Codice Civile art. 1362 - Intenzione dei contraenti.

Gian Andrea Chiesi
aggiornato da Nicola Rumìne

Intenzione dei contraenti.

[I]. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

[II]. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto [1326].

Inquadramento

L'interpretazione del contratto rappresenta il procedimento esegetico attraverso cui si procede ad accertare — in caso di contrasto tra le parti — il significato dell'accordo raggiunto dai contraenti: in tal senso l'interpretazione rappresenta un procedimento differente da quello di integrazione (nelle varie forme in cui questo si articola) giacché mentre la prima è un'operazione di carattere conoscitivo, volta a comprendere quale fu la volontà delle parti, la seconda è invece volta a colmare le lacune del negozio, mediante l'inserimento in esso di clausole avrebbero dovuto esservi comprese e che, invece, non lo sono state. I due procedimenti, peraltro, talvolta si sovrappongono, sebbene finalità e tecniche operative restino sostanzialmente diverse.

Con tutta evidenza il procedimento di interpretazione contrattuale richiama anche quello di interpretazione della legge: le diversa finalità sottese alla regolamentazione convenzionale (volta a soddisfare bisogni ed esigenze particolari dei contraenti) ed a quella legale (indirizzata alla tutela di interessi pubblici e sovrapersonali) spiega, però, la diversità di regole dettate all'uopo dagli artt. 1362 ss. c.c. e 12 disp. prel. c.c.

Così, ad esempio, Cass. L, n. 30427/2017 chiarisce che all'interpretazione di un contratto collettivo, soggetto, per la sua natura privatistica, alle disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., non può farsi ricorso all'analogia, prevista, dall'art. 12, comma 2, delle preleggi, per la sola norma di legge, fermo restando che il giudice, ai sensi dell'art. 1365 c.c., può estendere, mediante un'interpretazione estensiva, una pattuizione ad un caso non espressamente contemplato dalle parti ma ragionevolmente assimilabile a quello regolato.

Soggetti attivi dell'interpretazione contrattuale sono, infine, a) le stesse parti del negozio (che ne compiono, dunque, un'interpretazione autentica), b) i giurisperiti (che ne danno un'interpretazione dottrinale) e c) l'autorità giudiziaria (che fornisce un'interpretazione giurisprudenziale), ove chiamata a comporre una lite tra i contraenti.

La graduazione, come prospettata, dei destinatari dei precetti in questione è confermata in dottrina (Mirabelli, 267), ove si afferma che essi sarebbero indirizzati, prima che ai giudici, a tutti coloro che hanno l'obbligo o l'onere di interpretare il contratto, ivi comprese le parti contrattuali. Di diverso avviso, invece, un altro autore (Carresi, 502), per il quale le norme in questione sarebbero dirette unicamente all'autorità giudiziaria, deputata all'interpretazione del contratto all'esito dell'apertura di un processo su iniziativa della parte che sul contratto fondi una sua pretesa o difesa

La natura delle regole ermeneutiche

L'interpretazione consiste nell'operazione logico-giuridica diretta ad individuare il contenuto concreto dell'autoregolamento dei privati (Carresi, 499) ovvero, detto in altri termini, la determinazione del senso giuridicamente rilevante della dichiarazione contrattuale, condotta alla stregua della norma giuridica: essa non è dunque volta ad accertare la volontà dell'uno o dell'altro contraente ma quella volontà, derivante dalla fusione delle diverse volontà sottese al regolamento negoziale, che si è tradotta nell'accordo e che ha infine acquistato un significato socialmente rilevante (Mirabelli, 272).

Conforme è la posizione della giurisprudenza di legittimità, che individua nell'interpretazione del contratto il processo logico-giuridico di adeguata lettura dell'intenzione delle parti consacrata nell'atto, che tenga conto della natura del contratto e della complessiva disciplina negoziale, non limitandosi ad esaminare in astratto il significato lessicale delle parole adoperate (Cass. L, n. 98/1979). Tali regole integrano precetti giuridici e, in ragione del rinvio operato dall'art. 1324 c.c., si applicano anche ai negozi unilaterali, nei limiti della compatibilità con la particolare natura e struttura di tali negozi (Cass. I, n. 9127/2015).

Secondo una differente tesi dottrinaria, invece, la qualificazione in termini di norme giuridiche spetterebbe solo a quelle regole interpretative che introducono un quid novi rispetto alle regole logiche di interpretazione e tale caratteristica si riscontrerebbe solo negli artt. 1368 e 1370 c.c. (Carresi, 522).

Le disposizioni sull'interpretazione valgono, inoltre, sia in relazione al contratto consacrato in un documento (contratto scritto) sia a quello concluso oralmente (contratto verbale): con la peculiarità, in quest'ultimo caso, che, la qualificazione giuridica della natura del rapporto negoziale (cfr. infra) deve essere effettuata sulla base della cd. causa concreta, ovvero degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare e, nell'impossibilità di un'interpretazione testuale, deve farsi riferimento alla tipica funzione economico-sociale del contratto, sicché la parte che prospetti una diversa qualificazione dell'operazione contrattuale realizzata è gravata dall'onere di provare la sussistenza di ulteriori elementi che consentano di individuare in concreto uno scopo pratico del negozio diverso dalla funzione propria dello schema legale tipico (Cass. III, n. 10612/2018).

Come anticipato in precedenza, infine, sebbene tanto l'interpretazione della legge quanto quella del contratto siano dirette ad accertare il significato di un fatto giuridico in senso lato, i due procedimenti differiscono sensibilmente tra loro.

La diversa portata ed il differente ambito applicativo dei due procedimenti sono chiari in giurisprudenza: così, ad esempio, Cass. L, n. 1582/2008, nel fornire un'applicazione pratica alla distinzione tra l'una e l'altra tipologia di procedimento ermeneutico afferma che il giudice di legittimità, nel caso sia stata denunciata la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi ai sensi dell'art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c., come modificato dall'art. 27 l. n. 40/2006, può procedere alla diretta interpretazione del contenuto del contratto collettivo, la cui natura negoziale impone che l'indagine ermeneutica debba essere compiuta secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e seguenti e non sulla base degli artt. 12 e 14 delle preleggi; ne consegue che, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, è necessario che in esso siano motivatamente specificati i canoni ermeneutici negoziali in concreto violati, nonché il punto ed il modo in cui giudice del merito si sia da essi discostato. Sotto altro profilo — ma sempre in applicazione della distinzione tra i due procedimenti esegetici di cui si è detto, valorizzando le diverse finalità che permeano di sé gli atti da essi interessati — Cass. II, n. 4205/2014 chiarisce che mentre nell'interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 12 e ss. delle Preleggi, in ragione dell'assimilabilità di tali provvedimenti, per natura ed effetti, agli atti normativi, nell'interpretazione degli atti processuali delle parti occorre, fare riferimento ai criteri di ermeneutica di cui all'art. 1362 c.c., che valorizzano l'intenzione delle parti e che, pur essendo dettati in materia di contratti, hanno portata generale.

Caratteristiche disciplinari

I criteri di interpretazione previsti dal codice civile sono di duplice natura, nel senso che un primo gruppo di norme (artt. 1362-1365 c.c.) regola l'interpretazione soggettiva (o storica), diretta ad accertare la comune intenzione delle parti mentre un secondo gruppo (artt. 1366-1371 c.c.) disciplina l'interpretazione oggettiva, la quale si propone di dare al contratto (o a sue singole clausole) il significato meglio rispondente ai valori di obiettiva ragionevolezza, equità e funzionalità, alla quale si fa ricorso quando la comune intenzione dei contraenti, pur dopo l'applicazione dei criteri appartenenti al primo gruppo, resta oscura o di dubbio significato.

Con peculiare riferimento ai criteri di interpretazione oggettiva, in dottrina si è osservato che essi non si ispirano alla determinazione della volontà che le parti devono avere presumibilmente avuto, ma a finalità oggettive di tutela della buona fede e di equità (Oppo, 159), evitando altresì che l'atto, il cui significato resti in tutto o in parte oscuro o equivoco, venga dichiarato in tutto o in parte nullo (Mirabelli, 281).

Nella distinzione tra le due macro-aree resta in posizione mediana la collocazione dell'art. 1366 c.c.: secondo un primo orientamento, si tratterebbe — come pure innanzi indicato — di una norma di interpretazione oggettiva (Carresi, 524), mentre per una diversa opzione si tratterebbe di una norma di interpretazione soggettiva, seppure sussidiaria (Bianca, 385). Una posizione intermedia tra le due appena esposte, infine, ritiene essersi in presenza di una norma di raccordo tra i due gruppi, riguardante al contempo, cioè, tanto l'interpretazione soggettiva che quella oggettiva, valevole sempre come criterio di applicazione di tutte le regole sull'interpretazione, quale vero e proprio «punto di sutura tra gli articoli che precedono e i seguenti», secondo quanto emerge dalla relazione del Guardasigilli (Mirabelli, 275).

I criteri di interpretazione così individuati — soggettivi ed oggettivi — vanno utilizzati in via sussidiaria tra loro, nel senso che in via prioritaria l'interprete deve ricorrere all'interpretazione soggettiva e, solo laddove questa si riveli insoddisfacente, può ricorrersi a quelli di interpretazione oggettiva.

Dal sistema delle regole ermeneutiche in materia di contratti si desume l'esistenza di un principio di gerarchia nel senso che le norme interpretative vere e proprie di cui agli artt. 1362-1365 c.c. prevalgono su quelle interpretative integrative di cui agli artt. 1366-1371 c.c. per modo che la determinazione oggettiva del significato e della portata da attribuire alla dichiarazione negoziale non ha alcuna ragione di essere quando la ricerca soggettiva conduce ad un utile risultato (Cass. II, n. 4815/1998). Adde a tale principio Cass. III, n. 6874/2000, per cui i criteri legali di interpretazione soggettiva del contratto possono trovare applicazione soltanto quando la volontà contrattuale sia dubbia, ma pur sempre esistente giacché, ove una volontà contrattuale sul punto controverso sia assente, il giudice può fare applicazione unicamente dei criteri legali di interpretazione oggettiva del contratto. In senso contrario, però, Cass. I, n. 15150/2003, per cui il processo interpretativo «non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi», giacché il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale nell'interpretazione del contratto, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell'accordo, in quanto il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.

La gerarchia tra regole interpretative sarebbe comunque posta a presidio del principio per cui alla reale intenzione dei contraenti non si deve sovrapporre l'arbitraria valutazione giudiziale (Carresi, 525).

Così Cass. V, n. 9786/2010 chiarisce che in tema di interpretazione del contratto, il giudice di merito, nel rispetto degli artt. 1362 e 1363 c.c., per individuare quale sia stata la comune intenzione delle parti, deve preliminarmente procedere all'interpretazione letterale dell'atto negoziale e, cioè, delle singole clausole significative, nonché delle une per mezzo delle altre, dando contezza in motivazione del risultato di tale indagine e, solo qualora dimostri, con argomentazioni convincenti, l'impossibilità (e non la mera difficoltà) di conoscere la comune intenzione delle parti attraverso l'interpretazione letterale, potrà utilizzare i criteri sussidiari di interpretazione, in particolare il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto ed il principio di conservazione. Ancor più chiara Cass. III, n. 12721/2007, per cui la scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all'accertamento della comune intenzione dei contraenti non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia stato rispettato il principio del «gradualismo», secondo il quale deve farsi ricorso (anche in caso di atti negoziali unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale ex art. 1324 c.c.) ai criteri interpretativi sussidiari, come l'interpretatio contra stipulatorem in presenza di modulo predisposto da uno dei contraenti ai sensi dell'art. 1370 c.c., solo quando risulti non appagante il ricorso ai criteri di cui agli artt. 1362-1365 c.c., ed il giudice fornisca compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale. Una deroga al principio di gerarchia dei canoni ermeneutici si riscontra, in ogni caso, in tema di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune, in ragione della loro funzione normativa: si è infatti chiarito che, in tale ambito, le espressioni letterali, la connessione delle singole clausole e l'integrazione in senso complessivo costituiscono mezzi (in misura eguale) necessari all'esperimento del processo interpretativo della norma contrattuale (Cass. sez. lav., n. 24652/2008). «Corregge» parzialmente il criterio della gerarchia dei criteri di interpretazione, infine, anche Cass. III, n. 14432/2016 per cui in materia di interpretazione del contratto, sebbene i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. siano governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l'applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la «comune intenzione delle parti stipulanti», la necessità di ricostruire quest'ultima senza «limitarsi al senso letterale delle parole», ma avendo riguardo al «comportamento complessivo» dei contraenti comporta che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non sia necessariamente decisivo ai fini della ricostruzione dell'accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius, ma l'esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore.

All'interno di ciascuna macroarea, poi, le regole interpretative vanno osservate anch'esse nel rispetto della gerarchia che le connota.

Nello stesso senso, di recente, Cass. III, n. 6444/2025: “nell'interpretazione del contratto, il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, mentre soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall'art. 1362 all'art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall'art. 1366 c.c. all'art. 1371 c.c."

Così, ad esempio, si è sostenuto (Bianca, 407) che le regole di interpretazione oggettiva si applicano secondo un ordine di priorità: prevale il principio di conservazione del contratto; segue la regola di interpretazione secondo gli usi; nel dubbio si applica la regola dell'interpretazione in senso sfavorevole all'autore della clausola; infine trova applicazione la regola sull'interpretazione equitativa e più favorevole all'obbligato a titolo gratuito.

Regole di interpretazione e atti diversi dal contratto

Gli artt. 1362 ss. c.c. trovano applicazione diretta ed espressa relativamente ai contratti; cionondimeno si ritiene che essi concernano anche gli atti (negozi giuridici unilaterali) tra vivi aventi contenuto patrimoniale, nei limiti della loro compatibilità con questi ultimi, ex art. 1324 c.c.

Così espressamente Cass. I, n. 9127/2015, per cui le norme sull'interpretazione dei contratti si applicano anche ai negozi unilaterali nei limiti della compatibilità dei criteri stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. con la particolare natura e struttura della predetta categoria di negozi. Così, le regole da osservare sono molteplici: mancando una comune intenzione delle parti, il canone ermeneutico di cui all'art. 1362, comma 1 c.c., impone di accertare esclusivamente l'intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio (Cass. sez. lav., n. 25608/2013) né può aversi riguardo al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (Cass. III, n. 7973/2002), mentre va fatto riferimento al senso letterale delle parole utilizzate dall'emittente la dichiarazione, all'interpretazione complessiva delle clausole le une per mezzo delle altre, nonché al preminente rilievo da attribuire al contenuto sostanziale dell'atto rispetto al nomen iuris utilizzato (Cass. sez. lav., n. 8361/2014)). Ancora, nel conflitto tra la manifestazione di volontà desumibile da clausole aggiunte e quella desumibile per relationem dalle clausole a stampa, deve darsi prevalenza alle prime, dovendosi presumere che il sottoscrittore abbia inteso privilegiare le clausole formulate appositamente e specificamente, piuttosto che quelle preordinate unilateralmente (Cass. II, n. 2399/2009).

Ad esempio, si è detto (Cass. sez. lav., n. 8361/2014) che nell'interpretazione della lettera di dimissioni, che è un atto unilaterale, è necessario accertare esclusivamente l'intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ferma l'applicabilità, per il rinvio operato dall'art. 1324 c.c., degli ulteriori criteri ermeneutici generali del senso letterale delle parole, dell'interpretazione complessiva delle clausole le une per mezzo delle altre, nonché del prevalente rilievo da attribuire al contenuto sostanziale dell'atto rispetto al nomen juris utilizzato: a tal riguardo, il giudice, assumendo rilievo beni giuridici primari oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento, è tenuto a svolgere un'indagine rigorosa al fine di accertare che, da parte del lavoratore, sia stata effettivamente manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto di lavoro, dovendosi considerare che l'esistenza di una dichiarazione del lavoratore di essere pronto a continuare a svolgere la propria attività, per un periodo più o meno lungo, esclude che egli intenda realmente manifestare l'intento di dimettersi.

Si sostiene da taluni (Mirabelli, 279), inoltre, che le regole ermeneutiche sul contratto sarebbero applicabili, per analogia, anche agli atti mortis causa, fatta eccezione per le regole che presuppongono la bilateralità del negozio, la buona fede e l'affidamento e sempre che non ricorrano regole interpretative speciali.

Nel medesimo senso si pone anche la più recente giurisprudenza di legittimità: Cass. II, n. 10882/2018 afferma, in proposito, che l'interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa, è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, aldilà della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell'esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione: tuttavia, ove dal testo dell'atto non emergano con certezza l'effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, il giudice può fare ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali, ad esempio, la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura o condizione sociale o il suo ambiente di vita.

Similmente Cass. II, n. 5487/2024.

Le norme sull'interpretazione dei contratti tra l'altro si applicano, inoltre: a) alle convenzioni matrimoniali accessorie a sentenze di divorzio (Cass. I, n. 10978/2003); b) agli atti costitutivi e agli statuti di persone giuridiche (Cass. I, n. 6566/1982); c) alle delibere assembleari (Cass. I, n. 925/1977) ed alle delibere condominiali (Cass. II, n. 5759/1980); d) ai regolamenti condominiali (Cass. II, n. 2968/1998); e) ai contratti di diritto privato stipulati dalla P.A. (Cass. S.U., n. 4833/1980).

L'interpretazione autentica

Le parti possono accordarsi sul significato da attribuire ad un contratto tra esse concluso, contemporaneamente o successivamente al momento della stipulazione: si discorre, in tal caso, di interpretazione autentica, con una sostanziale — sia pure implicita — deroga alle norme contenute negli artt. 1362 ss. c.c.

Si tratta di un procedimento analogo a quello tipico delle leggi di interpretazione autentica, con conseguente efficacia ex tunc della pattuizione così come autenticamente interpretata dalle parti, con l'unico limite della intangibilità delle situazioni giuridiche vantate dai terzi, che abbiano acquistato diritti sulla base del significato apparente del contratto (Bianca, 417).

Diversa — ma affine a quella in esame — è l'ipotesi in cui siano norme di legge che, pur non stabilendo criteri generali di interpretazione, cionondimeno fissano un determinato risultato ermeneutico per talune clausole, in quanto non risulti storicamente una diversa volontà delle parti (cfr. in proposito, l'art. 688 c.c.).

Interpretazione e presupposizione

Si discute, in dottrina, circa la riconducibilità alle regole ermeneutiche dell'istituto della presupposizione: in particolare, si ha presupposizione (o condizione inespressa) quando una determinata situazione di fatto o di diritto — comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo — essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività — e certo — sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo da assurgere a fondamento — pur in mancanza di un espresso riferimento — dell'esistenza ed efficacia del contratto.

Secondo un primo orientamento, la presupposizione andrebbe guardata come regola ermeneutica e non giuridica, dovendosi valutare dal contesto dell'atto quali fatti le parti abbiano assunto a base comune della contrattazione (Carresi, 506); nel medesimo senso si è affermato che la presupposizione è, dunque, strettamente connessa al procedimento ermeneutico (Scognamiglio, 256).

La questione, sebbene non espressamente affrontata in giurisprudenza, cionondimeno sembra essere, cionondimeno, risolvibile in senso positivo a tale riconduzione: per configurare la fattispecie della cd. «presupposizione» (o condizione inespressa) è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto, non espressamente enunciata in sede di stipulazione, ma considerata quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venir meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti (Cass. I, n. 5112/2018; Cass. III, n. 20620/2016); l'affermazione dell'esistenza nel contratto di una clausola di tacita presupposizione — sulla base della quale risalire alla comune intenzione delle parti e ricostruire il complessivo comportamento anche posteriore alla stipulazione del negozio, nonché il senso globale (ma non esplicito) delle relative pattuizioni — impone alla parte che ne assume l'esistenza di allegare, nel contraddittorio processuale con l'avversario, la situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata in sede di stipulazione del contratto, che sia successivamente mutata per il sopravvenire di circostanze non imputabili alla parte stessa, così da determinare un assetto ai propri interessi fondato su basi diverse da quello in virtù del quale era stato concluso il contratto (Cass. I, n. 22580/2014). Ancor più esplicita Cass. I, n. 20245/2009 in virtù della quale, affinché sia configurabile la fattispecie della c.d. «presupposizione» (o condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse; il relativo accertamento, esaurendosi sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o giuridici

L'interpretazione e figure affini: a) la qualificazione giuridica dell'atto

Si è affermato, in dottrina, che l'interpretazione del contratto si distinguerebbe dalla sua qualificazione giuridica essendo la prima diretta ad mentre la seconda coinvolgerebbe la diversa indagine circa il valore giuridico dell'atto ed i relativi effetti (Carresi, 505). Di senso diametralmente opposto è una diversa impostazione la quale osserva come qualificazione ed interpretazione facciano parte del medesimo procedimento giacché la seconda, implicando la determinazione della fattispecie contrattuale, postula la qualifica giuridica dell'atto, mentre ciò che risulta ulteriore è esclusivamente l'individuazione degli effetti giuridici e l'eventuale integrazione del contenuto contrattuale (Rizzo, 81).

La giurisprudenza è costante nel ritenere che qualificazione (giuridica dell'atto) ed interpretazione facciano parte del medesimo procedimento, pur distinto chiaramente in due fasi: il procedimento di qualificazione giuridica — si legge in Cass. I, n. 29111/2017consta di due fasi, delle quali la primaconsistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti — è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., mentre la secondaconcernente l'inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente — risolvendosi nell'applicazione di norme giuridiche — può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo. Del pari, affrontando un caso pratico, Cass. III, n. 23142/2014, chiarisce che la qualificazione del contratto come preliminare o definitivo (nella specie, relativo alla cessione di un pacchetto azionario) si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, il quale, nell'interpretazione del contratto, ove il dato letterale sia equivoco, può ricorrere al criterio di cui all'art. 1362, comma 2 c.c. (comune intenzione delle parti), assegnando rilievo anche all'avvenuta esecuzione delle prestazioni (nella specie, immediata, sì da rendere evidente che le parti avessero inteso concludere un contratto definitivo e non preliminare).

Peculiare è il caso del contratto verbale, relativamente al quale la qualificazione giuridica della natura del rapporto negoziale deve essere effettuata sulla base della cd. causa concreta, ovvero degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare e, nell'impossibilità di un'interpretazione testuale, deve farsi riferimento alla tipica funzione economico-sociale del contratto, sicché la parte che prospetti una diversa qualificazione dell'operazione contrattuale realizzata è gravata dall'onere di provare la sussistenza di ulteriori elementi che consentano di individuare in concreto uno scopo pratico del negozio diverso dalla funzione propria dello schema legale tipico (Cass. III, n. 10612/2018)

Segue. b) interpretazione ed integrazione

L'interpretazione rappresenta un procedimento differente da quello di integrazione (nelle varie forme in cui questo si articola) giacché mentre la prima è un'operazione di carattere conoscitivo, volto a comprendere quale fu la volontà delle parti, la seconda è invece volta a colmare le lacune del negozio, mediante l'inserimento in esso di clausole avrebbero dovuto esservi comprese e che, invece, non lo sono state.

Il criterio è sostanzialmente condiviso in dottrina, ove sotto altro profilo si chiarisce, altresì, che l'interpretazione implica l'esegesi di una determinazione mentre l'integrazione presuppone una lacuna nel regolamento di autonomia privata (Costanza, 25). Di diversa opinione è, invece, chi (Carresi, 515) ritiene che interpretazione ed integrazione sono entrambe dirette a delineare il regolamento negoziale, poiché la prima opera attraverso la ricostruzione del significato giuridicamente rilevante del contenuto contrattuale in tutta la sua estensione e la seconda attraverso un contributo esterno alla configurazione della regola negoziale.

Condivide la posizione da ultimo delineata, Cass., n. 1189/1965 per la quale l'interpretazione e l'integrazione del contratto non costituiscono attività distinte, ma sono organicamente dirette all'unitaria ricerca del contenuto obbligatorio del negozio e degli effetti che ne scaturiscono. Al contrario, distingue chiaramente i piani di operatività dei due procedimenti Cass. II, n. 8577/2002, per cui può darsi luogo all'integrazione del contratto, secondo quanto previsto dall'art. 1374 c.c., solo quando le parti non abbiano disciplinato alcuni aspetti del rapporto, e non quando, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito che abbia fatto corretto uso dei criteri di interpretazione del contratto, le parti con le loro pattuizioni abbiano compiutamente ed univocamente previsto il contenuto delle obbligazioni loro derivanti dal contratto stesso e ne abbiano regolato gli effetti. Dalla differenza sostanziale tra i due procedimenti deriva anche la diversa modalità attraverso cui censurare uno scorretto uso dei poteri di integrazione e di interpretazione: mentre l'apprezzamento del contenuto e della portata di una clausola contrattuale rientra nei compiti esclusivi del giudice del merito e si risolve in un apprezzamento di fatto, che, se sorretto da logica ed esauriente motivazione, immune da errori giuridici, sfugge al controllo in sede di legittimità, la applicazione dei criteri equitativi di integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. è soggetto al controllo di legittimità sotto il profilo di violazione diretta di norme giuridiche (Cass. sez. lav., n. 2687/1986)

Le singole regole ermeneutiche: l'art. 1362 c.c. e la comune intenzione delle parti

L'interpretazione soggettiva, come detto, è regolata dagli artt. 1362 — 1365 c.c. che vanno comunque letti alla luce del criterio della buona fede dettato dal successivo art. 1366 c.c.

Muovendo dall'esame dell'art. 1362 c.c., si coglie con evidenza che lo scopo primario dell'interpretazione consiste nel a) ricercare la comune intenzione delle parti, b) senza fermarsi al senso letterale delle parole utilizzate e c) sempre valutandone — sia pure con alcune eccezioni (cfr. infra) il comportamento complessivo, anteriore, coevo o anche posteriore alla conclusione del contratto.

Ricercare la comune intenzione implica che non si debba guardare alla volontà interiore dei contraenti ma a quella manifestata all'esterno, a quella dichiarata, la quale è destinata sempre a prevalere in caso di contrasto con una (irrilevante) riserva mentale, in omaggio al rispetto di un elementare principio di tutela dell'affidamento.

Viene data così rilevanza ad un dato non necessariamente reale ma virtuale o ideale, che si risolve nell'adozione del significato più plausibile, tra i vari che il contratto può assumere, in considerazione delle rispettive posizioni giuridiche ed economiche delle parti contrattuali (Costanza, 49). Diversa sarebbe, al contrario, l'ipotesi del destinatario della dichiarazione che abbia riconosciuto o avrebbe dovuto riconoscerne l'erroneità: in tal caso si ritiene, al contrario, che valga la reale intenzione dell'emittente la dichiarazione medesima (Costanza, 14).

In questa attività di ricostruzione della comune intenzione delle parti il senso letterale delle parole costituisce l'imprescindibile punto di partenza, nel senso che l'interprete, nella ricerca della comune intenzione, non può fermarsi ad esso ma deve andare oltre.

In particolare, il senso letterale delle parole va desunto da ogni parte della dichiarazione negoziale e da ogni parola che la compone, sicché la singola clausola, prima ancora di essere posta in relazione con le altre clausole, deve essere letta e valutata nella sua interezza (Cass. I, n. 23208/2012). Cfr. anche Cass. I, n. 28479/2005, per cui nell'interpretazione dei contratti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev'essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per «senso letterale delle parole» tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.

Ciò implica, secondo la dottrina, l'estraneità al nostro ordinamento del principio in claris non fit interpretatio, essendo attribuito al giudice il potere-dovere di accertare che la comune volontà delle parti risulti in modo certo dalle espressioni letterali del contratto ovvero, se occorra, individuarla mediante ulteriori indagini (Carresi, 503); sicché occorre un completo esame ermeneutico del negozio, senza fermarsi ad una ricostruzione prima facie (Mirabelli, 275).

Più variegata, a contrario, la posizione della giurisprudenza, ove ad un orientamento restrittivo, per cui l'art. 1362 c.c. impone di compiere l'esegesi del testo, ricostruire in base ad essa l'intenzione degli stipulanti e verificare se l'ipotesi di comune intenzione ricostruita sia coerente con le restanti parti del contratto e con la condotta, anche esecutiva, dei contraenti, sicché non si esclude che debba essere indagato il significato proprio delle parole, imponendosi esclusivamente di negare valore al brocardo in claris non fit interpretatio (Cass. sez. lav., n. 24421/2015) se ne contrappone un altro, decisamente diverso, per cui il principio in claris non fit interpretatio rende superfluo qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale quando la comune intenzione dei contraenti sia chiara, non essendo a tal fine però sufficiente la chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, sicché detto principio non trova applicazione nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti (Cass. III, n. 25840/2014). Mediana appare dunque la soluzione proposta da Cass. sez. lav., n. 12360/2014  e, più di recente, da Cass. I, n. 10967/2023, per cui il principio in claris non fit interpretatio presuppone che la formulazione testuale sia talmente chiara ed univoca da precludere la ricerca di una volontà diversa: a tal fine il giudice ha il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l'impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l'integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico.

Quanto, poi, al secondo elemento contemplato dalla norma in vista della ricostruzione della comune volontà (e, cioè, il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto), si è in presenza di un criterio ricostruttivo di carattere cd. storico, che indaga ciò che le parti fecero prima (ad esempio, lo scambio di corrispondenza; ovvero ricorrere ad un contratto preliminare, per interpretare il successivo contratto definitivo) ovvero dopo (in sede esecutiva. Ad esempio, se le parti hanno sempre dato un certo significato al contratto o ad una sua clausola) la conclusione del contratto.

In ordine al ruolo di tale criterio ermeneutico, rispetto a quello del tenore letterale, si registrano solo contrasti, in dottrina come in giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento, quello del comportamento costituisce criterio sussidiario di interpretazione e non assume quindi rilevanza quando il senso letterale del contratto appaia chiaro e univoco (Carresi, 504); diversamente, si afferma che l'intenzione delle parti non può che essere desunta, oltre che dal significato letterale, anche dal comportamento complessivo, con conseguente pari dignità tra i due criteri posti dall'art. 1362 c.c. (Mirabelli, 274).

Ugualmente in giurisprudenza si oscilla tra il principio affermato da Cass. sez. lav., n. 24560/2016, per cui il criterio letterale e quello del comportamento delle parti, anche successivo al contratto medesimoexart. 1362 c.c., concorrono, in via paritaria, a definire la comune volontà dei contraenti (sicché il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. Conforme Cass. III, n. 14432/2016) e quello, opposto, sostenuto da Cass. II, n. 16022/2002, per il quale ai sensi degli artt. 1362, comma 1 e 1363 c.c., il giudice non può limitarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, pur ove le une e le altre possano apparire rappresentative d'una manifestazione di volontà di senso compiuto, ma deve procedere secondo un «iter» che, partendo dall'accertamento del senso letterale di ciascuna, questo poi verifichi nel confronto reciproco e, infine, armonizzi razionalmente nella valutazione unitaria dell'atto. Per contro, il ricorso al criterio del comportamento «complessivo» delle parti, ai sensi dell'art. 1362, comma 2 c.c., è possibile solo quando quelli letterale e del collegamento logico tra le varie clausole si rivelino inadeguati all'accertamento della comune volontà delle parti.

Quanto, poi, ai comportamenti che rilevano ai fini della disposizione in esame, si tratta unicamente degli atteggiamenti contemporanei, antecedenti o successivi alla conclusione del contratto, che assumono le parti e non anche i terzi, salvo che questi abbiano agito su incarico dei contraenti.

Anche Cass. III, n. 11533/2014 concorda nel senso che al fine ricostruttivo della volontà comune concorre, altresì, il comportamento dei dipendenti o ausiliari, che operino per conto dei contraenti.

Occorre, inoltre, che si tratti del comportamento non già di una sola parte, inidoneo per ciò solo ad evidenziare il contenuto di un accordo (salvo che si tratti di comportamento contrario agli interessi del medesimo soggetto che l'ha posto in essere o salvo che esso coincida con l'interpretazione adottata dall'altra parte. Così Sacco, 431), ma del comportamento complessivo di tutte le parti (Carresi, 506). Con specifico riguardo ai comportamenti anteriori, rilevano le pratiche individuali seguite dalle parti, gli analoghi contratti intercorsi in passato tra le parti stesse, le trattative, gli accordi preliminari e gli accordi definitivi destinati ad essere tradotti in forma pubblica (Mosco, 103), mentre il comportamento posteriore, rilevante sotto il profilo ermeneutico, può consistere tanto in un successivo accordo fra le stesse parti, quanto in atti posti in essere dalle parti nell'esecuzione del contratto (Mosco, 106).

Del medesimo tenore sono gli approdi della giurisprudenza. Premesso che i comportamenti delle parti incidono sulla interpretazione del contratto e non ne consentono, al contrario, l'integrazione del contenuto (Cass. I, n. 6053/2004), è stato osservato che detti comportamenti possono essere desunti nell'ambito dei rapporti che tra le medesime parti che si rinnovano e si ripetono in negozi successivi, nonché dalla disciplina univoca, costante e ricorrente nei diversi e precedenti contratti aventi lo stesso contenuto, da cui sia lecito presumere che in prosieguo le medesime parti ad essa vorranno continuare ad uniformarsi nella stipulazione dei contratti di quel tipo, specie quando ciò avvenga mediante un formulario standard in base ad un testo sempre identico per impostazione e per contenuto (Cass. I, n. 11707/2002). È inoltre pacifico che i comportamenti valutabili a fini interpretativi sono solo quelli di cui siano partecipi entrambi i contraenti (Cass. I, n. 12535/2012): il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, rilevante sul piano ermeneutico, è quello comune ovvero unilaterale, ma accettato, anche tacitamente, dall'altra parte, atteso che, come è comune l'intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, così deve essere comune il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della volontà da esse manifestata (Cass. n. 7083/2006).

Nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può, invece, risultare utile ai fini di indagine di cui si sta discorrendo.

In tal caso, infatti, la ricerca della comune intenzione delle parti, utilizzabile ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, va compiuta, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione del contratto, in quanto non può spiegare rilevanza la formazione del consenso ove non sia stata incorporata nel documento scritto (Cass. I, n. 5112/2018). Contra, però, Cass. II, n. 11828/2018, per la quale nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del rogito, può essere utilizzato solo per chiarire l'interpretazione del contenuto del contratto, per come desumibile dal testo, non per integrare la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale

Le altre regole dell'interpretazione soggettiva: un breve sguardo di sintesi

Gli altri tre criteri dell'interpretazione soggettiva hanno carattere logico.

L'art. 1363 c.c. pone il principio dell'interpretazione sistematica (o organica), regola che trova la propria ratio nella considerazione per cui il contratto non può non essere caratterizzato da una propria coerenza interna, grazie alla quale ogni clausola va coordinata con le altre, indipendentemente dalla sua posizione topografica all'interno del testo negoziale.

L'art. 1364 c.c. limita, secondo l'antico adagio iniquum est peremi pacto; id de quo cogitatum non docetur l'efficacia espansiva delle espressioni eccessivamente ampie e generiche, nel senso che il significato del contratto deve limitarsi a riguardare l'oggetto su cui le parti hanno inteso concentrare la propria attenzione, giungendo alla stipulazione del negozio, così escludendo qualsivoglia riferimento o accostamento ad oggetti esterni ad esso.

L'art. 1365 c.c. regola, invece, la fattispecie inversa rispetto a quella dell'art. 1364 c.c., stabilendo un criterio di carattere espansivo da applicarsi nell'interpretazione delle indicazioni esemplificative contenute nel contratto: in sintesi, gli esempi contenuti nel contratto non hanno carattere tassativo

Le regole dell'interpretazione oggettiva

L'interpretazione oggettiva è, come anticipato, solo eventuale e suppletiva rispetto a quella soggettiva: a) è eventuale, nel senso che ad essa si ricorre solo se l'interpretazione soggettiva non sortisca esito soddisfacente, residuando pertanto dubbi o ambiguità sulla portata del contratto o di singole clausole di esso; b) è suppletiva, nel senso che sopperisce all'interpretazione soggettiva mediante il ricorso a criteri volti alla funzionalizzazione del contratto nel senso della ragionevolezza ed equità.

Essendosi già detto in precedenza dell'art. 1366 c.c., l'art. 1367 c.c. applica all'interpretazione del contratto il principio della conservazione degli effetti giuridici, nel senso che si deve tendere ad un'interpretazione che garantisca la permanenza in vita del vincolo negoziale piuttosto che ad una che ne determini la «morte». La ratio è evidente: se i contraenti hanno concluso il contratto è da presumere che essi vollero produrre qualche effetto: sicché appare logico cercare di attribuire al contratto un senso che consenta di raggiungere tale risultato, piuttosto che uno che non glielo consenta (la medesima ratio è sottesa al successivo art. 1371 c.c.).

L'art. 1368 c.c. detta, poi, un criterio di interpretazione delle clausole ambigue, prevedendo il ricorso alle pratiche interpretative generali diffuse e consolidate in un certo ambiente ed in un certo periodo: la ratio di tale previsione può essere facilmente rinvenuta nella considerazione che il loro rispetto corrisponde al comportamento ordinario e normale dei soggetti che le rispettano.

L'art. 1369 c.c. si occupa, poi, delle espressioni polisenso, chiarendo che esse vanno intese in relazione alla natura ed al contenuto del contratto: si vuole, cioè, che la terminologia usata dalle parti sia coerente ed armonizzata con l'oggetto o lo scopo pratico del contratto.

L'art. 1370 c.c. si occupa dell'interpretazione da fornire alle clausole facenti parti di condizioni generali di contratto inserite nei contratti per adesione (cfr. gli artt. 1341 e 1342 c.c.), stabilendo la regola della interpretatio contra stipulatorem: il fondamento della previsione è di carattere meramente equitativo, volendosi accordare protezione al contraente che, in posizione di svantaggio, si è trovato a contrattare alla luce di un regolamento contrattuale già predisposto dalla controparte.

Infine, l'art. 1371 c.c. detta due regole di chiusura, cui ricorrere allorché mediante l'applicazione delle precedenti non si sia riuscito a dare un senso al contratto o a sue specifiche clausole, per salvare l'uno o le altre dalla sanzione della nullità: nei contratti a titolo gratuito prevale il favor debitoris, giacché l'impegno assunto dall'obbligato non comporta alcun corrispondente sacrificio della controparte, mentre il principio diametralmente opposto va osservato nel caso di contratti a titolo oneroso, laddove vantaggi e svantaggi vanno distribuiti tra le parti..

Bibliografia

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