Codice Civile art. 1842 - Nozione.Nozione. [I]. L'apertura di credito bancario è il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato. InquadramentoL'apertura di credito bancaria è una operazione attiva con la quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte (accreditato) una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato. La funzione tipica della fattispecie negoziale in questione è individuabile non nel godimento da parte del cliente di una somma di danaro per effetto del contestuale trasferimento in capo allo stesso della relativa proprietà, bensì nella costituzione in suo favore di una mera «disponibilità finanziaria». L'apertura di credito è un contratto consensuale ad effetti obbligatori (Molle, in Tr. C. M., 1981, 213). L'apertura di credito, come tutti i contratti bancari, richiede la forma scritta in forza del disposto del primo comma dell'art. 117 d.lgs. n. 385/1993 (T.U. in materia bancaria e creditizia). La giurisprudenza ha precisato che l'apertura di credito regolamentata in conto corrente non richiede la prova scritta ad substantiam ogni qual volta tale requisito sia soddisfatto dal conto corrente al quale accede (Cass. I, n. 26133/2013; Cass. I, n. 19941/2006; contra v. Cass. I, n. 17090/2008). Discussa è la natura giuridica del contratto attesa la funzione analoga a quella del mutuo. La proprietà del denaro resta comunque alla banca fino a quando l'accreditato non ne disponga, per cui solo da tale momento decorrono gli interessi (Cass. I, n. 18182/2004). La S.C. ha rimarcato che dal contratto di apertura di credito quale disciplinato dal codice civile discendono l'obbligo della banca di tenere la somma, predeterminata nell'ammontare e per il periodo stabilito, a disposizione del cliente e il diritto di questi di disporre della stessa, in più volte e secondo le forme di uso se non è stato convenuto altrimenti, come previsto dall'art. 1843, ovvero in qualsiasi momento, salva l'osservanza del termine di preavviso eventualmente pattuito, se l'apertura è regolata in conto corrente, a norma dell'art. 1852 c.c. Diversamente, non concretano l'apertura di credito i contratti i quali, pur prevedendo la concessione di un fido al cliente non determinano con immediatezza l'insorgenza dell'obbligazione della banca e del corrispondente diritto del cliente, ma prevedono che il fido sarà completamente operante al momento del compimento di determinati atti o del realizzarsi di determinate condizioni o circostanze e solo nell'ammontare corrispondente alla concreta operazione correlata a quell'atto a quella condizione o a quella circostanza (Cass. I, n. 8225/2015). Natura giuridicaLa dottrina sviluppatasi sotto la vigenza del codice del commercio considerava l'apertura di credito un contratto preparatorio, un contratto cioè che non esaurisce in sé e per sé la sua funzione, ma che prepara la conclusione di altri successivi contratti, che sarebbero appunto rappresentati dagli atti di utilizzazione. Ciò in quanto gli atti di utilizzazione importerebbero una attività giuridica e non una semplice attività materiale. Questa dottrina si scindeva poi fra coloro che ravvisavano nell'apertura di credito un contratto preliminare e coloro che vi ravvisavano invece un contratto normativo o almeno in parte normativo. Entrambe le tesi sono state superate nel sistema del codice vigente che considera l'apertura di credito come un contratto definitivo avente una sua causa specifica, non come un contratto preparatorio di altri contratti. L'opinione maggioritaria sottolinea che la nozione di apertura di credito, contenuta nell'art. 1842, prescinde dal fatto della utilizzazione e gravita unicamente sulla messa a disposizione della somma, e cioè sulla creazione di una disponibilità: oggetto del contratto non sarebbe dunque il godimento di una somma bensì il godimento di una disponibilità. Quindi il contratto di apertura di credito esaurisce la sua efficacia nell'apprestamento di una disponibilità: gli atti di utilizzazione sono operazioni autonome, anche se collegate economicamente con quella di apertura di credito, e, rispetto all'apertura di credito, incidono soltanto perché valgono a modificare la misura della disponibilità (Ferri, 599; Molle, in Tr. C. M., 1981, 187). Altri autori, invece, avvicinano l'apertura di credito al mutuo evidenziando che la differenza tra i due istituti risiederebbe nella circostanza che il mutuo ordinario è un contratto di credito ad esecuzione istantanea mentre l'apertura di credito è ad esecuzione periodica (Fiorentino, in Comm. S. B., 1953, 468). La giurisprudenza sembra allineata con l'impostazione maggioritaria in dottrina avendo ritenuto che il tenere una somma di danaro a disposizione del cliente costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito (Cass. I, n. 8225/2015; Cass. I, n. 22915/2011) ed avendo rimarcato le differenze col contratto di mutuo (Cass. I, n. 1225/2000). La S.C. ha comunque ribadito che la predeterminazione del limite massimo della somma accreditabile non costituisce elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito (Cass. I, n. 26133/2013). FormaL'apertura di credito, come tutti i contratti bancari, ha risentito dell'introduzione di obblighi formali (e sostanziali) dettati dalla normativa di vigilanza prudenziale e di trasparenza bancaria e protezione del consumatore. Anteriormente all'entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria (l. n. 154/1992), benché nella prassi l'apertura di credito si sia sempre configurata come contratto standardizzato, stipulato per iscritto mediante la compilazione e la sottoscrizione di moduli all'uopo predisposti dagli istituti di credito, era assolutamente prevalente l'opinione che sosteneva trattarsi di contratto a forma libera (Molle, in Tr. C. M., 1981, 214), anche se la giurisprudenza, pur riconoscendo in linea di principio, in coerenza a tale assunto, la possibilità che lo stesso potesse perfezionarsi verbalmente ovvero per facta concludentia, manifestava particolare prudenza nella valutazione in concreto del comportamento delle parti. Attualmente, il primo comma dell'art. 117 d.lgs. n. 385/1993 (T.U. in materia bancaria e creditizia) riproduce il comma 1 dell'art. 3 l. n. 154/1992 ribadendo il principio che i contratti bancari devono essere redatti per iscritto. L'inosservanza di tale requisito è sanzionata da nullità (art. 117, comma 3) che però può essere fatta valere dal solo cliente o rilevata di ufficio dal giudice (art. 127, comma 2 d.lgs. n. 385/1993). Nella prassi bancaria, tuttavia, viene sovente tollerato che il cliente operi «allo scoperto» su un conto corrente o effettui «sconfinamenti» rispetto alla disponibilità accordata, sulla base o anche in assenza di una specifica richiesta dell'accreditato, ponendosi così il dubbio se si sia o no in presenza di una stipulazione per fatti concludenti del contratto. In dottrina sembra prevalere l'opinione secondo cui, in linea teorica, non è necessaria la forma scritta per la conclusione del contratto di apertura di credito, purché sia previsto e regolato nel contratto di conto corrente, salvo poi escludere che l'esecuzione di ordini di pagamento da parte della banca in assenza di fondi disponibili sul conto corrente comporti di per sé la conclusione tacita del contratto di apertura di credito (Teti, in Comm. S., Milano, 2005, 64). Tali conclusioni appaiono condivise dalla giurisprudenza che ritiene che l'apertura di credito regolamentata in conto corrente non richiede la prova scritta ad substantiam ogni qual volta tale requisito sia soddisfatto dal conto corrente al quale accede (Cass. I, n. 26133/2013; Cass. I, n. 19941/2006; contra v. Cass. I, n. 17090/2008). La S.C. ha inoltre ribadito in numerose sentenze che l'esistenza di un contratto di apertura di credito non può essere ricavata per facta concludentia dalla mera tolleranza di una situazione di scoperto, potendo costituire espressione di una scelta discrezionale di volta in volta esercitata dalla banca secondo le circostanze del caso concreto (Cass. I, n. 8160/1999). In una recente pronuncia è stato chiarito, con riferimento ad un'aperturadi credito in conto corrente stipulata prima dell'entrata in vigore dell'art. 3 della l. n. 154 del 1992, la prova dell'affidamento può essere fornita per facta concludentia, purché emerga almeno l'ammontare accordato al correntista, essendo invece insufficiente la sola dimostrazione della tolleranza della banca in ordine a sconfinamenti del cliente rispetto al tetto massimo riconosciuto (Cass. I, n. 11016/2024). Apertura di credito documentatoNel linguaggio bancario il termine «apertura di credito» viene usato per indicare quel rapporto che si inserisce in una operazione del commercio internazionale (vendita su documenti) e per effetto del quale la banca interviene per conto del compratore e a favore del venditore in modo da consentire al venditore di esigere il prezzo della merce verso consegna alla banca dei documenti pattuiti. Quando non sussiste un obbligo della banca nei confronti del venditore della merce, si parla di apertura di credito semplice o revocabile, mentre nel caso in cui sussista un obbligo diretto della banca nei confronti del venditore, siccome questo obbligo diretto si assume sulla base di una lettera di conferma, si parla di apertura di credito confermato o irrevocabile (Ferri, 603; Serra, 160). La giurisprudenza reputa che nella vendita di merci con apertura di credito per il prezzo, da parte del compratore a favore del venditore presso una banca, ove quest'ultima confermi il credito nei confronti del beneficiario il rapporto obbligatorio tra banca e beneficiario è astratto, cioè indipendente dal contratto di compravendita. Ne consegue che, nel rapporto obbligatorio tra la banca accreditante ed il beneficiario, l'obbligazione assunta dalla prima verso il secondo di mettere a disposizione di costui la somma oggetto dell'apertura di credito è condizionata all'esito positivo del controllo, da parte della banca (a ciò obbligata nei riguardi dell'ordinante), della regolarità dei documenti relativi alla vendita che il beneficiario ha l'onere di presentare alla banca stessa entro un certo tempo (Cass. III, n. 1288/2003). Nel caso di apertura di (credito non confermato), invece, tra i due negozi esiste un collegamento funzionale, implicante l'attrazione dell'apertura di credito, specificamente finalizzata all'esecuzione della compravendita, nel sinallagma di questa. Sussistendo un collegamento con l'obbligazione del venditore nei confronti del compratore di consegnare le merci oggetto della compravendita, le vicende di detto sinallagma reagiscono nell'esecuzione del mandato e, quindi, la consegna dal venditore al compratore di merce viziata o mancante di qualità promesse o essenziali o, addirittura, di aliud pro alio costituisce giusta causa di revoca del mandato (nonostante la clausola di irrevocabilità), con la conseguenza che, comunicata tale revoca alla banca, questa, pur se ha constatato la regolarità dei documenti relativi alla vendita, non può consentire al beneficiario-venditore l'utilizzazione del credito aperto in suo favore (Cass. III, n. 3992/1983). Divieto di pattuire interessi usurariLa giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il divieto di pattuire interessi usurari, previsto per il mutuo dall'art. 1815, comma 2, è applicabile a tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro remunerazione, compresa l'apertura di credito in conto corrente (Cass. I, n. 12965/2016). È stato, in particolare, evidenziato che le disposizioni della l. n. 108/1996 prescindono dalla qualificazione giuridica del rapporto in cui siano convenuti interessi usurari, e che il generale richiamo all'art. 644 c.p. ne estende il campo di applicazione a tutte le fattispecie negoziali in concreto penalmente sanzionabili. La pattuizione di interessi usurari non è, difatti, eventualità che si verifica nei soli contratti di mutuo, bensì in qualsivoglia contratto avente funzione creditizia al quale può essere associata la corresponsione di interessi compresa, dunque, l'apertura di credito in conto corrente. Ad avviso della S.C. la clausola contenuta nei contratti di apertura di credito in conto corrente, che preveda l'applicazione di un determinato tasso sugli interessi dovuti dal cliente e con fluttuazione tendenzialmente aperta, da correggere con sua automatica riduzione in caso di superamento del cd. tasso soglia usurario, ma solo mediante l'astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista, deve ritenersi nulla ex art. 1344 c.c. in quanto tesa ad eludere il divieto di pattuire interessi usurari, previsto dall'art. 1815, comma 2 (Cass. I, n. 12965/2016). Si è altresì ritenuto che, in tema di contratto di conto corrente bancario, qualora vengano pattuiti interessi superiori al tasso soglia con riferimento all'indebitamento extra fido e interessi inferiori a tale tasso per le somme utilizzate entro i limiti del fido, la nullità della prima pattuizione non si comunica all'altra, pur se contenute in una medesima clausola contrattuale, poiché si deve valutare la singola disposizione, sebbene non esaustiva della regolamentazione degli interessi dovuti in forza del contratto (Cass. I, n. 21470/2017). Divieto di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocisticiIn tema di controversie relative ai rapporti tra la banca ed il cliente correntista, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente e negoziato dalle parti in data anteriore al 22 aprile 2000, il giudice, dichiarata la nullità della predetta clausola, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283, deve calcolare gli interessi a debito del correntista senza operare alcuna capitalizzazione (Cass. I, n. 17150/2016). Le Sezioni Unite hanno, peraltro, chiarito che, qualora dopo la cessazione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisca per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale, cui tale azione di ripetizione è soggetta, decorre, ove i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto in cui sono stati registrati gli interessi non dovuti (Cass. S.U., n. 24418/2010). Successivamente a tale pronuncia si sono registrati problemi interpretativi in ordine alla modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione da parte della banca, convenuta in ripetizione. Posto che, secondo la menzionata sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite, la prescrizione del diritto alla restituzione ha decorrenza diversa a seconda del tipo di versamento effettuato - solutorio o ripristinatorio - si è, infatti, posta la questione se, nel formulare l'eccezione di prescrizione, la banca debba necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione, e cioè l'esistenza di singoli versamenti solutori, a partire dai quali l'inerzia del titolare del diritto può venire in rilievo (in tal senso Cass. VI, n.20933/2017; Cass. I, n. 33320/2018), o se possa limitarsi ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e durata, in base alla norma in concreto applicabile (in tal senso Cass. VI, n. 4372/2018; Cass. I, n. 5571/2018). Le Sezioni Unite sono recentemente intervenute per comporre il contrasto giurisprudenziale statuendo che l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un'apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l'indicazione di specifiche rimesse solutorie (Cass. S.U. n. 15895/2019). Il costo dell'utilizzo della disponibilità: dalla commissione di massimo scoperto alla commissione di affidamentoCon l'apertura di credito il sovvenuto consegue due distinti vantaggi economici: da un lato, per effetto del perfezionamento del relativo contratto, ottiene la messa a disposizione a suo favore di una provvista finanziaria, con facoltà di farne uso, in qualsiasi momento e senza preavviso, nei limiti dell'affidamento concessogli; dall'altro, per effetto dell'eventuale esercizio del diritto potestativo contrattualmente attribuitogli, l'effettiva erogazione dei fondi. La commissione di massimo scoperto venne introdotta nei contratti bancari a partire dalle norme bancarie uniformi (NBU) adottate dal 1° gennaio 1952, pur osservandosi, in fatto, che di essa sia mancata una definizione legislativa, come pure un'univoca prassi applicativa. Invero, con la generica dizione di commissione di massimo scoperto, le banche, prima delle modifiche normative del 2009 (art. 2-bis d.l. n. 185/2008 conv. in l. n. 2/2009 e d.l. n. 78/2009 conv. in l. n. 102/2009) e del 2012 (d.l. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011, d.l. n. 1/2012 conv. in l. n. 27/2012, d.l. n. 29/2012 conv. in l. n. 62/2012), hanno per molti anni utilizzato diversi modelli, riconducibili essenzialmente a due forme: a) una commissione di mancato utilizzo (CMU) rilevata e percepita in principio trimestralmente, consistente in una somma espressione di una percentuale calcolata sull'accordato (la disponibilità concessa al cliente) al netto dell'utilizzato, ove la commissione ha funzione di compensare la disponibilità del denaro che la banca si impegna a mantenere in favore del cliente, e quindi i costi industriali e finanziari di essa, non confondibile con gli interessi, perché prescinde dall'effettivo utilizzo della liquidità, dandosi un autonomo valore alla messa a disposizione della somma non utilizzata; b) una commissione di massimo scoperto (CMS), più frequente, rilevata e percepita negli stessi termini trimestrali, sull'ammontare massimo dell'utilizzo nel periodo, quando esso sia durato un minimo di tempo, per cui la commissione è calcolata sul picco più elevato della somma prelevata dal cliente in certo arco temporale, con la funzione di remunerare la banca non tanto per disponibilità concessa al cliente (accordato), quanto piuttosto per quella dallo stesso effettivamente utilizzata. Nel tempo, tuttavia, è stato parimenti rilevato che, perdurante l'assenza di una definizione legale univoca, la prassi bancaria si è allontanata dallo schema originario, applicando la commissione di massimo scoperto al cd. massimo scoperto del periodo, nonché ai cd. fidi di fatto (scoperti e sconfinamenti di conti correnti, anche senza formale apertura di credito). Così strutturata, la commissione di massimo scoperto è venuta, di fatto, a rappresentare per il cliente un costo ulteriore rispetto agli interessi pattuiti, assimilabile a questi sotto il profilo economico, essendo calcolata sulla medesima somma (il cd. utilizzato). Tanto premesso in ordine alla mancanza di una nozione unitaria di commissione massimo scoperto, deve evidenziarsi che una parte della giurisprudenza di merito ritiene l'invalidità tout court dell'istituto in ragione della mancanza di causa (Trib. Monza 18 ottobre 2016; Trib. Bari 15 giugno 2016; Trib. Salerno 12 giugno 2009; Trib. Monza 7 aprile 2006; Trib. Lecce 11 marzo 2005). L'orientamento maggioritario, invece, ammette la teorica legittimità della clausola, in base all'inequivoco disposto dell'art. 117 TUB pur ritenendo che la clausola stessa, per essere valida, debba rivestire i requisiti della determinatezza o determinabilità dell'onere aggiuntivo che viene ad imporsi al cliente, chiarendo che ciò accade quando sia frutto di specifica pattuizione in cui siano previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo, sia la periodicità di tale calcolo (Trib. Brescia 3 dicembre 2017; Trib. Lucca 14 dicembre 2016; Trib. Pavia 8 settembre 2016; Trib. Reggio Emilia, 23 aprile 2014; Trib. Modena 5 aprile 2012; Trib. Milano 5 luglio 2010; Trib. Cassino 10 giugno 2008). Chiamata a pronunciarsi, per la prima volta, sulla natura della commissione di massimo scoperto, la Corte di Cassazione ebbe a sostenere argomentativamente che o tale commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi — come potrebbe inferirsi anche dall'esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell'esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato, che solitamente è trimestrale, e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale — o ha una funzione remunerativa dell'obbligo della banca di tenere a disposizione dell'accreditato una determinata somma per un determinato periodo di tempo, indipendente dal suo utilizzo, come sembra preferibile ritenere anche alla luce della circolare della Banca d'Italia dell'1 ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. tasso-soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve essere computata ai fini della rilevazione dell'interesse globale di cui alla l. n. 108/1996 ed allora dovrebbe essere conteggiata alla chiusura definitiva del conto (Cass. III, n. 11772/2002), con la conclusione per cui, quale che sia la soluzione preferibile secondo la Corte non è comunque dovuta la capitalizzazione trimestrale perché, se la natura della commissione di massimo scoperto è assimilabile a quella degli interessi passivi, le clausole anatocistiche, pattuite nel regime anteriore all'entrata in vigore della l. n. 154/1992, sono nulle secondo la più recente giurisprudenza di legittimità; se invece è un corrispettivo autonomo dagli interessi, non è ad esso estensibile la disciplina dell'anatocismo, prevista dall'art. 1283 c.c. espressamente per gli interessi scaduti. Successivamente la S.C. ha ribadito che la CMS costituisce la remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall'effettivo prelevamento della somma, sancendone, sia pure in un passaggio collaterale, la non illegittimità (Cass. I, n. 870/2006). Nonostante le pronunce favorevoli alla sua legittimità, l'istituto della commissione di massimo scoperto entrò in un ulteriore contesto di regolazione con l'emanazione del d.l. n. 185/2008, conv. con modifiche dalla l. n. 2/2009, che, con l'art. 2-bis (inserito in sede di conversione), fissò (tra le altre novità in materia di contratti bancari) nel comma 1 — norma successivamente abrogata — che «Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall'effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all'importo e alla durata dell'affidamento richiesto dal cliente e sia specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l'indicazione dell'effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento». Il comma 2 della disposizione in esame, invece, continua a stabilire che «Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell'applicazione dell'art. 1815 c.c., dell'art. 644 c.p. e della l. n. 108/1996, artt. 2 e 3. Il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Banca d'Italia, emana disposizioni transitorie in relazione all'applicazione della l. n. 108/1996, art. 2, per stabilire che il limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono usurari, resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni». Il d.l. n. 78/2009, art. 2, comma 2, conv. con modifiche dalla l. n. 102/2009, aveva successivamente introdotto un limite percentuale al corrispettivo omnicomprensivo, affinché questo potesse essere ritenuto valido: «L'ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell'importo dell'affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione. Il Ministro dell'economia e delle finanze assicura, con propri provvedimenti, la vigilanza sull'osservanza delle prescrizioni del presente articolo». Con l'intervento del legislatore del 2009 si è dunque stabilito che: 1) è legittima la commissione di massimo scoperto, sub specie sia di commissione di massimo scoperto, sia di commissione di messa a disposizione dei fondi; 2) vanno introdotte alcune limitazioni a tutela della clientela per entrambe le ipotesi (sussistenza di un saldo a debito — su un conto affidato — per un periodo continuativo pari o superiore a trenta giorni); 3) sono nulle le (sole) clausole contrattuali stipulate in violazione delle suddette limitazioni; 4) la CMS (letteralmente le «commissioni comunque denominate che prevedono una remunerazione per la banca dipendente dell'effettiva durata di utilizzazione dei fondi da parte del cliente») è rilevante, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, ai fini dell'applicazione tanto dell'art. 1815 che dell'art. 644 c.p. Anche la S.C. ha all'uopo evidenziato che l'intervento legislativo del 2009, pure omettendo ogni definizione più puntuale della CMS, ha effettuato una ricognizione dell'esistente con l'effetto sostanziale di sancire definitivamente la legittimità di siffatto onere e, per tale via, di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa (Cass. I, n. 12965/2016). I Giudici di legittimità hanno inoltre rimarcato che il legislatore, con l’art. 2-bis, comma 1, l. n. 2 del 2009, ha inteso sanzionare con la nullità tutte le clausole contrattuali che prevedano commissioni per scoperto di conto - indipendentemente dal fatto che fossero commisurate alla punta del massimo dello scoperto nel trimestre (CMS) o alla durata del medesimo scoperto - con riferimento ai conti correnti non affidati trattandosi di commissioni non legate a servizi effettivamente resi dalla banca (Cass. III, n. 12997/2019). Successivamente, l'art. 6-bis, d.l. n. 201/2011, conv., con modifiche dalla l. n. 214/2011, (inserito in sede di conversione), ha introdotto nel TUB l'art. 117-bis rubricato «Remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti» e, poi, a distanza ravvicinata, prima l'art. 27, comma 4, d.l. n. 1/2012, conv. con modifiche dalla l. n. 27/2012, ha abrogato il primo e l' art. 2-bis, comma 3, d.l. n. 185 del 2009, e a seguire l'art. 1, comma 1, d.l. n. 29/2012, conv. con modifiche dalla l. n. 27/2012, e al d.l. n. 385/1993, nonché modifiche alla l. n. 249/1997, conv. con modifiche in l. n. 62/2012, ha novellato il ridetto art. 117-bis TUB. Infine, in attuazione di quanto disposto dall'art. 117-bis, comma 4, TUB, è stato approvato il d.m. n. 644/2012, entrato in vigore il successivo 1° luglio 2012. Nella formulazione dell'art. 117-bis TUB, attualmente vigente — nel testo a decorrere dal 22 maggio 2012 — al primo comma vengono tipizzate le commissioni di affidamento (CA) per l'apertura di credito in conto corrente, al comma 2 sono disciplinate le commissioni applicabili in caso di sconfinamento; il comma 3 prevede la nullità delle clausole che prevedono oneri diversi e non conformi a quelli indicati nei primi due. Il quarto comma, infine, attribuisce al CICR la competenza ad adottare disposizioni, anche di trasparenza, applicative dell'articolo e ad estendere il raggio di azione della norma a contratti ulteriori rispetto ad aperture di credito e conti correnti «per i quali si pongano analoghe esigenze di tutela del cliente». Conseguentemente, nel vigore della nuova disciplina, i contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici «oneri per il cliente, da un lato, una commissione «omnicomprensiva» (ma inferiore allo 0,5 per cento per trimestre), «calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma a disposizione del cliente e alla durata dell'affidamento», dall'altro, un tasso di interesse debitore sulle somme utilizzate. Secondo quanto previsto dal d.m. n. 644/2012, art. 3, comma 2, lett. ii), (del CICR) la commissione di affidamento si applica «sull'intera somma messa a disposizione del cliente in base al contratto», e per il periodo in cui la stessa somma è messa a disposizione del cliente. Ne discende che non sono più consentite commissioni che, al di là del nomen loro attribuito, non siano calcolate in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell'affidamento. Parimenti nemmeno sono prevedibili oneri ulteriori rispetto alla nuova commissione di affidamento, né per la messa a disposizione di fondi, né per il loro utilizzo, tra cui la commissione per l'istruttoria, nonché ogni altro corrispettivo per attività che sono a esclusivo servizio dell'affidamento (art. 3, comma 2, lett. i, d.m. n. 644/2012). Per quanto riguarda invece gli sconfinamenti, è stabilito che gli unici oneri prevedibili a carico del cliente sono una commissione di istruttoria veloce (CIV) e il tasso d'interesse debitore (art. 4, comma 1, lett. a) e lett. b), d.m. CICR n. 644/2012). La CIV è applicabile sia a fronte di addebiti che determinano uno sconfinamento, sia a fronte di addebiti che accrescono l'ammontare di uno sconfinamento esistente (se determinano la necessità di una nuova istruttoria), sempre che vi sia uno sconfinamento sul saldo disponibile di fine giornata. È altresì stabilito che la commissione di istruttoria veloce sia determinata nel contratto in misura fissa, espressa in valore assoluto (id est non in percentuale), commisurata ai costi; costi che possono considerarsi il limite intrinseco, se non la misura, dell'importo richiedibile a tale titolo (art. 4, comma 2, d.m. n. 644/2012). Devono essere resi noti alla clientela i casi di applicazione della commissione, quali stabiliti dall'intermediario nell'ambito delle procedure appositamente formalizzate. Ne consegue che, quanto a determinatezza della clausola e trasparenza, nel contratto dovrà essere indicata la commissione di istruttoria veloce, e non anche necessariamente i casi in cui questa si applica, che ben potranno essere resi noti alla clientela nella documentazione di trasparenza precontrattuale. La disciplina così richiamata è dichiarata applicabile ai contratti di apertura di credito e di conto corrente in corso alla data del 1° luglio 2012; contratti che conseguentemente devono essere adeguati, ai sensi dell'art. 118 TUB, entro il 1° ottobre 2012 con l'introduzione di clausole conformi alle disposizioni dell'art. 117-bis TUB (art. 5, comma 4, d.m. n. 644/2012). Commissione di massimo scoperto e superamento del tasso soglia Il disposto del comma 2 dell'art. 2-bis d.l. n. 185/2008, introdotto dalla legge di conversione 28 gennaio 2009, n. 2, prevede espressamente che «Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell'applicazione dell'art. 1815 del c.c., dell'art. 644 del c.p. e degli artt. 2 e 3 della l. n. 108/1996». Si era, pertanto, posto il problema della rilevanza della CMS ai fini del superamento del tasso soglia con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore della summenzionata norma (il 1° gennaio 2010). Secondo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza penale e, in particolare (Cass. pen. II, n. 28928/2014; Cass. pen. II, n. 46669/2011; Cass. pen. II, n. 12028/2010), il tenore letterale del quarto comma dell'art. 644 c.p., secondo il quale per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del credito, impone di considerare, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito, tra i quali la commissione di massimo scoperto. Di contro, la giurisprudenza civile (Cass. I, n. 22270/2016; Cass. I, n. 12965/2016) ha ritenuto che, escluso il carattere interpretativo del cit. art. 2-bis, non fosse possibile considerare, per il periodo precedente l'entrata in vigore di tale norma, le C.M.S., ai fini della verifica del superamento in concreto del tasso soglia dell'usura presunta, anche in considerazione di un'esigenza di simmetria e omogeneità tra i criteri di determinazione, da un lato, del tasso effettivo globale (Teg) applicato in concreto nel rapporto controverso, ai sensi dell'art. 644, comma 4 c.p. e, dall'altro, del tasso effettivo globale medio (Tegm), in quanto tutti i decreti ministeriali di rilevazione del Tegm, emanati nel medesimo periodo, recependo le istruzioni della Banca d'Italia determinano tale tasso senza comprendere nel calcolo l'ammontare delle commissioni di massimo scoperto. Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 16303/2018), intervenute a dirimere il contrasto, hanno in primo luogo rimarcato che l'art. 2-bis del d.l. n. 185/2008 non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644, comma 4, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta un cambiamento — per il futuro — la complessa normativa, anche regolamentare, tesa a rispettare il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari, come si evince sia dall'espressa previsione, al comma 2 del detto art. 2-bis, di una disciplina transitoria da emanarsi in sede amministrativa, secondo la norma contenuta nel comma 3 del ridetto art. 2-bis (poi abrogato dall'art. 27 del d.l. n. 1/2012, conv. con modif. dalla l. n. 27/2012), un tenore della quale «i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di traduzione del presente articolo». Ciò nondimeno, hanno osservato che la natura corrispettiva delle C.M.S. impone, in relazione al tenore letterale dell'art. 644, comma 4 c.p., di prenderle in considerazione ai fini della determinazione del tasso soglia, al pari del tasso effettivo. Per raggiungere siffatta simmetria di calcolo, le S.U. hanno ricordato non è esatto che le C.M.S. non siano incluse nei decreti ministeriali emanati nel periodo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 2-bis. Esse hanno osservato che i decreti danno atto, sia pure a parte (in calce alla tabella dei Tegm), della C.M.S., rilevando che la stessa viene rilevata separatamente, espressa in termini percentuali e che «il calcolo della percentuale della commissione di massimo scoperto va effettuato, per ogni singola posizione, rapportando l'importo della commissione effettivamente percepita all'ammontare del massimo scoperto sul quale è stata applicata». Alla stregua di tale premessa, sul piano operativo, le Sezioni unite hanno recepito le indicazioni contenute nel Bollettino di Vigilanza n. 12 del dicembre 2005 della Banca d'Italia, la quale ha osservato che la verifica del rispetto delle soglie di legge richiede, accanto al calcolo del tasso in concreto praticato e al raffronto di esso con il tasso soglia, il confronto tra l'ammontare percentuale della C.M.S. praticata e l'entità massima della C.M.S. applicabile (c.d. C.M.S. soglia), desunta aumentando del 50 % l'entità della C.M.S. media pubblicata nelle tabelle, secondo le prescrizioni dell'art. 2, comma 4 della l. n. 108/1996, prima della modifica introdotta con il d.l. n. 70/2011, conv. con l. n. 106/2011, con la puntualizzazione che l'applicazione di commissioni che superano l'entità della cd. C.M.S. soglia non determina, di per sé, l'usurarietà del rapporto, che va invece desunta da una valutazione complessiva delle condizioni applicate. A tal fine, per ciascun trimestre, l'importo della C.M.S. percepita in eccesso va confrontato con l'ammontare degli interessi (ulteriori rispetto a quelli in concreto praticati) che la banca avrebbe potuto richiedere fino ad arrivare alle soglie di volta in volta vigenti («margine»). Qualora l'eccedenza della commissione rispetto alla c.d. C.M.S. soglia sia inferiore a tale «margine» è da ritenere che non si determini un superamento delle soglie di legge. BibliografiaFerri, voce Apertura di credito, in Enc. dir., II, Milano, 1958; Fiorentino, Apertura di credito bancario, in Nss. D.I., Torino, 1957; Porzio, Apertura di credito, in Enc. giur., II, Roma, 1988; Serra, voce Apertura di credito confermato, in Dig. comm., I, Torino, 1987; Sirena, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti bancari di credito al consumo, in Banca, borsa, tit. cred. 1997, II, 354; Tondo, Dei contratti bancari, in Comm. De M.,, Novara-Roma, 1971. |