Codice Civile art. 1731 - Nozione.

Francesco Agnino

Nozione.

[I]. Il contratto di commissione è un mandato [1703 ss.] che ha per oggetto l'acquisto o la vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario [532 c.p.c.] (1).

(1) V. art. 78 r.d. 16 marzo 1942, n. 267.

Inquadramento

Poiché la commissione è un tipo particolare di mandato, essa riceve una disciplina a sé stante.

Differenze rispetto al mandato

Il contratto di commissione, essendo un sottotipo qualificato di mandato senza rappresentanza, si distingue dal mandato con rappresentanza per l'assenza della contemplatio domini (cioè della spendita del nome del mandante), cosicché mentre il negozio concluso dal mandatario con rappresentanza produce i suoi effetti direttamente in capo al mandante, quello posto in essere dal commissionario produce i suoi effetti giuridici nel patrimonio dello stesso commissionario, occorrendo un ulteriore atto giuridico per riversarli nel patrimonio del committente. Inoltre, quando la commissione abbia ad oggetto il mandato ad alienare, il contratto si atteggia in modo che l'effetto traslativo reale del bene, derivante dal consenso manifestato, non si verifica immediatamente, ma è sospensivamente condizionato al compimento dell'alienazione gestoria del bene medesimo da parte del mandatario o commissionario (Cass. n. 8512/2004: nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale, con riferimento ad un commissionario per la vendita di autovetture legato da un accordo con società di leasing, aveva escluso che fosse da ritenere provato attraverso una fattura di cessione di un autoveicolo da una concessionaria d'auto all'acquirente che la vendita fosse avvenuta per il tramite del commissionario).

Pertanto, il contratto di commissione è un sottotipo qualificato di mandato senza rappresentanza, esso si caratterizza innanzi tutto dal mandato con rappresentanza per l'assenza della contemplatio domini (cioè della spendita del nome del mandante), cosicché mentre il negozio concluso dal mandatario con rappresentanza produce i suoi effetti direttamente in capo al mandante, quello posto in essere dal commissionario, proprio perché questi agisce in nome proprio ancorché per conto del committente, produce i suoi effetti giuridici nel patrimonio dello stesso commissionario, ed occorre un ulteriore atto giuridico per riversarli nel patrimonio dell'altro (committente). Su questo punto la giurisprudenza di legittimità è sempre stata ferma (Cass. n. 518/1955; Cass. n. 2433/1985).

Anche Cass. n. 10522/1994 non sembra andare in contrario avviso: essa doveva risolvere il problema della validità del trasferimento del bene da parte del commissionario, in esecuzione del negozio gestorio, dal momento che costui era non proprietario ma semplice possessore o detentore qualificato del bene stesso. In proposito osserva la Corte di legittimità che “se fosse sempre necessario — quanto meno nel mandato a vendere beni immobili o mobili registrati (i quali ultimi, peraltro si trasferiscono con il solo consenso) — un preciso negozio formale di trasferimento dal mandante al mandatario per legittimare la successiva alienazione formale del bene da parte di quest'ultimo, il contratto di commissione e l'istituto del mandato a vendere perderebbero gran parte della loro funzione ed utilità. L'incondizionato trasferimento del bene al mandatario potrebbe, inoltre, esser causa di inconvenienti ed abusi da parte del medesimo, come la dottrina ha sottolineato. Si deve allora ritenere, in adesione ai risultati dei più recenti studi sull'argomento, che nel mandato ad alienare (e nella commissione, quando abbia ad oggetto questo tipo di mandato) sia ravvisabile un contratto nel quale l'effetto traslativo reale del bene, derivante dal consenso manifestato dalle parti (art. 1376 c.c.), non si verifica immediatamente ma è sospensivamente condizionato al compimento dell'alienazione gestoria del bene medesimo da parte del mandatario o commissionario.

È opportuno tuttavia avvertire che anche i sostenitori di soluzioni diverse della questione in esame (sulle quali non è il caso di attardarsi) sono sostanzialmente concordi nel riconoscere al commissionario, pur se con differenti motivazioni, il potere di trasferire validamente il bene al terzo in nome proprio e per conto del committente, senza necessità di disvelare l'esistenza del mandato.”

In altre parole, la citata sentenza afferma che il commissionario può alienare il bene oggetto del contratto di commissione, essendone legittimato senza bisogno di comunicare l'esistenza del mandato, ma non esclude certo che l'alienazione avvenga (per conto del committente ma) in nome di esso commissionario, e neppure la necessità di un negozio formale di trasferimento dal mandatario al mandante. Ipotesi che, quindi, con tutta evidenza non si attaglia alla presente fattispecie, completata e complicata dalla parallela esistenza di un contratto di finanziamento.

Inoltre, quando la commissione abbia ad oggetto il mandato ad alienare, il contratto si atteggia in modo che l'effetto traslativo reale del bene, derivante dal consenso manifestato, non si verifica immediatamente, ma è sospensivamente condizionato al compimento dell'alienazione gestoria del bene medesimo da parte del mandatario o commissionario (Luminoso, in Tr. I.Z., 1995, 230).

Quanto al contratto di agenzia, si è precisato che la differenza fra contratto di agenzia e di commissione sta nel fatto che l'agente svolge un'attività professionale diretta a promuovere la conclusione dei contratti in nome e per conto del preponente in una zona determinata e richiede la forma scritta ad probationem, il commissionario conclude contratti di compravendita in nome proprio e per conto del committente con l'obbligo di trasferire a quest'ultimo, mediante separati negozi, gli effetti attivi e passivi delle contrattazioni (Trib. Bologna, 9 maggio 2023, n. 994).

Obbligo di custodia

Nel caso di mandato (o commissione) a vendere, con deposito della cosa presso il mandatario, sorge a carico di quest'ultimo l'obbligo di custodia ex art. 1177 c.c.

In queste ipotesi la causa del mandato concorre con quella del deposito, ancorché gli elementi di quest'ultimo contratto siano prevalenti, con la conseguenza che: a) non sussiste incompatibilità tra l'art. 1780 c.c., (che disciplina la responsabilità del depositario in caso di perdita non imputabile della detenzione della cosa) e le norme che disciplinano il mandato (Cass. n. 1494/1979); b) è ormai superata la risalente distinzione circa la diligenza nella custodia ove quest'ultima costituisca obbligazione principale od accessoria (Cass. n. 430/1986); c) sia nel caso in cui l'obbligo di custodia è prestazione accessoria e funzionalmente voluta dalla legge per l'esecuzione della prestazione principale art. 1177 c.c., — sia quando esso è l'effetto tipico del relativo contratto — art. 1766 c.c., — la diligenza richiesta all'affidatario è comunque quella del buon padre di famiglia (Cass. n. 10986/1997); d) che siffatto tipo di diligenza comporta anche, in esplicazione del c.d. dovere di protezione, che il depositario predisponga quanto necessario per prevenire fatti esterni, fra i quali il furto, che possano determinare la perdita della cosa (Cass. n. 1702/1969).

Ma la Corte di Cassazione, rimeditando l'intera problematica in ipotesi di furto di cosa affidata in comodato, con esplicito riferimento anche all'ipotesi di deposito, ha preso atto che, malgrado il disposto dell'art. 1768 c.c., (secondo cui il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia) correntemente si sostiene che in caso di perdita della cosa depositata, il depositario non si libera dalla responsabilità ex recepto provando solo di avere usato nella custodia della res la diligenza del buon padre di famiglia prescritta dalla norma succitata, ma deve anche provare ex art. 1218 c.c., che l'inadempimento sia derivato da causa a lui non imputabile (Cass. n. 7363/1997). Ed approfondendo il rapporto fra l'art. 1768 c.c., e l'art. 1218 c.c., è giunta alla conclusione che il depositario, secondo i principi che regolano la ripartizione dell'onere probatorio in tema di inadempimento contrattuale, per evitare di incorrere in colpa per il furto subito, deve provare di avere posto in essere tutte le attività protettive che l'ordinaria diligenza suggerisce, non essendo sufficiente a farlo versare in colpa il solo fatto che il furto sia evento sempre astrattamente prevedibile ed evitabile. Si tratta di un accertamento da effettuare in concreto, con valutazione ex ante da parte del giudice di merito, e non sulla base di una presunzione astratta (Cass. n. 16826/2003). In altre parole, solo se il depositario si rende conto (o dovrebbe rendersi conto) al momento dell'adempimento della prestazione di custodia, che il soddisfacimento dell'interesse creditorio non è configurabile senza la produzione di uno sforzo maggiore rispetto a quello che ordinariamente comporterebbe la diligenza del buon padre di famiglia, è tenuto comunque a produrre tale sforzo particolare, versando altrimenti in colpa, nonostante che egli abbia custodito con la diligenza di cui sopra. E solo in questi termini ha un senso ritenere che la mera prova della diligenza del buon padre di famiglia nell'espletamento dell'attività di custodia, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, 1177, 1768 c.c., non è idonea ad escludere la responsabilità per inadempimento del custode ex art. 1218 c.c., in caso di furto, che rimane pur sempre una responsabilità per colpa (Cass. n. 12089/2007).

Bibliografia

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