Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 181 - (Chiusura della procedura) 1 .

Alessandro Farolfi

(Chiusura della procedura)1.

 

La procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione ai sensi dell' articolo 180 . L'omologazione deve intervenire nel termine di nove mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell' articolo 161; il termine può essere prorogato per una sola volta dal tribunale di sessanta giorni2.

[2] Comma modificato dall'articolo 3, comma 5-bis, del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 1, del medesimo decreto.

Inquadramento

Gli effetti prodotti dall'ammissione alla procedura di concordato preventivo sono molteplici.

In primo luogo, si determina quello che viene definito tradizionalmente come «spossessamento minore»: l'imprenditore resta cioè in bonis e la pendenza della procedura concorsuale non ne altera la capacità di agire o processuale; mancano in altri termini nel concordato disposizioni come gli art. 42 e 43 l. fall. (che infatti non sono oggetto di richiamo da parte del successivo art. 169 l. fall.) e che, rispettivamente, privano il fallito dell'amministrazione dei suoi beni e della sua legittimazione processuale. Il concordato non determina effetti così radicali. E, tuttavia, è indubbio che l'apertura della procedura di concordato determini un vincolo di destinazione sui beni del debitore ai fini del soddisfacimento dei creditori concorsuali: questo spiega come l'imprenditore non sia del tutto libero nella gestione dell'impresa e dei suoi beni, ma sottoposto a vigilanza e ad eventuale autorizzazione da parte degli organi della procedura nel caso in cui intenda compiere atti che eccedono l'ordinaria amminsitrazione.

In secondo luogo, il vincolo di destinazione richiede, al fine di non rimanere puramente potenziale, un meccanismo simile a quello che tutela i creditori pignoranti nell'ambito dell'esecuzione forzata individuale. Ecco pertanto il richiamo all'art. 45 l. fall., compiuto dal già citato art. 169 l. fall., che ha lo scopo di rendere inefficaci rispetto ai creditori anteriori le eventuali formalità atte a rendere opponibili gli atti ai terzi poste in essere dopo la pubblicazione della domanda di concordato. Tale disposizione si coordina con l'art. 168 l. fall., che dispone che dal momento della pubblicazione della domanda e sino alla definitività del decreto di omologazione nessuno dei creditori anteriori può iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore, né acquistare diritti di prelazione salvo che vi sia autorizzazione del giudice.

Quello che in dottrina viene definito come «ombrello protettivo» o anche automatic stay e che consente al debitore di proporre ai propri creditori anteriori una proposta di ristrutturazione del debito potendo contare su di una certa consistenza del patrimonio e che lo stesso non sarà esposto ad azioni «aggressive» di taluno di essi, è inoltre stato esteso — con le modifiche operate con il d.l. n. 83/2012 convertito con modd. nella l. n. 134/2012 — alla fase di pre-concordato ed addirittura ad un periodo strettamente antecedente. Infatti, l'espressione «dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese», contenuta nel citato art. 168 l. fall., va interpretata come comprensiva anche del ricorso prenotativo o «in bianco», di cui all'art. 161, comma 6 l. fall. Ancora, con un formidabile effetto incentivante per l'utilizzo di questa forma di ristrutturazione del debito e di difesa, ove possibile, per la continuità dell'impresa, la norma sancisce altresì l'inefficacia rispetto ai creditori anteriori delle ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni antecedenti la data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese.

L'apertura della procedura di concordato (con effetto dalla data della pubblicazione del ricorso) segna inoltre la c.d. cristallizzazione del debito: il richiamo all'art. 55 l. fall. vale infatti a sancire la sospensione del corso degli interessi sui crediti chirografari e la rimodulazione di quelli relativi ai crediti privilegiati. Èinvece discusso se l'applicazione di tale disposizione si estenda anche alla regola della scadenza convenionale delle obbligazioni pecuniarie alla data di apertura del procedimento di concordato.

Il rinvio all'art. 56 l. fall. appare coerente con il suddetto principio di cristallizzazione, importando la non compensabilità tra crediti liquidi ed esigibili sorti anteriormente alla procedura e contrapposte ragioni di credito sorte in pendenza di essa, in quanto trattasi all'evidenza di somme non omogenee e destinate per i primi, ad essere erogate secondo falcidia concordataria, mentre per i secondi per l'intero.

Va poi, più in generale, ricordato che con l'apertura della procedura concordataria ogni cessione di beni facenti parte del patrimonio del debitore deve tendenzialmente avvenire secondo procedure competitive. Ciò significa che tre sono elementi perciò necessari, ad avviso dello scrivente, per la regolarità di esse: 1) preventiva stima del bene (posto che la stessa assicura termini di riferimento trasparenti e corregge eventuali asimmetrie informative); 2) pubblicità dell'eventuale offerta e comunque della procedura di vendita; 3) possibilità di gara fra gli eventuali plurimi offerenti (si ritiene cioè che la competizione sia effettiva soltanto laddove gli offerenti possano, sia pure entro termini previsti o con modalità preventivate, rilanciare e così migliorare l'offerta iniziale, in modo da rendere effettiva la competizione fra gli stessi, in vista del migliore interesse per i creditori).

Secondo Cass. VI, n. 11660/2016, la norma di cui all'art. 168, comma 1 l. fall., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore «dalla data della presentazione del ricorso per l'ammissione al concordato fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione», non può ritenersi legittimamente applicabile anche al pagamento del terzo pignorato effettuato in adempimento dell'ordinanza di assegnazione del credito. Il procedimento di concordato preventivo non prevede, di fatto, la possibilità di revocatorie o di azioni ai sensi dell'art. 44 l. fall., e nemmeno è fornito di un ufficio abilitato ad agire in tal senso, essendo applicabili, in virtù del richiamo di cui all'art. 169 l. fall., soltanto le disposizioni degli artt. da 55 a 63 della medesima legge, sicché il pagamento di un debito preconcordatario deve ritenersi in sé legittimo, in quanto atto di ordinaria amministrazione, purché non integri l'ipotesi di un atto «diretto a frodare le ragioni dei creditori», e, quindi, sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173, comma 2, e revocabile in forza dell'art. 167, comma 2. l'obbligo del commissario giudiziale, di cui al combinato disposto degli articoli 166 e 88, comma 2, l. fall., di provvedere alla notifica al conservatore dell'estratto autentico del decreto di ammissione al concordato preventivo ai fini della trascrizione sui beni immobili del debitore, deve ritenersi operante anche con riferimento agli immobili di terzi ceduti ai creditori del concordato.

Peraltro, secondo Trib. Aosta 20 febbraio 2014, il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore che consegue alla presentazione di ricorso per concordato preventivo con riserva opera esclusivamente sulle azioni esecutive individuali, non rientrando nel citato divieto le azioni di consegna o rilascio, di rivendicazione e separazione dei beni non appartenenti al debitore

Si è ritenuto che il pagamento non autorizzato di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato con riserva, non comporta, in via automatica, l'inammissibilità della proposta, dovendosi pur sempre valutare se detto pagamento costituisca, o meno, atto di straordinaria amministrazione ed, in ogni caso, se la violazione della regola della «par condicio» sia diretta a frodare le ragioni dei creditori, pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta negoziale formulata con la domanda di concordato (così Cass. I, n. 7066/2016, seguita da successiva conforma giurisprudenza di legittimità).

Amministrazione durante la procedura

La disposizione dell'art. 167 l. fall. rende evidente quello che prima si è definito come «spossessamento minore». Infatti, tale norma mentre assicura all'imprenditore-debitore la possibilità di continuare ad amministrare i propri beni (con una forte distonia rispetto alla più «invasiva» procedura fallimentare), evidenzia come una serie di atti — eccedenti l'ordinaria amministrazione — siano da considerare inefficaci per i creditori anteriori, senza autorizzazione scritta del giudice delegato.

L'elencazione di tali atti, contenuta nel secondo comma dell'articolo in commento, comprende: mutui anche in forma cambiaria, transazioni, compromessi, alienazioni di immobili, concessione di ipoteche o pegno, fideiussioni, rinunce alle liti, ricognizioni di diritti dei terzi, cancellazioni di ipoteche, restituzione di beni ricevuti in pegno, accettazione di eredità o donazioni. Si ritiene comunemente che tale elencazione sia esemplificativa e non tassativa, in quanto la norma comprende una clausola generale di chiusura riferita agli atti che in genere siano eccedenti l'ordinaria amministrazione.

L'autorizzazione ha la forma di decreto scritto emesso in camera di consiglio, usualmente previo parere — parimenti scritto — del commissario giudiziale (da questo punto di vista è paradigmatico che l'autorizzazione urgente di cui all'art. 161, comma 7 per la fase di preconcordato sia resa previo parere necessario del c.g. se nominato). Se tale parere è doveroso nella fase del concordato in bianco (la norma usa il verbo «deve») non si vede come possa prescindersene nella fase di concordato pieno, in cui per definizione un commissario giudiziale è certamente presente. Resta forse salvo il solo caso di urgenza assoluta, ma si tratta di casi limite in cui il c.g. non possa interloquire immediatamente ed il compimento indifferibile dell'atto corrisponda certamente all'interesse dei creditori.

Pur se il parere del c.g. è necessario, lo stesso non può ritenersi vincolante ed il g.d. potrà discostarsene ove non ne condivida la valutazione, anche per motivi di opportunità e non solo di legittimità.

Si discute da sempre in ordine alla distinzione fra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Accanto a tesi che valorizzano l'appartenenza dell'atto all'oggetto sociale dell'impresa in crisi, ve ne sono altre, più diffuse in giurisprudenza, che valorizzano la potenzialità negativa dello stesso per il patrimonio dell'impresa: da questo punto di vista sarebbero eccedenti l'ordinaria amministrazione quegli atti potenzialmente idonei ad incidere negativamente sui beni del debitore, in quanto idonei a pregiudicarne l'entità e la consistenza o gravarlo di vincoli e pesi precedentemente insussistenti. Sono perciò considerati eccedenti l'ordinaria amministrazione anche l'affitto d'azienda o la compensazione. Rientrano fra gli atti di straordinaria amministrazione anche quelli che, pur diversi da quelli oggetto di elencazione espressa nell'art. 167 l. fall., producano effetti simili sul patrimonio del debitore, implicandone la diminuzione diretta o indiretta (ad es. nel caso della rinuncia a diritti o della transazione su di essi).

Pure discusse sono le conseguenze derivanti dal compimento dell'atto senza autorizzazione. Probabilmente la tesi più affidante muove dall'assenza di spossessamento vero e proprio e dal fatto che l'apertura della procedura concordataria non incide sulla capacità giuridica del debitore. Pertanto, l'atto esorbitante dall'ordinaria amministrazione non autorizzato resta in sé valido, ma sarà oggetto di inefficacia relativa per i soli creditori anteriori o concorsuali e tale potrà essere ritenuto anche in una procedura concorsuale successiva, come ad esempio in caso di fallimento in consecuzione.

Sulla nozione di atto di straordinaria amministrazione, cfr. App. Venezia 29 maggio 2014, secondo cui l'individuazione degli atti di straordinaria amministrazione che, qualora posti in essere non autorizzati nella pendenza del termine ex art. 161, comma 6 l.fall., determinano l'improcedibilità del pre-concordato, al di là dell'elenco esemplificativo e non tassativo dell'art. 167, comma 2 l.fall., va effettuata tenendo conto che essi debbono, in genere, essere idonei a produrre effetti simili a quelli che producono gli atti espressamente elencati. Di modo che la concreta riconducibilità dell'atto in discussione alla categoria — generale ma residuale — degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione viene a dipendere dalla oggettiva idoneità dell'atto ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone comunque la capacità di soddisfare le ragioni dei creditori, alla cui tutela la misura della preventiva autorizzazione è predisposta. Va pertanto revocata la sentenza dichiarativa di fallimento ed il precedente decreto con cui sia stata dichiarata l'inammissibilità del pre-concordato, con rimessione degli atti al Tribunale per il prosieguo, là dove risulti che la debitrice non ha posto in essere un atto di straordinaria amministrazione non autorizzato, bensì un atto di ordinaria amministrazione inidoneo ad incidere negativamente sul patrimonio della stessa.

Nella stessa linea di pensiero, si è osservato che l'affidamento di incarichi professionali connotati dai requisiti di pertinenza e di non eccedenza rispetto alle finalità perseguite dall'impresa (tale è l'incarico di redazione della proposta e del piano di concordato definitivi) rientra nell'ambito degli atti di ordinaria amministrazione che non richiedono alcuna autorizzazione del tribunale o del giudice delegato. Tuttavia, deve escludersi che possono qualificarsi come atti di ordinaria amministrazione gli incarichi professionali che, dopo il deposito del ricorso prenotativo, siano stati conferiti nell'interesse di altre società del gruppo con oneri ricadenti per intero sulla committente (così Trib. Roma 1 aprile 2014).

Più in generale, Trib. Terni, 28 dicembre 2012, ha ritenuto che, in tema di concordato preventivo, la valutazione in ordine al carattere di ordinaria o straordinaria amministrazione dell'atto posto in essere dal debitore senza autorizzazione del giudice delegato, ai fini della eventuale dichiarazione di inefficacia dell'atto stesso ai sensi dell'art. 167 l. fall., deve essere compiuta dal giudice di merito tenendo conto che il carattere di atto di straordinaria amministrazione dipende dalla sua idoneità ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone la capacità a soddisfare le ragioni dei creditori, in quanto ne determina la riduzione, ovvero lo grava di vincoli e di pesi cui non corrisponde l'acquisizione di utilità reali prevalenti su questi. Alla luce di questo principio, devono ritenersi di ordinaria amministrazione gli atti di comune gestione dell'azienda, strettamente aderenti alle finalità e dimensioni del suo patrimonio e quelli che — ancorché comportanti una spesa elevata — lo migliorino o anche solo lo conservino, mentre ricadono nell'area della straordinaria amministrazione gli atti suscettibili di ridurlo o gravarlo di pesi o vincoli cui non corrispondano acquisizioni di utilità reali su di essi prevalenti.

Sospensione e scioglimento dei rapporti

Una delle disposizioni più innovative emerse dalle recenti riforme del concordato preventivo è costituita dall'art. 169-bis l. fall., in tema di sospensione e scioglimento dei rapporti contrattuali. L'introduzione di tale disposizione, che secondo molto autori ha contribuito a colmare una lacuna della disciplina concordataria, indirettamente ha peraltro confermato la tesi tradizionale secondo cui l'apertura del procedimento di concordato preventivo non determina alcuna cesura nei rapporti contrattuali pendenti, che in linea generale — a differenza di quanto previsto dall'art. 72 per il fallimento — proseguono senza soluzione di continuità.

L'art. 169-bis ha tuttavia posto non meno gravi problemi agli interpreti, in ordine all'ambito di applicazione e, quindi, alla nozione di rapporti pendenti, nonché in ordine agli effetti che ne derivano ed alle modalità applicative. Quanto al primo profilo, la dottrina e la prima giurisprudenza avevano posto il problema della tipologia di rapporti pendenti cui applicare la nuova disposizione. L'orientamento oggi sicuramente prevalente istituisce un parallelismo con il concetto di rapporto pendente di cui agli artt. 72 e ss. l. fall., richiedendo conseguentemente che si tratti di un rapporto ineseguito, in tutto o in parte, da entrambi i contraenti. La norma cioè non sarebbe applicabile a quei rapporti nei quali una delle parti abbia già interamente eseguito la propria prestazione principale, posto che in tal caso non vi sarebbe in realtà un rapporto pendente — ancora fonte di reciproci diritti ed obbligazioni — bensì una semplice posizione di debito o credito. Le modifiche del 2015 apportate alla norma hanno sicuramente contribuito a rafforzare tale tesi, considerato che oggi si parla espressamente di «contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso». In questo senso poi è diretta la stessa disciplina del Codice della crisi e dell'insolvenza, appena approvata, la quale compie espresso riferimento alla necessità che il rapporto sia ancora ineseguito con riferimento alle prestazioni principali, così tacitando quell'orientamento che riteneva la disposizione applicabile anche nei casi in cui una delle parti dovesse ancora adempiere a qualche prestazione del tutto accessoria

(cfr. art. 97 d.lgs. n. 14/2019 — Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza).

Si deve perciò ritenere, ulteriormente, che la norma non sia invocabile rispetto ai contratti di mutuo o finanziamento in cui la banca abbia già eseguito, con la consegna o messa a disposizione delle somme, la propria obbligazione principale.

Le modifiche apportate nel 2015, ancora, hanno chiarito molti dei dubbi relativi alle modalità applicative. In primo luogo, che la richiesta di sospensione o scioglimento del rapporto può essere avanzata con il ricorso ex art. 161 l. fall., ma anche successivamente. Il momento della presentazione dell'istanza segna anche la competenza a provvedere, posto che nel primo caso provvederà il tribunale in composizione collegiale, nel secondo — a procedura concordataria già aperta — invece la competenza spetta al g.d., così come nel caso dell'art. 167 l. fall. Inoltre, si è previsto, in questo recependo l'orientamento più avvertito della giurisprudenza di merito, che la decisione debba avvenire nel contraddittorio con il contraente in bonis interessato dal provvedimento giudiziale e che quest'ultimo abbia effetti non retroattivi, bensì ex nunc, dalla comunicazione dello stesso al contraente coinvolto dalla modifica contrattuale. Particolare attenzione va prestata al testo novellato, ove dispone che il provvedimento giudiziale di sospensione o scioglimento non intacca «la prededuzione del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e in conformità agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell'art. 161».

Questa decorrenza degli effetti impone una particolare tempestività nell'utilizzo della norma, considerato che nei rapporti di durata la fase preconcordataria potrebbe far maturare a carico del debitore in crisi dei crediti prededucibili.

A questo proposito, va aggiunto che la disposizione si ritiene applicabile anche nella fase preconcordataria, pur se esigenze precauzionali legate alla mancanza in quel momento di un piano depongono nel senso che in tale fase sia soprattutto concedibile la semplice sospensione e non lo scioglimento del rapporto negoziale, stante gli effetti potenzialmente definitivi di un tale provvedimento. La sospensione può essere concessa per non più di sessanta giorni, prorogabili una sola volta ed appare utile allorché, in sede di predisposizione del piano concordatario, si renda opportuno sterilizzare l'ulteriore maturazione di debiti in attesa di verificare la compatibilità o meno del rapporto negoziale con la soluzione della crisi in concreto definitivamente adottata.

L'art. 169-bis costituisce, da questo punto di vista, un'importante arma a disposizione dell'imprenditore in crisi che, sempre in relazione al migliore interesse dei creditori, potrà predisporre un piano con continuità aziendale liberandosi della «zavorra» di rapporti negoziali in perdita o addirittura dannosi. Il contraente in bonis è tutelato, a sua volta, dal rispetto del contraddittorio e dal riconoscimento di un indennizzo parametrato al risarcimento del danno che subisce dalla sospensione o dallo scioglimento contrattuale. Si tratta però di un credito definito come «anteriore» e quindi, di carattere chirografario. La quantificazione di tale indennizzo viene normalmente effettuata dal g.d. in sede di ammissione al voto — trattandosi infatti di un credito chirografario trattato come anteriore non vi è dubbio dell'ammissibilità del contraente alla votazione del concordato, qui trovando un ulteriore strumento di tutela. In caso di contrasto, tuttavia, poiché le valutazioni del g.d. avvengono in via incidentale ed ai soli fini del voto, si ritiene che l'accertamento dell'entità e natura dell'indennizzo spetti al giudice ordinario, considerato altresì che nella procedura di concordato preventivo manca un momento di verificazione e formazione dello stato passivo.

Va infine sottolineato che lo scioglimento o la sospensione del rapporto contrattuale non si estende alla clausola compromissoria che eventualmente fosse stata pattuita dalle parti: in quel caso l'accertamento dell'indennizzo dovrà avvenire, in caso di conflitto, in sede arbitrale.

Si è sostenuto che è inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto con il quale il tribunale, nell'assegnare il termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, abbia altresì autorizzato, ai sensi dell'art. 169-bis l.fall., la sospensione di contratti (nella specie, bancari per anticipazione su effetti) in corso di esecuzione, trattandosi di provvedimento privo dei requisiti della decisorietà e della definitività (cfr. Cass. VI, n. 4176/2016).

Il

Trib. Milano 28 maggio 2014 ha ritenuto che è inammissibile l'istanza di scioglimento dei contratti ex art. 169-bis l. fall. proposta in sede di domanda di concordato con riserva; la nozione di contratti in corso di esecuzione di cui all'art. 169-bis l. fall. è sovrapponibile a quella dei contratti pendenti nel fallimento di cui agli articoli 72 e seguenti l. fall.; pertanto non sono «pendenti» ai sensi dell'art. 169-bis l. fall. i contratti a prestazioni unilaterali in cui una delle parti abbia già eseguito la propria prestazione laddove del contratto residuino solo crediti e debiti, come nel caso dei contratti di mutuo. Non possono considerarsi pendenti ai sensi dell'art. 169-bis l. fall. i contratti che in epoca precedente alla presentazione della domanda di concordato preventivo si siano risolti, siano stati oggetto di recesso unilaterale o di scioglimento per mutuo consenso. La stessa decisione ha ritenuto che in tema di sospensione dei contratti in corso di esecuzione ex art. 169-bis l. fall. dei contratti di anticipazione bancaria, non può predicarsi alcuna sospensione alle anticipazioni effettuate in epoca precedente il deposito della domanda, posto che la singola anticipazione genera solo un debito del cliente verso la banca e deve ritenersi operazione esaurita all'atto dell'erogazione della anticipazione, non diversamente dal contratto di mutuo per il quale la sospensione non è applicabile. Per quanto attiene, invece, la sospensione dei mandati all'incasso in corso di esecuzione, quei mandati che andrebbero a chiudere l'operazione di anticipazione con la riscossione del credito, può essere disposta la sospensione, la quale opererà non per una sola parte, né limitatamente ad alcune clausole del rapporto di mandato, ma integralmente, impedendo non solo l'applicazione della clausola di compensazione, ma nel suo complesso l'esecuzione del mandato all'incasso. Peraltro, la sospensione dei contratti in corso di esecuzione ottenuta ai sensi dell'art. 169-bis l. fall. non può operare retroattivamente rispetto al deposito della relativa istanza; essa può, infatti, spiegare i propri effetti esclusivamente in data successiva a quella del provvedimento che l'accoglie.

Più recentemente Trib. Padova, 22 novembre 2018, ha ritenuto che la disclosure informativa che l'imprenditore deve offrire al tribunale quando chiede di essere autorizzato alla sospensione dei contratti ai sensi dell'art. 169-bis legge fall. nella fase del concordato c.d. con riserva non comporta necessariamente che siano forniti dettagli sul piano che verrà depositato, ma solo che dello stesso siano indicate le linee guida alla luce delle quali valutare la congruità delle richieste. In tema di sospensione dei contratti pendenti nel concordato preventivo ai sensi dell'art. 169-bis l. fall., il pregiudizio che il contraente in bonis deve sopportare per effetto dell'attesa durante il periodo di sospensione non è di per sè una ragione sufficiente a giustificare il rigetto dell'istanza, a meno che la sospensione non comporti un ingiustificato squilibrio degli interessi in gioco. L'interesse pubblico eventualmente connesso alla esecuzione dei contratti dei quali il proponente il concordato chiede l'autorizzazione alla sospensione non vale a giustificare il rigetto dell'istanza, in quanto l'art. 186-bis, comma 3, l. fall. implicitamente esclude in radice che vi sia incompatibilità tra la natura pubblica del contratto e la facoltà di sospenderlo ex art. 169-bis l. fall.

In tema di decorrenza degli effetti della sospensione o dello scioglimento, si è sostenuto che una volta che lo scioglimento dei contratti in corso di esecuzione sia stato richiesto o autorizzato dal tribunale (o dal giudice delegato dopo l'ammissione), perché lo stesso possa produrre i propri effetti, deve essere comunicato dal debitore alla controparte, posto che l'autorizzazione ha per effetto quello di togliere un limite alla facoltà di agire del soggetto autorizzato che è tuttavia l'unico legittimato al compimento di tale atto e che fino a tale momento, salvo che il debitore non ne abbia chiesto la sospensione, al contratto deve essere data regolare esecuzione, con possibile applicazione, in difetto, della ordinaria disciplina dell'inadempimento (cfr. Trib. Modena 7 aprile 2014).

Sempre in tema di diritto di difesa del terzo contraente in bonis, l'autorizzazione allo scioglimento dei contratti in corso di esecuzione nell'ambito del concordato preventivo deve contemperare l'interesse del debitore con quello della controparte contrattuale, alla quale deve essere, fra l'altro, riconosciuto il diritto di esporre in contraddittorio le proprie eventuali ragioni di opposizione all'accoglimento della richiesta (cfr. Trib. Pavia 4 marzo 2014).

Per un'applicazione dell'art. 169-bis al contratto di leasing vds. Trib. Ravenna 28 gennaio 2014: nell'ambito di un concordato preventivo di natura liquidatoria, il quale prevede la monetizzazione e la alienazione a terzi di ogni cespite immobiliare e diritto o altra utilità patrimoniale, può essere autorizzato, ai sensi dell'art. 169-bis l. fall., lo scioglimento dei contratti di leasing immobiliare la cui prosecuzione comporterebbe un aggravio di costi a fronte della difficoltà di individuare potenziali acquirenti degli immobili. Lo scioglimento dei rapporti di leasing immobiliare autorizzato ai sensi dell'art. 169-bis. l. fall. comporta il riconoscimento di un diritto di credito di rango chirografario in favore della società concedente e del corrispondente diritto di voto.

Votazione nel concordato preventivo

Il tema del voto nel concordato preventivo risente grandemente dei diversi approcci che il legislatore ha avuto rispetto a questo istituto negli ultimi anni.

La disciplina del voto nel concordato preventivo è stata oggetto di una prima e profonda revisione normativa ad opera del d.l. n. 83/2012 convertito con modd. nella l. n. 134/2012, ponendosi come la plastica espressione di un evidente favor legislativo per le soluzioni concordatarie della crisi di impresa. La novella del 2012 ha così introdotto — al pari di quanto già previsto nel concordato fallimentare — la regola del silenzio-assenso, in forza della quale la mancata manifestazione espressa del voto da parte dei creditori deve essere equiparata ad un voto favorevole sulla proposta. Il cambio di prospettiva rispetto al sistema precedente è stato radicale: prima della riforma una maggioranza silente poteva rigettare la proposta concordataria, sostanzialmente, senza «muovere un dito»; con la riforma del 2012, invece, l'espressione di voto contraria doveva essere necessariamente espressa. Non è questa la sede per affrontare la questione se questa modifica sia stata opportuna. Non è un caso, tuttavia, che la regola del silenzio-assenso si fosse storicamente affermata nell'ambito del concordato fallimentare perché là occorre favorire la chiusura di una procedura fallimentare già aperta, mentre qui si tratta di prevenirla; ed ancora si può osservare che in sede di concordato fallimentare esiste un curatore ed un comitato dei creditori che vagliano preventivamente la proposta prima della sua messa ai voti, mentre qui vi è la presenza di un commissario giudiziale con compiti assai diversi e manca del tutto un comitato dei creditori.

La riforma del 2012 aveva cercato di contemperare tale apertura con una serie di tutele procedimentali o di carattere informativo-sostanziale in favore dei creditori, al fine di assicurare che il silenzio da essi eventualmente tenuto potesse effettivamente equivalere ad un voto favorevole.

Fra le tutele procedimentali si doveva segnalare:

a) il testo modificato dell'art. 172 l. fall. aveva previsto che la relazione «particolareggiata» del Commissario giudiziale fosse depositata in cancelleria non più solo 3 giorni prima dell'adunanza dei creditori, bensì 10 giorni prima e — altresì — comunicata ai creditori a mezzo posta certificata; il legislatore si era in questo modo voluto assicurare che il testo della relazione del Commissario fosse effettivamente messa nella disponibilità dei creditori e che questi avessero uno spatium deliberandi più ampio al fine di determinarsi consapevolmente al voto, così assumendo una determinazione «informata» ed effettiva sulla proposta concordataria e sul piano che la sorregge;

b) il comma 3 dell'art. 178 l. fall. aveva poi prevede che se le operazioni da compiersi nell'adunanza dei creditori di cui al precedente art. 174 l. fall. non si fossero completate nella giornata prevista, allora il rinvio ad altra «udienza prossima» devesse essere espressamente comunicato ai creditori assenti all'adunanza, così da renderli effettivamente edotti della data di prosecuzione delle operazioni e consentire la loro partecipazione all'udienza successiva.

La novella del 2012 aveva poi introdotto alcune tutele di carattere informativo-sostanziale, atte ad assicurare che il consenso (anche e soprattutto tacito dei creditori) potesse ritenersi informato ed attuale (ossia manifestato sulla proposta effettivamente ammessa al voto) e quindi consapevole. Anche in questo caso gioca l'esigenza di dare valore di assenso non alla mera «inerzia» ma al c.d. silenzio «qualificato». Su questo piano di indagine, per buona parte ancora attuale, le disposizioni e le cautele introdotte appaiono eterogenee:

a) l'art. 161, comma 3 l. fall. prevede oggi che in caso di modifiche «sostanziali» della proposta o del piano sia depositata una nuova relazione da parte del professionista attestatore. Va al riguardo notato che la lettera della norma non è particolarmente felice: nel primo periodo si prevede, infatti, un rinvio alle condizioni di indipendenza ed imparzialità dell'attestatore, mediante il richiamo all'art. 67, comma 3 lett. d) l. fall.; si prevede inoltre sul piano contenutistico che la relazione redatta da detto professionista (e che va necessariamente depositata unitamente al piano e all'ulteriore documentazione di cui all'art. 161 comma 2 l. fall.) contenga l'attestazione in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano concordatario; l'addendum afferma che «analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano». Sia pure in sintesi, non può mancarsi di rilevare che l'aggettivo «sostanziali», pur nella sua indeterminatezza, postula modifiche non meramente formali ma effettive; che le stesse possono riguardare sia la «proposta» che il «piano» (si pensi per la prima alla introduzione di classi; per il secondo ad un programma di liquidazione dei beni fortemente differenziato rispetto a quello iniziale); che l'espressione «analoga relazione» non significa «identica» relazione, dovendosi richiedere un'attestazione solo per le parti sostanzialmente modificate, sì che, ad esempio, nella normalità risulterà non necessaria una nuova attestazione in ordine alla «veridicità» dei dati aziendali. Quello che in questa sede va rimarcato è che la richiesta di una relazione «suppletiva» o «integrativa» da parte del professionista attestatore di cui all'art. 161, comma 3 l. fall. vuole introdurre una garanzia ulteriore, informativa e di carattere sostanziale, a favore dei creditori, considerato che la modifica della proposta non è destinata a superare un nuovo momento di ammissione da parte del Tribunale e si è perciò ritenuto che il momento valutativo da parte dei creditori potesse contare su questa ulteriore fonte di conoscenza per le parti della proposta o del piano che vengano modificate rispetto all'assetto iniziale;

b) anche la regola (oggi ulteriormente modificata) secondo cui nessuna modifica della proposta poteva avvenire «dopo l'inizio delle operazioni di voto» (cfr. art. 175, comma 2 l. fall.) rappresentava una disposizione a tutela dell'integrità del consenso manifestato dai creditori, non potendosi tollerare una «sostituzione delle carte in tavola» dopo che la «partita» delle votazioni fosse già iniziata;

c) ulteriore forma di tutela informativa, ma con riflessi sostanziali, era poi data dal nuovo art. 179 comma 2 l. fall., secondo cui «quando il commissario giudiziale rileva, dopo l'approvazione del concordato, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, ne dà avviso ai creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione fino all'udienza di cui all'art. 180 per modificare il voto». Si tratta di una norma che, come è evidente, si rivolge in modo prioritario ai creditori e che vuole evitare che il loro consenso si sia manifestato presupponendo certe condizioni che, di fatto, per circostanze sopravvenute, debbono ritenersi venute meno (si pensi all'incendio sopravvenuto del capannone che doveva essere venduto e costituiva parte fondamentale dell'attivo concordatario; si pensi, per un caso assai meno di scuola, alla sopravvenienza di una forte passività privilegiata che «sconvolga» le previsioni di soddisfacimento, fino ad azzerare quelle dei creditori chirografari che hanno votato); pur se si discute in dottrina in ordine al significato effettivo del nuovo art. 179, comma 2 l. fall., chi scrive condivide quella tesi che ritiene che la norma non consenta unicamente di «modificare il voto» sino all'udienza di omologa, proprio perché per compiere simile mutamento della propria precedente volizione nessuna formale «costituzione» è in realtà necessaria. La norma, nel consentire la modifica del voto e la costituzione in udienza non può che abilitare il creditore «ravveduto» ad esercitare tutte le facoltà processuali collegate all'udienza ex art. 180 l. fall. fra cui, ove naturalmente ne ricorrano le condizioni, anche l'opposizione all'omologazione (oggi peraltro fortemente limitata per mere ragioni di «convenienza» nel concordato senza classi). Tale conclusione è del resto in linea con uno dei principi generali del processo civile, ossia la rimessione in termini per ritardo incolpevole di cui all'art. 153, comma 2 c.p.c., norma applicabile ana-logicamente ad una fase di omologazione che, come meglio si vedrà, è propriamente processuale (detta disposizione afferma: «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini» e la stessa può essere applicata in modo sinergico e sistematico rispetto alla nuova norma di cui all'art. 179, comma 2 l. fall.).

Il legislatore è nuovamente intervenuto sul sistema di voto nel concordato preventivo nel 2015, capovolgendo l'impostazione precedente e tornando alla regola per cui il voto favorevole deve essere necessariamente espresso.

Pur ponendosi nel solco di molte delle precauzioni formali e delle tutele informative già introdotte (si pensi all'attuale vigenza della regola per cui occorre un'attestazione integrativa in caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano, ex art. 161, comma 3, o alla confermata comunicazione da parte del comm. giud. di modifiche sopravvenute rispetto al voto che incidono sulla fattibilità del piano, ex art. 179, comma 2) il legislatore ha inteso riequilibrare i diritti spettanti ai creditori, richiedendo un loro coinvolgimento effettivo nella condivisione dell'operazione di restructuring, che va conseguentemente votata favorevolmente in modo espresso e non più secondo una logica del chi tace «acconsente» (a volte molto spesso dovuta a «rassegnazione» più che ad effettivo convincimento sulla bontà della proposta di ristrutturazione del debito). Tale finalità è a sua volta destinata a completarsi attraverso la più generale idea, perseguita in particolare dalla riforma del 2015, della contendibilità dell'impresa in crisi, attraverso l'introduzione delle offerte e delle proposte concorrenti (artt. 163 e 163-bis), con il non nascosto ed ulteriore fine di stimolare il debitore a proporre soluzioni della crisi efficienti ed in grado di massimizzare la recovery dei creditori.

Pertanto, attualmente, resta il momento fondamentale dell'adunanza dei creditori, di cui all'art. 174 l. fall. alla quale possono intervenire, oltre che i creditori ed il debitore, anche i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso. L'adunanza è presieduta dal g.d. che adotta ogni decisione sui crediti eventualmente contestati in via provvisoria ed urgente, ai soli fini del voto.

Manca infatti nel concordato preventivo, rispetto al fallimento, un momento formale di formazione dello stato passivo e verifica dei crediti (si parla al riguardo di verifica da parte del c.g. in senso «amministrativo»), sì che l'eventuale decisione del g.d. ai fini del voto non ha alcun effetto preclusivo ed il creditore può ancora ottenere l'accertamento in sede di cognizione ordinaria dell'entità e della natura del proprio credito. Tale impostazione è confermata anche dalla riforma appena approvata (cfr. d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), che pur rendendo l'assemblea dei creditori unm momento del tutto virtuale e telematico, ha confermato la regola del consenso espresso.

Nel corso dell'adunanza il commissario giudiziale illustra la propria relazione che, oggi, deve essere depositata non più 10 gg. prima ma, ordinariamente, almeno 45 giorni prima della stessa adunanza, in modo da ampliare la tempistica di maturazione della decisione sul voto da parte dei creditori o consentire di formulare proposte concorrenti (non oltre 30 gg. prima dell'adunanza) o modifiche alla proposta o al piano (entro 15 gg. prima dell'adunanza ex art. 172, comma 2). In caso di proposte concorrenti o di modifiche, il c.g. redige una relazione integrativa e così anche nel caso in cui emergano informazioni che i creditori devono conoscere prima dell'espressione del voto. Pur essendo sicuramente apprezzabile la finalità conoscitiva di detto adempimento la tempistica prevista dal legislatore non pare adeguata: infatti è previsto che la relazione integrativa sia depositata almeno 10 gg. prima dell'adunanza, così da lasciare in concreto solo 5 gg. di tempo al commissario per esprimere le proprie valutazioni aggiuntive o prendere in esame proposte concorrenti o modificate. Molto più probabilmente, eventuali proposte concorrenti (sino ad oggi rarissime) o modifiche «dell'ultimo momento» alla proposta (anche migliorative rispetto a criticità rappresentate nella relazione ex art. 172 l. fall.) renderanno necessario un breve rinvio dell'adunanza, in modo da consentire al c.g. eventuali verifiche o approfondimenti.

Va ricordato che ai sensi dell'attuale art. 177 l. fall. il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero delle classi. In altri termini, il classamento impone il raggiungimento di una doppia maggioranza concorrente ai fini dell'approvazione; sia per importo complessivo dei crediti ammessi, che per numero di classi di creditori votanti.

Se sono poste al voto più proposte di concordato (è il caso di presentazione di una o più proposte concorrenti ex art. 163) si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Se tuttavia nessuna delle proposte concorrenti poste al voto è stata approvata con le maggioranze assolute richieste ordinariamente, il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta giorni dal termine di cui al quarto comma dell'art. 178, rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto.

I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca non votano se non rinunziando (ai soli fini del concordato) alla prelazione e per la parte per cui eventualmente rinunciano, ovvero votano per la sola parte di credito destinata a non trovare capienza sul bene su cui si esercita la propria garanzia. Così anche i privilegiati sottoposti a falcidia, ai sensi dell'art. 160, comma 2 l. fall., i quali sono equiparati ai chirografari per la porzione residua del credito.

L'art. 177 ultimo comma infine esclude dal voto soggetti che hanno un particolare collegamento con il debitore, di cui conseguentemente si reputa la non genuinità dell'espressione di voto (se non addirittura può dubitarsi dell'effettiva sussistenza delle ragioni creditorie vantate): si tratta del coniuge del debitore, dei suoi parenti ed affini fino al quarto grado, delle società controllanti o controllate dalla debitrice, ovvero sottoposte a comune controllo, nonché dei cessionari o aggiudicatari dei crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato.

Quando le operazioni di voto non si concludono nel corso dell'adunanza, questa può essere rinviata ad un'udienza successiva di non oltre otto giorni (nonostante il tenore letterale della norma deve ritenersi che il termine sia ordinatorio) di cui dare comunicazione ai creditori assenti. Altrimenti i creditori possono far pervenire il loro voto (che si ricorda deve perciò essere necessariamente espresso) entro i 20 gg. successivi alla chiusura del verbale dell'adunanza. Le manifestazioni di voto sono annotate dal cancelliere in calce allo stesso verbale.

Nella prassi appare opportuna la concessione del termine di 20 gg. per le ulteriori espressioni di voto anche laddove nel corso dell'adunanza fossero già raggiunte le maggioranze di legge. Da un lato, infatti, l'art. 178 ultimo comma ha una formulazione che sembra introdurre un vero e proprio diritto per tutti i creditori di far pervenire il proprio voto entro detto termine; dall'altro, non è da escludersi che un creditore possa voler votare espressamente «contro», anche se in ipotesi irrilevante ai fini dell'approvazione della proposta, al fine di acquisire un'autonoma legittimazione ad opporsi alla successiva omologazione del concordato.

Va ricordato che il o i creditori che avanzino una proposta concorrente di concordato non possono votare sulla stessa se non collocati in un'autonoma classe (questa soluzione è distonica rispetto al concordato fallimentare, dove il creditore proponente non può invece votare).

Se il concordato raggiunge le maggioranze previste, si apre la fase della omologazione. Altrimenti il g.d. riferisce al tribunale e, previa comunicazione degli atti al p.m. e agli eventuali creditori già istanti in sede fallimentare, verrà fissata una udienza in cui adottare i provvedimenti di cui all'art. 161, comma 2 (il rinvio va inteso secondo compatibilità, non si tratterà di una originaria pronuncia di inammissibilità, bensì di una improcedibilità sopravvenuta della procedura in quanto priva dell'approvazione necessaria della maggioranza dei crediti ammessi al voto).

Sul tema del voto, pur se espressamente dettata per il caso di concordato fallimentare, può essere utile ricordare quanto affermato da Cass. S.U., n. 17186/2018, secondo cui: «nel concordato fallimentare manca una previsione di carattere generale sul conflitto di interessi, come succede invece nell'ambito delle società (art. 2373 c.c. per la società per azioni e art. 2479-ter per quella a responsabilità limitata), essendo indicate, all'art. 127, commi 5 e 6, l. fall., soltanto alcune ipotesi di esclusione dal voto, dettate dall'esigenza di neutralizzare un conflitto in atto tra l'interesse comune della massa e quello del singolo, sicché il divieto di voto va esteso anche agli altri casi, pure non espressamente disciplinati, in cui sussiste il detto contrasto, come accade tra chi abbia formulato la proposta di concordato e i restanti creditori del fallito». La Corte condivisibilmente rileva come nel concordato preventivo, per quanto riguarda l'ipotesi del creditore proponente, non può individuarsi un divieto assoluto di voto, bensì — ai sensi dell'art. 163, comma 6 l. fall. — la mera esigenza che il creditore proponente possa votare unicamente se inserito in classe autonoma. A parere di chi scrive, invece, appare applicabile anche al concordato preventivo la regola più generale del divieto di voto per chi si trovi in conflitto di interessi con l'approvazione della proposta, dovendosi perciò ritenere non tassativa anche l'elencazione degli esclusi dal voto di cui all'art. 177, ultimo comma l. fall.

Si discute se il voto espresso prima del deposito della relazione ex art. 172 l. fall. debba o meno essere computato: per l'ipotesi favorevole si è espressa la App. Trieste 17 luglio 2014. Il tema si intreccia con quella della modificabilità del voto che, a parere dello scrivente, deve ammettersi sino alla scadenza del termine di 20 gg. assegnato ex art. 178 l. fall. quando inizialmente espresso in termini negativi (posto che in tal caso la proposta non è stata ancora accettata determinando l'incontro delle volontà del debitore con quella del creditore votante), mentre non dovrebbe ammettersi in caso contrario.

Secondo App. Napoli 6 agosto 2013, non vi è alcuna norma che imponga ai creditori non ammessi — ovvero ammessi per un importo inferiore a quello da loro vantato — nell'elenco dei creditori presentato dal debitore che abbia proposto il concordato, come eventualmente rettificato dal commissario giudiziale ai sensi dell'art. 171, comma 1, l. fall., di contestare tale indicazione prima della chiusura dell'adunanza dei creditori, a pena di decadenza. Infatti, l'art. 176, comma 2, l.fall. consente espressamente ai creditori esclusi — evidentemente dal giudice delegato — dal voto e dal calcolo delle maggioranze necessarie ai fini dell'approvazione del concordato di opporsi a tale esclusione «in sede di omologazione del concordato nel caso in cui la loro ammissione avrebbe avuto influenza sulla formazione delle maggioranze». In ogni caso, il tribunale deve, in sede di omologazione, riesaminare d'ufficio i provvedimenti di ammissione e di esclusione dei creditori adottati dal giudice delegato ai soli fini del voto e del computo delle maggioranze, anche in assenza di opposizioni in proposito.

Sulle modalità di espressione del voto, si è affermato che l'approvazione del concordato preventivo da parte dei creditori si fonda sul raggiungimento delle maggioranze entro il termine, da ritenersi perentorio, di venti giorni dalla chiusura del verbale dell'adunanza, di cui all'art. 178, comma 4, l. fall., il cui accertamento è rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito, che, nel computo dei voti, deve tenere conto anche delle dichiarazioni trasmesse dai creditori al commissario giudiziale, sia perché la menzionata norma — diversamente dall'art. 125, comma 2, l. fall. in materia di concordato fallimentare — non fornisce alcuna indicazione sul luogo in cui tali dichiarazioni debbono pervenire, non essendo decisiva nel senso del deposito in cancelleria la previsione della loro annotazione in calce al verbale da parte del cancelliere, sia alla stregua dei criteri ispiratori della disciplina del concordato preventivo, che sono informati all'esigenza di mantenere in attività la struttura produttiva in precarie condizioni economiche e di evitare il fallimento (cfr. Cass. n. 2326/2014).

Segue. Casi problematici

Il concordato preventivo si caratterizza, rispetto alla procedura fallimentare, oltre che per gli spazi lasciati all'autonomia privata, per la mancanza di una fase procedimentale volta all'accertamento dei crediti concorsuali. Manca, quindi, un procedimento giudiziale di insinuazione e formazione di uno stato passivo vero e proprio, tanto è vero che, anche recentemente, si è ritenuto che la inclusione nell'elenco formato dal Commissario giudiziale, ai sensi dell'art. 171 l. fall., non attribuisce alcuna certezza o diritto perfetto al creditore, restando impregiudicato l'eventuale accertamento per le vie ordinarie dell'entità e della natura del credito di cui si discute.

Si parla al riguardo, solitamente, di verifica (solo) amministrativa dei crediti concorsuali, effettuata dal Commissario giudiziale ai soli fini di stabilire la legittimazione al voto ed il calcolo delle maggioranze utili per l'approvazione della proposta concordataria.

Eventuali contrasti circa l'ammissione al voto di alcuni creditori (ad esempio perché contestata dal debitore o da altri creditori nella misura o nel grado) o circa la mancata o insufficiente ammissione di altri creditori vengono risolti dal giudice delegato — in maniera sommaria e sulla scorta delle risultanze documentali — ai soli fini dell'ammissione al voto: cioè ai fini del solo calcolo delle maggioranze.

L'art. 176 precisa (con riferimento ai crediti in tutto o in parte contestati) che il provvedimento reso dal g.d. è «provvisorio» e che è reso «ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze», senza alcun pregiudizio circa le pronunzie definitive sulla sussistenza del credito stesso.

Il provvedimento del g.d. ha la natura di decreto interinale, meramente provvisorio, sottratto al reclamo generale di cui all'art. 26 l. fall. Infatti, lo stesso art. 176 l. fall., al comma 2, ha cura di precisare (con ciò introducendo una deroga per specialità rispetto alla forma più generale di doglianza di cui all'art. 26 cit.) che i creditori esclusi (anche solo parzialmente) possono opporsi a detto trattamento in sede di omologazione del concordato preventivo, ma solo nel caso in cui la loro ammissione avrebbe avuto influenza sulla formazione delle maggioranze.

In altri termini, le valutazioni del Commissario giudiziale (ed in caso di contrasto del g.d.) hanno solo lo scopo lato sensu amministrativo di determinare chi può votare nel concordato e quali maggioranze vanno raggiunte per la sua approvazione, in modo del tutto provvisorio, incidentale ed endo procedimentale, senza riflessi «esterni». Tale valutazione del g.d. non è perciò reclamabile ex art. 26 l.fall., ma solo in sede di omologazione del concordato; e non in ogni caso: solo nella ipotesi (per la verità non così frequente) in cui il voto escluso in modo «irregolare» abbia una effettiva incidenza sulle maggioranze raggiunte allora la contestazione del creditore sarà ammissibile e valutabile nel merito dal Tribunale (c.d. prova di «resistenza», per cui aggiungendo ipoteticamente il voto escluso, si verifica una modifica sostanziale e rilevante della maggioranza).

Anche in assenza di opposizioni si ritiene che spetti al Tribunale, in sede di omologazione del con-cordato, accertare la regolarità della procedura seguita, fra cui, per quanto in questa sede rileva, quella in tema di votazioni.

Una volta omologato il concordato preventivo, tutte le questioni che hanno ad oggetto i diritti pretesi dai singoli creditori sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e del Tribunale e vanno risolte nell'ambito di un ordinario giudizio di cognizione.

Appare utile, sia pure in sintesi, toccare alcuni profili problematici dell'ammissione al voto.

A) Voto dei creditori muniti di causa di prelazione.

Afferma l'art. 177 l. fall. che i creditori muniti di una causa legittima di prelazione (privilegio, pegno od ipoteca) e dei quali la proposta di concordato prevede l'integrale pagamento non hanno diritto al voto se non rinunciano in tutto od in parte al diritto di prelazione.

In caso di rinuncia, per la parte non coperta dalla garanzia, i privilegiati sono equiparati ai creditori chirografari (pur se detta rinuncia ha valore soltanto endo procedimentale). Va aggiunto che, parimenti, anche per i creditori muniti di causa di prelazione di cui la proposta prevede il pagamento non integrale, per la parte residuale del credito (cioè quella oggetto di falcidia) sussiste una equiparazione ai chirografari.

Tale norma istituisce una corrispondenza biunivoca fra diritto di voto e natura chirografaria del credito, sia in senso soggettivo (legittimazione al voto nel corso dell'udienza ex art. 174 l. fall. o nei 20 giorni successivi), sia in senso oggettivo (nel senso che la frazione intera o parziale del credito parificato al chirografo, per trattamento, rinuncia od incapienza della garanzia speciale, segna altresì il quantum dell'espressione di voto). Tanto è vero che si sostiene che l'avvenuta abrogazione della disposizione contenuta nell'originario testo dell'art. 177 l. fall. (secondo cui il voto adesivo non limitato implica rinuncia alla causa di prelazione per l'intero credito) non sia decisiva. Secondo questa tesi, pure avversata da una parte della dottrina e della giurisprudenza, anche nell'attuale assetto concordatario potrebbe sostenersi la possibilità di configurare una rinuncia implicita alla natura privilegiata del credito, desumibile dall'avvenuta espressione di voto.

Secondo questa linea di pensiero non si tratta tanto di stabilire se i creditori garantiti hanno diritto di voto, ma se i creditori garantiti che votano esprimano validamente il proprio consenso e per l'effetto rinunciano (implicitamente) alla garanzia in ambito concordatario.

B) Voto del fideiussore.

Anche il tema dell'eventuale ammissione al voto del terzo che ha rilasciato fideiussione a favore dell'imprenditore in concordato suscita sovente dubbi interpretativi.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza tradizionali, così riconfermando quanto già espresso in ambito fallimentare, occorre adottare un discrimine tra i fideiussori dell'imprenditore in concordato che abbiano già adempiuto o meno alla propria obbligazione.

Secondo questo orientamento, infatti, i fideiussori non escussi (o escussi solo parzialmente e, quindi, per la parte di credito non escussa), pur avendo il diritto di partecipare all'adunanza dei creditori, non avrebbero diritto al voto dal momento che non assumerebbero la qualifica di creditori o, quantomeno, di creditori «attuali».

In questo modo, l'eventuale mancata escussione dei fideiussori prima dell'apertura della procedura di concordato preventivo (ma dovrebbe meglio ritenersi prima dell'inizio delle operazioni di voto di cui all'art. 174 l. fall. effettuandosi una corrispondente esclusione dal voto per il creditore principale sod-disfatto) determina una ripercussione non indifferente sull'esercizio del diritto di voto. L'escussione sottrae tali soggetti, che pure soggiacciono alla regola dell'obbligatorietà del concordato omologato di cui all'art. 184 della legge fallimentare, alla partecipazione ad una fase fondamentale della procedura di concordato preventivo come quella del voto.

Altra dottrina e giurisprudenza, pertanto, preferisce al riguardo applicare l'art. 55 l. fall. richiamato dall'art. 169 l. fall. che, per quanto qui interessa, all'ultimo comma regola il caso del credito condizionale ammettendo lo stesso al concorso. Ma non è affatto certo che tale conclusione sia appagante.

In primo luogo, deve rilevarsi che l'art. 55 nella sua attuale formulazione sembra riguardare sia i crediti sottoposti a condizione sospensiva, sia quelli sottoposti a condizione risolutiva.

Per i primi, infatti, vale la regola della retroattività dell'avveramento della condizione, di cui all'art. 1360 c.c. Per i crediti risolutivamente condizionati, invece, il principio di retroattività (che comporterebbe l'esclusione ab origine del diritto) va contemperato con la regola di cui all'art. 1356, comma 2 c.c., secondo cui in pendenza della condizione risolutiva il creditore ben può esercitare il diritto condizionale. Ma, a ben vedere, l'art. 55 l. fall. non si limita ad ammettere sic et simpliciter il credito condizionale al concorso. L'ammissione è infatti circoscritta dal richiamo, particolarmente significativo, all'art. 96 l. fall. in tema di ammissione «con riserva» ed agli artt. 113 l. fall. (sulla necessità di evitare la distribuzione di somme mediante riparti parziali in considerazione della presenza anche di crediti ammessi con riserva) e 113-bis l. fall. (sulla necessità di disporre la variazione dello stato passivo in caso di verificazione dell'evento che ha determinato l'accoglimento di una domanda di insinuazione «con riserva»).

Può pertanto affermarsi che l'art. 55 l. fall. (che peraltro è applicabile al concordato preventivo in quanto compatibile) attribuisce nel fallimento una mera legittimazione attiva a pretendere un'ammissione con riserva ma è soltanto lo «scioglimento» della riserva stessa (ossia, per restare al caso trattato, la verificazione dell'evento condizionante) a determinare l'effettiva e non meramente potenziale inclusione del diritto del creditore nello stato passivo. Il che pare confermare l'esclusione dai creditori votanti nel concordato preventivo.

Tale conclusione, mutatis mutandis, può essere svolta anche nei confronti del terzo beneficiario di una fideiussione rilasciata, in questo caso, dallo stesso imprenditore in crisi. Poiché nel procedimento di concordato manca, come già rilevato, una fase di formazione dello stato passivo e quindi non sono ammissibili crediti «con riserva», si deve ritenere che il diritto del creditore garantito da una fideiussione rilasciata dal debitore in concordato, in assenza di escussione della garanzia ante deposito della domanda di concordato sia un diritto meramente potenziale ed eventuale e non semplicemente condizionale. Il terzo beneficiario della fideiussione potrà, quindi, partecipare all'adunanza ex art. 174 l. fall., magari al fine di rappresentare la passività potenziale di cui è portatore, ma questo non lo abilita senz'altro a votare nel concordato, ben potendo essere più adeguatamente fronteggiata detta passività meramente potenziale attraverso la predisposizione di un fondo rischi da parte dell'impresa in concordato eventualmente suggerita dallo stesso Commissario giudiziale in sede di redazione della relazione ex art. 172 l. fall.

C) Voto del creditore di somma pecuniaria.

Anche per i creditori di somma pecuniaria si impone il richiamo che l'art. 169 l. fall. compie, fra l'altro, all'art. 55 l. fall., il cui comma 2 afferma: «i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di dichiarazione del fallimento». Questo sta a significare, per fare un esempio assai ricorrente nella prassi, che il mutuante va qualificato come creditore concordatario ed ammesso al voto non soltanto per le rate già scadute al momento del deposito della domanda di concordato, ma anche per quelle a scadere, valendo l'iniziativa del debitore come una sorta di riconoscimento della propria impotenza finanziaria che genera una decadenza dal beneficio del termine (arg. ex art. 1186 c.c.).

Tale conclusione, indiscussa rispetto ad un tradizionale concordato liquidatorio, va oggi probabilmente rimeditata rispetto al concordato con continuità aziendale, ex art. 186-bis l. fall., rispetto al quale il principio di prosecuzione dei rapporti contrattuali pendenti (desumibile dallo stesso art. 186-bis e dall'art. 169-bis l. fall.) merita sicuramente di prevalere rispetto ad una regola che l'art. 55 detta per un'ipotesi totalmente liquidatoria e fallimentare e che risulta incompatibile con la prosecuzione dell'attività caratteristica da parte dello stesso soggetto imprenditoriale. In tale ipotesi — e salvo evidentemente che il rapporto si fosse già risolto ante procedura — deve probabilmente operarsi una cesura fra ammissione al voto ed esigibilità degli incassi, che resta disciplinata dalla regolamentazione pattizia intervenuta fra le parti (ciò che richiede, peraltro, che il piano in continuità preveda e faccia fronte al fabbisogno finanziario derivante dalla prosecuzione del rapporto: si pensi al rispetto di un piano di ammortamento dei canoni di leasing relativi ad un immobile strategico per la prosecuzione della gestione aziendale, pena addirittura la stessa non fattibilità del piano).

D) Voto del creditore postergato.

Particolarmente dibattuta, soprattutto in dottrina, appare la questione dell'eventuale ammissione al voto del creditore postergato.

Di postergazione si occupa in modo espresso l'art. 2467 c.c.(il testo riportato resta in vigore fino al 15 agosto 2020 a seguito delle modifiche operate dal d.lgs. n. 14/2019, n.d.r.), con riferimento ai finanziamenti eseguiti dal socio di s.r.l.: «Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. Ai fini del precedente comma s'intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento».

La finalità della postergazione è quella di tutelare i creditori sociali, evitando che il rischio di impresa sia sostanzialmente traslato sui terzi.

Il problema dell'applicabilità della postergazione ai finanziamenti effettuati in una diversa tipologia di società di capitali (spa o saa) è risolto positivamente quando si tratti di un ente societario che, per la sua struttura «chiusa» e con scarsa diffusione dei titoli azionari, possa essere analogicamente assimilato ad una srl.

La regola cardine in questa materia è che vota chi dalla proposta di concordato subisce degli effetti sfavorevoli e questo, alla fin fine, giustifica come già detto l'esclusione dal voto del creditore assistito da causa di prelazione che viene soddisfatto integralmente. Del pari, poiché il diritto del finanziatore postergato può essere previamente soddisfatto soltanto in caso di preventiva e totale soddisfazione dei creditori a lui anteposti e tale situazione di regola quasi mai si verifica in ambito concordatario (a meno di non ipotizzare, ad es., un concordato meramente dilatorio che soddisfi integralmente anche il ceto chirografario) nella generalità dei casi l'approvazione di una proposta che falcidia i chirografari è per il creditore postergato un evento del tutto indifferente.

Le eccezioni a tale regola sono appunto riconducibili a poche ipotesi, scarsamente diffuse nella prassi giudiziaria: a) il caso appena indicato di concordato «munifico» che soddisfa integralmente i creditori chirografari e che, quindi, può in concreto destinare risorse ai postergati che, quindi, vanno ammessi al voto; b) l'ipotesi di cui all'art. 182-quater, comma 3 l. fall. (la cui natura di deroga espressa vale però a riconfermare per il resto la regola generale della postergazione e della non ammissione al voto); c) l'ipotesi, più discussa ma non da escludersi, di una proposta concordataria con suddivisione in classi ed apporto di nuova finanza da parte dei terzi che, nella misura in cui sia del tutto «nuova» ed «esterna» e quindi svincolata dal rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione, potrebbe anche essere de-stinata a soddisfare — totalmente o parzialmente — i creditori postergati.

Rispetto a quest'ultimo caso può essere ricordata anche la Cass. n. 2706/2009. La tesi secondo cui potrebbe ammettersi una deroga al principio della postergazione, se risulta il consenso della maggioranza di ciascuna classe e non già il solo consenso della maggioranza assoluta del totale dei crediti chirografari, che pure si ricollega ad un mero obiter dictum contenuto nella citata sentenza, non appare pienamente condivisibile considerato che l'art. 2467 non persegue interessi meramente privatistici ma l'esigenza generale ad evitare la presenza sul mercato di società sotto-capitalizzate che possono continuare ad operare in forza di apporti che, pur apparendo formalmente dei finanziamenti, consistono in realtà in reintegrazioni del capitale di rischio che, come tale, può ritornare a favore dei soci soltanto se, terminata la liquidazione e soddisfatti tutti i creditori sociali, si verifichi un residuo attivo.

Evidentemente un simile rischio non sussiste se il concordato si fonda sull'apporto di finanza esterna liberamente destinabile e, come tale, fruibile anche dai soci finanziatori postergati. In tal caso, se inseriti in apposita classe, non vi sono ragioni per una esclusione dal voto.

Si è affermato che i fideiussori della debitrice principale proponente il concordato non hanno diritto di voto e sono, pertanto, da escludersi dal calcolo delle maggioranze ex art. 177 l. fall.; tale conclusione trova fondamento nella formulazione letterale dell'art. 174 l. fall. che, infatti, distingue tra i creditori, menzionati al comma 2, e i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso menzionati al comma 4 (così Trib. Padova 7 luglio 2014; contro Trib. Ariano Irpino 24 aprile 2013).

Si è più recentemente sostenuto che nel concordato preventivo, la proposta del debitore può prevedere la suddivisione dei creditori in classi con il riconoscimento del diritto di voto ai creditori postergati che siano stati inseriti in apposita classe, purché il trattamento previsto per questi ultimi sia tale da non derogare alla regola del loro soddisfacimento sempre posposto a quello integrale degli altri creditori chirografari (Cass. I, n. 16348/2018).

Revoca

Se la dottrina aveva ritenuto che la sopravvivenza dell'art. 173 l. fall. costituisse, dopo le riforme degli anni duemila, una sorta di «residuo del passato», va invece rilevato come tale disposizione abbia mostrato notevoli spazi applicativi.

Prevedendosi la possibilità di revoca dell'ammissione alla procedura concordataria anche d'ufficio, infatti, la disposizione sottolinea come la procedura concordataria persegua anche interessi pubblicistici, e come la matrice indubbiamente negoziale del concordato preventivo, non annulli l'esigenza di tutela della minoranza; tutela che si esprime innanzitutto nell'esigenza che il consenso della maggioranza sia informato e non sia «carpito» mediante atti di frode o raggiri posti in essere dal proponente.

L'art. 173 l. fall. individua a tale fine tre diverse ipotesi di revoca:

— se il debitore ha occultato o dissimulato parte dell'attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti;

— se il debitore durante la procedura di concordato compie atti non autorizzati a norma dell'art. 167 o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori;

— se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato.

L'elencazione non è tassativa, considerato che la norma stessa parla al comma primo di «altri atti di frode».

Piuttosto, gli atti di frode hanno rilievo in quanto siano «scoperti» dal commissario giudiziale, ciò che implica una frode endo-procedimentale volta a carpire il voto, o comunque idonea ad incidere sul processo di formazione del consenso dei creditori. Non può quindi parlarsi di atto di frode, secondo la preferibile opinione, quando l'atto in ipotesi distrattivo o fonte di responsabilità, commesso in un periodo antecedente a quello della procedura, sia stato correttamente esposto nel ricorso per l'ammissione al concordato, così da mettere i creditori in grado di apprezzarne le ricadute e le possibili azioni che ne deriverebbero in ambito fallimentare (non a caso la stessa relazione ex art. 172 l. fall. deve offrire una tale comparazione ai creditori ed analizzare le possibili azioni risarcitorie e revocatorie esperibili da un ipotetico curatore).

Al mendacio va equiparata l'omissione, così come la «mezza verità», cioè la descrizione in termini non esaustivi ed opachi dell'atto eventualmente dannoso per i creditori.

Naturalmente la revoca dell'ammissione alla procedura di concordato comporta una pronuncia di fallimento solo se ed in quanto sia formulata la relativa domanda, da parte di uno dei creditori, oppure del pubblico ministero. L'iniziativa officiosa in tema di revoca non è stata infatti estesa anche alla dichiarazione di fallimento, considerato altresì che una delle direttive fondamentali della legge di riforma c.d. Rordorf, l. n. 155/2017, va appunto nel senso della eliminazione dei residui casi di fallimento dichiarato d'ufficio, senza apposita domanda.

In concreto la revoca avviene attraverso la fissazione di una udienza e la comunicazione degli atti al p.m. (dandone altresì notizia ai creditori attraverso il commissario giudiziale), così da consentire un più ampio contraddittorio, provvedendo poi il tribunale con un decreto collegiale. L'opinione preferibile ritiene che una volta aperto il subprocedimento di revoca la domanda di concordato preventivo non sia rinunciabile da parte del debitore, ciò soprattutto nel caso in cui sia stata presente una istanza di fallimento nei suoi confronti.

Sulla frode ai creditori molto è stato scritto, ed esula certamente dai compiti del presente lavoro una più compiuta trattazione. Può, tuttavia, essere utile ricordare che Cass. I, n. 16856/2018, ha ritenuto: «in tema di revoca dell'ammissione al concordato preventivo, si configurano come atti di frode le condotte del debitore idonee ad occultare situazioni di fatto suscettibili di influire sul giudizio dei creditori, ossia tali che qualora conosciute avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che siano state «accertate» dal commissario giudiziale, cioè da lui «scoperte», essendo in precedenza ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Rientrano, peraltro, tra i fatti «accertati» dal commissario giudiziale, ai sensi dell'art. 173 l. fall., non solo quelli «scoperti» perché prima del tutto ignoti nella loro materialità, ma anche quelli non adeguatamente e compiutamente esposti nella proposta concordataria e nei suoi allegati, i quali, ancorché annotati nelle scritture contabili, rivelino una valenza decettiva per i creditori (nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia della corte territoriale, che aveva qualificato come atto di frode il silenzio serbato nella proposta concordataria e nel piano annesso — ancorché essa fosse annotata nelle scritture contabili — su una operazione di scissione patrimoniale, effettuata dalla debitrice già insolvente e consistita nel conferimento di immobili a una società controllata e nella successiva cessione di quote ad un terzo)».

Più recentemente, tuttavia, secondo una logica più liberale, si è affermato: «la mancata indicazione, nella proposta concordataria, circa la pendenza di alcuni procedimenti giudiziari intentati dalla società debitrice non configura un'ipotesi di frode in danno ai creditori e non è dunque idonea a giustificare la revoca dell'ammissione della società alla procedura» (Cass. I, n. 26646/2018).

Si è già ricordato che, a partire dalla nota Cass. n. 7066/2016, si è ritenuto che il pagamento non autorizzato di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato con riserva, non comporta, in via automatica, l'inammissibilità della proposta, dovendosi pur sempre valutare se detto pagamento costituisca, o meno, atto di straordinaria amministrazione ed, in ogni caso, se la violazione della regola della «par condicio» sia diretta a frodare le ragioni dei creditori, pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta negoziale formulata con la domanda di concordato.

Fondamentale anche Cass. I, n. 14552/2014, che ha precisato come la rilevanza, ai fini e per gli effetti di cui all'art. 173 l. fall., della natura fraudolenta degli atti posti in essere dal debitore e potenzialmente decettivi nei riguardi dei creditori, è ravvisabile anche nell'ipotesi in cui l'inganno effettivamente realizzato sia stato reso noto ai creditori prima del voto; se, infatti, così non fosse, se cioè l'accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori che, informati della frode, siano ugualmente disposti ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricollega, invece, immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l'ammissione al concordato e ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto da parte dei creditori; questo significa che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato art. 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e, quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile alla prosecuzione della procedura (in motivazione si è ricordato che il fatto che l'accertamento da parte del commissario di atti di frode possa determinare la revoca dell'ammissione al concordato preventivo, a norma dell'art. 173 l. fall., indipendentemente dalla circostanza che i creditori, debitamente informati di tali atti di frode, abbiano espresso voto favorevole, non vale ad reintrodurre il giudizio di meritevolezza che la riforma della legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l'ammissione al concordato preventivo. La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell'imprenditore (sfortunato, ma onesto), nell'ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale; era, quindi, nozione ben più ampia dell'assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma che devono essere direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell'accesso alla procedura concordataria).

La possibilità che la revoca possa condurre al fallimento ha posto in evidenza la possibile commissione di atti abusivi da parte del debitore, rispetto ai quali si è giustamente osservato che costituisce abuso dello strumento concordatario il comportamento del debitore che, in pendenza di ricorso per la dichiarazione di fallimento, rinunci alla domanda di concordato con riserva dopo aver ricevuto la convocazione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 173 l. fall., e presenti una nuova domanda di concordato connotata da profili di inammissibilità, incompleta e corredata da una relazione attestatrice illogica e inidonea allo scopo di rappresentare i creditori la situazione effettiva della società e di giustificare il giudizio espresso sulla fattibilità della proposta concordataria (Trib. Milano 12 giugno 2014).

Omologazione

Superata favorevolmente la fase delle votazioni da parte dei creditori, si apre la fase che porta, eventualmente, all'omologazione del concordato preventivo.

Il raccordo fra le due fasi è in parte officioso, per altro verso affidato all'iniziativa di parte.

La parte officiosa è evidenziata, innanzitutto, dal primo comma dell'art. 180 l. fall., il quale prevede che il G.D. relazioni in camera di consiglio al Tribunale che, in caso di raggiungimento delle maggioranze di legge, fissa un'udienza in camera di consiglio disponendo che il provvedimento sia pubblicato nelle forme dell'art. 17 l. fall. (ossia con le stesse forme di pubblicità previste per la sentenza di fallimento) e ne dispone la notifica, a cura del debitore, al commissario giudiziale ed agli eventuali creditori dissenzienti. L'iniziativa di parte è, appunto, contrassegnata dalla necessità di notificazione affidata al debitore interessato all'omologazione del proprio concordato.

Al «giudizio di omologazione» (come ancora oggi recita l'epigrafe dell'art. 180 l. fall.) è dedicata una scarna disposizione normativa.

Le forme del procedimento sono rivelate dal riferimento alla «udienza in camera di consiglio», pur se tale inciso non è di per sé solo decisivo al fine di ricostruire la natura del «giudizio» in esame. Invero, è ormai opinione condivisa che le forme camerali o relative ai procedimenti in camera di consiglio (art. 737 e ss. c.p.c.) rappresentano un mero «contenitore» processuale, capace di abbracciare situazioni di mera vigilanza giudiziale su un'attività gestoria di interessi privati, quanto situazioni di effettiva contrapposizione che richiedono momenti decisori su diritti in conflitto fra loro.

L'efficacia esdebitativa prodotta dal decreto di omologazione, unitamente al rispetto delle regole della concorsualità (nel concordato a differenza che nell'accordo di ristrutturazione dei debiti, infatti, vi è un'esigenza di rispetto dell'ordine dei privilegi per il trattamento offerto ai creditori e, del pari, il voto della maggioranza vincola la minoranza dissenziente) induce a preferire, fra le diverse tesi proposte, quella che ravvisa nel procedimento in esame un unicum, tale da abbinare elementi di giurisdizione volontaria ed elementi del contenzioso giurisdizionale. Il tema meriterebbe ben altro spazio. In questa sede non può peraltro non menzionarsi il fatto che la norma sembra disciplinare in modo differente il caso in cui non siano presentate opposizioni all'omologazione dalle fattispecie nelle quali, invece, sono avanzate contestazioni all'omologazione del concordato.

La possibilità che il procedimento in esame abbia uno sbocco lato sensu contenzioso consente di affermare la necessità per il debitore di ricorrere alla rappresentanza tecnica di un difensore. Questa, del resto, appare la conseguenza necessitata dall'art. 82 co. 3 c.p.c., secondo cui «salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente», disposizione che appare applicabile analogica-mente alla fattispecie in esame, sol che si consideri che l'art. 180 co. 2 precisa che «il debitore, il commissario giudiziale, gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi interessato devono costituirsi...», espressione evidentemente non richiesta ove la parte possa semplicemente limitarsi a «comparire» o ad essere presente all'udienza.

Peraltro, l'interpretazione più convincente di detta norma porta a ritenere necessaria la costituzione unicamente per le parti necessarie o che avanzano contestazioni od opposizioni; pare infatti preferibile ritenere che il commissario giudiziale sia parte meramente formale, non legittimata a proporre impugnazione avverso il decreto di omologazione del concordato e, come tale, semplice partecipante al giudizio al fine di rendere il proprio «motivato parere» (cfr. art. 180, comma 2 cit.) od al fine di rendere quegli eventuali chiarimenti che la eventuale dialettica dell'udienza dovesse rendere necessari. La costituzione deve avvenire almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata con il decreto di comparizione emesso dal tribunale. Si possono avanzare in proposito almeno due problemi: 1) chi sia legittimato passivamente a pretendere la notifica di detto decreto da parte del debitore; 2) se il termine indicato dall'art. 180, comma 2 l. fall. debba o meno considerarsi perentorio.

Pur se in passato è stato sostenuto il contrario, appare decisamente preferibile la tesi che considera legittimati passivamente alla notifica e, quindi, destinatari necessari della stessa i soli creditori dissenzienti (oltre al commissario giudiziale). Tale considerazione vale oggi, a maggior ragione, con l'introduzione del silenzio — assenso in tema di voto nel concordato. Pertanto, solo i creditori espressamente dissenzienti sono destinatari della notifica a cura del debitore del decreto di fissazione dell'udienza per l'omologazione del concordato.

In ordine al secondo quesito la Cassazione, con la già citata decisione Cass. n. 18987/2011, ha espressamente ritenuto che il termine dei dieci giorni prima dell'udienza per la costituzione in giudizio, di cui all'art. 180, comma 2 l. fall., ha natura ordinatoria, sulla scorta di quanto prevede la più generale disposizione processuale dell'art. 152, comma 2 c.p.c.: «i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori». A tanto deve aggiungersi che il testo precedente alla c.d. «controriforma» di cui al d.lgs. n. 169/2007 prevedeva espressamente che entro detto termine dovessero depositarsi «memoria difensiva contenente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, nonché l'indicazione dei mezzi istruttori dei documenti prodotti», ma tale previsione è stata soppressa.

Quanto alla legittimazione a presentare opposizione all'omologazione, deve ritenersi che la stessa vada riconosciuta, oltre ai creditori formalmente dissenzienti, a «qualunque interessato», inteso come qualunque soggetto che dalla omologazione di quella certa proposta concordataria risenta o possa risentire di un pregiudizio concreto e non meramente ipotetico o del tutto eventuale.

I motivi di opposizione possono riguardare la legittimità formale del procedimento seguito o la legittimità delle operazioni in cui consiste il piano concordatario sottoposto al voto dei creditori. Possono altresì riguardare il trattamento ricevuto — ad esempio di esclusione — in sede di votazione, ma in tal caso l'opposizione deve altresì superare la c.d. prova di resistenza, ossia dimostrare la decisività del voto sul raggiungimento o meno delle maggioranze necessarie per l'approvazione del concordato.

I motivi possono riguardare, altresì, considerazioni di «merito» o attinenti alla convenienza del trattamento riservato dalla proposta ai creditori. Tuttavia, anche a questo riguardo la novella del 2012 ha apportato consistenti modifiche:

a) in caso di proposta concordataria senza suddivisione dei creditori in classi, deve oggi ritenersi estremamente ardua una eventuale opposizione fondata su una maggiore convenienza della procedura fallimentare alternativa: tale opposizione deve infatti provenire da un creditore (o più congiuntamente agenti) che rappresenti(no) almeno il 20% dei crediti ammessi al voto;

b) in caso di proposta concordataria con suddivisione in classi dei creditori, legittimato all'opposizione è invece il creditore dissenziente che, contemporaneamente, faccia parte di una classe dissenziente;

solo in presenza di queste concorrenti condizioni si può oggi aprire il c.d. cram down (o verifica comparata di convenienza fra proposta concordataria e alternativa liquidatoria).

In assenza di opposizioni il tribunale si limita a verificare la regolarità della procedura e l'esito delle votazioni, provvedendo poi ad omologare il concordato con un decreto motivato «non soggetto a gravame» (così l'art. 180, comma 3 l. fall.).

Nel caso in cui, invece, siano presenti opposizioni il Tribunale può procedere all'assunzione dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o ritenuti anche d'ufficio necessari. La presenza di opposizioni dà luogo, conseguentemente, ad una parentesi contenziosa che viene decisa con un decreto collegiale, immediatamente esecutivo e pubblicato nelle forme previste dall'art. 17 l. fall.

Anche in assenza di opposizioni permane, come è evidente, un potere del Tribunale di verifica della regolarità e della legittimità, quanto della procedura seguita che della proposta e del piano; detta verifica, alla luce della nota Cass. S.U., n. 1521/2013, può estendersi a parere di chi scrive anche alla presenza della c.d. causa concreta dell'accordo di composizione della crisi in cui si riassume l'incontro fra volontà del debitore e votazione dei creditori; ma il tema è troppo ampio e controverso per poter essere nuovamente trattato in questa sede (si rinvia pertanto alla parte che tratta, funditus, il tema dei poteri valutativi del tribunale).

Va piuttosto sottolineato come sia venuta meno ogni possibilità di pronuncia fallimentare officiosa e co-me, conseguentemente, l'eventuale decreto di rigetto della richiesta di omologazione del concordato non comporti necessariamente l'automatica apertura di una procedura fallimentare a carico del debitore, occorrendo la presenza di un'apposita istanza in tale senso da parte di un creditore o del P.M.

Mentre nella ipotesi in cui non vi siano opposizioni il decreto decisorio del tribunale è espressamente qualificato come «non reclamabile», nel caso di opposizioni, il decreto deve all'opposto considerarsi reclamabile dalla parte tecnicamente «soccombente» o, secondo altra terminologia, «contro interessata».

Secondo l'opinione della prevalente dottrina e quanto affermato dalla S.C., può affermarsi la possibilità di avanzare ricorso straordinario in Cassazione per motivi di legittimità, ex art. 111 cost., deducendo uno specifico interesse al riguardo, sia nei confronti del decreto di omologazione in assenza di opposizioni (e come tale non reclamabile) sia nel caso di decreto di omologazione da parte dello stesso debitore che, evidentemente, possa risentire di un concreto pregiudizio (il tema si è posto con riguardo alla nomina del liquidatore giudiziale).

Quanto ai profili fiscali del decreto di omologa i dubbi relativi sono stati affrontati da una non risalente sentenza della Cassazione, secondo cui il decreto di omologa che non abbia effetti immediatamente traslativi di beni facenti parte dell'attivo concordatario è soggetto ad imposta di registro a «tassa fissa».

Ha recepito tale indicazione la Risoluzione Agenzia Entrate del 26 marzo 2012, n. 27.

Sulla valutazione del tribunale in sede di omologazione, appare ancora attuale quanto affermato dalla nota Cass. S.U., n. 1521/2013, secondo cui «il sindacato del giudice in ordine al requisito di fattibilità giuridica del concordato deve essere esercitato sotto il duplice aspetto del controllo di legalità sui singoli atti in cui si articola la procedura e della verifica della loro rispondenza alla causa del detto procedimento (soddisfacimento dei creditori almeno parziale e risanamento dell'impresa, secondo proporzione in concreto variabile), mentre non può essere esteso ai profili concernenti il merito e la convenienza della proposta; agli eventuali difetti di informazione circa le condizioni di fattibilità del piano consegue il rigetto della domanda; tuttavia, ove espresso da parte dei creditori un giudizio positivo in ordine alla fattibilità del piano e mutate le condizioni rappresentate rispetto alle previsioni originarie per eventi non riconducibili a dolose o colpose omissioni del debitore, soccorre l'intervenuta modifica della l. fall., art. 179 r.d. n. 267/1942, che impone al commissario giudiziale la comunicazione del relativo avviso ai creditori, ai fini di una loro eventuale costituzione nel giudizio di omologa per l'eventuale modifica del voto precedentemente espresso». Più recentemente, Cass. I, n. 14444/2017, ha ritenuto che quantunque in sede di omologazione del concordato preventivo le corti di merito siano chiamate a verificare la fattibilità del concordato, il sindacato su tale punto, nei casi in cui si discuta della fattibilità economica, non può essere esteso oltre la verifica della idoneità della proposta concordataria a realizzare la «causa concreta» della procedura concorsuale, la quale si estrinseca nella finalità di assicurare il superamento della crisi attraverso «una sia pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari».

Va aggiunto che oggi, secondo preferibile opinione, l'ambito di valutazione del tribunale si è sicuramente ampliato in ordine alla verifica del rispetto — nei concordati liquidatori — della percentuale minima di soddisfacimento dei chirografari, nella misura del 20%, che il debitore deve in ogni caso assicurare.

Secondo Trib. Mantova 28 giugno 2012, nel giudizio di omologa del concordato preventivo il tribunale è chiamato ad una verifica della legittimità del procedimento e, all'interno di questo accertamento, risulta centrale il controllo circa la genuinità del consenso prestato dai creditori. Nel riscontro effettuato dal tribunale in sede di omologa del concordato preventivo circa l'effettività del consenso dei creditori sulla proposta assume fondamentale importanza la verifica della corretta informazione offerta dal proponente ai creditori con riguardo alle poste attive e passive dell'impresa, essendo la rappresentazione offerta dall'imprenditore essenziale per una corretta valutazione della proposta. Conseguentemente, non può essere omologato un concordato preventivo in cui sia stata omessa l'informativa ai creditori — tanto dal proponente quanto dall'attestatore e pure dal commissario giudiziale — circa la sussistenza di un'ipoteca di primo grado a garanzia di un debito di un terzo sul principale immobile messo a disposizione dei creditori dall'imprenditore, trattandosi di circostanza di estremo rilievo nella valutazione del piano concordatario da parte dei creditori, in quanto potenzialmente idonea ad aumentare in maniera significativa il passivo.

Quanto ai motivi di opposizione, si è correttamente ritenuto che in sede di opposizione all'omologazione del concordato preventivo, devono ritenersi inammissibili contestazioni volte ad ottenere la appostazione in privilegio piuttosto che in chirografo di determinati crediti; dette questioni sono infatti decise dal giudice delegato esclusivamente ai fini del voto, posto che la natura privilegiata o meno del credito ai fini della sua effettiva soddisfazione deve essere valutata dal liquidatore ed eventualmente trattata in apposito giudizio avanti al giudice ordinario (così Trib. Firenze 9 maggio 2012).

La Cass. I, n. 9087/2018 ha tracciato un quadro riassuntivo dei mezzi di impugnazione, così riassumibile: il quadro dei mezzi impugnatori nelle procedure di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti è così composto: I) i provvedimenti di inammissibilità ex art. 162, comma 2 o di revoca ex art. 173 l. fall., resi dal tribunale sono — se autonomamente considerati — inoppugnabili, in quanto non reclamabili (v. art. 162 l. fall.) né ricorribili in Cassazione ex art. 111 Cost., per difetto del requisito della decisorietà; II) i provvedimenti positivi o negativi resi dal tribunale nei procedimenti di omologazione hanno natura decisoria (in quanto contenziosi idonei al giudicato) ma non sono direttamente ricorribili per cassazione, in quanto non definitivi (essendo reclamabili ex art. 183 e 182-bis, comma 5, l. fall.); III) i provvedimenti di natura decisoria, positivi o negativi, resi in sede di reclamo sono assoggettabili a ricorso straordinario per cassazione, in quanto definitivi; IV) l'impugnazione della sentenza di fallimento può essere formulata anche con censure rivolte esclusivamente contro la presupposta dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo; V) i motivi di impugnazione autonomamente proposti contro il diniego di omologazione debbono essere necessariamente riproposti contro la sentenza di fallimento poiché «il giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. assorbe l'intera controversia relativa alla crisi d'impresa»; VI) la sopravvenuta dichiarazione di fallimento rende inammissibili — e se già proposte improcedibili — le impugnazioni autonomamente proponibili contro il rigetto della domanda di omologazione.

Sulla registrazione del provvedimento di omologazione, dopo la nuova Circolare dell'Agenzia Entrate già citata nel testo, è intervenuto nuovamente il S.C. con la decisione Cass. n. 19596/2015, secondo cui in ordine all'imposta di registro, la sentenza (oggi decreto) di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, va inquadrata, valorizzando il criterio nominalistico, nella previsione di cui alla lett. g) dell'art. 8, della tariffa I, allegata al T.U. Imposta di registro (d.P.R. n. 131/1986), comprendente, genericamente, gli atti “di omologazione”, con la conseguenza che ad essa si applica l'imposta non in misura proporzionale, bensì fissa.

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