosco vicino lo stadio che commercializzava sciarpe sulle quali figurava il termine «Arsenal», marchio registrato dal club di calcio per gli stessi prodotti. All'esito del giudizio è stata vietata al sig. Reed la vendita dei prodotti malgrado nel chiosco in questione figurasse un cartello in cui veniva affermato che «i loghi contenuti negli articoli in vendita sono utilizzati unicamente allo scopo di decorare il prodotto e non implicano né esprimono appartenenza o alcun rapporto con il fabbricante o i distributori originali» (CGUE, 12 novembre 2002, in C-206/01). Infine, seppure con riferimento alle tutele a disposizione del danneggiato, acquirente del prodotto oggetto (anche) di un contratto di merchandising, si fa presente che la Corte di Giustizia UE, con sentenza 7 luglio 2022, in C-264/2021, ha affermato che l'art. 3, par. 1, della direttiva UE n. 374/1985, deve essere interpretato nel senso che l'apposizione di un marchio su un prodotto fa sorgere la responsabilità di chi l'ha apposto, anche se non sia produttore. Ciò perché l'utilizzo di tale menzione equivale a utilizzare la notorietà del titolare del marchio al fine di rendere il prodotto più attraente agli occhi dei consumatori e tale circostanza giustifica che, in cambio, possa sorgere la sua responsabilità. Le figure affini al contratto di merchandisingIl merchandising va distinto dal contratto di licenza di marchio, che presuppone l'identità del settore merceologico. Le due tipologie contrattuali sono però accomunate dagli strumenti di protezione, che si sostanziano nell'impedire ai terzi non autorizzati l'utilizzazione del bene oggetto della licenza (Bausilio, 407-408). Il contratto di merchandising va poi distinto dal contratto di sponsorizzazione. La differenza è apprezzabile sotto il profilo economico, posto che all'interno di un rapporto di sponsorizzazione spetta al titolare del segno distintivo versare allo sponsee un corrispettivo in denaro o in natura, affinché quest'ultimo possa veicolare il marchio. Nel merchandising, al contrario, è il merchandisee che versa al titolare del marchio delle royalties, una tantum o periodicamente, generalmente commisurate ai ricavi ottenuti, per acquisire il diritto di apporre il marchio sui propri prodotti (Bausilio, 409). Talvolta i due contratti presentano carattere misto, nel senso che viene concesso allo sponsor anche il diritto di far produrre, distribuire e commercializzare prodotti sui quali saranno apposti i segni distintivi della società, del personaggio o dell'evento sponsorizzato. Il fabbricante di articoli sportivi, in questi casi, oltre a diventare lo sponsor tecnico della squadra, fornendo a titolo gratuito materiale vario (scarpe, maglie, tute, ecc.), versa al club contributi in denaro normalmente cospicui. In cambio di tale impegno finanziario, il fabbricante-sponsor mette in vendita maglie e gadget con i colori della squadra e con il proprio marchio. Di solito non si prevede il pagamento separato di royalties, le quali sono però ovviamente considerate per la definizione del corrispettivo dovuto dallo sponsor. Del resto anche lo sponsor può esercitare una propria attività di merchandising, come accaduto nel caso del binomio tra la Federazione svizzera di sci e l'Union Suisse de cómmerce du fromage. In questo caso, lo sponsor, attesa la popolarità acquisita, ha fatto registrare come marchio il particolare design, sviluppando una collezione di articoli denominati «Original Swiss Cheese Design» (Coccia - De Silvestri - Forlenza - Fumagalli - Musumarra - Selli, 248; Landi, 1 ss.). Presenta altresì elementi distintivi dal merchandising anche il contratto di edizione. In quest'ultimo l'autore cede a un editore i diritti di sfruttamento economico di un'opera letteraria. Il contratto merchandising può eventualmente essere concluso in una fase successiva, nel momento in cui il personaggio venga trasposto dalla sfera di fruizione originaria del lettore a quella dell'acquirente di un prodotto o del fruitore di un servizio. Il merchandising si distingue, infine, dal contratto di agenzia. Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità non si deve infatti confondere il corrispettivo spettante al merchandisor con le provvigioni spettanti all'agente nel contratto di agenzia, nel senso che non può ritenersi che l'attività del merchandisee sia ricompresa nell'attività dell'agente e remunerata, salvo specifiche diverse pattuizioni, con le provvigioni percepite da quest'ultimo (Cass. sez. lav., n. 1998/2017; Cass. sez. lav., n. 6896/2004; Cass. I, n. 8409/1998). 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