Codice Civile art. 1569 - Contratto a tempo indeterminato.Contratto a tempo indeterminato. [I]. Se la durata della somministrazione non è stabilita, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo avuto riguardo alla natura della somministrazione. InquadramentoIl legislatore prevede la norma come espressione del principio per cui una parte non può rimanere vincolata in perpetuo ad un dato rapporto contrattuale. L'ordine pubblico impedisce di considerare meritevoli di tutela e dunque legittimi rapporti obbligatori perpetui. L'impianto codicistico, pur non contenendo una previsione generale ad hoc in questi termini, ci consegna una disciplina dei singoli contratti dalla quale emerge essenzialmente che per ciascun rapporto di durata a tempo indeterminato è prevista la possibilità per le parti di operare quello che può definirsi un recesso liberatorio o ad nutum, ossia dipendente dalla libera scelta della parte alla quale è attribuito, parte alla quale viene pertanto riconosciuta la possibilità di sciogliersi da un vincolo negoziale a tempo indeterminato (art. 1569 c.c. per restare in tema di somministrazione, tipo contrattuale al quale è riconducibile il rapporto per cui è causa; ma anche 1725 e 1727 c.c. in tema di mandato, 1750, comm a2 c.c. in tema di agenzia, 1810 c.c. in tema di comodato, 1845, comma 3 c.c. in tema di apertura di credito e così via). Da tali evidenze sistematiche discende la conseguenza che il recesso liberatorio risponde ad un principio di ordine pubblico a salvaguardia sia della libertà ed autonomia negoziale (gravemente compromessa laddove un soggetto potesse obbligarsi nei confronti di un altro a tempo indeterminato e senza possibilità di recesso liberatorio, ossia, essenzialmente, vita natural durante), che della circolazione dei beni e dello sviluppo della concorrenza nell'ambito del mercato (Trib. Rimini, 5 gennaio 2015, n. 6907). Con riferimento ad un contratto di fornitura attinente a servizi pubblici essenziali (nel caso, contratto di fornitura di energia elettrica da parte dell'Enel), ha enunciato il principio secondo cui «deve ritenersi consentita la previsione di un termine, con facoltà dell'ente medesimo di disdetta alla relativa scadenza, al fine di evitare la rinnovazione tacita del rapporto, senza che siffatta clausola sia soggetta ad autorizzazione od approvazione dell'autorità di vigilanza (posto che limiti alla libertà negoziale sono contemplati solo per le tariffe e gli altri corrispettivi). Peraltro, tenendo conto dell'obbligo di contrattare e di osservare parità di trattamento, di cui all'art. 2597, l'esercizio di detta facoltà è legittimo solo se funzionale alla stipulazione di una nuova fornitura, secondo condizioni conformi a quelle praticate agli altri utenti, ed altresì obiettivamente ragionevoli ed eque» (Cass. n. 5582/2003; Cass. n. 7159/1990). Operatività del recesso ad nutumIl contratto di somministrazione, nel quale sia predeterminata la quantità di merce da fornire, non può essere considerato a tempo indeterminato con facoltà delle parti di recedere ad nutum (art. 1569) — potendo il termine di durata, che è determinabile anche per relationem, considerarsi insito nell'esaurimento della fornitura per la quantità predeterminata (Cass. n. 6864/1983). In altri termini, nel contratto di somministrazione a tempo indeterminato ciascuna delle parti può dimostrare, per facta concludentia, la volontà di recedere dal rapporto in corso, salvo per il giudice il potere di stabilire in base alle clausole contrattuali, agli usi e alla natura della somministrazione, il termine congruo entro il quale il recesso debba avere efficacia (Cass. n. 1496/1977). In caso di condizione di dipendenza economica, un recesso ad nutum con preavviso di due mesi contestuale alla imposizione di determinate strategie, appare, nei limiti della sommarietà della cognizione cautelare, determinare un ingiustificato squilibrio negli obblighi e nei rischi di impresa specifici. Posto che l'impresa dominante può rifiutarsi di contrarre o di interrompere le relazioni commerciali, tale azione deve corrispondere ad un apprezzabile interesse economico dell'impresa dominante (Trib. Torre Annunziata, 30 marzo 2007). Pertanto, è integrato il distributore che, pur restando giuridicamente indipendente dal fornitore, accetta di coordinare la propria attività alle esigenze di marketingdel fornitore medesimo, vincolandosi al rispetto delle prescrizioni di quest'ultimo relativamente ad alcuni aspetti della propria organizzazione aziendale ed ai programmi di vendita. Un'ipotesi tipica di distribuzione integrata è rappresentata dal franchising, caratterizzato appunto dal fatto che il franchisee mantiene la propria indipendenza giuridica dal franchisor, ma al contempo assume determinati vincoli, incidenti sull'organizzazione aziendale e sulla libertà commerciale, finalizzati a realizzare un coordinamento con le esigenze dell'affiliante. Le caratteristiche della distribuzione integrata si presentano, sia pur con diverse gradazioni, anche in altre tipologie di rapporti che, similmente al franchising propriamente inteso, comportano l'assunzione di vincoli organizzativi a carico del distributore, funzionali all'inserimento nella rete di vendita di un dato soggetto economico (ciò accade spesso nel caso dei concessionari e dei rivenditori autorizzati, quale che sia il nomen iuris del rapporto). Le esperienze dei paesi nei quali il divieto di abuso dipendenza economica è presente da più tempo dimostrano che la distribuzione integrata rappresenta uno dei terreni di più frequente applicazione dell'istituto, per la naturale tendenza all'insorgere di una situazione di dipendenza economica del distributore integrato nei confronti dell'affiliante. In effetti tra i fattori che creano dipendenza, e che tipicamente sussistono nei rapporti di distribuzione integrata, figurano gli investimenti specifici richiesti al distributore per l'inserimento nella rete di vendita del fornitore. Gli investimenti richiesti possono riguardare vari aspetti dell'organizzazione aziendale, tra cui la ricerca e l'allestimento dei locali, le attrezzature, la formazione del personale, le c.d. entry fees (e cioè le somme che il fornitore talvolta richiede, una tantum, in cambio del diritto di ingresso nella propria rete distributiva), od ancora (anche se non si tratta di un investimento in senso tecnico) l'acquisto di quantità minime di merci, eventualmente imposto al distributore integrato per garantire la completezza della gamma dei beni offerti e la continuità dell'attività di vendita. Va tuttavia segnalato che non tutti questi investimenti possono considerarsi specifici in senso stretto, ovvero «idiosincratici»; in alcuni casi, infatti, si tratta di investimenti che sebbene necessari per l'ingresso della rete di vendita dell'affiliante, possono tuttavia essere reimpiegati dal distributore per usi di mercato alternativi, senza costi di riconversione o con costi di riconversione modesti (ad esempio, è da supporre che gli investimenti nella formazione del personale possano essere utilizzati per lo svolgimento di rapporti di distribuzione con altri fornitori presenti nel mercato di riferimento; lo stesso è a dirsi per quella parte di allestimenti e di attrezzature che soddisfi determinati standard di settore, senza però essere peculiare di uno specifico rapporto di affiliazione). Tra le situazioni di conflitto tra l'affiliante e il distributore integrato che più di frequente ricorrono nella pratica commerciale, vi è proprio il caso dell'interruzione delle relazioni commerciali per iniziativa del primo (quale che sia la forma giuridica dell'atto interruttivo: mancato rinnovo del contratto venuto a scadenza, esercizio di un diritto di recesso nel corso del rapporto, ecc.). L'interruzione del rapporto, infatti, espone il distributore al rischio di vedere vanificati gli investimenti compiuti, che non siano stati nel frattempo ammortizzati e che non risultino (agevolmente) convertibili ad impieghi alternativi. Si è posto perciò in dottrina il problema dell'individuazione dei possibili strumenti di protezione del distributore integrato di fronte a comportamenti opportunistici dell'affiliante; in questa prospettiva è apparso ai più che l'art. 9 cit. costituisca, almeno potenzialmente, uno strumento di notevole efficacia, più incisivo dei rimedi basati sul principio di buona fede contrattuale o sulla figura dell'abuso del diritto, a cui pure si è tentato di ricorrere per contrastare questo tipo di condotte. Se non è dubbio che l'art. 9 cit. sia astrattamente in grado di colpire e di sanzionare i casi di interruzione opportunistica del rapporto da parte dell'affiliante, incerti appaiono tuttavia i presupposti e i limiti della tutela dell'affiliato, dipendendo essi dal modo in cui si concretizzi il concetto di abuso. L'ordinanza in commento tenta appunto di dare concretezza al dettato normativo; e lo fa attribuendo esplicita rilevanza al problema della protezione degli investimenti specialistici del distributore integrato. Il tribunale muove dal rilievo che il contratto «RAW» stabilisce specifici obblighi di promozione dei prodotti e dei servizi dell'impresa dominante, assistiti da vincoli incidenti sull'organizzazione dell'impresa distributrice (tra questi: l'obbligo di allestire, all'interno del locale, un'area dedicata alla commercializzazione dei prodotti e servizi della resistente; l'obbligo di dotarsi di una postazione informatica con determinate caratteristiche; l'imposizione di quantitativi minimi di prodotti; obblighi di formazione del personale e di assistenza della clientela finale). Secondo il ragionamento del giudice, là dove il contratto richieda degli investimenti specifici, un eventuale recesso da parte dell'impresa dominante, se non trova giustificazione in inadempienze dell'impresa dipendente, «deve corrispondere ad effettive necessità aziendali dell'impresa dominante, oppure deve consentire il rimborso, anche solo parziale o frazionario, degli investimenti ai quali l'impresa dipendente è stata obbligata o, quanto meno, deve prevedere un termine di preavviso che sia congruo in relazione agli obblighi contrattuali assunti dalle parti e/o alle possibilità di reperire alternative commerciali». Ne deriva che la clausola di recesso ad nutum, se inserita in un contratto che comporti obblighi di investimento a carico dell'impresa dipendente, è valida solo se preveda un termine di preavviso tale da permettere l'ammortamento degli investimenti compiuti, o comunque il reperimento sul mercato di alternative commerciali atte a consentire il reimpiego del capitale investito (Bosco Carretta, 356). BibliografiaBigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, Torino, 1985, 5677; Capozzi, Compravendita, riporto, permuta, contratto estimatorio, somministrazione, locazione, Dei singoli contratti, Milano 1988; Giannattasio, La permuta, il contratto estimatorio, la somministrazione, Milano, 1960; Zuddas, Somministrazione, Concessione di vendita, Franchising, Torino 2003 |