Codice Civile art. 1655 - Nozione (1).InquadramentoCon l'appalto il committente può ottenere la costruzione di un opera od una prestazione di servizi che non sarebbe in grado di realizzare da solo (ad esempio la costruzione di un immobile): l'appaltatore, invece, è in grado di provvedervi in quanto dispone dei mezzi e dell'organizzazione necessari (ad esempio un'impresa edile). Il contratto di appalto, come di norma i negozi giuridici bilaterali patrimoniali, è caratterizzato dalla presenza di un soggetto creditore dell'obbligazione principale (in questo caso «committente») e di un soggetto debitore, l'appaltatore (Musolino, 113). L'appalto è uno di quei contratti per i quali la dottrina richiama l'intuitus. Il tema in questione è stato oggetto di un annoso dibattito: la forte dicotomia in dottrina, ad oggi ancora non del tutto sanata (Musolino, 115), rivela la prevalenza della tesi di coloro che ritengono che gli artt. 1674 (morte dell'appaltatore), 1656 (subappalto) e 81 l. fall. (fallimento) mettano in rilievo la forte connessione tra il contratto di appalto e l'intuitus personae (AA.VV., 41 ss.) In particolare si fa riferimento alla necessità dell'autorizzazione al subappalto da parte del committente, allo scioglimento del contratto per morte dell'appaltatore qualora «la considerazione della sua persona sia stata determinante del consenso», all'idoneità del fallimento dell'appaltatore (Ugas, 165). Differenze tra l'appalto ed altre fattispecie negozialiSi ha appalto quando la prestazione della materia costituisce un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio (Cass. n. 3806/1978), in modo che le modifiche da apportare a cose, pur rientranti nella normale attività produttiva dell'imprenditore che si obbliga a fornirle ad altri, consistono non già in accorgimenti marginali e secondari diretti ad adattarle alle specifiche esigenze del destinatario della prestazione, ma sono tali da dar luogo ad un opus perfectum, inteso come effettivo e voluto risultato della prestazione e configurato in modo che la prestazione d'opera assuma, non tanto per l'aspetto quantitativo, ma piuttosto sul piano qualitativo e sotto il profilo teleologico, valore determinante al fine del risultato da fornire alla controparte. In altri termini, occorre aver riguardo alla causa del contratto ed al significato che in relazione ad essa la fornitura della materia e la prestazione d'opera assumono, nella comune intenzione delle parti, in vista del risultato che esse tendono a conseguire (Cass. n. 3807/1995). Da ciò consegue che ai fini della distinzione tra contratto di appalto e contratto di vendita, quando la prestazione consista tanto in un dare quanto in un fare, occorre avere riguardo alla volontà dei contraenti; per cui si ha appalto quando la prestazione della materia costituisce un mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del negozio, mentre si ha vendita quando la fornitura riguarda manufatti che rientrano nella normale attività produttiva dell'imprenditore, anche se è necessario apportare modifiche di forma, misura e qualità espressamente richieste dalla controparte (Cass. n. 6925/2001). Occorre, in altre parole, valutare se sia prevalente o meno il lavoro rispetto alla materia (Cass. n. 20391/2008), sulla base degli accordi intercorsi e del tipo di prestazione oggetto del contratto (Cass. n. 23444/2012). Si è precisato che il contratto di appalto ed il contratto di vendita si differenziano in base al carattere prevalente della prestazione sulla materia, per cui si ha appalto quando la prestazione della materia costituisce un mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro è lo scopo essenziale del contratto, mentre si ha vendita quando la prestazione consiste in manufatti che rientrano nella normale attività produttiva dell'imprenditore (Trib. Piacenza, 2 agosto 2023, n. 480). Al riguardo già le Sezioni Unite hanno affermato che con riguardo al contratto avente ad oggetto la costruzione ed installazione di un impianto, la configurabilità di una vendita di cosa futura, anziché di un appalto, ove le parti abbiano considerato l'attività produttiva come mero strumento per ottenere il bene da trasferire, va riconosciuta non soltanto quando detto impianto configuri un prodotto strettamente di serie del venditore, ma anche quando, pur rientrando nella sua normale attività e non richiedendo modifiche della sua organizzazione imprenditoriale, debba presentare caratteristiche e qualità specifiche, con riguardo al compratore, ed espressamente promesse dal venditore medesimo, sì da giustificare, in caso di mancanza, la risoluzione a norma dell'art. 1497 c.c. (Cass. S.U., n. 1196/1983). Trattasi di principi successivamente ribaditi dalla Corte di cassazione che anche di recente ha riconfermato che (Cass. n. 20301/2012) si ha contratto di appalto, e non contratto di vendita, quando, secondo la volontà dei contraenti, la prestazione della materia è un semplice mezzo per la produzione dell'opera, il lavoro essendo prevalente rispetto alla materia (Cass. n. 20391/2008; Cass. n. 3807/1995; Cass. n. 5074/1993). Pertanto, si ha contratto di appalto, e non contratto di vendita, quando, secondo la volontà dei contraenti, la prestazione della materia è un semplice mezzo per la produzione dell'opera, il lavoro essendo prevalente rispetto alla materia, sicché è corretta la qualificazione come appalto del contratto avente ad oggetto la costruzione di un capannone di grandi dimensioni (ottomila metri cubi), trattandosi necessariamente di un'opera da realizzare «su misura» rispetto alle specifiche esigenze del committente, con prevalenza, quindi, dell'obbligazione di facere rispetto alla pattuita fornitura di elementi prefabbricati da parte dell'appaltatore (Cass. n. 20301/2012). Il contratto d'appalto ed il contratto d'opera si differenziano per il fatto che nel primo l'esecuzione dell'opera commissionata avviene mediante una organizzazione di media o grande impresa cui l'obbligato è preposto, mentre nel secondo con il prevalente lavoro di quest'ultimo, pur se coadiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore, secondo il modulo organizzativo della piccola impresa (Cass. n. 12519/2010). Analogamente, il contratto avente ad oggetto l'impegno a trasferire la proprietà di un'area (nella specie, il 79 per cento dell'intero fondo) in cambio di uno o più unità immobiliari da costruire (nella specie, pari al 21 per cento della volumetria complessivamente realizzabile, da erigersi sulla parte di fondo non ceduta) è qualificabile come preliminare di permuta di cosa futura ove l'intento concreto delle parti abbia ad oggetto il reciproco trasferimento dei beni (presente e futuro), restando meramente strumentale l'obbligo di erigere i fabbricati, mentre integra un appalto se tale obbligazione assume rilievo preminente e ad essa corrisponda quella di versare il corrispettivo (eventualmente sostituito, nella forma atipica do ut facias, dal trasferimento dell'area), anche in compensazione rispetto al prezzo per la vendita immobiliare funzionalmente collegata (Cass. n. 11234/2016). I tratti distintivi del contratto di appalto che, valgono a differenziarlo dalla somministrazione di personale, consistono nell'assunzione da parte dell'appaltatore: a) del potere di organizzazione dei mezzi necessari allo svolgimento dell'attività richiesta; b) del potere direttivo sui lavoratori impiegati nella stessa; c) del rischio di impresa (si veda in tal senso l'art. 29 d.lgs. n. 276/2003, il quale recita: «Ai fini dell'applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'art. 1655 c.c., si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione di mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per l'assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa»). I richiamati profili di differenziazione si compendiano nel fatto che attraverso il contratto di appalto una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro — secondo lo schema dell'obbligazione di risultato; nel contratto di somministrazione, al contrario, l'agenzia invia in missione dei lavoratori, che svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore — secondo lo schema dell'obbligazione di mezzi. Dal che ulteriormente consegue che nel contratto di appalto i lavoratori restano nella disponibilità della società appaltatrice, la quale ne cura la direzione ed il controllo; nella somministrazione è invece l'utilizzatore che dispone dei lavoratori, impartendo loro le direttive da eseguire. La giurisprudenza della Corte di cassazione è intervenuta a dettagliare in modo ancor più specifico gli indici sintomatici della non genuinità di un affidamento formalmente qualificato come «appalto», ma in realtà dissimulante una somministrazione di personale, ravvisandoli nei seguenti elementi: a) la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro; b) l'inserimento stabile del personale dell'appaltatore nel ciclo produttivo del committente; c) l'identità dell'attività svolta dal personale dell'appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente; d) la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l'espletamento delle attività; e) l'organizzazione da parte del committente dell'attività dei dipendenti dell'appaltatore (Cass. n. 3178/2017). Sicché, la distinzione tra le due figure contrattuali dell'appalto di servizi e della somministrazione di personale è marcata dal fatto che il contratto di appalto ha ad oggetto un'obbligazione di risultato (con cui l'appaltatore assume, con la propria organizzazione, il compito di far conseguire al committente il risultato promesso), mentre la somministrazione di lavoro sottende una tipica obbligazione di mezzi (attraverso cui l'Agenzia per il Lavoro si limita a fornire prestazioni lavorative organizzate e finalizzate dal committente). Conseguentemente, ove nella gara indetta dalla p.a., come nel caso di specie, l'aggiudicatario non abbia alcun risultato da raggiungere, poiché oggetto esclusivo della procedura sono mere prestazioni lavorative (di segreteria, istruttorie o di supporto alla gestione delle attività amministrative), deve ritenersi che si è al cospetto di un contratto di somministrazione di personale e non già di una appalto di servizi (Cons. St. n. 1571/2018). Il contratto avente a oggetto la cessione di un fabbricato o di una porzione di fabbricato non ancora compiutamente realizzato o da ristrutturare, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia anche imprenditore edile - di eseguire i lavori necessari a completare il bene o a renderlo idoneo al godimento, ben può integrare gli estremi della vendita di una cosa futura se l'obbligo di completamento dei lavori assume, nel sinallagma contrattuale, un rilievo soltanto accessorio e strumentale rispetto al trasferimento della proprietà (Cass. n. 23110/2021). In tema di deduzione di componenti negativi di reddito, ai sensi dell' art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997 , e di esclusione dalla base imponibile ex art. 26-bis della l. n. 196 del 1997 e detrazione dell'IVA, la distinzione tra appalto genuino di cui all' art. 1655 c.c. e illecita somministrazione di manodopera si individua nella concorrenza dei requisiti di assunzione del rischio d'impresa e di direzione e organizzazione di mezzi e materiali necessari da parte dell'appaltatore, tenendo presente che negli appalti "leggeri", a prevalenza di apporto personale di unità specializzate, l'organizzazione può anche essere minima, mentre negli appalti "labour intensive" il requisito si sostanzia soprattutto nell'esercizio del potere direttivo di mezzi e materiali (Cass. n. 20591/2024). Ipotesi di nullità del contratto di appaltoÈ nullo il contratto di appalto non preceduto dall'ottenimento della concessione edilizia relativa all'oggetto dei lavori da eseguire (Cass. n. 7961/2016; Cass. n. 13411/2014). In altri termini, il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in materia urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall'origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell'art. 1423 (Cass. n. 4015/2007). È pur vero che il rigore di tale giurisprudenza è stato mitigato dall'affermazione del principio di diritto in base al quale l'illiceità del contratto di appalto è ravvisabile solo ove esso sia, di fatto, eseguito in carenza di concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima sia rilasciata dopo la data della stipulazione del contratto, di appalto, ma prima della realizzazione dell'opera, posto che non sarebbe conforme alla mens legis la sanzione di nullità irrogata per un contratto il cui adempimento sia stato intenzionalmente posposto al previo ottenimento della concessione o autorizzazione richiesta, con una condotta, quindi, aderente al precetto normativo, potendosi il contratto stesso, considerare sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione, al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante al momento della relativa stipulazione (Cass. n. 3913/2009). Forma del contratto di appaltoL'appalto è un contratto a forma libera, la cui cessione può desumersi dalla volontà comunque manifestata dalle parti (Cass. n. 3916/ 2014). Il contratto di appalto, disciplinato dagli artt. 1655 e ss. c.c., non è compreso nel catalogo, fornito dall'art. 1350 c.c. per la validità dei quali è richiesta stipulazione in forma scritta, ad substantiam. Il contratto d'appalto non è soggetto a rigore di forme e, pertanto, per la sua stipulazione non è richiesta la forma scritta, né ad substantiam, né ad probationem, potendo dunque essere concluso anche per facta concludentia; ne consegue la rilevanza della prova testimoniale, dedotta con riguardo all'effettiva esecuzione delle prestazioni per il cui corrispettivo la parte, in quanto creditrice, chieda l'ammissione al passivo della procedura di fallimento (Cass. n. 22616/2009). A questo riguardo ben possono assumere rilevanza la prova testimoniale e il verbale «informale» di ricognizione delle opere incompiute dal fallito, se non specificamente contestato dalla curatela (che, nella specie, se ne è servita per l'autonoma quantificazione dei lavori incompiuti), neppure quanto alla sua opponibilità per carenza di data certa (Cass. n. 16530/2016). Infatti qualsiasi contratto per il quale non sia richiesta la forma scritta può essere concluso per fatti concludenti (Cass. n. 29885/2008; Cass. n. 9077/2003; Cass. n. 10484/2004). E l'esecuzione delle prestazioni che ne sono oggetto è certamente un fatto indicativo della conclusione di un contratto (Cass. n. 6963/2001). In dottrina, tuttavia, è stato affermato che devono avere ai sensi dell'art. 1350 n. 1, la forma scritta anche i contratti di appalto per la costruzione di immobili qualora il suolo sia di proprietà dell'appaltatore (Rubino, 17). Ne consegue che l'esistenza di quel contratto e la sua modificazione soggettiva mediante cessione negoziale (art. 1406) ben possono desumersi dal consenso comunque manifestato dalle parti. In particolare, il consenso del contraente ceduto alla modificazione soggettiva del rapporto contrattuale, indispensabile alla validità della sua cessione, può essere preventivo, concomitante o successivo ed, oltre che espresso, anche tacito purché manifestato con il valore di elemento costitutivo della cessione (Cass. n. 3102/1987; Cass. n. 7752/1992). Appalto pubblicoAnche nell'appalto di opere pubbliche, stante la natura privatistica del contratto, è configurabile, in capo all'amministrazione committente, creditrice dell'opus, un dovere — discendente dall'espresso riferimento contenuto nell'art. 1206 e, più in generale, dai principi di correttezza e buona fede oggettiva, che permeano la disciplina delle obbligazioni e del contratto — di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, attraverso il compimento di quelle attività, distinte rispetto al comportamento dovuto dall'appaltatore, necessarie affinché quest'ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio (Cass. n. 10052/2006). Analogamente, la consegna dei lavori — e, quindi, massimamente, dell'area destinata alla loro esecuzione — si iscrive nel dovere della stazione appaltante di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, non essendo questi tenuto a (e il più delle volte neppure potendo) farsi carico dell'attività necessaria per acquisire la effettiva disponibilità del suolo di proprietà del committente rimuovendo gli impedimenti alla sua piena utilizzabilità provenienti da diritti di terzi e, perciò, non riconducibili alle difficoltà comprese nel rischio attinente alla organizzazione e gestione dei fattori produttivi, che l'art. 1655 pone a carico dell'assuntore (Cass. n. 5332/1994), ma riferibili al committente, dal momento che la indisponibilità (totale o parziale, originaria o sopravvenuta) dell'area sulla quale l'opera deve essere costruita equivale, per ogni effetto, alla mancata o inesatta consegna (che non deve essere puramente simbolica), con la conseguenza che, ove l'obbligato non provveda in tempi ragionevoli alla rimozione di ostacoli che rendano praticamente impossibile l'inizio o la prosecuzione dei lavori e in assenza, dunque, delle condizioni, giuridiche o di fatto, postulate dal favor legislativo per il mantenimento in vita dell'appalto, sorge per l'appaltatore il diritto potestativo alla risoluzione del contratto (e al pagamento del corrispettivo dei lavori eseguiti, oltre al risarcimento degli eventuali danni imputabili all'altra parte). Sicché in base alla disciplina pubblicistica dell'appalto (Cass. n. 4591/2008; Cass. n. 1263/2012), l'ente appaltante è dotato di specifici e particolarmente intensi poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza nell'esecuzione dei lavori; così da poter, tra il resto, esigere delle varianti, ovvero disporre la sospensione dei lavori stessi per ragioni attinenti sia alle modalità di esecuzione, sia ad altre considerazioni di rilevanza generale. Si tratta, del resto, di poteri che l'amministrazione appaltante può esercitare tramite l'organo a ciò preposto del direttore dei lavori, e che presuppongono proprio la pendenza del rapporto di appalto e, dunque, che non si sia giunti al collaudo ed alla consegna delle opere. Peraltro, in tema di appalto pubblico, la mancata consegna dell'opera alla stazione appaltante non esonera quest'ultima dalla responsabilità per la custodia del cantiere e per i danni arrecati a terzi ad essa riconducibili qualora, pur a conoscenza della situazione di abbandono del cantiere ed il protrarsi del «fermo dei lavori», nonché in possesso di specifici poteri di controllo ed ingerenza nella esecuzione dell'opus, abbia omesso di adottare, tramite il direttore a ciò preposto, misure idonee a prevenire il verificarsi di eventi lesivi (Cass. n. 18317/2015). In tema di affidamento in house la società appaltatrice non perde la qualità imprenditoriale perché le norme speciali, volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono incidere sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica (Cass. n. 3196/2017). Né la eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo appare sufficiente ed escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle di una società di capitali disciplinato in via generale dal codice civile, rilevando non il tipo di attività esercitata (funzioni e compiti svolti ex lege) ma la natura del soggetto, ai fini della applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale. Da quanto precede discende che la sussistenza di un contratto di appalto cd. in house non comporta di per sé l'unicità di titolarità dell'organizzazione produttiva comune alla società-organismo di diritto pubblico e società da essa partecipata al cento per cento, in quanto il rapporto tra i due enti resta di assoluta autonomia; ne deriva che le vicende dei rapporti di lavoro del personale delle società cd. «in house providing» sono regolate secondo la disciplina del lavoro privato e a tale regolamentazione deve aversi riguardo per valutare sia gli aspetti funzionali ed estintivi che quelli genetici degli stessi (Cass. n. 7222/2018). Nella concessione di opera pubblica, anche nella forma di concessione della sola costruzione, si attua un trasferimento di funzioni e potestà pubbliche al concessionario, il quale agisce come organo indiretto dell'amministrazione concedente e la sua azione produce, nei confronti dei terzi, gli stessi effetti che produrrebbe l'azione diretta dell'amministrazione (Cass. n. 3938/1991; Cass. n. 4145/2003). Ne discende che non può ravvisarsi diversità sostanziale, sul piano giuridico, tra il contratto di appalto concluso dal concessionario e quello stipulato dall'amministrazione concedente. Tale conclusione trova, del resto, una conferma nella l. n. 76/1970, art. 2 (ora abrogata) del quale la l. n. 37/1973, art. 2 proroga la vigenza (come si desume dallo stesso titolo della legge, che recita: proroga della l. 19 febbraio 1970, n. 76, art. 2 recante norme per la revisione dei prezzi degli appalti di opere pubbliche) e che, quindi, va considerato unitariamente a quest'ultimo, laddove equipara espressamente, nella disciplina della revisione prezzi, i lavori «concessi» a quelli «appaltati» o «affidati» dalla P.A. Da ciò discende che: il divieto di inserire nei contratti di appalto di opere pubbliche la clausola che preveda come obbligatoria la revisione dei prezzi (di cui all'art. 2 l. n. 37/1993) si applica anche nel caso in cui l'appaltante sia una società concessionaria dello Stato o di altro ente pubblico. Infatti, nella concessione di opera pubblica, anche nella forma di concessione della sola costruzione, si attua un trasferimento di funzioni e potestà pubbliche al concessionario, il quale agisce come organo indiretto dell'Amministrazione concedente e la sua azione produce, nei confronti dei terzi, gli stessi effetti che produrrebbe l'azione diretta dell'Amministrazione (Cass. n. 5065/2017). Sotto altro aspetto, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario (e non a quella del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, del codice processo amministrativo) la controversia promossa dalla stazione appaltante nei confronti del privato per il risarcimento dei danni patiti — per responsabilità precontrattuale e contrattuale — a causa delle condotte asseritamente fraudolente da questi poste in essere, nella fase di affidamento di lavori edili. Si tratta, infatti, di domanda risarcitoria afferente non alla fase pubblicistica della gara, ma a quella prodromica nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, con conseguente rilevanza del criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla natura e sulla consistenza della situazione soggettiva dedotta in giudizio (Cass. S.U., n. 16419/2017). Responsabilità dell'appaltatoreIl progettista risponde in solido l'appaltatore sia nel caso in cui egli si sia accorto degli errori e non li abbia tempestivamente denunciati al committente; sia nel caso in cui, pur non essendosi accorto degli stessi, lo avrebbe potuto fare con l'uso della normale diligenza e delle normali cognizioni tecniche. Invero, anche in presenza di un progetto, residua pur sempre un margine di autonomia per l'appaltatore, che gli impone di attenersi alle regole dell'arte e di assicurare alla controparte un risultato tecnico conforme alle esigenze, eliminando le cause oggettivamente suscettibili di inficiare la riuscita della realizzazione dell'opera. Rientra infatti tra gli obblighi di diligenza dell'appaltatore, senza necessità di una specifica pattuizione, esercitare il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, posto che dalla corretta progettazione, oltre che dall'esecuzione dell'opera, dipende il risultato promesso e che l'obbligazione dell'appaltatore è qualificata come di risultato (Cass. n. 8016/2012). Conseguentemente, l'appaltatore è esentato da responsabilità solo ove dimostri che gli errori non potevano essere riconosciuti con l'ordinaria diligenza richiesta all'appaltatore stesso; ovvero nel caso in cui, pur essendo gli errori stati chiaramente prospettati e denunciati al committente, questi ha però imposto, direttamente o tramite il direttore dei lavori, l'esecuzione del progetto ribadendo le istruzioni, posto che in tale eccezionale caso l'appaltatore ha agito come nudus minister, a rischio del committente e con degradazione del rapporto di appalto a mero lavoro subordinato (Cass. n. 8016/2012). Pertanto, l'appaltatore è l'esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi poiché nell'esecuzione dei lavori appaltati opera in autonomia, con propria organizzazione e apprestando i mezzi necessari (art. 1655). Mentre, in disparte l'ipotesi di culpa in eligendo, si ha esclusiva responsabilità del committente se questi si sia ingerito nei lavori con direttive vincolanti che abbiano ridotto l'appaltatore al rango di nudus minister (Cass. n. 15782/2006). Si è altresì affermato che ove l'appaltatore non metta a disposizione gli strumenti tecnicamente idonei all'esecuzione dell'opera commissionatagli e faccia ricorso a dispositivi alternativi, ovvero all'aiuto di collaboratori della società committente, è responsabile, in via esclusiva, dei danni provocati nell'esercizio dell'attività. L'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Nel caso di appalto che non implichi il totale trasferimento all'appaltatore del potere di fatto sull'immobile nel quale deve essere eseguita l'opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l'evento lesivo (Cass. n. 11761/2018, nella specie, la S.C. ha ritenuto che il lastrico solare, indipendentemente dalla sua consegna all'appaltatore, rimanga sempre nella disponibilità del condominio committente per via della sua funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture murarie). Infatti, se è vero che l'autonomia dell'appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall'esecuzione dell'opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell'ipotesi di riferibilità dell'evento al committente stesso per culpa in eligendo (ove l'opera venga affidata ad un'impresa assolutamente inidonea) ovvero quando l'appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso (Cass. n. 1234/2016), cionondimeno: a) il committente può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti dalla condizione della cosa di sua proprietà laddove, per sopravvenute circostanze di cui sia venuto a conoscenza — come, ad es., nel caso di abbandono del cantiere o di sospensione dei lavori da parte dell'appaltatore — sorga a carico del medesimo il dovere di apprestare quelle precauzioni che il proprietario della cosa deve adottare per evitare che dal bene derivino pregiudizi a terzi (Cass. n. 14443/2010); b) ove l'appalto non implichi il totale trasferimento all'appaltatore del potere di fatto sull'immobile nel quale deve essere eseguita l'opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l'evento lesivo (Cass., n. 15734/2011); che, a tale ultimo riguardo ed in aggiunta a quanto in precedenza esposto, va comunque osservato che, già in linea astratta, il lastrico svolge, indipendentemente dal regime proprietario ovvero da una sua fruizione diretta, una ineludibile funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture (Cass. n. 19779/2017; Cass. S.U., n. 9449/2016): sicché, quantomeno sotto tale profilo ed indipendentemente dall'avvenuta «consegna» — quale area di cantiere — all'appaltatore, per l'esecuzione di lavori volti alla relativa manutenzione o ristrutturazione, il lastrico deve considerarsi nella persistente disponibilità del condominio, con conseguente permanenza, in capo a quest'ultimo, delle obbligazioni connesse alla sua custodia e delle connesse responsabilità per il relativo inadempimento (Cass. n. 15734/2011). Costituisce massima consolidata quella secondo la quale in materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell'opera da eseguire (Cass. n. 11311/2017). Si è, altresì, ribadito (Cass. n. 17092/2012) che l'art. 2087 c.c., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all'imprenditore l'adozione di misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire. Inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, configurando l'art. 1669 c.c. una sorta di responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l'appaltatore-costruttore del fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, anche tutti quei soggetti, che prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell'opera, abbiano comunque contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o direttore dei lavori), alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione (Cass. n. 17874/2013; Cass. n. 9868/2009; Cass. n. 3406/2006; Cass. n.13158/2002; Cass. n. 4900/1993). È stato affermato in giurisprudenza che la natura della responsabilità del direttore dei lavori nominato dal committente o dell'appaltatore — da valutare alla stregua della diligentia quam in suis in concreto in relazione alla competenza professionale dallo stesso esigibile — per un fatto dannoso cagionato ad un terzo dall'esecuzione di essi, è di natura extracontrattuale e perciò può concorrere con quella di costoro se le rispettive azioni o omissioni, costituenti autonomi fatti illeciti, hanno contribuito causalmente a produrlo. In relazione poi al direttore dei lavori dell'appaltatore egli risponde del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (Cass. n. 15789/2003; Cass. n. 11359/2000). Per quanto attiene in particolare al direttore dei lavori dell'appaltatore è stato altresì precisato che egli risponde del fatto dannoso verificatosi sia se non si è accorto del pericolo, percepibile in base alle norme di perizia e capacità tecnica esigibili nel caso concreto, che sarebbe potuto derivare dall'esecuzione delle opere, sia se ha omesso di impartire le opportune direttive al riguardo nonché di controllarne l'ottemperanza, al contempo manifestando il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi ed astenendosi dal continuare la propria opera di direttore se non venissero adottate le cautele disposte (Cass. n. 15789/2013). Al riguardo, per progettista s'intende la figura professionale che redige un progetto, spesso di carattere architettonico o tecnico progettuale, attraverso un'attività di progettazione vera e propria, mentre il direttore dei lavori si occupa della fase esecutiva dell'intervento edilizio ed, in tale veste, egli deve verificare che l'opera venga realizzata in conformità al permesso di costruire e secondo le modalità in esso indicate. Pertanto, sulla scorta della consolidata giurisprudenza che qualifica l'art. 1669 c.c. quale responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, si può affermare che in siffatta responsabilità possano incorrere, a titolo di concorso con l'appaltatore, anche tutti quei soggetti che prestando a vario titolo la propria opera nella realizzazione dell'attività abbiano comunque contribuito per colpa professionale alla determinazione dell'evento dannoso, della specie dell'insorgenza di vizi. A differenza di quanto avviene per il progettista, il direttore dei lavori al conferimento dell'incarico contrae un'obbligazione di mezzi che consiste nell'impegno del professionista nell'assolvere le mansioni assegnate con la diligenza necessaria con riguardo all'attività esercitata (art. 1176 c.c.) e richiesta per garantire la corretta esecuzione dell'opera, ovvero, dovrà riferirsi a quella particolare diligenza richiesta dalle caratteristiche dei lavori da dirigere. Per meglio comprendere la portata di una siffatta diligenza è illuminante il richiamo alla giurisprudenza oramai consolidata nell'ambito della direzione lavori, a tenore della quale nel novero delle competenze del direttore dei lavori e pertanto delle obbligazioni a suo carico sono da ricomprendersi (a fronte delle proprie capacità tecniche), precisi doveri quali quello di vigilanza dei lavori, di controllo della conformità dell'opera al progetto, anche nelle fasi progressive, il rispetto delle modalità di esecuzione dell'opera rispetto al capitolato ed altresì il vagli circa l'adozione delle regole della tecnica nel rispetto della normativa vigente. In particolare, l'attività del direttore dei lavori si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento delle operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi (Cass. n. 10728/2008). Grava pertanto sul professionista l'obbligo di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cass. n. 8014/2012). Secondo la Corte di cassazione il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall'appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga intervenendo per tempo anche solo a fermarne l'esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti (Cass. n. 19895/2013). In applicazione di questo principio di diritto, si è quindi sostenuto che anche il geometra direttore dei lavori, sebbene non competente per l'esecuzione dei calcoli in cemento armato, dovesse essere competente a valutare in corso d'opera come l'appaltatore ed i suoi ausiliari (ivi incluso l'ingegnere progettista delle strutture) eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate (Cass. n. 7370/2015). Proprio a fronte di tali competenze tecniche, che presuppongono un'applicazione di risorse intellettive e operative da parte del direttore lavori nell'esecuzione del proprio operato, s'impone quella giurisprudenza di legittimità che afferma l'impossibilità di applicazione del principio di esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini, il c.d. nudus minister (Cass. n. 8700/2016). Ciò detto, risultando la responsabilità del direttore dei lavori di natura contrattuale, il professionista non può affatto esimersi dall'espletare le competenze e i controlli che la diligenza del suo incarico richiedono ex art. 1176, comma 2, neppure invocando l'eventuale presenza in cantiere di altre figure affini (quali altri subappaltatori, per esempio). Sul punto si consideri altresì alla luce dei principi generali della responsabilità aquiliana e della causalità civile (Cass. n. 2360/2010), come la responsabilità del direttore dei lavori possa concorrere, nella causazione di un fatto lesivo di terzi soggetti occorso nell'esecuzione dei lavori, con gli ulteriori fattori causali, precisamente condotte attive od omissive di altri collaboratori, ove tali condotte costituiscano autonomi fatti illeciti che abbiano contribuito causalmente alla produzione dell'evento. Responsabilità che rileva ove il direttore dei lavori abbia omesso gli obblighi e la diligenza derivanti dal proprio incarico (precisamente, omessa impartizione delle direttive volte ad evitare l'evento dannoso, la mancanza di garanzia circa la loro osservanza, od omessa manifestazione del dissenso circa la prosecuzione dei lavori astenendosi dal dirigerli in mancanza delle cautele necessarie (Cass. n. 15789/2003). Dalle considerazioni suesposte e dalla giurisprudenza richiamata ciò che si evince è che seppur gli oneri gravanti in capo al direttore dei lavori siano da qualificarsi tra le obbligazioni di mezzi e non di risultato ciò non esclude che tutti gli obblighi che ne discendono a fronte della diligenza professionale richiesta, non debbano essere dallo stesso espletati non essendo sufficiente che il direttore lavori effettui un mero controllo della conformità dell'opera al progetto quanto invero anche tutte quelle obbligazioni di vigilanza e rispetto delle normative che ne afferiscono (Cass. n. 10728/2008; Cass. n. 20557/2014). Si comprende altresì che ove la figura di progettista e quella di direttore dei lavori convergano in un'unica persona la stessa sarà chiamata a rispondere per le responsabilità solo accertate, precisamente nel caso di specie veniva infatti esclusa la responsabilità del tecnico nella sua veste anche di progettista non essendo in tale ambito riscontrati illecito alcuno. Ciò che rileva pertanto in relazione al direttore dei lavori è che egli è chiamato a rispondere del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare l'eventuale dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (Cass. n. 15789/2003). Pertanto il direttore dei lavori deve svolgere la propria attività ovviamente nel rispetto della diligenza professionale richiesta alla luce delle peculiari competenze tecniche, precisamente, nel rispetto delle obbligazioni che l'orientamento consolidato della Suprema Corte ha puntualizzato in varie sentenze avendo ben in considerazione che ove il caso concreto invero non consentisse per contingenze di varia natura ciò, il direttore dei lavori potrebbe comunque andare esente da qualsivoglia addebito di responsabilità ove manifestasse il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi, decidendo persino di astenersi dal continuare la propria opera di direttore nel caso in cui non venissero adottate le cautele disposte. Precisamente le obbligazioni, in via generale, poste a carico del direttore dei lavori, differenziandole da affini figure professionali sono: 1) l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica; 2) l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera, e la segnalazione all'appaltatore di tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si verificano in corso d'opera, oltre sul punto a garantire il rispetto della normativa vigente in materia, in alternativa di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle necessarie cautele. Si consideri per completezza espositiva che il direttore dei lavori, anche se è chiamato in causa dall'impresa, può essere condannato al risarcimento del danno qualora non abbia supervisionato e controllato sulla corretta esecuzione dei lavori. Concludendo, il direttore dei lavori può andare esente da responsabilità, anche se chiamato a manleva, ove adempia ai propri obblighi di vigilare ed impartisca le opportune disposizioni al riguardo, preoccupandosi di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente. Risoluzione del contratto ed effetto restitutorioIn forza della operatività retroattiva di essa ex art. 1458, si verifica, quindi, per ciascuno dei contraenti ed indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum: tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi. L'obbligazione restitutoria non ha, pertanto, natura risarcitoria, derivando dal venire meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni (Cass. n. 7829/2003; Cass. n. 3555/2003). Ne consegue che nei contratti con prestazioni corrispettive, come quello di appalto, deve essere accolta la richiesta restitutoria relativa al valore della prestazione già eseguita che non sia stata restituita né offerta in restituzione e della quale il committente si giova in quanto il diritto scaturisce, in caso di risoluzione dall'obbligo restitutorio che scaturisce, appunto, dalla risoluzione (Cass. n. 5444/1977; Cass. n. 6181/2011); in sintesi, se gli effetti restitutori non possono essere disposti in forma specifica, il giudice deve necessariamente ordinarli per equivalente, secondo il principio pretium succedit in locum rei (Cass. n. 4498/1996). In applicazione dei richiamati principi, si deve affermare che se l'appaltatore chiede in corso d'opera la risoluzione del contratto per inadempimento del committente ed il pagamento del prezzo in relazione alle opere già eseguite, la sentenza del giudice del merito, la quale, riconosciuto il fondamento della prima domanda, accolga anche la seconda, pur rilevandone la impropria formulazione in termini di versamento del prezzo, anziché, secondo i principi della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata o periodica, in termini di restitutio in integrum a mezzo di equivalente pecuniario, non incorre in violazione dello art. 112 c.p.c., circa la corrispondenza fra chiesto e pronunciato, trattandosi di mera qualificazione giuridica della domanda medesima, fermi restando i fatti dedotti a suo fondamento (Cass. n. 6946/1983). Di recente si è precisato che in tema di risoluzione del contratto di appalto privato, qualora la risoluzione consegua all'inadempimento del committente e non sia configurabile la restituzione in natura all'impresa appaltatrice della costruzione, parzialmente eseguita, il contenuto dell'obbligo restitutorio a carico della committente va determinato in relazione all'ammontare del corrispettivo originariamente pattuito, sulla cui base l'appaltatrice si è determinata a concludere il contratto, comprensivo dell'importo dovuto per revisione prezzi se pattiziamente previsto, che fa parte del corrispettivo pattuito (Cass. n. 20460/2023). 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