Codice Civile art. 1340 - Clausole d'uso.Clausole d'uso. [I]. Le clausole d'uso s'intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti [1374]. InquadramentoLe clausole d'uso (anche dette usi negoziali) rappresentano elementi integrativi del contenuto del contratto e consistono nelle pratiche generalizzate degli affari: fanno cioè parte del contenuto del contratto anche quelle clausole d'uso non espressamente incluse dalle parti e — simmetricamente — non espressamente escluse dalle stesse e che, tuttavia, sono correnti, ossia abituali in un dato contratto, perché normalmente praticate dalla generalità degli interessati in quel certo settore e dunque preesistenti al contratto medesimo. Non rientra nella nozione di uso negoziale, al contrario, la mera tolleranza esercitata di volta in volta secondo le circostanze, come nel caso in cui una banca abbia talora acconsentito al superamento del limite del fido (Cass. I, n. 3487/1998). La loro vincolatività è, dunque, inscindibilmente legata all'applicazione costante e generalizzata che se ne fa in un dato luogo e relativamente ad un settore d'affari: essi, dunque, vincolano le parti non solo quando esse ne conoscano l'esistenza, ma anche — e soprattutto, verrebbe da dire — quando ne ignorino l'esistenza ovvero deroghino a norme dispositive di legge. In altri termini, le clausole d'uso si inseriscono nel contratto in modo automatico, indipendentemente tanto dalla manifestazione di una volontà tacita quanto dalla conoscenza o meno che i contraenti ne abbiano Usi negoziali, normativi, individuali ed interpretativi: criteri discretiviGli usi negoziali si distinguono, a) dagli usi normativi (o consuetudini), costituenti, come chiarito dall'art. 8 delle Preleggi, vere e proprie fonti del diritto e richiamati dall'art. 1374 c.c., b) dagli usi interpretativi e c) dagli usi individuali. Quanto al rapporto tra usi negoziali ed usi normativi, attraverso l'elaborazione della dottrina è possibile enucleare una serie di tratti differenziali: 1) le clausole d'uso consistono in quelle pratiche che non abbiano ancora raggiunto la costante applicazione e la diffusione idonea a trasformarle in norme pienamente distaccate dalla volontà dei singoli contraenti e non siano idonee a conseguire una tale indipendenza dalla volontà di questi, perché, essendo contrarie a norme dispositive di legge, possono trarre efficacia solo da tale volontà (Osti, 530); 2) gli usi negoziali non si intendono inseriti nel contratto, qualora risulti che le parti non li abbiano voluti mentre, relativamente agli usi normativi, l'art. 1374 c.c., usando la locuzione «obbliga», ne presuppone l'imperatività e, quindi, l'inderogabilità (Messineo, 940); 3) le clausole d'uso influiscono sulla formazione del contratto mentre gli usi normativi incidono su un contratto già formato, integrandone gli effetti, non dissimilmente da quanto fanno la legge e l'equità; 4) la consuetudine ha un'applicazione generalizzata mentre l'uso negoziale ha un'applicazione più delimitata, ossia settoriale (Scognamiglio, 235); 5) gli usi negoziali peccano, diversamente da quelli normativi, dell'elemento soggettivo dell'opinio iuris ac necessitatis; 6) la violazione degli usi negoziali non consente il ricorso giudiziale in sede di legittimità, ammesso, al contrario, per la violazione degli usi normativi (Mirabelli, 126). Conforme la giurisprudenza, per la quale (Cass. I, n. 12507/1999) la configurabilità di un uso normativo richiede due requisiti, l'uno — di natura oggettiva — consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento, l'altro — di natura soggettiva o psicologica — consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, di modo che venga a configurarsi una norma — sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai regolamenti — avente i caratteri della generalità e della astrattezza. L'esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi. In termini anche Cass. I, n. 4498/2002. È invece discusso, in giurisprudenza, se gli usi normativi possano essere distinti dagli usi negoziali sulla base delle norme che, rispettivamente, li richiamano: in senso favorevole a tale soluzione Cass. I, n. 76/1988, mentre esclude tale possibilità Cass. L, n. 86/1986 per cui l'uso negoziale rileva anch'esso sotto il profilo dell'integrazione contrattuale. Quanto agli usi interpretativi, previsti dall'art. 1368 c.c., con essi si fa riferimento a regole esegetiche che soccorrono nel caso di difficoltà interpretative. Si registra una diversità di vedute tra chi ritiene che gli stessi possano essere assimilati agli usi negoziali, giacché al pari di questi fanno riferimento alle regole interpretative che si praticano nel luogo in cui il contratto è concluso e chi, al contrario, ritiene che si tratti di fattispecie diverse. Opta per la sostanziale equiparazione la giurisprudenza, per la quale (Cass. III, n. 3342/1968) la legge prevede due distinte categorie di usi, quelli normativi o giuridici, fonte sussidiaria di diritti nelle materie non regolate dalla legge e con funzioni integrative del contenuto delle norme scritte, e gli usi negoziali, interpretativi o integrativi della volontà dei contraenti incompletamente od ambiguamente espressa, in forza di clausole comunemente adottate nella località o nella zona in cui il contratto e concluso, e che possono, quindi, essere applicate normalmente ai negozi conclusi da contraenti che appartengano ad una determinata categoria di operatori economici, ove siano implicitamente od esplicitamente richiamati dalle parti. Analogamente si è osservato (Cass. I, n. 5942/1981) che gli usi interpretativi o negoziali costituiscono un mezzo di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti quando questa sia ambiguamente espressa o manchino i relativi patti. Gli usi negoziali vanno infine distinti anche dagli usi individuali (o pratiche individuali) reiterati dalle parti contraenti, consistenti nelle prassi che si instaurano nei rapporti tra determinati contraenti; tali prassi potranno essere, al più, rappresentare elementi di interpretazione del contratto, in quanto incidenti sulla valutazione del comportamento complessivo delle parti, ma non di integrazione del contratto medesimo (Sacco, 796). Quanto agli usi individuali, anche la giurisprudenza di legittimità evidenzia le differenze esistenti con gli usi normativi e con quelli negoziali, chiarendo come una prassi istituitasi tra le parti in occasione di precedenti contrattazioni non può essere identificata né con l'uso negoziale che, pur con le necessarie limitazioni, ha portata generale, né tanto meno con gli usi normativi (Cass. III, n. 3342/1968, cit.). Una particolare ipotesi di uso negoziale: l'uso aziendale Ipotesi particolare di uso negoziale, riconducibile, dunque, al paradigma dell'art. 1340 c.c., è l'uso aziendale o prassi aziendale, consistente nella pratica abitualmente seguita dal datore di lavoro all'interno di una determinata impresa. Esso non è riconducibile né agli usi normativi — e quindi prescinde sia dal requisito della generalità (talché non deve necessariamente interessare la generalità delle aziende di un settore) sia dal requisito dell'opinio juris seu necessitatis — né agli usi interpretativi (quali le pratiche generali interpretative contemplate dall'art. 1368 c.c.), ma va inquadrato negli usi negoziali che — sul presupposto della accertata reiterazione di determinati comportamenti del datore di lavoro — si inseriscono non già nel contratto collettivo di lavoro, bensì in quello individuale ed hanno forza vincolante tra le parti sempre che il contenuto della prassi sia modificativo in melius della regolamentazione collettiva (Cass. L, 7864/1986). Conforme Cass. L, n. 8432/2010, per cui la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi), integra di per sé gli estremi dell'uso aziendale il quale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali — tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda — agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Occorre, inoltre, che il comportamento datoriale abbia il carattere della spontaneità; ne consegue che non può ritenersi sussistente un uso aziendale qualora si accerti che le erogazioni da parte del datore di lavoro, ancorché protratte nel tempo, non siano state espressione di un comportamento spontaneo e liberale, in quanto egli si riteneva obbligato a tali erogazioni sulla base di una erronea interpretazione del contratto collettivo (Cass. L, n. 7774/1998) Il regime di efficacia degli usi negozialiCome già chiarito in precedenza, gli usi negoziali vincolano le parti non solo quando esse ne ignorino l'esistenza, ma anche ove deroghino a norme dispositive di legge, salvo che le parti non li abbiano espressamente esclusi. Il loro inserimento nel contenuto contrattuale, cioè, può essere escluso dall'inequivoca manifestazione di una volontà contraria, concorde delle parti, sia pure tacitamente espressa. Le clausole d'uso obbligano le parti anche se da esse ignorate, a meno che non risulti che le stesse abbiano espressamente inteso escluderle (Cass. L, n. 436/1986). L'onere della prova degli usi di fatto o contrattuali è a carico della parte che li allega (Cass. L, n. 5321/1987). Le clausole d'uso si intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti. però gli usi negoziali non costituiscono fonte del diritto e non possono essere oggetto di indagine ufficiosa del giudice, non applicandosi ad essi il principio iura novit curia di cui all' art. 113 c.p.c. (Trib. Firenze III, n. 1066/2023). Stante, però, la loro natura sussidiaria, agli usi negoziali è precluso di prevalere su norme di legge, benché non cogenti (Mirabelli, 127). Per quanto attiene alla loro interpretazione, gli usi negoziali sono soggetti alla disciplina degli artt. 1362 ss. c.c., mentre, per ciò che attiene alla perdita dell'efficacia, si ritiene che come un comportamento costante e reiterato porta al loro consolidamento, così, la ripetizione dell'inosservanza dell'uso, intesa come generale e costante abbandono della pratica, eventualmente seguita dal formarsi di un nuovo uso, implica la cessazione dell'uso medesimo per desuetudine Usi negoziali e clausole di stileLa «clausola di stile» è quella che si limita a riprodurre una costante prassi stilistica di determinati atti, senza alcun riscontro nella determinazione volitiva delle parti. Si tratta di quella clausola che viene inserita nel documento comprovante la conclusione del contratto, senza che ad essa corrisponda in alcun modo la volontà dei contraenti (Cass. III, n. 1832/1980); si distingue, dunque, dalla clausola d'uso, in quanto quest'ultima viene inserita in particolari tipologie di contratti ed è pienamente produttiva di effetti giuridici, anche se in ordine ad essa non siano intervenute particolari trattative tra le parti, essendo la manifestazione di volontà desumibile dalla sottoscrizione del documento in cui la clausola è inserita (Cass. III, n. 2947/1969). Sotto altro profilo si osserva che le clausole di stile sono costituite soltanto da quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelano la funzione di semplice completamento formale, mentre non può considerarsi tale la clausola che abbia un concreto contenuto volitivo ben determinato, riferibile al negozio posto in essere dalle parti (Cass. III, n. 19876/2011). In mancanza di dati assertivi di una pratica stilistica, però, si è chiarito (Cass. III, n. 1832/1980, cit.) che la mera genericità ed equivocità della terminologia adoperata non è sufficiente a conferire natura solo stilistica alla clausola: sicché il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica ed indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale ed interpretarla in relazione al contesto, per consentire alla stessa di avere qualche effetto e solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto, ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera dell'effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia qualificandola come di clausola stile (Cass. III, n. 1950/2009).. 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