Decreto legislativo - 24/02/1998 - n. 58 art. 23 - Contratti 1 2 .Art. 23 1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, sono redatti per iscritto, in conformita' a quanto previsto dagli atti delegati della direttiva 2014/65/UE, e un esemplare e' consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d'Italia, puo' prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma, assicurando nei confronti dei clienti al dettaglio appropriato livello di garanzia. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto e' nullo3. 2. È nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. 4. Le disposizioni del titolo VI, del T.U. bancario non si applicano: a) ai servizi e attivita' di investimento; b) al collocamento di prodotti finanziari; c) alle operazioni e ai servizi che siano componenti di prodotti finanziari assoggettati alla disciplina degli articoli 25-bis e 25-ter ovvero della parte IV, titolo II, capo I. In ogni caso, alle operazioni di credito nonche' ai servizi e conti di pagamento disciplinati dai capi I-bis, II, II-bis e II-ter del T.U. bancario si applicano le pertinenti disposizioni del titolo VI del T.U. bancario 4. 4-bis. Nella prestazione dei servizi e delle attivita' di investimento e dei servizi accessori non vengono conclusi contratti di garanzia finanziaria con trasferimento del titolo di proprieta' con clienti al dettaglio al fine di assicurare o coprire obbligazioni presenti o future, effettive o condizionate o potenziali dei clienti. Sono nulli i contratti conclusi in violazione della presente disposizione. La Consob disciplina le modalita' di svolgimento dell'attivita' di cui al presente comma in caso di clienti professionali e di controparti qualificate 5. 5. Nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell'articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l'articolo 1933 del codice civile 6. 6. Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta.
[1] Per la disciplina applicabile ai contratti conclusi nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77, (19 maggio 2020) ed il termine dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020 vedi art. 33, comma 1, del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77. [2] In riferimento al presente articolo, vedi l'articolo 34, commi 1 e 2, della Legge 11 marzo 2025, n. 28. [3] Comma modificato dall'articolo 4, comma 3, lettere a) e b), del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, con la decorrenza indicata nell'articolo 19 dello stesso decreto. Per l'attuazione del presente comma vedi Deliberazione CONSOB 29 ottobre 2007, n. 16190. Successivamente sostituito dall'articolo 2, comma 19, lettera a), del D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129. Per l'applicazione, vedi l'articolo 10, comma 2, del D.Lgs. 129/2017 medesimo. [4] Comma modificato dall'articolo 3, comma 3, del D.Lgs. 29 dicembre 2006 n. 303 e dall'articolo 4, comma 3, lettere c) e d), del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, con la decorrenza indicata nell'articolo 19 dello stesso decreto. Successivamente sostituito dall'articolo 2, comma 19, lettera b), del D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129. Per l'applicazione, vedi l'articolo 10, comma 2, del D.Lgs. 129/2017 medesimo. [5] Comma inserito dall'articolo 2, comma 19, lettera c), del D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129. Per l'applicazione, vedi l'articolo 10, comma 2, del D.Lgs. 129/2017 medesimo. [6] Comma modificato dall'articolo 4, comma 3, lettera e), del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, con la decorrenza indicata nell'articolo 19 dello stesso decreto. InquadramentoL'espressione «contratto derivato» ha per lungo tempo avuto nella dottrina giuridica italiana uno specifico significato: il termine è stato cioè costantemente impiegato con riguardo alle fattispecie nelle quali da un contratto già perfezionato ne discende e dipende un altro, concluso separatamente e che si individua in riferimento al primo, del quale costituisce un addentellato. Il contratto, così, derivato, si caratterizza per avere il medesimo (o analogo) contenuto economico e per essere informato al medesimo tipo di causa del contratto-padre: donde, il nome di contratto-figlio o sub-contratto (Messineo, 1962, 80): esempio normativamente previsto, in tal senso, quello della sublocazione. Il contratto derivato è così dotato di un'accessorietà univoca rispetto al contratto principale, nel senso che una modifica di quest'ultimo produce conseguenze sull'assetto regolamentare del contratto accessorio, senza che invece tale meccanismo operi inversamente (Messineo, 1968, 733). Tale definizione tuttavia è estranea all'accezione che normalmente si intende con riferimento ai contratti derivati, per i quali occorre far capo all'art. 2-ter d.lgs. n. 58/1998, recante il «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria», secondo cui: «Nel presente decreto legislativo si intendono per: a) «strumenti derivati»: gli strumenti finanziari citati nell'Allegato I, sezione C, punti da 4 a 10, nonché gli strumenti finanziari previsti dal comma 1-bis, lett. c) [«c) qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere i valori mobiliari indicati alle lett. a) e b) o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure»: n.d.r.]; b) «derivati su merci»: gli strumenti finanziari che fanno riferimento a merci o attività sottostanti di cui all'Allegato I, sezione C, punti 5), 6), 7) e 10), nonché gli strumenti finanziari previsti dal comma 1-bis, lett. c), quando fanno riferimento a merci o attività sottostanti menzionati all'Allegato I, sezione C, punto 10); c) «contratti derivati su prodotti energetici C6»: i contratti di opzione, i contratti finanziari a termine standardizzati (future), gli swap e tutti gli altri contratti derivati concernenti carbone o petrolio menzionati nella Sezione C, punto 6, dell'Allegato I che sono negoziati in un sistema organizzato di negoziazione e devono essere regolati con consegna fisica del sottostante». L'Allegato I, sezione C, punti da 4 a 10, elenca: (4) Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti. (5) Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine («forward»), e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci quando l'esecuzione deve avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in contanti a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto. (6) Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap» ed altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che possono essere regolati con consegna fisica purché negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, eccettuati i prodotti energetici all'ingrosso negoziati in un sistema organizzato di negoziazione che devono essere regolati con consegna fisica. (7) Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine («forward») e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che non possono essere eseguiti in modi diversi da quelli indicati al numero 6, che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati. (8) Strumenti finanziari derivati per il trasferimento del rischio di credito. (9) Contratti finanziari differenziali. (10) Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine sui tassi d'interesse e altri contratti su strumenti derivati connessi a variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali, quando l'esecuzione avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto, nonché altri contratti su strumenti derivati connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure, non altrimenti indicati nella presente sezione, aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, considerando, tra l'altro, se sono negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione». Il concetto economico di derivatoMentre è discussa, come si vedrà, la possibilità di pervenire ad una unitaria definizione giuridica dei contratti derivati, è stato viceversa ritenuto che, sia pure in via di approssimazione, il comune contenuto economico del contratto derivato possa essere rinvenuto in ciò, che esso si correla ad un'attività finanziaria sottostante, ovvero al valore di un parametro finanziario di riferimento (Caputo Nassetti, 2011, 2; Ferrarini, 1993, 27). Il riferimento alla derivazione da una componente finanziaria, di per sé tendenzialmente variabile, introduce poi, ad opera di alcuni autori, un elemento di rischio nella definizione del contratto, in ragione del quale con strumento derivato si indica quel contratto che assume a suo oggetto il trasferimento da un soggetto A ad un soggetto B di un rischio inerente ad un'attività sottostante, ovvero quel contratto con cui si dà prezzo al rischio (Barcellona, 2009, I, 652). Gli elementi economici degli strumenti derivati sarebbero dunque il riferimento alla monetizzazione di un rischio, il quale non necessariamente deve appartenere alla sfera giuridica dei contraenti (Barcellona, 2012, 39). Parimenti, nel medesimo ordine di idee, i contratti derivati sarebbero quei contratti che realizzano l'allocazione fra le parti di un determinato rischio (Perrone, 281). Infine un'altra dottrina ho posto come elemento caratterizzante la figura degli strumenti derivati il differenziale tra i valori individuati nel contratto, in particolare definendoli come quei contratti di natura finanziaria consistenti nella negoziazione a termine di un'entità economica e nella relativa valorizzazione autonoma del differenziale emergente dal raffronto fra il prezzo dell'entità al momento della stipulazione e il suo valore alla scadenza pattuita per l'esecuzione (Girino, 2010, 20). Tale elemento della rilevanza è messo in luce alla stessa maniera da una dottrina, la quale, distinguendo tra le operazioni finanziarie, intese come operazioni programmate per iniziare e terminare con il denaro, le categorie di sequenze di denaro/tempo/denaro (speculazione), denaro/spazio/denaro (arbitraggio), denaro/denaro (cambio), a cui si aggiungerebbero le operazioni, come quelle attuate per mezzo degli strumenti finanziari, in cui il termine intermedio tra denaro e denaro non è costituito dal riferimento ad un «dato» rilevante agli effetti di determinare la differenza tra denaro iniziale e denaro finale (Ferro-Luzzi, II, 133). Sulla questione delle funzioni, rischi e benefici dei contratti derivati, analizzata dalla migliore dottrina, sia di impostazione economica che giuridica, occorre qui offrire un quadro generale. L'importanza di tali contratti è testimoniata dalla grandezza del mercato dei derivati, ammontante, secondo le stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, ad un valore nozionale di 595 trilioni di dollari, corrispondente ad un valore lordo di mercato di 10 trilioni di dollari (Bank for International Settlements, Statistical release: OTC derivatives statistics at end, June 2018). Come si è accennato, all'interno del fenomeno degli strumenti derivati un ruolo fondamentale è quello riservato alla componente della monetizzazione di rischi finanziari. In tal senso si suole affermare che i derivati si distinguerebbero a seconda che abbiano scopo di copertura (hedging) o speculativo, distinti dalla circostanza che le parti del contratto compensino un rischio preesistente mediante l'assunzione di un rischio di segno contrario, o invece semplicemente accettino un rischio sulla base di un'aspettativa su redditi futuri di vari titoli in modo da massimizzare la sua utilità attesa, date le aspettative e i prezzi di mercato (Stiglitz, 132). Entrambe le due funzioni producono benefici, sia per le parti che contrattano, sia per il sistema finanziario nel suo complesso. In particolare, la funzione di copertura riduce, al pari di un'assicurazione, rischi che l'impresa affronta nell'esercizio della propria attività e dunque, diminuendo l'esigenza di capitale necessario per assumere detti rischi, ne rende più efficiente l'allocazione (Caputo Nassetti, 5). Dall'altra parte, la speculazione è stata posta in stretta correlazione all'attività di hedging. Ciò in quanto la letteratura accademica ha proposto da una parte una ricostruzione del fenomeno come meccanismo di trasferimento del rischio dagli hedgers più risk averse agli speculatori più risk tolerant, di modo che la speculazione è sostanzialmente definibile come un sostituto del mercato assicurativo, in cui gli speculatori costituiscono l'offerta (Hicks, 137). Dall'altra invece, il filone di analisi, avente come riferimento la cosiddetta knowledgeable-forecasting hypothesis, ha ravvisato come fondamento della speculazione la presenza di aspettative sul futuro, in relazione a diverse capacità di sviluppare le informazioni disponibili (piuttosto che sulla differente natura di hedgers e traders come risk averse/risk tolerant), di modo che essa è definita come l'assunzione di rischi in anticipazione di favorevoli cambiamenti di prezzi che non sono correlati ad azioni intraprese dallo speculatore (Working, 320). In tal senso, la speculazione, avendo origine dall'incertezza (Kaldor, 1), diviene il meccanismo dell'efficienza del mercato attraverso cui chi ritiene di possedere informazioni differenti rispetto alle aspettative generalmente condivise dagli altri trader, negoziando sulla base di tali informazioni, implicitamente le comunica al mercato, permettendo che i prezzi così fissati incorporino le nuove informazioni (Gilson-Kraakman, 565). Entrambi i profili sono riassumibili con citazioni di un nostro autore fondamentale, secondo il quale «nella fretta di demolire si è dimenticato che i contratti a termine adempivano a una funzione la quale ha pur bisogno di estrinsecarsi [...] per diminuire i rischi provenienti dalla oscillazione dei prezzi» (Einaudi, 1896, III, 411) e «fa d'uopo riportare la parola speculazione al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all'avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l'orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi» (Einaudi, 1973, 347). D'altra parte, proprio in ragione del fatto che i contratti derivati permettono un aumento nella circolazione delle esposizioni, essi sono considerati facili vettori di rischio sistemico e, in particolare, tra le cause della crisi che ha avuto inizio nel 2007. Si è detto cioè che poiché la speculazione si riferisce alla negoziazione tra controparti che, assumendo posizioni opposte, si trovano entrambe ad aspettarsi ritorni da un futuro cambio di valore del sottostante, necessariamente chi ha speculato assume un rischio cui non era esposto precedentemente (Stout, 8). Particolari problemi si pongono poi per la cosiddetta valuation dei contratti derivati over the counter (OTC: con tale locuzione, alla lettera «sopra il bancone», ci si riferisce ai contratti finanziari conclusi mediante negoziazione diretta fra le controparti al di fuori di un mercato borsistico ufficiale), soprattutto per il fatto che l'individuazione del prezzo cui negoziare il derivato aumenta di complessità se lo strumento è illiquido, perché ad esempio non è scambiato su un mercato, o se i prezzi disponibili non offrono una giusta misura del prezzo a cui può essere negoziato il contratto (Stultz). Ciò pone altresì problemi in termini di contabilizzazione in bilancio di tali strumenti, per il fatto che, poiché anche contratti relativamente semplici possono dare luogo a valutazioni tra loro differenti, non sono insolite opportunità di utilizzare a proprio vantaggio tali margini di discrezionalità. Nozione ante Mifid e post MifidSe nel paragrafo precedente si è tentato di dare una descrizione per linee generali del fenomeno economico dei contratti derivati, altra cosa è la definizione giuridica degli stessi, la quale deve essere colta nella prospettiva funzionale di applicazione di un dato sottosistema normativo. Lo «strumento finanziario», infatti, costituisce il primo termine di riferimento dello statuto dei servizi di investimento (Annunziata, 2017, 90), inscindibilmente connesso alla disciplina in materia di autorizzazione all'esercizio dell'attività, in via professionale e nei confronti del pubblico, di prestazione dei servizi indicati nell'art. 1, comma 5 TUF e di applicazione di regole speciali ai contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari. Come è stato detto, infatti, stabilire ciò che rientra e ciò che non rientra nella definizione di «strumento finanziario derivato» significa, innanzitutto, stabilire o meno l'applicazione della «riserva di attività» a favore di imprese di investimento e banche (Barcellona, 31); per quanto riguarda il secondo fronte, all'interno della disciplina dei contratti, l'art. 23 TUF oltre a dettare una disciplina generale, prevede che, pur potendo astrattamente le fattispecie rientrare nella categoria del «gioco e della scommessa», agli strumenti finanziari derivati non si applica l'art. 1933 c.c., intendendo così fugare ogni dubbio in merito alla possibile non enforceability del contratto, salvo la impossibilità per il debitore di ripetere quanto spontaneamente pagato. Va detto tuttavia che, proprio in ragione di tale impostazione funzionale, tipica del mercato finanziario, (Irti, 1999, I, 19), non è rinvenibile una classificazione di tipo sistematico degli strumenti finanziari derivati, preferendo il legislatore piuttosto presupporne l'accezione, e limitandosi ad elencarne analiticamente le differenti tipologie (Indolfi, 75). A conferma di tale impostazione, maggiormente tesa all'identificazione tipologica della fattispecie, per così dire «per raggruppamento di contratti», si può indicare la disposizione contenuta all'art. 1, comma 2-bis, che permette al MEF, attraverso lo strumento del regolamento disciplinato all'art. 18, comma 5, di individuare nuovi contratti derivati per assoggettarli allo statuto della prestazione di servizi d'investimento. È possibile identificare nell'emanazione della direttiva Mifid una soluzione di continuità nella nozione di strumento finanziario derivato. Entrambi i principi seguiti, sia ante Mifid che post Mifid, si connotano per la medesima prospettiva funzionale testé ricordata, ma tra loro si differenziano per l'elemento che assurge a criterio discretivo della fattispecie. In particolare, nella formulazione anteriore alla Mifid, già a partire dal d.lg. 23 luglio 1996, n. 415 (Decreto Eurosim), poi trasfuso nel TUF, l'impostazione adottata era caratterizzata dall'individuazione del tipo giuridico a partire dal nomen di uno schema socialmente tipico (Basso, 14), per cui strumenti finanziari derivati erano identificati secondo il criterio della «tipologia» contrattuale (Barcellona, 32). In tal senso si distingueva dunque tra le categorie di: futures (contratti a termine standardizzati e per lo più negoziati su mercato regolamentati), swaps (scambi di flussi di pagamento), contratti a termine non standardizzati e non negoziati su mercati regolamenti (forwards) e options (art. 1, comma 2, lett. f), g), h) e i vecchio testo, TUF). La nozione era quindi composta dalla definizione del tipo contrattuale, a cui era associato un oggetto contrattuale, da identificarsi in uno fra: strumenti finanziari, tassi di interesse, valute, merci, indici, nonché dalla possibilità di combinare i contratti o titoli precedentemente definiti. La previsione della possibilità di liquidazione del differenziale in contanti (cash settlement), consentita dalle varie fattispecie, era dunque considerata accessoria e così elemento non necessario della fattispecie (Barcellona, 33). La necessità di includere nella regolamentazione anche i derivati su merci (si veda il quarto considerando della direttiva Mifid, per cui «è opportuno includere nell'elenco degli strumenti finanziari taluni strumenti finanziari derivati su merci e altri derivati costituiti e negoziati in modo tale da richiedere un approccio di regolamentazione comparabile a quello degli strumenti finanziari tradizionali»), ha comportato una, seppur non integrale, sostituzione del criterio fondato sul tipo contrattuale. Sono difatti definiti strumenti finanziari derivati, ai sensi dell'art. 1, comma 2-ter, che rinvia all'Allegato I, Sezione C: i) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti; ii) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, contratti a termine (forward), e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci quando l'esecuzione deve avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in contanti a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto; iii) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap ed altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che possono essere regolati con consegna fisica purché negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, eccettuati i prodotti energetici all'ingrosso negoziati in un sistema organizzato di negoziazione che devono essere regolati con consegna fisica; iv) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, contratti a termine (forward) e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che non possono essere eseguiti in modi diversi da quelli indicati al numero precedente, che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati; v) strumenti finanziari derivati per il trasferimento del rischio di credito; vi) contratti finanziari differenziali; vii) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, contratti a termine sui tassi d'interesse e altri contratti su strumenti. Compiendo quindi un'attività di razionalizzazione, si è sostenuto di distinguere tra derivati finanziari, derivati su merci e derivati creditizi, con il che parrebbe di potersi affermare che ad un criterio fondato sul tipo contrattuale si è sostituito un criterio basato piuttosto sul sottostante da cui è derivato il valore del contratto. Si è obbiettato che ciò non è del tutto vero in ragione di una pluralità di cause che risulteranno evidenti dall'analisi delle tre categorie. Per quanto attiene alla prima, quella dei derivati finanziari, appare evidente il rilievo centrale dell'oggetto sul quale insiste il contratto, il quale può consistere in un elenco di valori definibili in senso lato «finanziari»: valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie. Per questi derivati il nucleo che ne comporta l'inclusione nella nozione giuridica di strumenti finanziari derivati e la sottoposizione alla disciplina in materia dei servizi d'investimento è dato interamente dalla componente finanziaria o parafinanziaria data dall'underlying asset. Ne consegue, come esplicitato dalla norma, che il metodo di liquidazione dell'operazione è irrilevante ai fini della qualificazione, di modo che non incide sulla fattispecie il fatto che a scadenza le parti intendano effettivamente scambiarsi il sottostante o che le parti prevedano il settlement in contanti. Per quanto riguarda invece i derivati su merci, emerge che il legislatore, oltre a fornire un criterio di definizione fondato sulla natura di «merce» del sottostante, essendo questa individuata come «qualsiasi bene di natura fungibile che possa essere consegnato, compresi i metalli e i loro minerali e leghe, i prodotti agricoli e l'energia, come ad esempio l'elettricità» ai sensi dell'art. 2, n. 1 del Regolamento CE 1287/06, definisce una serie di casi in cui è comunque rinvenibile una certa componente di «finanziarietà» dello strumento finanziario che ne giustifica la sottoposizione alla disciplina in materia di servizi di investimento. Sono questi i casi in cui, da una parte, l'esecuzione deve avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in contanti a discrezione di una delle parti, oppure in cui i contratti, pur potendo essere regolati con consegna fisica, sono negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, o infine quelli che non possono essere eseguiti in modi diversi da quelli indicati al numero precedente, che non hanno scopi commerciali, e che hanno le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati. Da quest'ultima definizione è stato espunto il riferimento alla normale compensazione dei contratti attraverso clearing houses. I derivati creditizi, infine sono individuati esclusivamente in ragione del sottostante, nonché al risultato ottenibile con tali contratti, cioè il trasferimento del rischio di credito. A differenza delle categorie precedenti, tuttavia, che individuano le tipologie rilevanti ai fini della qualificazione («contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap..»), l'insieme dei derivati creditizi non presenta alcuna tipizzazione delle strutture contrattuali necessarie per l'inquadramento nella fattispecie. Ciò è avvenuto in ragione della sostanziale difficoltà di applicare, al netto della somiglianza linguistica (il principale derivato creditizio è il credit default swap), gli schemi tipici delle altre categorie alla figura dei derivati creditizi, dei quali è stata messa in luce la marcata omogeneità rispetto ai contratti stipulati sul mercato assicurativo, aventi «poco o nulla a che vedere con la finanza derivata» (Girino, 134 e 208). In particolare, lo scambio di pagamenti, struttura tipica del contratto di swap, si rinviene nel credit default swap in uno schema sui generis, in forza del quale, a fronte del pagamento di un premio, un soggetto, definito protection seller, si impegna ad effettuare uno o più pagamenti nel caso di deterioramento del merito creditizio di un soggetto terzo. Sono infine unicamente individuati in relazione al tipo contrattuale, essendo irrilevante la natura del sottostante, i contratti differenziali. Questi, di cui si approfondirà il tema in seguito, in ragione dell'interesse che hanno suscitato nella dottrina, sono i contratti con cui le parti si accordano per liquidare le reciproche obbligazioni di pagare il prezzo e consegnare la cosa esclusivamente con la dazione della differenza tra le prestazioni (contratto differenziale semplice); lo stesso risultato può ottenersi, anziché con un'unica struttura contrattuale, mediante la stipulazione di più contratti successivi di segno contrario, essendo possibile sia che questi vengano stipulati tra le medesime parti (contratto differenziale complesso proprio) sia tra differenti contraenti (contratto differenziale complesso improprio). Risulta oggi abrogato il comma 4, dell'art. 1 TUF, il quale prevedeva che «...sono strumenti finanziari ed, in particolare, contratti finanziari differenziali, i contratti di acquisto e vendita di valuta, estranei a transazioni commerciali e regolati per differenza, anche mediante operazioni di rinnovo automatico (c.d. roll-over)». Si deve tuttavia ritenere che questo non modifichi i confini della nozione di strumento derivato in relazione alle operazioni effettuate su divise, per il fatto che, già prima della novella effettuata per mezzo del d.lgs. n. 141/2010, la giurisprudenza, attraverso la figura del negozio indiretto, aveva assimilato una serie di operazioni di acquisto e vendita di valute regolate per differenza alla precedente nozione di valore mobiliare. È stato difatti affermato che il legislatore del 1991, accedendo ad una nozione aperta di «strumento finanziario» comprensiva anche degli scambi su valute, rispetto alla definizione tradizionale di «valore mobiliare» che lo identificava con i titoli di massa, agganciati al carattere della negoziabilità degli stessi, ha sostituito una definizione di valore mobiliare non tenendo più conto della sua struttura o natura cartolare, bensì della finalità perseguita dalle parti, rilevando il carattere finanziario dello strumento adoperato con caratteristiche tali da poter interferire sull'allocazione degli investimenti e del risparmio. Nel concetto di valore mobiliare ai fini dell'assoggettamento alla legge SIM, pertanto, non rientra solamente il contratto di swap come delineato dalla dottrina e della giurisprudenza, ma ogni contratto a termine che operi come strumento finanziario collegato a valori mobiliari, tassi di interesse o valute (Trib. Milano 27 marzo 2000, in Contratti, 2000, 777). Definite così le diverse categorie di strumenti finanziari derivati, nonché un principio di elementi caratteristici, è possibile ora dare conto delle differenti ricostruzioni della possibilità di rinvenire una nozione unitaria di strumento derivato, e dunque, una serie di fattori comuni e necessari presenti nelle fattispecie delineate dal legislatore. Si deve così riportare quella teoria, definita da altri «unitaria» (Barcellona, 37), volta ad identificare un'unica matrice giuridica al fenomeno ed imperniata intorno alla centralità della percezione del differenziale come costante oggetto del contratto ed elemento discretivo della fattispecie (Girino, 12). In tal senso, il legislatore presupporrebbe l'esistenza del «derivato come tipologia contrattuale» (Girino, 170), di cui le tre macrocategorie strutturali, future, option e swap, sarebbero necessariamente caratterizzate dalla liquidazione di un differenziale, che da strumento di esecuzione delle prestazioni diventerebbe così l'oggetto contrattuale tipico (Girino, 109). Va messo in luce che tale teoria ha natura più estesa rispetto alle ricostruzioni che intendono ridurre le fattispecie dei singoli tipi contrattuali, in particolare dello lo swap, al pagamento delle differenze (Inzitari, 1995, 2453; Giuliani, 80; De Iuliis, 402), proprio in ragione di tale tensione a ricercare nel differenziale il carattere sempre presente degli strumenti finanziari derivati. Secondo questa teoria i credit default swap non potrebbero qualificarsi come derivati in quanto mancanti del riferimento ad un differenziale, e consistenti piuttosto nel pagamento di un «indennizzo» per il protection buyer, ragion per cui la natura sostanzialmente di garanzia del contratto farebbe propendere per una causa assimilabile a quella dell'assicurazione o della fideiussione (Girino, 142). Dall'altra parte, invece, la teoria, definita «antiunitaria» (Barcellona, 38), in forza della quale tutte le fattispecie presentate dal legislatore sarebbero riconducibili a cinque fondamentali «prototipi», senza che dunque sia possibile in alcun modo estrarre un elemento comune che definisca in modo univoco tutti i contrati derivati (Caputo Nassetti, 631). Alla stessa maniera, sarebbe del tutto incompatibile con tale approccio il tentativo di rinvenire un principio in forza del quale escludere contratti pur identificati dal legislatore come derivati (com'è avvenuto secondo l'orientamento contrario per i derivati creditizi). I cinque prototipi sarebbero dunque: lo swap di pagamenti, il contratto differenziale semplice, il contratto in forza del quale una parte, verso pagamento di un premio, si obbliga a pagare all'altra una somma di denaro entro i limiti convenuti al verificarsi di certe variazioni di un parametro di riferimento, la compravendita e, infine, l'opzione. In tal senso, il legislatore non postulerebbe una nozione tipologica di derivato ma recepirebbe dalla prassi l'esistenza di differenti figure che si sarebbe limitato semplicemente ad elencare in una lista di fattispecie (Caputo Nassetti, 643). È necessario poi citare un'ulteriore tesi sulla questione descrivibile come «funzionale». Secondo tale teoria la prospettiva di analisi dei tratti tipologici unitari delle differenti fattispecie dettate dal legislatore deve essere quella dell'identificazione della logica funzionale in ragione della quale si è ritenuto di sottoporre differenti titoli o contratti alla disciplina dei servizi di investimento (Barcellona, 39). L'autore, specificamente, riconnette il problema di trovare tali caratteri comuni a due particolari norme, contenute l'una nell'art. 18 TUF, ovverosia la riserva di attività di prestazione dei servizi di investimento a favore di banche e imprese d'investimento, e l'altra nell'art. 23, comma 5 TUF, ovverosia l'inapplicabilità dell'eccezione di gioco agli strumenti derivati. L'orientamento in questione rinviene quindi i due elementi condivisi da tutti casi elencati dal legislatore da una parte nella monetizzazione di un rischio, ovverosia la sua trasformazione in un valore finanziario, e dall'altra nella possibilità che tale rischio sia estraneo alla sfera giuridica dei contraenti, a differenza del principale contratto che regola la movimentazione di rischi, l'assicurazione, per cui ai sensi dell'art. 1904 c.c., riferito all'assicurazione contro i danni, è necessaria l'esistenza di un interesse dell'assicurato al risarcimento del danno e dunque la titolarità giuridica dell'interesse soggetto a rischio. I due piani delle funzioni delle norme sopra citate e dei caratteri qui individuati si incontrerebbero nel fatto che la monetizzazione di rischi finanziari è attività intrinsecamente più pericolosa per la salvaguardia degli interessi del pubblico cui essi sono offerti, in ciò essendo dunque necessitata la riserva dell'attività a intermediari specializzati e la soggezione ad uno statuto normativo volto alla tutela dell'investitore (Barcellona, 42). Ulteriormente, l'esclusione dall'applicazione dell'art. 1933 c.c. trova ragione nel fatto che, benché la struttura del contratto differenziale sia sostanzialmente assimilabile al gioco e per questo ricompresa tra quelle fattispecie per le quali è prevista la eccezione di gioco, da questo esso si differenzia in ragione del fatto che il trasferimento di ricchezza non sarebbe qui privo di razionalità, poiché, come si è detto, lo speculatore opera sulla base di un'aspettativa razionale fondata sull'analisi di informazioni, in maniera che lo stesso prezzo di mercato è il risultato della sommatoria di tali contributi di «ricchezza informativa» (Gabrielli, 1133), così che anche il contratto differenziale trova in quest'ambito una piena tutela al pari di ogni altro contratto di borsa (Inzitari, 2466). Interest rate swapCon il termine swap si intende in generale il contratto con cui le parti si obbligano ad eseguire reciprocamente dei pagamenti sulla base di parametri di riferimento prefissati. Qualora il contratto abbia come indice di riferimento interessi e divise, viene in questione l'insieme di operazioni note come interest rate swap e interest currency rate swap. Il più diffuso interest rate swap (IRS) prevede l'accordo tra due parti in forza del quale un soggetto accetta di pagare all'altra una somma pari all'interesse calcolato su un determinato capitale, in relazione ad un certo periodo, ad un determinato tasso di interesse. L'altra parte, invece, accetta di pagare alla prima una somma pari all'interesse calcolato su un certo capitale ad un altro tasso di interesse. È virtualmente scambiabile ogni tipo di tasso di interesse: fisso, TUS, (Tasso Ufficiale di Sconto), LIBOR, EURIBOR, tasso applicati ad accettazioni bancarie, titoli di stato, carta commerciale e tassi Zero Coupon. Può qui soltanto accennarsi al decisivo rilievo del concreto tasso di interesse adottato quale parametro di riferimento impiegato della stipulazione del contratto di interest rate swap: come si vedrà, è discusso in dottrina se il menzionato contratto abbia natura commutativa o aleatoria, il che comporta decisive ricadute rimediali, in applicazione anzitutto dell'art. 1469 c.c., il quale stabilisce che la risoluzione per eccessiva onerosità non si applica ai contratti aleatori per loro natura ovvero a quelli — ai quali ipoteticamente ricondurre l'IRS — tali per volontà delle parti. Come è stato detto, poi, «in un tipico currency swap, una parte accetta di pagare all'altra una certa somma calcolata in una valuta, generalmente ad intervalli. L'altra parte accetta invece, agli stessi intervalli o ad intervalli differenti, di pagare una data somma in un'altra valuta. Tali somme possono essere espresse sia come valori dovuti a determinati intervalli temporali, o come differenti tassi di interessi calcolati su capitali di partenza in differenti valute. ... È quindi possibile, e non è infrequente, calcolare i tassi di interesse nazionali applicabili all'obbligazione di ciascuna parte su differenti basi, di modo da unire un interest and currency rate swap» (Henderson, 497). Se questo è lo schema generale, è possibile chiaramente che nella prassi esso venga modellato in relazione alle necessità momentanee; in tal senso non è infrequente che il contratto preveda l'immediato pagamento di due capitali calcolati in relazione a parametri differenti (es. valute) e poi continui prevedendo lo scambio di una serie di pagamenti intermedi predeterminati e denominati nelle divise ricevute inizialmente, mentre al termine le parti sono obbligate a restituire il capitale inizialmente ricevuto (Caputo Nassetti, 49). È importante mettere in evidenza come non si richiede l'equivalenza del valore dei capitali scambiati inizialmente, i quali, dunque, non necessariamente devono essere calcolati su ad un cambio di mercato potendo essere liberamente determinati dalle parti. Si ritiene inoltre come necessaria la previsione di un termine non potendosi definire come swap il contratto con cui ci si impegni a scambiarsi somme perpetuamente. Parimenti si deve ritenere lasciato alla libera discrezionalità dei contraenti l'individuazione degli intervalli per l'effettuazione dei pagamenti periodici, non essendo predeterminata nella nozione se essi debbano essere uguali per entrambe le parti. In tal senso dunque, si ritiene possibile anche che le prestazioni possano avere scadenze tra loro scaglionate in quanto vi sia mismatching tra le stesse (Ferrarini, 34). Parimenti, la modalità di computo degli interessi è rimessa alla valutazione delle parti, essendo ad esempio ammissibile il pagamento anticipato degli stessi mediante ricezione iniziale del valore nominale diminuito degli interessi, calcolati ab initio, e la restituzione del solo valore nominale. La fattispecie qui descritta è dunque definita zero coupon swap, o double zero coupon swap, se entrambe le parti pagano anticipatamente tutti gli interessi. Va comunque ricordato che l'ipotesi più ricorrente è quella detta fixed-floating IRS, in cui le parti convengono di scambiare un tasso fisso contro un tasso variabile. In particolare, nella prassi, soprattutto delle piccole e medie imprese che stipulano questi contratti con intermediari, la finalità è quella di ricevere pagamenti rapportati all'oscillazione del tasso variabile a cui ci si è precedentemente esposti (ad esempio stipulando un finanziamento a tasso variabile), e limitarsi così a pagare un tasso fisso, maggiorato delle commissioni per i costi sopportati dalla banca per la stipula del contratto. Tuttavia, è anche possibile che siano stipulati, secondo le necessità delle parti, e coerentemente con i rispettivi motivi, estranei al contratto, fixed-fixed IRS o floating-floating IRS, con cui le parti si scambiano differenti tassi fissi o il medesimo tasso variabile ma prevedendone differenti scadenze di pagamento. Si è dunque definito lo swap come il contratto con cui le parti si scambiano reciproci pagamenti. Dibattuto in dottrina è il tema del rapporto tra swap e contratto differenziale, ovverosia il contratto con cui si prevede il pagamento, ad opera di una sola parte, della differenza tra il valore attuale di un parametro e il valore stabilito dalle parti. È possibile citare autori che ritengono che l'oggetto del contratto di swap non sia lo scambio di pagamenti, quanto il pagamento (unico) del differenziale tra i parametri presi a riferimento. In tal senso si è affermato che «lo schema ordinario dell'operazione non prevede flussi monetari incrociati in entrata e in uscita, bensì la liquidazione del solo differenziale risultante dal saldo fra gli importi derivanti dall'applicazione dei due tassi, che ha luogo periodicamente in coincidenza con le scadenze alle quali le parti sono tenute ad onorare i rispettivi debiti», e che «la peculiarità dell'IRS risiede propriamente nell'incrocio di due contratti di accollo con i quali ciascuna parte assume il debito dell'altra, con l'intesa (compensativa) di procedere alla liquidazione del solo differenziale» (Girino, 109). Dello stesso ordine di idee è chi afferma che «In base alla definizione normativa l'oggetto dell'IRS, come del commodity swap, è ravvisato nel c.d. differenziale, rispettivamente sui tassi d'interesse ovvero sui tassi di cambio applicati al capitale di riferimento (capitale nozionale). Con maggiore correttezza l'attenzione dell'interprete dovrebbe invece appuntarsi sulla prestazione considerata nel suo complesso, che risiede nell'obbligo delle parti di corrispondersi il risultato economico dello swap alle condizioni e nei tempi stabiliti. In altre parole, essa consiste in una o più cessioni pecuniarie reciproche, la cui somma algebrica, alla fine del periodo considerato, darà luogo al pagamento di una somma differenziale a carico di una delle parti» (De Iuliis, 391). Dall'altra parte è invece l'opinione di chi ritiene che «il pagamento delle differenze è più un frutto dell'applicazione della disciplina in tema di compensazione legale, che non un elemento del programma negoziale, il quale prevede distinte obbligazioni a carico di ciascuna delle parti» (Ferrarini, 27). La coincidenza tra le scadenze, come postulato della fattispecie dello swap, infatti sarebbe il risultato di un'assolutizzazione effettuata nel tentativo di ricercare il pagamento del differenziale come elemento comune all'intera categoria giuridica dei contratti derivati, di tal che, l'effetto della compensazione legale sarebbe un evento talmente frequente da poter essere inquadrato nel normale modo di liquidazione del contratto. Per il fatto dunque che solo alcune volte le prestazioni debbono essere effettuate alla medesima scadenza, e che la tale coincidenza risulta un elemento non essenziale, ed, in quanto tale, non destinato a raggiungere lo scopo tipico del contratto, «dunque, le parti concordano di scambiarsi flussi d'interesse o di cambio e realmente se li corrispondono, liquidando le differenze solo in caso di coincidenza delle scadenze. Lo scambio oggetto del contratto si attua concretamente ed effettivamente nei termini nei quali è stabilito» (Capaldo, 98). Così, lo swap è «un accordo che genera prestazioni contrapposte fra loro interdipendenti ed omogenee: uno o più pagamenti incrociati, eventualmente su base netta, di somme di denaro. La necessaria antiteticità degli interessi delle parti (da un lato) consente di collocare lo swap nella categoria dei contratti di scambio; l'interdipendenza fra prestazione e controprestazione (dall'altro) giustificano poi l'inserimento dello stesso nella sotto-categoria dei contratti a prestazioni corrispettive» (Agostinelli, 126). In particolare, poi, la natura di contratto a obbligazioni corrispettive non verrebbe meno in forza della mera accessorietà del patto di compensazione, per cui «nel contratto di swap, pur essendoci reciprocità di obbligazioni, la stessa reciprocità non viene attuata nella esecuzione, in quanto nella sua complessiva attuazione, l'obbligo di eseguire la prestazione dovuta sorgerà solamente a carico di una delle parti (...) a seconda che le variazioni del corso dei cambi o degli interessi presi in considerazione abbiano comportato l'attribuzione all'una o all'altra parte dell'onere di «compensare» all'altra degli svantaggi conseguenti alle variazioni in parola. La reciprocità delle obbligazioni assunte dalle parti impone, quindi, di escludere la riconducibilità dello swap alle categorie dei contratti «con obbligazioni del solo proponente» o del contratto «con obbligazioni di una sola parte» (Inzitari, 1988, 614). Infine, della medesima opinione è chi ritiene che «può, comunque, accadere che le obbligazioni di pagamento denominate nella stessa divisa siano eseguibili alla stessa data. In tal caso trovano applicazione le norme della compensazione legale e le parti liquidano la sola differenza, senza peraltro alterare l'oggetto del negozio. È il contratto stesso che prevede l'applicazione a) delle dette convenzioni finanziarie di mercato ... e b) della disciplina della compensazione. ... Può accadere che, sebbene le parti abbiano scelto scadenze diverse per i reciproci pagamenti ... — escludendo ab origine ogni specifico intento di liquidare soltanto le differenze —, i pagamenti siano dovuti alla stessa data in applicazione delle convenzioni finanziarie dedotte in contratto, comportando la compensazione tra le prestazioni. ... Non potrà certamente considerarsi contratto differenziale quel contratto che prevede simili convenzioni, in quanto le stesse presuppongono necessariamente la volontà di eseguire i reciproci pagamenti» (Caputo Nassetti, 88). Dalla soluzione del problema in merito all'individuazione dell'oggetto dello swap, se esso sia il differenziale o i pagamenti di entrambe le parti, deriva poi la questione largamente affrontata della natura aleatoria o commutativa del contratto, e dunque della possibilità di accomunare la figura alle fattispecie di gioco e scommessa. Traendo argomento dall'analisi del domestic currency swap, che si analizzerà in seguito, e che come oggetto ha per l'appunto lo scambio del solo differenziale, qualificato come contratto aleatorio, si sostiene che il medesimo carattere dovrebbe essere riferito anche all'IRS (Inzitari, 617). Estendendo all'IRS le conclusioni raggiungibili in materia di domestic currency swap, si sostiene poi che «nel contratto di swap, non è semplicemente incerto il valore economico, che è teoricamente compreso tra zero ed infinito, della prestazione (o delle prestazioni) [....]. Nel contratto di swap, è incerto l'an o il quantum di almeno una delle prestazioni: la fluttuazione del parametro non incide sul valore intrinseco dell'oggetto della prestazione, ma, più radicalmente, incide sull'esistenza o sull'entità fisica di almeno una delle due prestazioni» (Agostinelli, 125). Ulteriormente, si afferma che la ricerca «appare in prevalenza orientata ora ad identificare gli elementi idonei a ricondurre in un ambito di aleatorietà le tipologie negoziali prese in considerazione, ora a ricollegarne l'essenza alle operazioni di borsa (stante la configurabilità del noto meccanismo di liquidazione «per differenza»)» (Capriglione, 359). Altra dottrina è invece dell'opinione che si debba distinguere tra swap in relazione alla funzione per cui il contratto è stipulato; se per gli interest rate swaps diretti a ridurre i costi di un finanziamento mediante operazioni di arbitraggio si dovrebbe escludere la natura di contratto aleatorio e l'assimilazione alla fattispecie del gioco o della scommessa, in cui l'evento oggetto dell'incertezza «viene ad incidere sul patrimonio delle parti solo in seguito alla conclusione del contratto (c.d. creazione artificiale del rischio), negli swaps funzionali ad ottimizzare l'asset and liability management il rischio dedotto in contratto inciderebbe comunque sul patrimonio delle parti: aggravando le passività, riducendo la redditività degli investimenti, o determinando uno squilibrio fra le poste di bilancio (c.d. mismatching) ... Nello swap speculativo, invece, il contratto presenta i tratti strutturali e funzionali propri della scommessa: sotto il primo profilo, l'evento cui le prestazioni contrattuali sono subordinate viene ad incidere sulla sfera patrimoniale delle parti solo in virtù della conclusione del contratto; quanto invece all'aspetto funzionale, il contratto realizza indubbiamente l'interesse delle parti a conseguire un vantaggio patrimoniale come mero esito della sorte (Perrone, 82). Apoditticamente invece si esprime un'altra dottrina che definisce gli strumenti finanziari derivati «aleatori per antonomasia» (Antonucci, 189). Dall'altra parte, vi è la dottrina che maggiormente tende a mettere in evidenza le differenze tra IRS e domestic currency swap in relazione all'oggetto del contratto, e dunque a non estendere le considerazioni fatte per un tipo all'altro. Si osserva che all'interno della stessa categoria di IRS è possibile che entrambe le prestazioni di entrambe le parti subiscano lo stesso rischio (nella stessa misura e nello stesso senso): «si pensi allo swap in base al quale Alfa paga a Beta il 10% su 1 milione ogni anno e Beta paga ogni mese il 7.97% per anno calcolato sullo stesso capitale di 1 milione di euro. Appare evidente che un calo (o un aumento) dei tassi si ripercuoterebbe in maniera sostanzialmente uguale su entrambe le parti che si ritroverebbero a pagare un tasso di interessi più alto (o più basso) del mercato» (Caputo Nassetti, 76). Argomentando dall'esclusione dei contratti a fermo a termine dalla qualifica di contratti aleatori, per cui il rischio di ampie e brusche oscillazioni del corso dei titoli non modifica lo scambio delle prestazioni tra le parti, perché le oscillazioni di prezzo non rendono la prestazione di uno dei contraenti per sua natura incerta rispetto alla prestazione, invece, oggettivamente certa della controparte (Serra, 453), si sostiene che anche per gli swap la variazione dei tassi di interesse e dei tassi di cambio rientri nell'alea normale, intesa come quel rischio che il contratto comporta a causa della sua peculiarità, e che dunque non ne qualifica la struttura del contratto, ma solo lo svolgimento del momento esecutivo. È poi contestata la distinzione tra swap di copertura e swap speculativi, per il fatto che «lo scopo perseguito dalle parti — sia esso di protezione o di speculazione — viene soddisfatto attraverso lo scambio in sé. È ben noto che i moventi subiettivi e psicologici, che abbiano spinto le parti a stipulare un accordo contrattuale, non si identificano col requisito essenziale della causa di esso e non hanno, di regola, rilevanza giuridica. ... Il contratto esaurisce la sua funzione con lo scambio dei flussi di pagamento e la sua causa tipica immanente che caratterizza questo contratto è appunto lo scambio dei pagamenti, che di per sé ha ragion d'essere ed ha una sua positiva funzione sociale» (Caputo Nassetti, 77). In dottrina, poi, si è escluso che la creazione artificiale del rischio possa ritenersi un elemento unicamente relativo alla struttura fondamentale della scommessa, essendo individuabile nell'emptio spei (art. 1472, comma 2 c.c.) un esempio di contratto caratterizzato dalla presenza di un rischio che non preesiste alla stipula, e ciò nonostante, non rientrante nella qualifica di scommessa (Preite, 31). La giurisprudenza ha affermato che la natura aleatoria dei contratti di swap discende dal fatto che le prestazioni reciproche, individuate nel regolamento, dipendono da un parametro che è per sua natura variabile, caratterizzato cioè da un'alea giuridica, rappresentata da un rischio finanziario (App. Milano 25 settembre 2018). La decisione mostra di condividere il responso del giudice di primo grado, il quale «dà per pacifica la natura aleatoria dei contratti di swap, la quale discende dal fatto che le prestazioni reciproche, individuate nel regolamento, dipendono da un parametro che è per sua natura variabile, caratterizzato cioè da un'alea giuridica, rappresentata da un rischio finanziario. Naturalmente, quest'ultimo deve essere tecnicamente misurabile, sulla base di criteri e di modelli che il regolamento contrattuale, ovvero la disciplina applicabile, richiami testualmente. Pertanto, la trasparenza sul rischio impone che l'accordo tra intermediario ed investitore (art. 1325, n. 1 c.c.) abbia ad oggetto, a pena di nullità, il valore finanziario (mark to market: più o meno alla lettera "valutare secondo il mercato”) e il differenziale di probabilità, nonché, ovviamente, i criteri ed il modello utilizzati per calcolarli. Appare quindi corretta la conclusione cui è giunta la sentenza impugnata, laddove ha accertato l'insufficienza della scheda prodotto, consegnata contestualmente alla conclusione del contratto di IRS, nonché della disposizione di stipula del contratto stesso. Infatti, il valore finanziario al momento della conclusione deve essere espresso da un numero — non dall'indicazione di una percentuale del nozionale — che rappresenta la sintesi della distribuzione delle probabilità. Pertanto, il mark-to-market — inteso come il valore probabilistico che ex ante si assegna al differenziale a scadenza del derivato, calcolato sulla base di determinati criteri — costituisce un elemento essenziale del contratto, configurandosi come il suo oggetto. Correttamente, a tale proposito, la sentenza impugnata osserva che il mark-to-market coincide con il fair value iscrivibile in bilancio ai sensi dell'art. 2427-bis c.c., senza margini di discrezionalità nel calcolo di questo valore, a pena di violazione dei criteri di iscrizione delle poste di bilancio. Ne deriva, pertanto che la buona fede contrattuale impone che tale fair value sia chiaramente dichiarato o, quantomeno, determinabile in base a criteri oggettivi. Nel caso di specie, tuttavia, l'indicazione della modalità di successiva determinazione delle reciproche prestazioni e, quindi, per quanto sin qui argomentato, dell'oggetto del contratto, non è determinata. Secondo l'art. 6, comma 1, sezione A del contratto quadro [...]: «[...] le rilevazioni dei tassi di interesse, dei tassi di cambio e di ogni altro parametro, nonché i calcoli degli importi dovuti, a qualunque titolo, da ciascuna delle Parti sono eseguiti dalla Banca». In altri termini, all'intermediario risulterebbe riservata la potestà unilaterale di definire le singole prestazioni esecutive dell'IRS e, così, l'oggetto del contratto, in maniera non determinabile, quindi non consentita, data la mancanza di criteri tecnico-finanziari chiari ed attendibili. Inoltre, la successiva clausola contrattuale (art. 7, comma 1) prevede che «La Banca provvede a rilevare il valore corrente di mercato di ciascun contratto calcolato secondo criteri generalmente accolti nel mercato medesimo (il costo di sostituzione o mark-to-market)», introducendo, in tal modo, un criterio di calcolo «uso piazza» che, ammesso possa essere effettivamente applicato e condiviso, violerebbe il divieto di riferimento ad usi, sancito dall'art. 23, comma 2 TUF. Appare, quindi, del tutto corretta e condivisibile la motivazione assunta dal primo giudice, secondo cui il mark-to-market consiste in un differenziale attualizzato di contrapposti flussi finanziari, in sintesi assumendo la veste di vero e proprio oggetto del contratto di IRS; lo stesso, quindi, lungi dall'operare solo in vicende estintive, come sostiene l'appellante (risoluzione consensuale anticipata; risoluzione per procedure concorsuali; risoluzione per inadempimento contrattuale) viene utilizzato per misurare l'alea i) in sede di costruzione dello strumento, ovvero di predeterminazione delle condizioni economiche del contratto; ii) in sede di risk management; iii) in sede di indicazione del fair value nella redazione del bilancio dell'investitore (ex art. 2427-bis c.c.); iv) in sede di segnalazione alla Centrale Rischi di Banca d'Italia dell'esposizione in derivati del cliente». Già in precedenza, del resto, mostrando una certa disinvoltura nel governare i concetti di causa, meritevolezza, determinatezza dell'oggetto, la corte milanese aveva affermato che: «La causa nei contratti derivati va individuata, secondo costante giurisprudenza, nell'alea accettata dalle parti che, nel caso degli IRS, si concretizza nello cambio di flussi di pagamento basati su tassi di interesse. Tutti gli elementi dell'alea e gli scenari ad essa conseguenti, quindi, costituiscono ed integrano la causa del contratto: ciò non equivale ad affermare la necessaria simmetricità dell'alea, potendo una parte accettare una scommessa improbabile. La mancata conoscenza dell'alea o del MtM producono la nullità del negozio, per mancanza di causa (soluzione che si preferisce) o per indeterminatezza dell'oggetto» (App. Milano 11 novembre 2015). Ed ancora: «Nei contratti di interest rate swap, la mancata esplicitazione del modello matematico di pricing e del mark to market rende arbitraria la stessa liquidazione degli importi richiesti a titolo di corrispettivo del recesso, proprio perché siffatta liquidazione appare il frutto di una quantificazione unilaterale da parte dell'intermediario, del tutto slegata da criteri predeterminati nei contratti» (App. Milano 18 settembre 2013). Viene qui osservato che il tratto strutturale dello scambio di differenziali a scadenza, sulla base di parametri fissati contrattualmente, come oggetto dell'interest rate swap, «nulla dice riguardo alla causa, che è un requisito essenziale autonomo, separato e diverso dall'oggetto (art. 1325 c.c..). Ed essa sussiste ... se e nella misura in cui l'alea, cui lo strumento dà luogo, sia il frutto di una valutazione razionale in termini di entità e natura; questo essendo ... il tratto di meritevolezza che giustifica l'autorizzazione di questo tipo di scommesse da parte del Legislatore. La difesa della Banca ha sostenuto ... che la circostanza dell'intervenuta consegna del c.d. «documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari» avrebbe «ben specificato i rischi, anche economici, delle operazioni in questione». Ma così non è: il «documento» contiene informazioni generali ed astratte sulla tipologia dello strumento finanziario, ma nulla dice — come nulla dicono i contratti di interest rate swap conclusi inter partes — sul valore degli swap al momento della conclusione del contratto, sugli scenari di probabilità, sulle modalità con cui calcolarne il valore nel corso della durata dei contratti e, ad esempio, al momento del loro scioglimento anticipato. La sola circostanza ... che le parti, odierne appellate, non conoscessero, al momento della conclusione del contratto, il c.d. mark to market e la circostanza ... che il mark to market non rientrasse nel contenuto dei contratti ... comporta la radicale nullità dei contratti di interest rate swap, perché esclude, in radice, che, nel caso di specie, gli appellati abbiano potuto concludere la «scommessa» conoscendo il grado di rischio assunto, laddove, per contro, la banca, del proprio rischio, nutriva perfetta conoscenza — addirittura nella sua precisa misurazione scientifica — avendo predisposto lo strumento. In tal senso, meritano accoglimento le specifiche censure sollevate dalle odierne parti appellate ... riguardo alla circostanza che esse ... «non erano e non sono state poste in grado di comprendere la portata dell'operazione finanziaria sottoscritta». Va, poi, osservato che è vietato ad un contraente determinare unilateralmente, ed in base a criteri non trasparenti e controllabili, elementi del contenuto del contratto ... Né supplisce il mero richiamo ad asseriti «costi di mercato», perché il rinvio alle prassi, quand'anche scientificamente condivise, equivale all'applicazione di usi, testualmente vietata nella materia dell'intermediazione finanziaria (art. 23, comma 2 TUF). Sotto ulteriore profilo, la mancanza dell'indicazione del mark to market al momento della conclusione del contratto consente all'intermediario, che è «anche» un mandatario oltreché controparte della scommessa ... di occultare il suo compenso, rappresentato dai c.d. costi impliciti, all'interno delle condizioni economiche dell'atto gestorio. Il che determina la nullità del contratto derivato anche in ragione del difetto di accordo sul requisito essenziale del compenso ex art. 1709 c.c. ... In mancanza di esplicitazione del modello matematico di pricing e del mark to market, deve considerarsi, altresì, arbitraria ... la stessa liquidazione degli importi asseritamente dovuti a titolo di corrispettivo del recesso ... proprio perché siffatta liquidazione appare frutto di una quantificazione unilaterale da parte della Banca, del tutto slegata da criteri predeterminati nei contratti. L'indicazione del mark to market e degli scenari probabilistici nel contratto avrebbe, per contro, consentito di risolvere, in radice, il problema lamentato in causa dalle parti appellate; e cioè che il contratto derivato sia presentato come strumento di copertura di un rischio, ma non sia chiaro quale sia, quantitativamente e qualitativamente, il diverso (e sovente assai maggiore) rischio che assume l'investitore, concludendo il contratto. Viceversa appare solido l'ancoraggio della causa del derivato ad uno scenario probabilistico e ad un valore stimato (mark io market) al momento della conclusione del contratto. Qui la volontà dell'investitore cade su un dato preciso ed esprime una valutazione razionale e, come tale, certamente meritevole di tutela anche nell'ottica del generale principio di autoresponsabilità. La soluzione appare coerente con la posizione dell'EMA (già CESR) secondo cui l'assenza di mark to market e di scenari probabilistici rende ... del tutto priva di giustificazione causale la stessa clausola che contempla l'eventuale erogazione del c.d. up front ...». È chiaro che, a voler seguire fino alle estreme conseguenze il ragionamento dell'appello meneghino, tutti i contratti di assicurazione contro il furto o contro l'incendio di autovetture, tanto per fare un esempio, dovrebbero essere giudicati nulli, laddove non individuino il dato probabilistico sulla base del quale il premio di assicurazione è stato calcolato. Seguendo un ragionamento diverso è stato detto che il contratto di interest rate swap è un contratto atipico, di natura aleatoria, caratterizzato dallo scambio, a scadenze prefissate, dei flussi di cassa prodotti dall'applicazione di diversi tassi ad uno stesso capitale di riferimento. L'aleatorietà si atteggia, tuttavia, in maniera differente a seconda della funzione in concreto perseguita dalle parti, distinguendosi ipotesi in cui l'elemento aleatorio costituisce l'unica ragione determinante le parti alla stipulazione del negozio, da altre in cui esso costituisce solo una componente della più complessa causa contrattuale, rivestendo il contratto finalità ulteriori, quali quella di protezione o di copertura da rischi. Tale situazione ricorre ove il contratto di IRS sia stipulato da un imprenditore che intenda tutelarsi dall'oscillazione dei tassi in riferimento ad un mutuo a tasso variabile. Il contratto di swap assume in questo caso una precisa logica che lo avvicina alla causa assicurativa: la causa in concreto è dunque quella di cautelarsi da un rischio preesistente, costituito per il cliente dal fatto di essere esposto all'incertezza dell'oscillazione dei tassi (Trib. Genova 30 novembre 2015). Il giudice ha in questo caso preso posizione sulla deduzione di nullità del contratto di IRS per mancata esplicitazione della formula matematica alla quale fare riferimento per il calcolo del c.d. mark to market, sull'assunto che tale omissione comporti la in determina abilità dell'oggetto del contratto medesimo. Tale assunto non è condivisibile. Il mark to market costituisce la sommatoria attualizzata dei differenziali futuri attendibili in forza dello scenario esistente in un dato momento. Esso è definito quale «valore prospettico del derivato stesso» e chiamato anche a costo di sostituzione «perché quello è il prezzo al quale in quel dato momento storico-finanziario, un terzo indipendente sarebbe disponibile a subentrare in quel contratto alle sue originarie condizioni». Esso è destinato a mutare nel corso del tempo della durata del contratto di IRS, a secondo del momento del suo calcolo, essendo definito sulla base dello scenario di riferimento di volta in volta esistente e delle previsioni future circa l'andamento dei flussi di cassa prospettabili in quel momento. Oggetto del contratto di IRS non è lo scambio di flussi attesi e pertanto non determinati fino a che non vengano manifestate le previsioni e le aspettative delle parti, bensì quello di flussi reali futuri, che in base alle clausole del contratto in esame sono perfettamente determinabili. Parte ricorrente precisa che si tratterebbe di «una particolare espressione dell'oggetto del contratto, destinata a operare con riferimento ad alcune vicende contrattuali delle parti predeterminate (ossia la scelta di una di esse di dare chiusura anticipata al rapporto, piuttosto che altri casi di necessarie interruzione anticipata, come ad esempio i casi previsti nel contratto in esame di ammissione a procedure concorsuali della cliente o a procedure di liquidazione coatta della banca)». In tali casi, secondo parte ricorrente «l'oggetto del contratto, costituito dal differenziale dei contrapposti flussi finanziari, viene determinato attraverso il mark to market, il quale, rappresentando una sua specifica modalità di espressione, è esso stesso l'oggetto del contratto». Tale affermazione non è condivisibile: il differenziale dei contrapposti flussi finanziari, determinato attraverso il mark to market non è l'oggetto del contratto ma l'espressione del suo valore in un determinato momento; il fatto poi che tale valore, proprio perché mutevole nel tempo, debba essere esplicitato nella nota integrativa in base alla previsione di cui all'art. 2427-bis c.c. non vale a costituirlo come oggetto del contratto». Nel senso di accomunare derivati speculativi e derivati di copertura, invece, è detto che la componente aleatoria è intrinseca alla natura del derivato, il quale può definirsi una «scommessa» legalmente autorizzata a fronte di un interesse meritevole di tutela, la quale caratterizza sia il derivato con finalità di copertura sia quello con finalità speculative (Trib. Milano 16 giugno 2015). Altra giurisprudenza invece accomuna esplicitamente swap e scommessa, per cui Il contratto swap, assimilabile alla scommessa, tipico contratto aleatorio, dovrebbe presentare una componente di fortuna divisa in parti eguali tra i contraenti (Trib. Salerno 2 maggio 2013). Curiosamente, in questo caso, nulla è valso, a favore della banca, che il contratto contenesse la formula matematica mancante invece nei casi scrutinati dall'appello di Milano, giacché, almeno per il giudice salernitano, si trattava di una «formula matematica di difficile, se non impossibile, comprensione». Secondo altro indirizzo, l'andamento svantaggioso per il cliente verificatosi ex post non è rilevante per la validità del contratto: il contratto deve ritenersi invalido solo quando ex ante sia del tutto irrealistica la previsione di andamento dei tassi favorevoli all'investitore, tali da eliminare del tutto l'alea. Sicché: «In materia di interest rate swap la dimostrazione di carenza originaria (ex ante) della causa del contratto non può inferirsi dal fatto che, durante il periodo di esecuzione, il differenziale da liquidare periodicamente in relazione allo strumento derivato sia stato concretamente pressoché sempre a sfavore del cliente investitore. Il riscontro di tale andamento del differenziale integra una mera constatazione ex post inerente alla convenienza economica dell'operazione così come concretamente sviluppatasi per effetto dell'andamento dei tassi di mercato» (Trib. Taranto 10 marzo 2015). In relazione al rapporto tra swap e scommessa è da analizzare il rilievo che ha l'art. 23 TUF nel momento in cui, al comma 5, esso prevede che «nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell'art. 18, comma 5, lett. a), non si applica l'art. 1933 del c.c.». Da una parte vi è la dottrina la quale ritiene che la non applicabilità della disciplina codicistica non tragga origine dalla previsione speciale del TUF, ma sia una conseguenza della natura del contratto posto in essere, non aleatorio (Caputo Nassetti, 99; Perassi, 1997, 156). In particolare, si sostiene la mera «dichiaratività» della norma sopra citata, in ragione del fatto che la non appartenenza degli swap al novero degli strumenti finanziari negoziati nell'esercizio di un'attività di investimento non produrrebbe la sottoposizione alla disciplina generale dell'esclusione dell'azione per l'adempimento, per il fatto che sarebbe ancor più a monte la natura stessa del contratto, non assimilabile ad una scommessa, ad escludere l'applicazione dell'art. 1933 c.c. Raggiunge poi il medesimo risultato la dottrina, che, pur ammettendo la natura aleatoria dello swap, afferma la discrasia di ratio tra la norma del codice, ed i contratti qui esaminati, i quali perseguirebbero finalità differenti da quelle ricercate per mezzo della scommessa. Coerentemente, tale dottrina esclude che per i contratti di swap con finalità di copertura non è possibile ravvisare in essi i tratti distintivi di un contratto nel quale le parti hanno inteso subordinare la prestazione alla sorte (Capriglione, 359; Inzitari, 621; Preite, p. 29). Della stessa opinione, nel sostenere dunque l'applicabilità dell'art. 1933 agli swap «speculativi» è chi ritiene che «l'ambito di rilevanza dell'art. 1933, comma 1 c.c., risulta limitato ai contratti di swap che perseguono interessi di carattere speculativo. La possibilità di sollevare l'eccezione di gioco è infatti certamente da escludersi con riferimento alle transactions dirette ad una miglior gestione del patrimonio aziendale: come si è appena detto, è la stessa coincidenza strutturale con la fattispecie propria della scommessa che in questo caso risulta mancare. ... Più corretto sembra pertanto muovere dagli interessi che il contratto è diretto oggettivamente soddisfare: sotto questo profilo, non è dubbio che gli swaps in parola realizzino un interesse diverso da quello al conseguimento di un vantaggio patrimoniale come mero effetto della sorte, differenziandosi pertanto sotto il profilo funzionale dalla fattispecie di cui all'art. 1933 c.c. ... Occorre in primo luogo sottolineare come nell'ipotesi de qua il contratto presenti i tratti strutturali e funzionali propri della scommessa: sotto il primo profilo, l'evento cui le prestazioni contrattuali sono subordinate viene ad incidere sulla sfera patrimoniale delle parti solo in virtù della conclusione del contratto; quanto invece all'aspetto funzionale, il contratto realizza indubbiamente l'interesse delle parti a conseguire un vantaggio patrimoniale come mero esito della sorte» (Perrone, Contratti di swap, 82). Secondo il Trib. Lanciano 6 dicembre 2005, in Giur. comm. 2007, II, 131, «il contratto di interest rate swap, sottoscritto da un imprenditore in relazione ad un mutuo a tassi variabili da questi stipulato, è negozio aleatorio dotato di una funzione assicurativa che impedisce di ritenerlo privo di causa. Viceversa, se stipulato a mero scopo speculativo, al di fuori di tale funzione legata all'attività imprenditoriale, risulta assimilabile alla scommessa». Alcune criticità secondo la giurisprudenza Da anni la giurisprudenza di merito si sofferma sull'analisi dei possibili profili di nullità del contratto di swap. Anticipando un tema sul quale si tornerà più avanti, in numerose pronunce è delineato un giudizio di nullità in caso di sbilanciamento dell'alea ritenuto eccessivo. Sarà qui consentita una licenza pur brevissima, giacché compito di chi scrive è offrire un quadro delle opinioni dottrinali e giurisprudenziali per quel che sono, e non sovrapporvi le proprie. E tuttavia non può tacersi quel certo disagio che si prova al cospetto della ὕβρις con cui talora la giurisprudenza palesa il proprio spirito di mosca cocchiera, giungendo, attraverso il governo di nozioni che non paiono neppure ben digerite, a precipitare giù dal dirupo la mula dei derivati, che pur rappresenta, secondo diffuse stime, un quid ammontante, alla stregua del nozionale — quantunque con la consapevolezza che quest'ultimo non vuol dire poi granché, giacché, ad esempio, il nozionale di un biglietto del gratta e vinci può essere di centinaia di migliaia di euro, ma esso si acquista in tabaccheria per qualche spicciolo —, ad un valore pari a circa otto volte il pil mondiale. A dire il vero, l'aria che si respira alle volte nel leggere la giurisprudenza di merito, e non solo quella, par più che altro richiamare una temperie da Occupy Wall Street, in cui il nemico è lo spregevole Gordon Gekko. Insomma, stando ai responsi di qualche nostro tribunale, tutto sembra riassumersi davvero in ciò, che Ferro azzurro ama Anacott Acciaio. I derivati paiono in molte decisioni presentarsi come la quintessenza della speculazione, e la speculazione, ça va sans dire, è il male: non a caso, dunque, l'attacco agli intermediari finanziari passa nei tempi più recenti per il giudizio — negato — di meritevolezza. Doveva essere dunque anch'egli un genio del male Tommaso Padoa Schioppa a ricordare un articolo di un genio del male ancor più cospicuo, Luigi Einaudi,« In favore dei contratti differenziali», ove era ricordato il ruolo assicurativo dei derivati ed era detto che «i contratti a termine adempivano a una funzione la quale ha pur bisogno di estrinsecarsi per diminuire i rischi provenienti dalla oscillazione dei prezzi», essendo infine evidente «che di dolorose rovine di capitalisti, di famiglie intere, non sia colpevole il meccanismo dei contratti a termine e che la speculazione si sarebbe rivolta in altre direzioni ove questa vi fosse rimasta preclusa» (Padoa Schioppa, 63). Ed ancora: «Malfamatissima fra tutte è la parola «speculazione» ... Eppure «speculare» vuol dire semplicemente «prevedere», «anti vedere», «anticipare» gli avvenimenti futuri ed operare in relazione a quel che accadrà e non a ciò che sta accadendo ... se qualche speculatore, il quale, essendo o credendo di essere bene informato, prevede un raccolto scarso, a suo rischio acquista, ossia accaparra il grano futuro e per ripercussione ne fa salire il prezzo presente, forseché egli non agisce in conformità al pubblico interesse? Avverte produttori e consumatori di fare oggi uso prudente del grano, ad evitare così, grazie ad un moderato rialzo presente, ben più forti rialzi futuri, quando tutti si saranno accorti che le scorte erano state mangiate prima che il nuovo grano fosse maturo per la mietitura ... Eppure a lui, per avere avuto una opinione diversa dall'universale e per averla manifestata col fatto di rischiare i propri denari, il clamore pubblico decreta la galera ... Ma l'antivedere, il prevedere, che è il tratto caratteristico dello speculatore, non ha niente a vedere col reato comune» (Einaudi, 1987, 76). Ciò che occorrerebbe, allora, è un attento impiego dei concetti: «Mai come nella materia che ci occupa, il retto criterio è stato miseramente occupato ed offuscato da pregiudizi, da ignoranza, da leggerezze portanti a conclusioni precipitate, solo scusabili (lo riconosciamo per primi) per la profonda impressione che han potuto produrre disastri finanziari derivanti da disgraziate operazioni di Borsa e maneggi fraudolenti di speculatori senza coscienza» (Navarrini, 3). Vi è da dire che sulla materia sono intervenute, come si avrà modo di vedere più avanti, le Sezioni Unite, con una decisione complessivamente accettabile, salvo per un riferimento alla necessaria previsione degli «scenari probabililstici», nozione che la sentenza non chiarisce, e che si presta, se malamente amministrata, a pesanti equivoci. Ora, se qualcosa si può dire con relativa tranquillità, è che i contratti derivati racchiudono tipologie profondamente eterogenee, all'interno delle quali possono sussistere notevolissime diversità: e così, IRS non vuol di per sé dir molto, giacché ciò che gioca un ruolo centrale è il tasso che si adotta a parametro della negoziazione. Sicché l'indagine — che invece per lo più manca — andrebbe pacatamente condotta sulla base di un'analisi approfondita del concreto atteggiarsi della pattuizione. Ciò detto, decisivo nello scrutinio del tema da parte della giurisprudenza, è l'indistinta attribuzione ai contratti derivati del carattere dell'aleatorietà, senza, peraltro, che la nozione di alea venga neppure indagata nel suo reale significato, apparendo così implicitamente ridotta senza ulteriori approfondimenti alla variabilità delle prestazioni dovute rispettivamente dalle parti in funzione degli indici di riferimento adottati. Secondo un giudice di merito il contratto di swap sarebbe contratto per sua natura aleatorio, e sarebbe conseguentemente nullo qualora l'alea non gravi su entrambi i contraenti. Viene osservato: «L'incertezza sull'andamento dei differenziali di entrambe le posizioni è, infatti, elemento essenziale del contratto in questione, pena la sua nullità e inefficienza» (App. Torino 27 luglio 2016). Ergo, lo swap in cui l'intermediario faccia ricadere detto rischio sul solo cliente, assicurandosi in ogni caso l'esito vantaggioso dell'operazione, si pone in conflitto con il disposto dell'art. 1322, comma 2 c.c.: sarebbe infatti da escludere che il contratto atipico così costruito persegua interessi meritevoli di tutela. La stessa corte ha pure sostenuto che la causa sottostante ad un negozio giuridico bilaterale «va individuata in concreto e non già solo su un piano astratto. Sifatta tendenza corrisponde ad esigenze di tutela sottese all'ordinamento e nel contempo ad esigenze di verifica della realtà concreta, non essendo sufficiente uno schema, di natura atipica, individuato a monte per la verifica del contratto. Affinché non vi sia uno squilibrio fra le prestazioni consistenti nei reciproci pagamenti, da porsi in relazione con il differenziale a favore o a sfavore della banca secondo il superamento o meno del limite prefissato negozialmente è indispensabile che la partenza sia paritaria, senza valori negativi, già a monte dell'una o dell'altra parte. In altri termini, se il contratto swap, presenta al momento della sua sottoscrizione un flusso negativo, viene a mancare la causa concreta del negozio il che non può che essere valutato ai sensi dell'art. 1418 c.c. Il contratto risulta affetto già inizialmente da uno squilibrio, quando è ravvisabile una commissione implicita o occulta o un compenso maggioritario per la banca. Sussiste una inscindibile connessione della causa con l'assolvimento dell'onere informativo, ovvero con la consapevolezza piena del cliente circa i rischi dell'operazione e le particolari connotazioni dello swap. Incide sulla causa concreta sottostante al negozio giuridico l'occultamento di un valore negativo per il cliente stesso; la causale del contratto risulta sfalsata a livello obbiettivo, in quanto comporta uno squilibrio, non conosciuto e quindi rapportabile ad una falsa cognizione in capo al cliente della funzione stessa del contratto specifico» (App. Torino 22 aprile 2016, in dirittobancario.it). Per converso il tribunale capitolino, pur partendo dall'aleatorietà del contratto, afferma: «Nei contratti di swap, l'alea bilaterale, ossia l'incertezza sull'andamento dei due differenziali contrapposti, rappresenta un elemento essenziale della causa del contratto, elemento la cui effettiva presenza consente di effettuare con esito positivo, sul presupposto della sussistenza di un apprezzabile componente di rischio, non necessariamente equamente distribuito in capo ad entrambi i contraenti, il giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c. circa l'operazione atipica posta in essere» (Trib. Roma 8 gennaio 2016). Nella stessa linea si è espressa in un caso la corte d'appello di Milano: «La nullità per difetto di causa del contratto di IRS (anche di quello con funzione di «copertura») può ricorrere soltanto quando l'alea connaturata al negozio sia ab origine unilaterale, addossando il rischio ad una soltanto delle parti (il cliente) e lasciandone sicuramente esente l'altra (la banca). Irrilevante, al contrario, che il rischio, comunque dipendente da fattori estranei alla sfera di controllo degli stipulanti (nella fattispecie, la variazione dell'Euribor trimestrale), possa essere sopportato, nella fase esecutiva del negozio, in misura maggiore da uno dei contraenti. In presenza dell'originaria alea bilaterale, parimenti ininfluente, quanto meno ai fini della validità del negozio, sarà poi l'accertamento di eventuali squilibri tecnico-conoscitivi fra le parti, derivanti della violazione, ad opera dell'intermediario, delle prescrizioni di cui alla Comunicazione D.I. 990013791 del 26 febbraio 1999 della Consob, contenente l'elencazione delle condizioni necessarie a rendere lo strumento derivato idoneo a perseguire l'obiettivo di copertura (App. Milano 25 maggio 2015, in dirittobancario.it). Secondo tale pronuncia, perché possa affermarsi la nullità dei contratti di interest rate swap conclusi inter partes per difetto di causa ex art. 1418 c.c. è necessario che la preclusione a monte del raggiungimento dello scopo di copertura risulti ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa. Non è quindi sufficiente l'assenza di evidenze interne di un previo studio dello strumento derivato in rapporto alla concreta situazione finanziaria della società, in violazione delle prescrizioni impartite in materia dalla Comunicazione D.I. 990013791 del 26 febbraio 1999 della Consob, ma è necessario il positivo accertamento, secondo valutazioni ex ante, della inesistenza di qualsiasi rischio per l'intermediario, a fronte di un rischio certo del cliente. Con riguardo a tale ultimo aspetto, in particolare, viene affermato che la possibilità di un risultato negativo rientra nella natura aleatoria del contratto di interest rate swap. Nell'esaminare i contratti derivati, deve dunque necessariamente prescindersi dalla valutazione in merito al risultato economico delle operazioni, giacché l'andamento del contratto «non dimostra affatto che i tassi fissi concordati fossero, già nelle previsioni, troppo alti rispetto alla curva dei tassi Euribor», così che lo stesso cliente avrebbe prevedibilmente dovuto pagare interessi costantemente superiori a quelli da pagarsi dall'intermediario in base all'andamento del medesimo tasso. In qualche misura assimilabile è la pronuncia secondo cui nel contratto di interest rate swap solo la notevole sproporzione tra le alee assunte dalle parti o l'assenza assoluta di alea per una delle parti può inficiare la causa del contratto, non invece una lieve sproporzione in favore della banca. Non è previsto da nessuna fonte legale, regolamentare o contrattuale che il rischio assunto dalle parti debba essere identico sul piano quantitativo e ciò che conta, ai fini della configurazione della liceità della scommessa è che sia reciproca e razionale ossia che le condizioni del contratto e i costi, anche in termini probabilistici, con riferimento agli eventi incerti cui sono ancorate le alee reciproche siano chiari e conosciuti dalle parti ex ante (Trib. Taranto 21 aprile 2014, in expartecreditoris.it). Ancora: «Un contratto di intermediazione finanziaria (nella specie uno strumento finanziario di interest rate swap) è nullo per difetto di causa in quanto privo dell'alea reciproca (o bilaterale) che dovrebbe connotarlo (Trib. Piacenza 8 ottobre 2018, concernente fattispecie in cui solo in determinate circostanze il rischio di variazione del tasso di interesse veniva mantenuto al di sotto della soglia di sostenibilità dell'esposizione debitoria). Il contratto di interest rate swap è un contratto atipico, di natura aleatoria, caratterizzato dallo scambio, a scadenze prefissate, dei flussi di cassa prodotti dall'applicazione di diversi tassi ad uno stesso capitale di riferimento (c.d. nozionale). L'aleatorietà si atteggia, tuttavia, in maniera differente a seconda della funzione in concreto perseguita dalle parti con la singola operazione, distinguendosi ipotesi in cui l'elemento aleatorio costituisce l'unica ragione determinante le parti alla stipulazione del negozio, da altre in cui esso costituisce solo una componente della più complessa causa contrattuale, rivestendo il contratto finalità ulteriori, quali quella di protezione o di copertura da rischi. Tale situazione ricorre ove il contratto di IRS sia stipulato da un imprenditore che intenda tutelarsi dall'oscillazione dei tassi in riferimento ad un mutuo a tasso variabile. Il contratto di swap assume in questo caso una precisa logica che lo avvicina alla causa assicurativa: la causa in concreto è dunque quella di cautelarsi da un rischio preesistente, costituito per il cliente dal fatto di essere esposto all'incertezza dell'oscillazione dei tassi. Laddove invece non esista alcun rischio preesistente ed il contratto sia stipulato, quindi, a scopo puramente speculativo, esso è assimilabile alla scommessa. L'andamento svantaggioso per il cliente verificatosi ex post non è rilevante per la validità del contratto: il contratto deve ritenersi invalido solo quando ex ante sia del tutto irrealistica la previsione di andamento dei tassi favorevoli all'investitore, tali da eliminare del tutto l'alea (Trib. Genova 30 novembre 2015, in www.ilcaso.it). In materia di interest rate swap, quindi, la dimostrazione di carenza originaria (ex ante) della causa del contratto non può inferirsi dal fatto che, durante il periodo di esecuzione, il differenziale da liquidare periodicamente in relazione allo strumento derivato sia stato concretamente pressoché sempre a sfavore del cliente investitore. Il riscontro di tale andamento del differenziale integra una mera constatazione ex post inerente alla convenienza economica dell'operazione così come concretamente sviluppatasi per effetto dell'andamento dei tassi di mercato (Trib. Taranto 10 marzo 2015, in www.ilcaso.it). Con riguardo allo swap speculativo la giurisprudenza appare divisa: secondo un primo indirizzo esso è nullo. Così, per Trib. Cosenza 18 luglio 2014, è nullo, per difetto genetico della causa il contratto di swap, quando l'intermediario, nel configurare il contenuto del negozio, faccia in modo di assicurarsi, fin dal principio, un risultato a lui favorevole, eliminando, così, quella bilateralità dell'alea che dovrebbe caratterizzare, sotto il profilo strutturale, l'intera operazione finanziaria. Ecco la motivazione: «In data 17 dicembre 2004 sarebbe stato sottoscritto il contralto numero ..., avente per controparte la Banca ..., con un nozionale di riferimento pari ad euro 450.000 che avrebbe dato luogo a una minusvalenza di euro 5211,80 oltre a differenziali sui derivati per tasso per euro 21.554 nell'arco della durata del rapporto. II secondo interest rate swap ... sottoscritto il 14 febbraio 2007, avente valore nozionale di euro 1 milione, denominato double opportunity capped step up è stato risolto anticipatamente con efficacia dal giorno 5 settembre 2009, epoca di sottoscrizione del terzo interest rate swap, con valore nozionale di euro 2.500.000, denominato tasso dinamico up. In ordine all'oggetto ed alla natura dei contratti stipulati è opportuno precisare, richiamando la consulenza tecnica ... che «con il contratto di interest rate swap IRS, appartenente alla categoria dei contratti di swap, due parti si scambiano le rispettive prestazioni pecuniarie, a scadenze periodiche stabilite, calcolata applicando due diversi tassi di interesse, uno fisso e uno variabile, ad un capitale di riferimento, il cosiddetto «valore nozionale» dello swap. Così facendo è possibile mutare una posizione a tasso fisso in una a tasso variabile e viceversa. Tali contratti, inoltre, sono definiti par se le prestazioni delle parti siano agganciate a livello dei tassi di interesse corrente al momento della stipula del contratto. Ne deriva che a tale data il contratto ha un valore di mercato nullo per entrambe le parti; non par se al momento della stipula presentano un valore di mercato negativo per una delle due parti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. In generale, i termini finanziari della transazione, vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti. Tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di upfront. Si tratta di un contratto bilaterale di durata, negoziato fuori dai mercati regolamentati pertanto definito over the counter (OTC) la cui funzione potrebbe essere quella di copertura dei rischi legati ai tassi di interesse oppure speculativa sull'andamento dei tassi stessi....». Nel caso di specie ... in relazione al secondo IRS, «Ia S.A. avrebbe guadagnato solo in un range dell'Euribor pari a 70 basis points (tra il 3,80% ed il 4,50%) e, nella misura massima di 35 basis points (differenza tra il 4,15% e 3,80% e tra 4,50% e 4,15%). La banca avrebbe guadagnato per range inferiori al 3,80% o superiori al 4,50%» mentre, in relazione al terzo IRS, la «S.A. avrebbe guadagnato solo in un range dell'Euribor pari a 80 basis points (tra il 4,45% e il 5,25%) e nella misura massima di 80 basis points. La banca avrebbe guadagnato per un Euribor inferiore al 4,45%». Si tratta allora di verificare quale sia la funzione in concreto svolta dai contratti stipulati nel 2007 ossia se gli stessi abbiano avuto una funzione di copertura o una funzione speculativa e, in quest'ultimo caso, se tale funzione possa essere riconosciuta come meritevole di tutela dall'ordinamento giuridico. Così come correttamente precisato dal consulente ... «un'impresa che abbia interesse a stabilizzare i flussi di cassa potrebbe avere l'obiettivo di sterilizzare un'eventuale esposizione legata alla variabilità dei tassi di interesse. Il caso più frequente sia ha in conseguenza di un indebitamento a tasso variabile, il cui servizio del debito comporti un'uscita periodica che aumenta all'aumentare del tasso variabile. Se l'impresa entra in un IRS con nozionale pari al valore dell'indebitamento, scadenze periodiche coincidenti con quelle del servizio del debito, ricevendo tasso variabile pagando tasso fisso, l'impresa di fatto ha convertito un 'esposizione a tasso variabile in un in un tasso fisso... L'adozione di uno strumento con funzione di copertura dovrebbe prescindere da ogni valutazione relativa al futuro andamento dei tassi (valutazione che, al contrario, avrebbe una natura speculativa). Uno strumento di copertura elimina o riduce la possibilità di perdita che si genererebbe qualora la variabile di riferimento (nell'esempio il tasso di interesse) assumesse valori sfavorevoli all'impresa...». D'altra parte appare evidente che l'impresa avrebbe maggiore necessità del corretto funzionamento delle strumento di copertura quando l'Euribor è maggiore. «Tuttavia, proprio quando l'esigenza di copertura dell'impresa e più importante, lo strumento si rileva inadatto allo scopo. Infatti il terzo swap, per valori dell'Euribor superiori alla barriera, si sterilizza come se lo strumento non esistesse più o, per meglio dire, non spiegasse gli effetti economici di copertura proprio quando è necessario. Ancora peggio il secondo swap, che per valori delle Euribor uguali o superiori a quelli della barriera si converte in uno swap di segno opposto dove S.A. paga variabile e riceve fisso». Deve condividersi, pertanto, la conclusione cui e pervenuto il consulente secondo cui «se vi e una situazione di rischio di interesse che necessita di uno strumento di copertura, tale strumento deve funzionare per qualsiasi valore assoluto del tasso d'interesse. A maggior ragione quando, come nel caso in esempio, il tasso d'interesse variabile e più alto e quindi maggiore è iI rischio dell'ipotetica posizione originaria che necessita di copertura». Così chiarito che, nel caso concreto, i contralti stipulati non hanno avuto funzione di copertura del rischio ma, chiaramente funzione speculativa, occorre valutare se gli stessi siano o meno sorretti da una causa che, in concreto, ne legittimi la validità. I contralti in questione sono espressione di un evidente collegamento negoziale da sussumere nel quadro degli swap no par in precedenza individuati, essendo evidente che la chiusura anticipata del secondo è avvenuta contestualmente all'apertura del terzo e che la stipula del terzo ha determinato un up front, in favore della S.A. di € 22.800 secondo il meccanismo in precedenza descritto. Correttamente, al riguardo, il consulente ha rilevato che «al fine di evitare qualsiasi equivoco, è opportuno precisare che alla stessa data la società ha visto addebitarsi l'importo di euro 20.300 a seguito della perdita subita con il secondo derivato, per cui il saldo delle due operazioni, a favore della S.A., era pari ad euro 2500. Talvolta, come ad esempio nella comunicazione di ... Banco ... del 5 settembre 2007, avente ad oggetto «esempio di operazioni in derivati OCT» ci si riferisce ad un up front a favore della S.A. di euro 2500 ... Tale dizione non è da preferire, anzi può generare confusione: e più corretto riferirsi, rispetto alla S.A., ad un valore negativo di euro 20.300 che rappresenterebbe il fair value del secondo swap al momento dell'estinzione anticipata ed ha un valore positivo o upfront, di euro 22.800, riferibile al terzo swap. Il valore di euro 2500 rappresenta, quindi solo, solo incidentalmente il saldo tra questi due valori, ma non potrebbe e non dovrebbe essere riferito in via esclusiva al terzo swap». Cia posto, osserva il decidente che l'orientamento della giurisprudenza di merito in ordine alla nullità, per difetto di causa, del contralto di swap appare convergente pur muovendo da diversi presupposti. La Corte di appello di Milano (18 settembre 2013) ritiene che il contralto derivato rientra nella categoria della scommessa legalmente autorizzata, la cui causa, ritenuta meritevole dal legislatore dell'intermediazione finanziaria, risiede nella consapevole e razionale creazione di alee che, nei derivati c. d. simmetrici, sono reciproche e bilaterali. Secondo la Corte «nell'ambito del contralto di swap, ciò che rileva ai fini della valutazione della sussistenza della causa in concreto non è tanto o solo lo squilibrio dell'alea rispettivamente assunta, quanta la consapevolezza del contraente debole del differente livello di rischio assunto dalle parti. Il mero squilibrio delle alee assunte, infatti, non è di per sé motivo per ritenere assente la causa in concreto, ben potendo le parti, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, consapevolmente stipulare un contralto di swap in cui una di esse si assume un rischio maggiore dell'altra». In tale prospettiva, «la causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono, con la precisazione che nella scommessa legalmente autorizzata, come quella ritenuta meritevole di tutela da parte del legislatore finanziario, l'alea non può che essere «razionale» per entrambi gli scommettitori e ciò a prescindere dall'intento che ha determinato la conclusione del contralto, sia esso di mera copertura, ovvero speculativo. Perché l'alea, che, come detto, costituisce l'oggetto del contratto, possa considerarsi «razionale» debbono essere definiti e conosciuti ex ante, con certezza, gli scenari probabilistici e delle conseguenze del verificarsi degli eventi. In sostanza, tutti gli elementi dell'alea e gli scenari che da essa derivano costituiscono ed integrano la causa stessa del contratto, perché appartengono alla «causa tipica» del negozio, indipendentemente dalle ricorrenti distinzioni tra scopo di copertura o speculativo. Ne consegue, quindi, in tale ottica che «in difetto di tali elementi, il contratto deve ritenersi nullo per difetto di causa, poiché il riconoscimento legislativo risiede nella «razionalità» dell'alea e, quindi, nella sua «misurabilità», non essendo concepibile e non meritando, pertanto, tutela un negozio caratterizzato dalla creazione di alee reciproche e bilaterali, la qualità e la quantità delle quali siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all'oggetto dell'accordo». Una diversa prospettiva (Trib. Verona 5 novembre 2012) valorizza, invece, il carattere speculativo del contratto, ritenendo che «la c.d. rinegoziazione o rimodulazione dei contratti derivati e qualificabile giuridicamente come novazione oggettiva allorquando uno dei contraenti (di solito il cliente) si determini a risolvere iI primo swap soltanto in presenza di un secondo contestuale nuovo swap che consenta di evitare di pagare l'importo della risoluzione anticipata del primo grazie alla compensazione con il pagamento (upfront) che trova giustificazione nella conclusione del secondo swap. In questi casi infatti le parti estinguono il primo swap facendo così sorgere l'obbligazione di pagamento della perdita dallo stesso generata che contestualmente estinguono, facendo sorgere una nuova obbligazione in virtù di un nuovo titolo. È così che il nuovo swap assume una funzione che e necessariamente speculativa in quanta è diretto a ridurre e a differire nel tempo il concreto realizzarsi della perdita provocata dallo swap precedente». Analogamente altri tribunali, rilevando l'assenza della funzione della copertura di rischio hanno ritenuto che «la non rispondenza delle condizioni economiche contrattuali del contratto derivato interest rate swap alla funzione di copertura del rischio nella stesso enunciata ne comporta la nullità per difetto di causa (art. 1418, comma 2 c.c.), da intendersi quale sintesi degli interessi concretamente perseguiti dalla negoziazione ... (Trib. Monza 17 luglio 2012) e che «va dichiarata la nullità per assenza di causa concreta dell'operazione di investimento posta in essere attraverso la sottoscrizione di contratti di interest rate swap tra loro collegati e strutturati in modo tale da non soddisfare la richiesta di copertura dell'investitore e da porre il rischio esclusivamente a suo carico (Trib. Ravenna 8 luglio 2013). In ogni caso, è pacifico che, ai fini del riscontro della validità del contralto, non è sufficiente analizzare la funzione tipica e sociale del modello contrattuale prescelto che ha trovato riconoscimento in ambito finanziario attraverso il pagamento periodico di interessi calcolati can la somma di denaro per un periodo di tempo definito in condizioni che dovrebbero essere di parità (swap par — valore iniziale della swap nullo), ma è necessario valutare quale sia stata, in concreto, la causa del contralto ossia l'assetto degli interessi concretamente perseguiti dalle parti. Orbene, nel caso di specie, è stato già evidenziato come la rinegoziazione dei contratti derivati mediante la risoluzione anticipata della swap e la compensazione del saldo negativo con il pagamento (upfront) che trova giustificazione nella conclusione del successive swap, con un nozionale di riferimento superiore, assume una funzione che è necessariamente speculativa in quanta è diretta a ridurre o a differire nel tempo il concreto realizzarsi della perdita provocata dallo swap precedente essendo evidente che il terzo swap, come sostanzialmente il secondo, è stato costituito per recuperare la perdita del contratto precedente. È stato chiarito, inoltre, come Il funzionamento dello swap, nel caso di specie, non assicuri alcuna funzione di copertura del rischio ma, anzi lo amplifichi al variare dell'Euribor restringendo il range di utilità per il cliente e, di fatto, annullandolo. Al fine di riscontrare la sussistenza, nel caso di specie, di una causa concreta è necessario, incidentalmente, precisare così come rilevato da avvertita dottrina, che la banca, nel rapporto con il cliente, non «vende» ma agisce «nell'interesse» dello stesso, in forza di contralto di investimento. Siamo presenza, quindi di una «causa mandati» ed, infatti, la normativa di settore impone all'intermediario finanziario di agire secondo canoni di trasparenza nell'interesse del cliente (art. 21 TUF). In tale ottica, essendo stati stipulati, nel caso in esame, contratti di swap no par, con condizioni economiche non riconducibili alia funzione di copertura del rischio, appare evidente come, nella sostanza, l'alea connaturata al contralto di swap sia stata riversata di fatto, attraverso un elevato livello di sofisticazione e di complessità del prodotto derivato OTC, già illustrato, interamente sui cliente, assumendo II contralto, in concreto, finalità speculative estranee a quelle di copertura di rischi che avrebbero dovuto indirizzare il rapporto di mandato della banca con la clientela. Ne consegue il difetto genetico di strutturazione del prodotto finanziario sottoscritto dalla società attrice». Secondo altro indirizzo la causa dello swap, sia pure speculativo, va individuata nell'alea accettata dalle parti in relazione allo scambio di due rischi connessi, che, assunti dai due contraenti, derivano dalla vicendevole entità degli importi che matureranno a carico di ciascuno, e quindi dei differenziali che potranno risultare a carico o a favore di ciascuno (ciascuno assume il rischio che il proprio parametro vari in termini a sé sfavorevoli, e favorevoli alla controparte, che quindi risulti a suo carico il differenziale, e non a suo favore) (Trib. Milano 23 giugno 2014). Altra decisione (Trib. Roma 25 ottobre 2013) ha affermato che la natura aleatoria dei contratti di swap non è certamente di per sé incompatibile con l'esistenza e la liceità della loro causa anche quando hanno finalità speculative e non di copertura. Secondo la pronuncia, infatti, il contratto di swap è connaturato astrattamente da una finalità di copertura, salvo il caso in cui si verifichi una impossibilità circa il perseguimento in concreto dello scopo a causa degli esborsi sostenuti dall'investitore nella fase esecutiva del rapporto. Nella stessa prospettiva è stato detto che: «Concludere contratti derivati sempre più speculativi non incide sulla liceità della causa, considerando che i derivati sono contratti riconosciuti dall'ordinamento come tipicamente aleatori e che l'investitore ben potrebbe, quale alternativa alla rinegoziazione, interrompere il rapporto e saldare il debito» (App. Milano 3 marzo 2016). Sul tema è poi intervenuta la S.C., affermando che, nel valutare, ai sensi dell'art. 1322 c.c., la meritevolezza degli interessi perseguiti con un contratto derivato interest rate swap, il giudice non può prescindere dalle prescrizioni normative di cui all'art. 21 TUF e all'art. 26 Regolamento Consob n. 11522/98, nonché, per i contratti derivati con funzione di copertura, dalla verifica dell'effettivo rispetto delle condizioni stabilite dalla Consob con la Determinazione del 26 febbraio 1999 n. 99013791 (Cass. n. 19013/2017). Questo il ragionamento: «In effetti, la norma dell'art. 21 TUF viene unanimemente ritenuta imperativa e inderogabile [....]. Altrettanto indubitabile risulta, d'altro canto, l'estraneità della norma dell'art. 26 Reg. Consob n. 11522/1998 alla sottrazione di disciplina che la disposizione dell'art. 31, comma 1, dello stesso regolamento determina in relazione alla categoria degli «operatori qualificati». Il riscontro è testuale (in quanto l'art. 26 non è indicato fra le disposizioni del regolamento «non applicabili» al novero degli «investitori professionali») [....] Da quanto precede deriva che, nei confronti della fattispecie concreta qui in esame, trovano sicura applicazione — e quindi si manifestano rilevanti prima di tutto per lo svolgimento della valutazione di meritevolezza di cui alla norma dell'art. 1322 c.c. — tanto la norma guida dell'art. 21 TUF, quanto la norma regolamentare dell'art. 26, che di tale regola viene a manifestarsi come applicazione primaria e di base. Si tratta, come anche di recente la giurisprudenza di merito è venuta a sottolineare, di disposizioni fondamentali che vengono a trasfondere i principi di fondo della Direttiva n. 93/22 CE, tra le altre cose prescrivendo che gli intermediari si comportino «con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l'interesse dei clienti e l'integrità del mercato» (art. 21, comma 1, lett. a) e che l'intera loro operatività sia resa «coerente con i principi e le regole generali del Testo unico» sempre nel prevalente «interesse degli investitori e dell'integrità del mercato mobiliare» (art. 26, comma 1, lett. a) [....]. Nella pratica attuale, l'operatività in derivati in genere — e pure quella in derivati IRS in specie — si manifesta molto variegata, al di là della notazione (appena identificativa di una base comune, in fondo) che gli stessi si realizzano attraverso il meccanismo del differenziale. Diversità che vengono a toccare, tra le altre cose, l'oggetto del contratto derivato (parametri adottati per l'operare del meccanismo differenziale compresi), l'eventuale mercato di riferimento, la peculiare conformazione delle strutture, le specifiche funzionali. Sotto quest'ultimo profilo — che all'evidenza riveste un peso determinante — comunemente si distingue, così, tra derivati IRS di copertura e derivati IRS invece di speculazione (di grado più o meno accentuato, secondo una distinzione che scende a un ulteriore livello). In relazione a questa vasta articolazione operativa viene pure a specificarsi la clausola generale del necessario operare nell'interesse del cliente investitore, che appena sopra si è visto venire in rilevanza per la valutazione di meritevolezza degli interessi perseguiti, come imposta dalla norma dell'art. 1322 c.c. per le operazioni contrattuali che siano sprovviste di un'apposita disciplina negoziale di fonte legislativa (come appunto sono i derivati IRS) [....] I contratti IRS distintamente intercorsi tra le società ricorrenti e Banca ... hanno inteso perseguire una oggettiva funzione di copertura per l'interesse di tali società. Dato un simile riferimento, si deve allora rilevare che la Consob, nella sua Determinazione 26 febbraio 1999, DI/99013791, è andata appunto a indicare le caratteristiche che un'operazione in strumenti finanziari deve possedere per essere considerata «di copertura». Che sono state individuate nel concorso delle seguenti condizioni: — che le operazioni siano esplicitamente poste in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni detenute dal cliente; — che sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziare (scadenza, tasso d'interesse, tipologia, etc.) dell'oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine; — che siano adottate procedure e misure di controllo interno idonee ad assicurare che le condizioni di cui sopra ricorrano effettivamente. Ora, posto che la detta determinazione Consob si inquadra nell'ambito delle misure di attuazione del TUF e del Regolamento Consob, si deve ritenere che la necessaria cura dell'interesse oggettivo del cliente — che la normativa dei citati artt. 21 e 26 va a inserire nell'ambito della generale valutazione di meritevolezza degli interessi prescritta dall'art. 1322 c.c. — si traduca, in relazione alle operazioni in derivati IRS con funzioni ci copertura, nel rispetto delle sopra elencate condizioni. Con la conseguenza ulteriore che l'interesse oggettivo del cliente, come sussistente per il compimento di operazioni di effettiva copertura, non potrà ritenersi soddisfatto quando l'operazione in concreto intervenuta non rispetti realmente le condizioni sopra richiamate [....]. Secondo quanto emerge dalla sentenza emessa dalla corte territoriale, l'operazione IRS (contratto di partenza e contratto sostituivo) posta in essere dalla S. con Banca ..., e l'operazione IRS (contratto di partenza e contratto sostituivo) posta in essere dalla B. con la medesima, non appaiono perseguire effettivamente una funzione di copertura, non rispettando in particolare la seconda delle condizioni indicate dalla Determinazione Consob (della stretta correlazione occorrente tra lo strumento di copertura del rischio e il rischio da coprire). Le stesse infatti non risultano confrontarsi con singole e specifiche operazioni sottostanti, con copertura commisurata in modo puntuale sul rischio inerente a singoli debiti. Appaiono confrontarsi, bensì, con un indebitamento complessivo, come composto quindi da una serie articolata di debiti distinti, con decorrenza, scadenza e remunerazione diverse, che sarebbero stati contratti con una società appartenente allo stesso gruppo societario di I.S.P. [....]. Segue ai rilievi così svolti che la corte di appello di Milano, nello svolgimento del giudizio di meritevolezza concernente i contratti IRS, per cui è causa, non ha fatto corretta applicazione della norma dell'art. 1322 c.c.. Nello svolgimento di tale giudizio, la stessa non ha infatti tenuto conto né delle norme degli artt. 21 TUF e 26 Reg. Consob, n. 11522/1998, né delle specificative prescrizioni approntate dalla Determinazione Consob del 26 febbraio 1999 in relazione alle operazioni di copertura». Occorrerebbe, qui, un'approfondita analisi, incompatibile con i caratteri dell'opera. Si può soltanto accennare che la S.C. dà per scontata l'affermazione secondo cui tratto comune degli IRS è che «gli stessi si realizzano attraverso il meccanismo del differenziale», affermazione in realtà ampiamente discussa in dottrina e, soprattutto, sottolineare l'uso dirompente del giudizio di meritevolezza — vero vaso di Pandora che in altre occasioni la S.C. ha inconsapevolmente scoperchiato — utilizzato ad un fine non esplicitato ma ben chiaro, quello di far saltare la distinzione, invisa ad una parte della dottrina e della giurisprudenza, tra regole di comportamento e regole di validità, pur riconosciuta, come è noto, dalle Sezioni Unite. Altra ipotesi ricorrente di dichiarazione di nullità dell'interest rate swap è quella della mancata previsione della facoltà di recesso. In tema di contratto derivato denominato interest rate swap sottoscritto presso la sede del cliente investitore, la collocazione-stipulazione di uno swap rientra nel concetto di strumento finanziario al fine della previsione del diritto di recesso ex art. 30 TUF, il che si desume testualmente dall'art. 1, comma 2, dello stesso TUF, che definisce come strumenti finanziari anche i «contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, o ad altri strumenti derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti (Trib. Torino 26 settembre 2017). Egualmente Trib. Roma 13 aprile 2016, ha affermato che contratto di swap rientra nella categoria degli strumenti finanziari di cui alla lett. a) dell'art. 30, comma 1 del TUF, sicché, nell'ipotesi in cui il predetto contratto venga concluso presso la sede del cliente, lo stesso deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione della facoltà di recesso di cui ai commi 6 e 7 della citata disposizione normativa. Nello stesso senso: «L'eventuale nullità di un contratto di swap concluso fuori sede per mancanza dell'indicazione del diritto di recesso di cui all'art. 30 del TUF, travolge anche i successivi contratti di swap stipulati allo scopo di far fronte alle passività generate dai precedenti rapporti, dovendosi ritenere in tal caso sussistente un collegamento negoziale dovuto al nesso teleologico che lega i vari negozi ove la cessazione del precedente dipenda strettamente dalla stipula del successivo» (App. Trento 5 marzo 2009, in diritto bancario.it). Per converso, è valido il contratto di interest rate swap che non preveda la facoltà di recesso ex art. 30 TUF laddove il contratto si sia perfezionato per posta presso la sede della banca all'esito di una trattativa specifica (Trib. Torino 20 gennaio 2016, in dirittobancario.it). Da ultimo, le Sezioni Unite hanno affermato che i contratti derivati atipici sono validi, leciti e meritevoli di tutela solo in presenza, fin dalla loro stipula, di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market che degli scenari probabilistici e dei cd. costi occulti (Cass. S.U., n. 8770/2020). Osserva la pronuncia: «4.5. - Posto che l'interest rate swap è il contratto derivato che prevede l'impegno reciproco delle parti di pagare l'una all'altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo, gli elementi essenziali di un interest rate swap sono stati individuati, dalla stessa giurisprudenza di merito, ne: a) la data di stipulazione del contratto (trade date); b) il capitale di riferimento, detto nozionale (notional principal amount), che non viene scambiato tra le parti, e serve unicamente per il calcolo degli interessi; c) la data di inizio (effective date), dalla quale cominciano a maturare gli interessi (normalmente due giorni lavorativi dopo la trade date); d) la data di scadenza (maturity date o termination date) del contratto; e) le date di pagamento (payment dates), cioè quelle in cui sono scambiati i flussi di interessi; f) i diversi tassi di interesse (interest rate) da applicare al detto capitale. 4.6. - Va, peraltro, ancora precisato che se lo swap stipulato dalle parti è non par, con riferimento alle condizioni corrispettive iniziali, lo squilibrio così emergente esplicitamente dal negozio può essere riequilibrato con il pagamento, al momento della stipulazione, di una somma di denaro al soggetto che accetta le pattuizioni deteriori: questo importo è chiamato upfront (e i contratti non par che non prevedano la clausola di upfront hanno nel valore iniziale negativo dello strumento il costo dell'operazione: nella prassi, il compenso dell'intermediario per il servizio fornito). 4.7. - Invero, l'IRS può atteggiarsi ad operazione non par non solo in punto di partenza, ma può divenir tale anche con il tempo. In un dato momento lo squilibrio futuro (sopravvenuto) fra i flussi di cassa, che sia attualizzato al presente, può essere oggetto di nuove prognosi ed indurre le parti a sciogliere il contratto. Per compiere queste operazioni assume rilievo il cd. mark to market (MTM) o costo di sostituzione (meglio, il suo metodo di stima), ossia il costo al quale una parte può anticipatamente chiudere il contratto o un terzo estraneo all'operazione è disposto, alla data della valutazione, a subentrare nel derivato: così da divenire, in pratica, il valore corrente di mercato dello swap (il metodo de quo consiste, insomma, in una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima del conseguente debito/credito delle parti). 4.7.1. - Nei fatti, per MTM s'intende principalmente la stima del valore effettivo del contratto ad una certa data (anche se, in astratto, il mark to market non esprime un valore concreto ed attuale, ma una proiezione finanziaria). Il mark to market è, dunque, tecnicamente un valore e non un prezzo, una grandezza monetaria teorica calcolata per l'ipotesi di cessazione del contratto prima del termine naturale. Più precisamente è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale. 5. - In un tale quadro di illustrazioni del fenomeno che va sotto il nome di IRS è assai discussa la questione della causa dello swap. 5.1. - Una giurisprudenza, con l'appoggio di parte della dottrina, tende a vedere nello swap la causa della scommessa. Ma è difficile accogliere l'idea che un'operazione di interest rate swap, destinata a regolare una pluralità di rapporti per molti anni, muovendo ingentissimi capitali su importanti mercati internazionali, sia da considerare come una qualsiasi lotteria, apparendo palese come lo swap abbia ben poco in comune con lo schema della scommessa di cui agli artt. da 1933 a 1935 c.c., della natura contrattuale della quale vi è pure stata discussione in dottrina. 5.2. - Ciò che distingue l'IRS dalla comune scommessa è proprio la complessità della vicenda e la professionalità dei soggetti coinvolti, sicché l'impostazione più attenta rinviene la causa dell'IRS nella negoziazione e nella monetizzazione di un rischio, atteso che quello strumento contrattuale: - si forma nel mercato finanziario, con regole sue proprie; di frequente consuetudinarie e tipiche della comunità degli investitori; riguarda un rischio finanziario che può essere delle parti, ma può pure non appartenere loro; - concerne dei differenziali calcolati su dei flussi di denaro destinati a formarsi durante un lasso temporale più o meno lungo; - è espressione di una logica probabilistica, non avendo ad oggetto un'entità specificamente ed esattamente determinata; - è il risultato di una tradizione giuridica diversa dalla nostra. 5.3. - A fini puramente descrittivi e semplificativi, si potrebbe dire che l'IRS consiste in una sorta di scommessa finanziaria differenziale (in quest'ultimo aggettivo essendo presente un riferimento alla determinazione solo probabilistica dei suoi effetti ed alla durata nel tempo del rapporto). 6. - Sicché si pone con immediatezza un primo problema, riguardante la validità dello strumento contrattuale che abbia al suo interno questo particolare atteggiarsi della causa dello swap. 6.1. - In particolare, ci si pone il problema - che è preliminare ad ogni altro pure sollevato dalla sezione semplice - se tali tipi di contratti perseguano interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c. e siano muniti di una valida causa in concreto. 6.2. - Infatti, appare necessario verificare - ai fini della liceità dei contratti - se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell'alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perché il legislatore autorizza questo genere di "scommesse razionali" sul presupposto dell'utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità. E tale accordo non deve limitarsi al mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poiché il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell'alea. Esso dovrebbe concernere la misura qualitativa e quantitativa dell'alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti. 6.3. - Sotto tale ultimo profilo, va rilevato che le obbligazioni pecuniarie nascenti dal derivato non sono mere obbligazioni omogenee di dare somme di denaro fungibile, perché in relazione alla loro quantificazione va data la giusta rilevanza ai parametri di calcolo delle stesse, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse (nell'IRS) e di cambio nel tempo. Sicchè l'importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l'effetto di una molteplicità di variabili. 6.4. - A tale proposito, va richiamato l'art. 23, comma 5, del TUF, il quale dispone che "Nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell'art. 18, comma 5, lett. a), non si applica l'art. 1933 c.c.". Ma tale previsione non intende autorizzare sic et simpliciter una scommessa, ma delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario. In questo modo, è disegnato un modello, ponendosi al massimo ancora il problema se tutti i derivati rispondano ad un unico tipo o se la distinzione tra tali tipi riguardi le classi di derivati o i singoli swaps. 6.5. - Infatti, l'intermediario finanziario è un mandatario dell'investitore, tenuto a fornire raccomandazioni personalizzate al suo assistito; sicché ove l'intermediario, nella prestazione del servizio, compia l'operazione quando doveva astenersi o senza il consenso dell'investitore, gli atti compiuti non possono avere efficacia, a prescindere dal fatto che la condotta dell'agente sia qualificata in termini di inadempimento o di nullità, con conseguente risarcimento del danno. 6.6. - In tale quadro di corretto adempimento dell'attività d'intermediazione occorre rilevare anche la deduzione dei cd. costi impliciti, riconducendosi ad essi lo squilibrio iniziale dell'alea, misurato in termini probabilistici. 6.6.1. - Assume rilievo, perciò, la questione del conflitto di interessi fra intermediario e cliente, poiché nei derivati OTC, a differenza che in quelli uniformi, tale conflitto è naturale, discendendo dall'assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente. Va escluso il rilievo, ai fini della individuazione della causa tipica, delle funzioni, di speculazione o di copertura, dei derivati OTC perseguite dalle parti, anche se dà ad esse peso, ad esempio, per il giudizio di conformità all'interesse ex art. 21 TUF e per quello di adeguatezza ed appropriatezza. 6.7. - Appare perciò utile considerare gli swap come negozi a causa variabile, perché suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti; così che la funzione che l'affare persegue va individuata esaminando il caso concreto e che, perciò, in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile)». Domestic currency swapIl contratto di DCS trova origine nella necessità di superare le limitazioni poste dalla legislazione valutaria italiana ai sensi dell'art. 6, comma 2 lett. c), d.P.R. n. 1481/1988, in forza della quale era vietato ai residenti effettuare con contropartite estere operazioni in cambi a termine o con opzione. Con il DCS, infatti, le parti si obbligano a pagare l'una all'altra, ad un dato termine, una somma di denaro in valuta nazionale pari alla differenza tra il valore in lire di una somma in valuta estera al tempo della conclusione del contratto ed il valore in lire della stessa somma di valuta estera in un momento successivo contrattualmente stabilito (Caputo Nassetti, op. cit., 210). La conseguenza di tale struttura era il fatto dunque che anziché stipulare una compravendita a termine di divise, dalla legge vietata, le parti si scambiavano una somma in lire calcolato sul valore della divisa estera. Va detto tuttavia, che, sebbene il regime di monopolio dei cambi è restato in vigore solo fino al 1990, la nuova figura contrattuale ha continuato ad essere utilizzata. È opinione comune e condivisa della dottrina che il contratto di DCS condivida con gli altri swap, in particolare l'IRS, solamente il nome, in ragione della sostanziale differenza strutturale. Se, infatti, l'IRS prevede lo scambio di pagamenti, il DCS ha come unico oggetto il pagamento del differenziale tra il valore alla stipula e il valore a termine della divisa calcolata in lire (o comunque in qualsiasi altra divisa). Come si è detto, è opinione maggioritaria che, infatti, nell'IRS il pagamento dei differenziali non sia elemento costituivo della fattispecie, ed anzi, sia una conseguenza dell'applicazione della disciplina della compensazione legale. La presenza di un unico pagamento nel DCS, inoltre, è l'elemento che distingue tale figura contrattuale da quelle del contratto di pronti contro termine o del riporto su divise, che presentano sempre un duplice scambio di valute. La S.C. ha avuto modo di esprimersi sulla nozione di DCS, quando ha affermato che «nel concetto di valore mobiliare ai fini dell'assoggettamento alla ... legge n. 1 del 1991 rientra ... anche il domestic currency swap, inteso come contratto aleatorio, con il quale due parti si obbligano, l'una all'altra, a corrispondere alla scadenza di un termine, convenzionalmente stabilito, una somma di denaro (in valuta nazionale) quale differenza tra il valore (espresso in valuta nazionale) di una somma di valuta estera al tempo della conclusione del contratto e il valore della medesima valuta estera al momento della scadenza del termine stabilito. Detto contratto, pertanto, è da distinguere rispetto alle operazioni di compravendita a pronti o a termine aventi direttamente ad oggetto valute» (Cass. n. 10598/2005). In relazione alla natura del contratto di DCS sono state sostenute dalla dottrina numerose opinioni. Da una parte c'è chi ha affermato la sostanziale assimilabilità della fattispecie al contratto differenziale in ragione dell'oggetto del contratto, rinvenibile nella sola differenza tra i due valori (Rossi, Profili giuridici del mercato degli swaps di interessi e di divise in Italia, in Banca, borsa, tit. cred., 1993, 614). Altri invece, pur riconoscendone l'aleatorietà ed il rilevo centrale che ha il differenziale nella liquidazione della prestazione unica dovuta, ritengono che il contratto sia connotato dalla funzione di gestione dei rischi connessi alle variazioni dei rapporti di cambio, il che renderebbe la causa pienamente meritevole, essendo peraltro escluso della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Ulteriormente, si afferma che «il complessivo disporsi degli oneri, dei sacrifici e dei vantaggi su entrambe le parti ascrive il contratto di swap tra i contratti contrassegnati dalla bilateralità dell'alea» (Inzitari, Swap (Contratto di), 682). Opinione simile ha la dottrina che ritiene che la causa del DCS sia l'attribuzione dei vantaggi e svantaggi patrimoniali in capo alle parti nella copertura del rischio valutario, dal che deriverebbe la aleatorietà ed atipicità del contratto, pur tuttavia non annullando sul piano giuridico la struttura di contratto di compravendita (Cavallo Borgia, Le operazioni su rischio di cambio, in Galgano, I contratti del commercio, dell'industria e del mercato finanziario, Torino, 1995, 2422). Ulteriori espressioni della funzione tipica del contratto sono rinvenute da chi, ritenendo che la fattispecie rientri nella nozione di contratto differenziale, afferma che la causa della stessa consisterebbe nella funzione di sostituire l'investimento in mercati secondari, all'epoca, come detto, vietato dalla normativa valutaria (Preite, Contratti differenziali, cit., 35). Del medesimo ordine di idee di definire il contratto come aleatorio è la dottrina che assimila il DCS alla permuta a termine di valute o alla compravendita a termine delle stesse (Ferrarini, I derivati finanziari, cit., 33). Dall'altra parte, invece, è la dottrina che nega l'aleatorietà del contratto, a partire dall'affermazione per cui l'esecuzione del contratto attraverso il pagamento del differenziale in capo ad una parte non incida sulla sua qualificazione di compravendita, di tal che si dovrebbe negare l'assimilabilità della figura al contratto differenziale. In tal senso emergerebbe la natura commutativa dello stesso, e dunque l'esclusione dell'applicazione del 1933 c.c., e la non sottoposizione alla disciplina della risoluzione per onerosità sopravvenuta (Chiomenti, Cambi di divise a termine, in Riv. dir. comm. 1987, I, 47). Ulteriore dottrina, infine, trova la ragione per cui il DCS è sopravvissuto dopo l'eliminazione delle restrizioni valutarie nella volontà di ridurre i rischi finanziari derivanti dalla consegna impliciti nella compravendita di divise ed, inoltre, di ridurre i costi del regolamento delle prestazioni con pieno scambio, di modo che l'obbligazione di pagare il solo differenziale assurge necessariamente ad elemento strutturale del contratto al fine stesso di realizzarla (Caputo Nassetti, op. cit., 221). Con ciò dunque, si critica anche la riconduzione della fattispecie alla compravendita, poiché, se le parti hanno inteso limitare i rischi derivanti dalla consegna del bene scambiato essi non hanno escluso del tutto lo scambio del bene contro prezzo. In ogni caso, si esclude l'applicabilità dell'eccezione di gioco, sia che si affermi la natura commutativa, e dunque alla riconducibilità allo schema della compravendita, sia che si affermi quella aleatoria, da una parte in ragione della non applicabilità del rimedio ai contratti commutativi e dall'atra per via della funzione sociale apprezzabile del contratto in questione di copertura nel mercato dei cambi e di riduzione dei rischi. La prima giurisprudenza che si è espressa sul tema ha inizialmente assimilato il DCS al gioco, allorché sia provato l'intento meramente speculativo di almeno una parte, e anche se l'altra è un istituto di credito o una Sim (Trib. Milano 24 novembre 1993, in Giur. comm., 1994, II, 455; in Banca borsa tit. cred., 1995, II, 80). Poco dopo è stato ribadito il medesimo principio secondo cui il contratto di domestic currency swap stipulato con finalità di mera speculazione è soggetto all'eccezione di gioco prevista dall'art. 1933, comma 1 c.c. (Trib. Milano 26 maggio 1994, in Giur. it. 1996, I, 2, 50). Tale opinione è stata sottoposta a critica in ragione del fatto che incentra l'analisi della causa sui motivi soggettivi che spingono le parti a negoziare, oltre a discriminare, pretestuosamente, il fine di speculazione, pur non essendo questo illecito o contrario ad alcuna norma imperativa. Successivamente, sempre in relazione a domestic currency swaps, sono stati pronunciati due lodi arbitrali i quali hanno negato negano, invece, qualsiasi assimilabilità a gioco e alla scommessa dello swap concluso pur a fini speculativi. Nel primo lodo (Coll. Arbitrale 26 marzo 1996, in Banca, borsa, tit. cred. 1996, II, 669) si sostiene la liceità dell'intento speculativo, da una parte in ragione del fatto che la legge non pone alcun limite di validità ai contratti di swap, dall'altra parte in quanto, tale contratto, in ragione della previsione legislativa, quando è concluso da un intermediario professionale e la sua controparte, non può essere assimilato al gioco e alla scommessa. In tal senso, il contratti di DCS è perfettamente legittimo in sé anche quando non sia collegato con una operazione commerciale con l'estero. Il secondo (Coll. Arbitrale 19 luglio 1996, in Riv. dir. priv., 1997, 559) afferma l'irrilevanza dell'intento speculativo sulla «differenza incolmabile» tra domestic currency swap e gioco, differenza che si fonda sulla natura dello swap. Questo, infatti, «come tutti i contratti per definizione corrispettivi e differenziali, è anch'esso produttivo di nuova ricchezza e perciò estraneo al giuoco e alla scommessa che si limitano a trasferire da un contraente all'altro una ricchezza già esistente, con un'alea esterna e incontrollabile e, cioè, con un rischio non connesso ad alcuna valutazione di convenienza. Infatti lo swap è uno strumento contrattuale economicamente e socialmente utile; è radicato nel modello della compravendita». Il richiamo al modello della compravendita, dunque, come si è visto in una certa dottrina, vale ad escludere la tendenza ad accostare la fattispecie alla scommessa. In quanto alla funzione, essa consisterebbe nella creazione di nuova ricchezza in ragione che il rischio economico è assunto in relazione a criteri di convenienza. Nello stesso senso comincia poi a dirigersi opinione della giurisprudenza di merito, la quale, definendo il DCS come «l'accordo con cui due parti si obbligano reciprocamente a corrispondere, alla scadenza di un termine prefissato, una somma di denaro in moneta nazionale di ammontare pari alla differenza tra a) il valore in lire di una somma di valuta estera, al tempo della conclusione del contratto e b) il valore in lire della stessa somma di valuta estera, ad una scadenza predeterminata», afferma che esso «non ha natura di gioco o di scommessa, con conseguente inapplicabilità della disciplina per gli stessi previsti, e ciò anche quando lo stesso rivesta finalità meramente speculativa o comunque prescinda dalla sussistenza di un collegamento tra l'operazione finanziaria ed un rapporto sottostante» (Trib. Milano 20 febbraio 1997, in Banca, borsa, tit. cred. 2000, II, 82). Nello stesso senso, traendo spunto dall'esercizio dell'attività da parte di un intermediario, si è sostenuto che «il contratto di domestic currency swap, se concluso tra una banca o una società di intermediazione e altro soggetto che persegue anche fini meramente speculativi, non può essere assimilato al gioco o alla scommessa» (App. Milano 26 gennaio 1999, in Contratti, 2000, 255). Con ciò, è sostenuta l'irrilevanza del motivo di mera speculazione del cliente, in ragione del fatto che all'intermediario è ragionevole che rimanga nascosta la finalità di pura speculazione da parte del cliente proprio in ragione della istituzionale funzione del contratto alla protezione di rischi di mercato. Tuttavia, la medesima opinione fonda la pretesa di distinguere il caso in cui l'intermediario conosca la funzione di speculazione che il cliente intende affidare al contratto e lo elevi anche a proprio motivo: stipuli cioè la stessa impresa d'investimento un contratto speculativo. In questo caso, afferma la pronuncia da ultimo citata, il contratto dovrebbe essere associato al gioco e alla scommessa. Particolare è poi l'arresto giurisprudenziale che ha ricondotto, per identità di funzione, al DCS, tramite la figura del negozio indiretto, la compravendita a termine di valuta, che abbia ad oggetto immediato il pagamento del differenziale fra il prezzo pattuito all'epoca della stipulazione e quello corrente sul mercato al momento della consegna qualora risulti diretta al conseguimento di finalità speculative. Nel caso di specie, infatti, il cliente stipulava singole operazioni di compravendita di divise estere ad un prezzo prestabilito, ottenendo al termine la consegna delle valute e la contabilizzazione di un utile o di una perdita pari al differenziale tra tasso di cambio iniziale e alla scadenza, potendo il cliente rinnovare il contratto, liquidando la differenza ed assumendo come nuovo tasso di cambio iniziale quello attuale al momento della rinegoziazione. Parimenti, una seconda pronuncia che ha nello stesso modo inquadrato il caso di operazioni di compravendita di valute, mai portate a termine alla data di scadenza, ma sempre chiuse con operazioni speculari di segno opposto, il cui regolamento si concretizzi con l'addebito accredito dei flussi in valuta appoggiati su una coppia di conti correnti, di cui uno in lire e uno in valuta, che mantengano un saldo perfettamente nullo nel periodo di interesse, sì da avere un ruolo di transito fittizio. Ove sin dall'inizio sia mancato lo scambio della res (valuta), ci si trova, si afferma, di fronte ad una fattispecie sostanzialmente unitaria ed assimilabile al contratto di swap, non tanto nella struttura formale, ma attraverso la finalità perseguita, ove i trasferimenti di capitale sono poste puramente formali rispetto all'ordine di compravendita, in cui, in sostanza, il pagamento delle differenze costituisce l'oggetto immediato e unico del contratto stipulato inter partes, sia all'atto della stipulazione del contratto sia alla scadenza (Trib. Milano 27 marzo 2000, in Contr., 2000, 777). Del domestic currency swap è tornato ad occuparsi App. Milano 16 aprile 2005, affermando che con tale contratto due parti, per contrastare di norma un rischio di cambio (o per realizzare un'operazione speculativa sui cambi), fissato un capitale di riferimento denominato in una certa valuta x, ed un tasso di cambio tra questa valuta ed un'altra valuta y, relativamente ad una prefissata data di scadenza del contratto (fissazione di un tasso di cambio a termine), si impegnano a scambiarsi, alla pattuita scadenza, la differenza tra il valore del capitale di riferimento espresso nella valuta y al tasso di cambio x per ogni unità di valuta y prefissato contrattualmente ed il valore del medesimo capitale espresso nella valuta y al tasso di cambio x per ogni unità di valuta y rilevato sul mercato alla data di scadenza del contratto (nella versione domestic realizzandosi il regolamento del differenziale solo con la movimentazione di conti in valuta interna e non anche di un conto corrente in valuta estera). Per Trib. Bologna 29 novembre 2018, il domestic currency swap è un contratto aleatorio, con il quale due parti si obbligano, l'una all'altra, a corrispondere alla scadenza di un termine, convenzionalmente stabilite, una somma di denaro in valuta nazionale quale differenza tra il valore (espresso in valuta nazionale) di una somma di valuta estera al tempo della conclusione del contratto e il valore della medesima valuta estera al momento della scadenza del termine stabilito. Contratto differenzialeIl legislatore ha stabilito che, nell'ampia categoria degli strumenti finanziari derivati, ovvero di quelle operazioni il cui valore dipende da un sottostante, rientrano, oltre a future, swap e option, anche i contratti differenziali (siano essi semplici o complessi, di natura commutativa o aleatoria) (Indolfi, op. cit., 94). A differenza delle altre fattispecie sopra citate, tuttavia, il contratto finanziario differenziale trova un'elaborazione ed analisi dottrinale ben più antica, potendosi rinvenire nello stesso sviluppo dei mercati finanziari l'esecuzione di operazioni a termine con la funzione di allocare i rischi inerenti all'oscillazione di valore sia di merci che di titoli. Complessa è tuttavia la questione che attiene al rapporto tra le due figure, ed in particolare, la sovrapponibilità di alcune fattispecie di «derivati in senso stretto» (si pensi ad esempio a quanto si è detto in materia di domestic currency swap) e quelle dei contratti differenziali. Al pari dell'espressione «derivato», inoltre, infatti, il «contratto differenziale» ha a riferimento differenti fattispecie tra loro eterogenee, delle quali è necessario dare conto per tentare di formulare una definizione unitaria. Si usa innanzitutto distinguere tra «affari differenziali semplici» ed «affari differenziali complessi». Si ha un'operazione differenziale semplice quando le parti convengono, con una sola manifestazione di volontà al momento della stipulazione, di liquidare le reciproche obbligazioni con il pagamento delle differenze (Ferrero, Il contratto differenziale, in Contr. e impr. 1992, 483). In tal senso, elemento fondamentale nella struttura della fattispecie è il compimento di un unico atto negoziale tra le parti. Differentemente, l'affare differenziale complesso è quello effettuato mediante la stipula di due contratti a termine successivi di senso inverso, di modo che chi risulti essere compratore a termine in un negozio, risulta essere venditore nell'altro. Esso si distingue in affare differenziale proprio ed improprio, a seconda che i due atti negoziali siano posti in essere con lo stesso contraente (affare differenziale proprio) o con diversi contraenti (affare differenziale improprio) (Messineo, Gli affari differenziali impropri, in Riv. dir. comm., 1930, II, 677). Quanto al contratto differenziale semplice, in dottrina è stata messa in evidenza la necessità di distinguere la fattispecie dalla compravendita, in cui l'intento speculativo rimanga fra i motivi, e che dunque non contenga la previsione espressa relativa alla liquidazione differenziale, o dalla quale non risulti tacitamente l'intenzione di speculare sulle differenze (Corrado, I contratti di borsa, in Tr. Vas., Torino, 1960, 86). Parte della dottrina ha espresso dubbi sulla stessa esistenza pratica di contratti di tal tipo, in ragione della pretesa assurdità degli stessi «perché colui che ha venduto oggi un dato titolo ad un dato prezzo per fine mese e lo vedesse scendere qualche giorno dopo di qualche punto, si verrebbe a togliere il beneficio di ricomprarlo al prezzo minore per consegnarlo a scadenza, mentre colui che ha comprato il titolo medesimo e lo vedesse salire prima della scadenza si priverebbe del beneficio di rivenderlo a codesto prezzo più elevato raggiunto prima della scadenza» (Vassalli, La pretesa nullità dei contratti differenziali e i contratti differenziali su divise, in La Corte di Cassazione, 1925, 15). Com'è stato tuttavia affermato, «il contratto differenziale semplice è quello che, in particolare, risulta per struttura più facilmente accostabile alle operazioni sui derivati, trattandosi in sostanza di un contratto che può essere eseguito per differenze» (Indolfi, op. cit., 94), ed, in particolare, accostabile al DCS (Caputo Nassetti, op. cit., 211). In relazione alla struttura della fattispecie la dottrina si è divisa tra due tradizionali posizioni opposte, riconducibili a due capiscuola. Da una parte si sosteneva la teoria per cui esisterebbe una profonda differenza tra le compravendite a termine, volte a produrre uno scambio di beni, e i contratti differenziali, i quali specularmente escludono ogni tipo di consegna dei beni sottostanti e devono esaurirsi nel pagamento del differenziale tra valore pattuito e valore alla scadenza. Ciò poiché «le compere e le vendite di titoli che non prenderanno mai realtà e le compere e vendite effettive sono due contratti essenzialmente diversi, perché nella compravendita effettiva il legislatore porge al compratore tutte le azioni necessarie per assicurargli il pacifico possesso ed il godimento delle cose vendute, colle azioni di garanzia per evizione e per vizi redibitori, colle azioni dirette alla tradizione della merce o all'integrale pagamento del prezzo, mentre nelle operazioni differenziali nessuna di queste norme giuridiche trova plausibile applicazione, che ha solo per effetto, come nel gioco, la soluti retentio» (Vivante, Il commercio fittizio di cambi, in Riv. dir. comm. 1927, I, 287). Dall'altra parte, invece era l'opinione per cui le operazioni differenziali semplici sarebbero sostanzialmente l'unione di più vere e proprie compravendite, da cui la necessità di degradare le finalità speculative al rango di motivi del contratto, e dunque irrilevanti, di modo da poter dunque sostenere la mancata sottoposizione alla disciplina dell'eccezione di gioco. Sostanzialmente cioè, negando la stessa distinzione tra differenziali semplici e complessi, è stato sostenuto che «ciò che si chiama speculazione differenziale (...), non è mai un'operazione unica, un negozio giuridico che si conclude fra due persone per far dipendere da un evento futuro ed incerto (corso dei titoli o dei cambi) il pagamento di una somma dall'una all'altra. Un tal negozio giuridico sarebbe un giuoco o una scommessa di una specie mai vista, perché la posta ne sarebbe indeterminata» (Salandra, Il commercio fittizio dei cambi, Riv. dir. comm. 1928, I, 102). Altri, invece, sostenevano la tesi, invero simile a quella accolta dalla maggioranza degli autori odierni per il DCS, che il contratto differenziale non consistesse in una doppia compravendita a termine ma presentasse piuttosto un carattere assolutamente unitario, dunque distinguendosi così dalle operazioni complesse, e, tuttavia, ne escludevano la soggezione all'eccezione di gioco (Rodondi, Contratti a termine e differenziali sui cambi, in Riv. dir. comm., 1925, II, 195). Il dibattito sulla assimilabilità della fattispecie al gioco o alla scommessa traeva origine dalla previsione relativa al Differenzgeschäft nel § 764 del BGB per cui «se un contratto avente per oggetto la fornitura di merci o di titoli è conchiuso nell'intendimento che la differenza tra il prezzo concordato e il prezzo di borsa o di mercato all'epoca della consegna venga pagato dalla parte perdente alla parte vincente, il contratto è da considerarsi come giuoco. Ciò vale anche nel caso che l'intenzione di una delle parti sia diretta al pagamento della differenza e che l'altra parte conosca o debba conoscere codesta intenzione». Differentemente, per ciò che attiene agli affari differenziali complessi, la dottrina quasi unanime afferma che la struttura non consista in un contratto unitario, bensì in una pluralità di contratti di compravendita di senso inverso, i quali, pur collegati, mantengono la propria autonomia giuridica e cronologica (Bianchi d'Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, in Tr. C.M., Milano, 1969, 395). Isolata è invece l'opinione di chi afferma che, pur riconoscendo come evidente che l'affare differenziale improprio corrisponde, per ogni operazione ad un contratto di compravendita autonomo, «in presenza della circostanza per cui alle due fasi dell'affare differenziale partecipano i medesimi soggetti e non vi è luogo per consegna di cose e pagamento di prezzi, cadono le ragioni, che abbiamo invece dimostrate validissime ai fini di negare l'esistenza dell'affare differenziale improprio — come entità giuridica. In special modo, poi, quell'elemento «causa», che invano abbiamo cercato nell'affare differenziale improprio, potrebbe, invece presentarsi ora come qualcosa di complesso, bensì, ma certo come definibile ed omogeneo, e caratterizzare una figura di contratto innominato» (Messineo, Gli affari differenziali impropri, cit., 689). Appaiono tuttavia a questo punto necessarie una serie di precisazioni. Come è stato affermato, il problema della validità delle operazioni differenziali è ormai problema che ha solo una importanza storica (Corrado, op. cit., 100). Già infatti «nello stesso sistema tedesco si deve anche osservare che una rilevante deroga viene stabilita dal § 50 e seguenti della Borsengesetz del 27 maggio 1908, la quale, nel disciplinare le operazioni di borsa e a termine, al § 58 espressamente esclude, almeno per quelle operazioni a termine che, secondo quanto prescritto dal § 50 della stessa legge, sono state espressamente autorizzate dagli organi di borsa, la possibilità di far valere la Differenzgeschaft, cioè l'eccezione di gioco applicata al differenziale» (Inzitari, Il contratto di swap, cit., 2466). In Italia, ancora prima, la legge 13 settembre 1876, n. 3326, agli artt. 2 e 4 disponeva che per i contratti di borsa, purché stipulati nelle forme previste dalla legge, era concessa l'azione in giudizio anche quando avessero per oggetto il solo pagamento delle differenze (Caputo Nassetti, op. cit., 94). Come si è già visto in precedenza, la disposizione, pur con una serie di adeguamenti, è stata trasfusa nell'art. 23 del TUF, che per tutti i contratti derivati esclude l'ammissibilità dell'eccezione di gioco. FuturesIntendiamo per future, almeno in prima approssimazione, e salvo quanto tra breve si dirà, uno strumento mediante il quale le parti si impegnano ad acquistare o vendere, ad una data futura, una certa quantità di attività chiamata sottostante (o, in inglese, underlying asset). Essi appartengono perciò alla categoria degli strumenti derivati. Si è già detto che secondo il TUF sono strumenti derivati i contratti future su «valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie», per i quali è indipendente se essi debbano essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti. Per essi, cioè, la componente di «finanziarietà» deriva dal sottostante, ed è irrilevante che possano essere adempiuti anche con la consegna fisica del bene. Sono altresì derivati i contratti future su merci, «quando l'esecuzione deve avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in contanti a discrezione di una delle parti», o quelli che, pur regolati con consegna fisica, sono «negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione». Per questa categoria, la «finanziarietà» del contratto nasce da fatto che, pur potendo dare luogo alla consegna fisica del sottostante, ed atteggiandosi così interamente come compravendite, con la causa tipica di scambiare una cosa contro un prezzo, essi sono negoziati sul mercato. Sono poi futures i contratti su merci, «che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati». Questa è da considerare come categoria residuale e indeterminata, per cui tali contratti sono derivati in quanto, pur avendo ad oggetto merci, non hanno uno scopo commerciale e sono in qualche modo assimilabili ad altri strumenti finanziari derivati. Infine, sono strumenti finanziari derivati i contratti future con oggetto «variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali, quando l'esecuzione avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti». Qui, come visto precedentemente, la «finanziarietà» viene dalla modalità di esecuzione del contratto, che avviene attraverso il pagamento del differenziale, o per natura del contratto, o per scelta di una delle parti (Barcellona, Strumenti finanziari derivati, cit., 36). È opinione generale della dottrina che, in tal senso, non possa essere data una nozione giuridica unitaria del contratto future, essendo necessario indagare, per ogni tipo contrattuale, la struttura negoziale, la cause e la natura giuridica (Caputo Nassetti, op. cit., 292). È evidente che non è infatti possibile rinvenire una struttura unitaria, se si considerano le prestazioni dovute in relazione ai differenti sottostanti sopra elencati. Se, infatti, si sostiene che «la generalità dei financial futures su titoli o divise non sono contratti differenziali, ed il loro inquadramento nella compravendita a termine non dovrebbe apparire dubbio» (op. cit., 289), per cui la struttura negoziale non prevede che l'oggetto naturale del contratto sia il differenziale, non può dirsi la medesima cosa per i financial futures su indici, dei quali è chiaramente inimmaginabile definire come «cosa» oggetto di consegna l'indice finanziario, e per i quali l'unico modo di esecuzione pare essere quello della liquidazione in contanti (Ferrarini, op. cit., 28). In questo senso, è affermato che il future su indici sembrerebbe trattarsi in definitiva di un contratto differenziale semplice (Caputo Nassetti, op. cit., 291). D'altra parte, tuttavia, la stessa definizione contenuta nel TUF per i derivati su merci assimila nella definizione di strumenti finanziari sia contratti che prevedono la consegna fisica della res, sia contratti differenziali, sia contratti per i quali la liquidazione in contanti può esser disposta a discrezione di una parte. In quest'ultimo caso la dottrina ha richiamato, in relazione a quale che sia il risultato dell'interpretazione delle clausole contrattuali, sia il concetto dell'obbligazione alternativa, per cui il contratto ha due oggetti (consegna fisica o pagamento del differenziale), e il debitore può liberarsi adempiendo una delle due prestazioni, sia il concetto dell'obbligazione facoltativa, per cui il contratto ha un'unica prestazione obbligatoria, ma il debitore ha la facoltà di liberarsi effettuando una prestazione differente (il pagamento in contanti del differenziale) (op. cit., 290). Se dunque è impossibile rinvenire una struttura ed un oggetto contrattuale unitari, e chiaramente neanche una causa unitaria, per il fatto che la funzione di procacciarsi effettivamente la cosa nel caso di future su merci con consegna del bene è evidentemente diversa dalla funzione di assunzione di un rischio nel caso di future con liquidazione del solo differenziale, e dunque non appare possibile rinvenire una nozione tipologica ben definita, è tuttavia ammissibile riconoscere come la matrice unica del future sia la compravendita a termine. Come messo in evidenza, però, dalla normale compravendita a termine i futures si distinguono per il fatto che essi sono conclusi in borsa, e dunque altamente standardizzati, liquidati normalmente attraverso stanza di compensazione e garantiti dalla borsa e dal versamento di margini (op. cit., 287), e cioè, sostanzialmente, non si distinguono in ragione di profili tipologici, ma del contesto nel quale tali contratti sono stipulati. Per ciò che attiene alla qualifica dei contratti come aleatori o commutativi, si ripropone la medesima frattura tra contratti che prevedono l'effettivo scambio dei beni sottostanti, dei quali si ritiene generalmente la natura commutativa, e contratti che hanno come elemento fondamentale il pagamento del differenziale, dei quali è stata affermata la natura aleatoria (Valle, Contratti futures, in Contr. e impr., 1996, 346). OpzioniAl pari dei futures, le opzioni finanziarie sono strumenti finanziari quando rientrano nella nozione fissata dal TUF, all'art. 1, comma 2. In particolare, così come per i futures, inoltre, il legislatore ha inteso rinvenire, perché tali contratti siano sottoposti alla disciplina in materia di prestazione di investimento, come dato comune un elemento di «finanziarietà» nei contratti medesimi. Possono dunque applicarsi anche alle opzioni le considerazioni già fatte per i futures, in relazione a che abbiano come sottostante «valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie» piuttosto che «merci», o «variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali». Ciò in cui detti contratti si distinguono dai future, e perciò meritano di essere analizzati, è nel fatto che se questi hanno la propria matrice nella compravendita a termine, le opzioni hanno una struttura complessa che solo in parte può ricordare elementi di questa. È innanzitutto possibile generalizzare affermando che l'opzione è il contratto con il quale un soggetto consegue il diritto (ma non l'obbligo) di acquistare (call) o vendere (put) un sottostante a un prezzo dato (prezzo di esercizio o strike price), entro una data futura o a date prefissate entro la data di esercizio. Il contratto di opzione ha dunque la funzione pratica di permettere al buyer, dietro pagamento di un premio, di ottenere flussi di cassa dall'eventuale variazione di prezzi di valori finanziari, merci, etc., ed, in tal senso, al pari degli altri strumenti finanziari, le opzioni possono essere utilizzate per coprire una precedente esposizione ad un rischio, o per speculare su movimentazioni dei prezzi di mercato attraverso la percezione del differenziale di valore tra strike price e valore attuale alla data prestabilita, o, se è prevista la consegna fisica del sottostante, attraverso la contestuale operazione inversa sul mercato (es. l'acquirente di un'opzione call che preveda la consegna del bene potrà immediatamente rivendere il sottostante e monetizzare il differenziale). Nella prassi si sono sviluppati plurimi «sottotipi» contrattuali delle opzioni, dei quali è bene mettere in luce la struttura. In particolare, facendo riferimento ai contratti che possono essere liquidati per differenze, si possono identificare cap, floor, corridor e collar. Il cap è l'opzione call con cui una parte (il venditore) a fronte dell'incasso immediato di un premio assume l`obbligo di corrispondere alla controparte (l'acquirente), alla fine di ciascun periodo di riferimento, una somma pari al differenziale positivo tra un parametro variabile (ad esempio un tasso variabile) ed uno fisso concordato al momento della stipula del contratto (ad esempio un tasso fisso), moltiplicato per un capitale nozionale fissato dalle parti e per la lunghezza del periodo di riferimento espressa nella medesima base dei parametri. Se, ad una scadenza, il differenziale sarà positivo, e dunque il valore del parametro variabile sarà superiore allo strike price, il venditore dell'opzione dovrà corrispondere una somma all'acquirente. Se, invece, alla scadenza il valore del parametro fisso risulterà superiore al valore del parametro variabile, e quindi il differenziale sarà negativo, nulla sarà dovuto da ciascuna parte e l'unico spostamento di denaro sarà stato il pagamento del premio da parte dell'acquirente. Con il cap dunque, l'acquirente si assicura flussi di cassa dall'aumento oltre una certa soglia del parametro variabile, e dal contratto otterrà un valore netto positivo se l'entità di tali flussi sarà superiore al premio pagato. Il floor, invece, è l'opzione put con cui una parte a fronte dell'incasso immediato di un premio assume l`obbligo di corrispondere alla controparte, alla fine di ciascun periodo di riferimento, una somma pari al differenziale positivo tra un parametro fisso prescelto e ed uno variabile, moltiplicato per un capitale nozionale fissato dalle parti e per la lunghezza del periodo di riferimento espressa nella medesima base dei parametri. In tal senso, se, ad una scadenza, il differenziale sarà positivo, e dunque il valore dello strike price sarà superiore al parametro variabile, il venditore dell'opzione dovrà corrispondere una somma all'acquirente, mentre, se il valore del parametro variabile risulterà superiore al valore del parametro fisso, e quindi il differenziale sarà negativo, nulla sarà dovuto da ciascuna parte. Con il floor, dunque l'acquirente si assicura un pagamento per il caso in cui il parametro di riferimento scenda al di sotto di quello fissato, ed otterrà un valore netto positivo se l'entità di tale pagamento sarà superiore al premio pagato al venditore. Il collar è un'operazione consistente nei simultanei acquisto e vendita di un cap e un floor. In tal senso, in un collar una parte è contemporaneamente venditrice di un floor (o di un cap) e acquirente di un cap (o di un floor). Si ritiene che, a differenza di altre fattispecie, il collar non consista in un atto negoziale unico, ma sia il risultato di più opzioni, delle quali è indifferente se esse siano stipulate con il medesimo soggetto (Caputo Nassetti, 328). Data la struttura del contratto, dunque, il collar è il contratto con cui fintantoché il parametro permane tra i due valori di riferimento cap e floor, nulla è dovuto da entrambe le parti, mentre se il parametro scende al di sotto del floor saranno dovuti pagamenti da una parte all'altra, e se invece il parametro scenda al di sopra del cap i pagamenti saranno dovuti nel senso inverso. In tal senso, se tasso floor e tasso cap fossero fissati allo stesso valore di riferimento, l'operazione, benché come detto strutturata in due atti negoziali differenti, assomiglierebbe ad un'IRS, nel quale, il pagatore del tasso fisso sarebbe il compratore del cap e venditore del floor, mentre il pagatore del tasso variabile sarebbe il venditore del cap e il compratore del floor (Caputo Nassetti, 328). Infine, il corridor è il contratto con cui i pagamenti, dovuti in conseguenza del fatto che il parametro variabile superi (cap-corridor) o scenda al di sotto (floor-corridor) del parametro di riferimento, sono limitati qualora questo non superi un ulteriore parametro (corridor rate). In tal senso, una parte ottiene flussi di cassa dal fatto che il parametro variabile superi, ad esempio il cap rate, ma tali flussi si interrompono nel momento in cui il parametro variabile superi un ulteriore valore prefissato, per cui la somma massima che potrà percepire sarà data dalla differenza tra cap rate e corridor rate. Appare evidente, dalla brevissima delineazione delle principali figure contrattuali utilizzate, che nelle opzioni cap e floor vi sia un'asimmetrica distribuzione del rischio fra le parti; ciò perché chi vende l'opzione assume una posizione di rischio cosiddetta aperta, mentre chi l'acquista assume una posizione di rischio cosiddetta chiusa (Hull, 194). L'acquirente di una delle due opzioni citate, infatti, nel momento in cui alla scadenza il parametro variabile sarà, come si dice nel gergo, out of the money, ovverosia non produrrà l'obbligo di effettuare alcun pagamento, sarà esposto alla sola uscita consistente nel pagamento del premio; dall'altra parte, il venditore avrà come guadagno massimo il premio pagato dall'acquirente, mentre sarà esposto alla variazione del parametro (teoricamente infinita). La descrizione del tipo contrattuale dell'opzione immediatamente pare richiamare la fattispecie del contratto di assicurazione, per cui, come prevede l'art. 1882 c.c. «l'assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro». La differenzia tuttavia si coglie appieno nel riferimento, nella norma appena citata, all'avvenimento di un sinistro, e dunque della presenza di una situazione da proteggere in capo all'assicurato. Solo eventualmente, tuttavia, il parametro preso a riferimento nelle opzioni finanziarie ha qualche attinenza alla sfera giuridica del compratore (si pensi ad opzioni collegate al prezzo di mercato del petrolio per un vettore aereo che si deve cautelare dai rischi di oscillazione del prezzo del carburante), e l'esistenza di un rischio da eliminare non è componente necessaria della fattispecie contrattuale dell'opzione. Infatti, si può affermare, che, sul piano causale, mentre la causa dell'assicurazione è il trasferimento del rischio dietro corrispettivo, nell'opzione la causa è quella dell'assunzione del rischio dietro corrispettivo (Caputo Nassetti, 333). Conseguentemente, si deve ritenere, il punto di maggior attrito tra le due fattispecie sta nella esplicita esclusione, ai sensi dell'art. 1904 c.c., per l'assicurazione, della possibilità che il contratto abbia un oggetto per il quale non esiste un interesse dell'assicurato al risarcimento del danno. Dall'altra parte, invece, proprio per il riferimento al rischio di verificazione di un evento esterno alla sfera giuridica dei contraenti, e, dunque, alla funzione di «creazione» del rischio prodotta per mezzo del contratto, l'opzione può essere associata alla scommessa. In particolare, si potrebbe sostenere una qualche forma di somiglianza alla scommessa in cui un soggetto paghi una somma prefissata (il premio, o acquisti un biglietto), per ottenere, al verificarsi di un evento una somma superiore a quanto precedentemente versato. Tuttavia, mentre la scommessa non fonda la prestazione patrimoniale — tra non azionabile — su una causa meritevole di tutela, ma sulla sorte, in ragione di gioco o sfida, la causa dell'opzione consiste in un'assunzione di un rischio, anche esterno alla sfera giuridica dei contraenti, per fine di lucro (Caputo Nassetti, op. cit., 335). Credit default swapIl CDS è il contratto con cui un soggetto (protection seller), a fronte del pagamento di un premio, si obbliga a pagare una somma di denaro ad un altro soggetto (protection buyer), al verificarsi di un evento futuro ed incerto relativo all'insolvenza o al deterioramento del merito creditizio (credit event) di un soggetto terzo. In particolare, in relazione a come specificato in contratto, il credit event consiste in un evento, più o meno grave, tale da rendere noto un pregiudizio alla solvibilità del soggetto terzo di riferimento: l'inizio di una procedura concorsuale, la liquidazione, il mancato adempimento di un obbligazione, un downgrade da parte di un'agenzia di rating, etc. È evidente che nel CDS sono fondamentali il rilevo della assunzione di un rischio collegato all'inadempimento altrui, cosicché emerge in tale fattispecie una doppia logica «assicurativa» e collegata al «rischio di credito» (Barcellona, Note sui derivati creditizi, cit., 652); in tal senso è dunque opportuno distinguere il CDS dalle figure che vi possono risultare maggiormente affini, ovverosia la fideiussione e l'assicurazione. In particolare, è opportuno sottolineare che mentre nella fideiussione, ai sensi dell'art. 1936 c.c., il fideiussore è colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l'adempimento di un'obbligazione altrui, e dunque l'obbligazione del fideiussore si pone nei termini di accessorietà rispetto a quella principale, nel CDS, il protection seller rimane obbligato indipendentemente dall'effettiva esposizione del compratore verso il terzo. In tal senso — si afferma in dottrina — mancando il requisito dell'accessorietà, sarebbero incompatibili con la tipica struttura contrattuale del CDS tutte quelle norme relative alla fideiussione che postulano un legame tra l'obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale. Così, sarebbero incompatibili l'art. 1939 c.c., che condiziona la validità della fideiussione alla validità dell'obbligazione principale, l'art. 1941 c.c., per cui la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore, né può essere prestata a condizioni più onerose, gli artt. 1949 e 1950 c.c., relative alla surrogazione e al regresso del fideiussore nei confronti del debitore principale (Caputo Nassetti, op. cit., 434). Dall'altra parte, il CDS non sarebbe parimenti assimilabile al contratto di assicurazione, per ragioni sostanzialmente simili a quanto visto precedentemente per i contratti di opzione. Infatti, se il contratto di assicurazione richiede l'effettività di un interesse al risarcimento del danno in capo all'assicurato relativo all'evento dedotto in contratto, nel CDS l'esistenza di un effettiva posizione creditoria da proteggere non è indispensabile. Conseguentemente, a pari di quanto si è affermato relativamente alle opzioni, il CDS è valido anche nel caso il credit event indicato in contratto sia del tutto neutrale alla sfera patrimoniale delle parti del contratto, mentre l'assicurazione, secondo quanto disposto dall'art. 1904 c.c. il contratto di assicurazione contro i danni è nullo se, nel momento in cui l'assicurazione deve avere inizio, non esiste un interesse dell'assicurato al risarcimento del danno. Gli obblighi informativi tra norme di validità e norme di comportamentoOrmai da tempo la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è espressa sul tema delle conseguenze delle violazioni degli obblighi di condotta nel senso di distinguere tra «norme di comportamento dei contraenti» e «norme di validità del contratto» (Cass. S.U., n. 26724/2007 e Cass. S.U., n. 26725/2007). La questione traeva origine da differenti interpretazioni date in relazione alla possibilità di dichiarare la nullità virtuale del contratto stipulato in violazione dei doveri di comportamento dell'intermediario finanziario, stante la natura di norme imperative delle stesse. In particolare, la teoria che vedeva sanzionabile con la nullità ogni violazione di norma imperativa, era caldeggiata dalla giurisprudenza di merito, che aveva affermato, ad esempio, fosse nullo ai sensi dell'art. 1418, comma 1, c.c. il contratto d'acquisto di titoli del debito pubblico argentino concluso in violazione dei doveri di comportamento imposti agli intermediari, ed in particolare del dovere di segnalare l'inadeguatezza delle operazioni di investimento, la quale era norma imperativa posta a tutela non solo del singolo cliente ma dell'interesse pubblico alla regolarità dei mercati ed alla stabilità del sistema finanziario (p. es. Trib. Mantova 18 marzo 2004, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, 440). Secondo l'orientamento accolto dalle Sezioni Unite, la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge impone in capo dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento può dar luogo a responsabilità precontrattuale (con conseguente obbligo di risarcimento dei danni) ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale (ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto), ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d'investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione di tali doveri di comportamento può viceversa determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418, comma 1 c.c. Dello stesso è avviso la dottrina maggioritaria, la quale già si era espressa anche precedentemente alla sentenza (Portale, 1982, 21; Realmonte, 617 ss.; Scalisi, 191; Alpa, 229), e che ha confermato successivamente la propria impostazione (Bove, 143; Cottino, 353). Taluno ha evidenziato che l'applicazione del rimedio della nullità, con conseguente ripetizione della somma investita, eventualmente maggiorata degli accessori, in dipendenza della mala fede dell'intermediario, avrebbe determinato una traslazione in capo a quest'ultimo il rischio derivante dalla negoziazione degli strumenti finanziari su ordine dei clienti, in forza della restituzione di detti strumenti al valore di mercato all'intermediario (Perrone, 1019), con correlativa diminuzione degli incentivi alla prevenzione dei danni nascenti dal concorso di colpa da parte del danneggiato. Il trasferimento del rischio di mercato anche per gli strumenti finanziari negoziati dai clienti in capo agli intermediari si realizzerebbe inoltre, per il fatto che questi ultimi si tutelerebbero aumentando le commissioni applicate per i servizi offerti, in un meccanismo detto di cross-subsidization, ovverosia di asimmetria tra i costi socializzati dell'aumentato rischio per l'intermediario, scaricato in maniera uguale tra tutti i clienti, e i benefici, privati, ottenuti dai clienti che riescano ad ottenere la tutela per mezzo della nullità (Denozza, 344, Perrone, 537). Se, tuttavia, sul piano astratto, norme di comportamento e norme di validità appaiono poste su piani tra loro differenti, al punto che prima della ingente applicazione di tali macrocategorie da parte della giurisprudenza si poteva agevolmente affermare che il legislatore avesse fatto ricorso in maniera chiara ed evidente a «regole di comportamento, che hanno per oggetto la condotta dei soggetti che esercitano l'attività di intermediazione mobiliare ... e non regole di validità, che invece hanno generalmente riguardo ai singoli atti e/o negozi, fissandone i requisiti e la cui mancanza determina generalmente la invalidità dell'atto» (Di Majo, 290), l'interpretazione della distinzione data dalla prassi appare ben più complesso, al punto tale che, si è affermato, pur in relazione ad una fattispecie differente, che essa non riesce a spiegare «la necessità di analitica regolamentazione dettata da obiettivi economici generali» e «il significato della dicotomia sembra (...) contraddetto sul terreno degli interessi sottesi» (Cass. n. 17352/2017). Tale complessità è acuita dal fatto che le norme contenute nella legislazione speciale e nella regolamentazione secondaria pongono sia norme di validità (es. l'obbligo della forma scritta per la stipula del contratto) sia norme di comportamento (es. gli obblighi di trasparenza e comunicazione), e, come si vedrà, la qualificazione di tali norme sembra, nell'interpretazione di parte della giurisprudenza, complicarsi nel momento in cui esse sono applicate a strumenti finanziari derivati (si pensi alla mancata comunicazione del mark to market, obbligo che parrebbe doversi interpretare come regola di condotta, che, secondo alcuni, condurrebbe alla nullità del contratto). Inoltre, la stessa distinzione tra norme di validità e norme di comportamento è posta sotto contestazione da parte della dottrina, la quale ritiene la dicotomia datata, per cui le regole di condotta sarebbero «obblighi legali di fattispecie ... colloca(ti) nell'ambito della costruzione della fattispecie contrattuale, come momento proprio della stessa» (Dolmetta, 81), e il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto di interessi sarebbe espressione di una «disapprovazione dell'ordinamento per le operazioni compiute in situazioni di pericolo», destinata a trovare «la sanzione appropriata nella nullità per illiceità» (Maffeis, 557). Tale disciplina è tracciata attraverso la speciale normativa contenuta nel TUF, agli artt. 21 ss., nonché dalla regolamentazione secondaria ora fissata nel Regolamento Consob n. 20307/2018, «Regolamento Intermediari», agli artt. 35 e seguenti. L'art. 21 TUF detta clausole generali di «diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l'interesse dei clienti e per l'integrità dei mercati», di cui alla lett. a), obblighi informativi di cui alle lett. b) e c) e obblighi organizzativi di cui alla lett. d). Appare quindi evidente, com'è stato autorevolmente sostenuto, che «il dato che emerge è non solo quantitativamente impressionante ma anche qualitativamente rivelatore — oltre che di serie disfunzioni del sistema — di una accentuata diversificazione di soluzioni, dai crescenti margini di incertezza sia per chi adisce l'autorità giudiziaria sia per chi ne subisce le iniziative» (Cottino, 537). In particolare, può constatarsi come la commistione dei due piani venga favorito dal nuovo contesto europeo di regolazione della cosiddetta product governance, secondo quanto espresso dall'art. 24, § 2, della Mifid per cui: «Le imprese di investimento che realizzano strumenti finanziari per la vendita alla clientela fanno sì che tali prodotti siano concepiti per soddisfare le esigenze di un determinato mercato di riferimento di clienti finali individuato all'interno della pertinente categoria di clienti e che la strategia di distribuzione degli strumenti finanziari sia compatibile con il target. L'impresa d'investimento adotta inoltre misure ragionevoli per assicurare che lo strumento finanziario sia distribuito ai clienti all'interno del mercato target». In tal senso la norma è parallela a quella disposta dal nuovo art. 21 comma 2-bis, in applicazione del quale: «Quando realizzano strumenti finanziari per la vendita alla clientela, i soggetti abilitati alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento fanno sì che tali prodotti siano concepiti per soddisfare le esigenze di un determinato mercato di riferimento di clienti finali individuato all'interno della pertinente categoria di clienti e che la strategia di distribuzione degli strumenti finanziari sia compatibile con i clienti target. I soggetti di cui al presente comma adottano inoltre misure ragionevoli per assicurare che lo strumento finanziario sia distribuito ai clienti all'interno del mercato target». Appare evidente, secondo la prospettiva della product governance, che a quelli che appaiono come obblighi di comportamento, si aggiungono ulteriori profili che attengono alla stessa «struttura» degli strumenti finanziari oggetto di negoziazione, il che potrebbe porsi come motivo di ulteriore interferenzatra le norme di comportamento e le norme di validità. Per ciò che interessa qui in relazione al tema della negoziazione di strumenti finanziari derivati, decisivi sono gli obblighi informativi. La ratio della previsione di obblighi informativiLo statuto normativo afferente agli obblighi di informazione e trasparenza in materia di negoziazione di strumenti finanziari in generale, e dunque anche per quelli derivati, differisce per ampiezza e specificità dalle regole di diritto comune desumibili dalla lettura del codice civile. Ciò avviene in ragione della particolarità del mercato dei capitali come «luogo» (v., sui concetti di locus artificialis e locus naturalis, Irti, 11; nonché Libonati, 1540; Rossi, 1443) nel quale si incontrano domanda e offerta di beni finanziari tra risparmiatori, imprese e intermediari. Operando sul mercato dei capitali, le imprese raccolgono i fondi necessari per gli investimenti e i risparmiatori distribuiscono il proprio reddito non speso perché venga usato per consumi futuri (Merton, 3). Gli intermediari operano invece come agents di risparmiatori e imprese nel fornire servizi relativi a tali trasferimenti finanziari sul mercato (Easterbrook, Fischel, 425), e sempre più si richiede l'intervento di tali soggetti nell'effettuazione di transazioni sul mercato, in ragione della sempre maggiore scissione tra le figure del soggetto risparmiatore ed il soggetto investitore data dal contesto di specializzazione produttiva tipica del mercato finanziario (Coffee Jr., Seligman, 8). Riconosciuto il fondamentale ruolo che hanno i mercati finanziari in un'economia sviluppata, altrettanto riconosciuto è il fatto che un mercato privo di frizioni e dunque ideale non è rinvenibile nella realtà, ed anzi costi di transazione e asimmetrie informative impediscono un'efficiente allocazione delle risorse. Si definisce costo di transazione «il costo d'uso del meccanismo dei prezzi» (Coase, 78), ovverosia i costi che l'operatore del mercato deve sostenere per compiere una transazione economica. In tal senso rientrano nella nozione i costi di ricerca ed informazione (costi necesari per individuare con chi contrattare, se il bene è disponibile sul mercato, qual è la qualità offerta e qual è il miglior prezzo), i costi di negoziazione (i costi necessari per ottenere l'accordo di entrambe le parti) e i costi di controllo ed attuazione del contratto (Dahlman, 148). L'asimmetria informativa può essere definita invece come quella situazione derivante dal possesso di informazioni imperfette riguardo il bene o servizio acquistato, per cui una parte possiede più informazioni dell'altra. La condizione di elevati costi di transazione ed alta asimmetria informativa non ha ricadute solamente sulla singola negoziazione, impedendola o rendendola sfavorevole ad una parte, ma produce effetti sistemici in ragione del fenomeno conosciuto come «selezione avversa» (Akerlof, 488). Senza entrare nei particolari del celeberrimo studio di Akerlof, la selezione avversa è definibile come la condizione in forza della quale l'asimmetria informativa produce l'uscita dal mercato di coloro di che offrono beni e servizi sopra la media, con conseguente riduzione della qualità dei prodotti offerti, fino a giungere alla scomparsa del mercato. Nel mercato dei capitali ciò produce un'incorretta allocazione dei trasferimenti di ricchezza dai risparmiatori alle imprese, in tal modo riducendo la qualità e quantità degli investimenti effettuati, e dunque, diminuendo il benessere collettivo (Myers, Majluf, 187 ss.). Importante è mettere in evidenza come dall'intervento di un intermediario in questa relazione il problema non possa comunque dirsi risolto, poiché esso insiste lo stesso nel rapporto tra risparmiatore ed intermediario (Pacces, 481), ed anzi espone il cliente al rischio che l'intermediario abbia incentivi a sottrarsi all'adempimento dei propri obblighi non ottenendo le dovute informazioni o che possa dare consigli inadeguati per il fatto che non ne abbia compreso le necessità di copertura o la tolleranza al rischio (Allen, Gale, 3). Queste dunque le ragioni sulla base delle quali si giustifica una regolazione dell'attività di prestazione di servizi d'investimento, e, il riferimento di questa alla negoziazione di strumenti finanziari derivati non esclude, ma anzi aggrava, a causa della complessità di tali contratti, l'attualità dei problemi della presenza di costi di transazione e ad asimmetria informativa nei rapporti tra intermediario e cliente (Arora-Barak-Brunnermeier-Ge). Si è già detto che è comune la definizione del rapporto tra investitore ed intermediario nei termini di agency (Sartori, 2004). Già un tale inquadramento pone un iniziale strumento di riduzione delle asimmetrie informative e dei costi di transazione, in quanto, secondo la prospettiva italiana, permetterebbe, in assenza di alcuna regolazione, di riconoscere un principio di disciplina nella regolazione del mandato e dei suoi strumenti di circolazione delle informazioni tra mandatario e mandante. In tal senso si pensi ad esempio alla diligenza richiesta al mandatario e all'obbligo di render note le circostanza sopravvenute che possono determinare la revoca o la modificazione del mandato, all'obbligo di comunicare al mandante l'esecuzione del mandato e all'obbligo di rendiconto (artt. 1710, 1712 e 1713 c.c.). Appare tuttavia evidente che la sola disciplina di diritto comune non vale a ridurre in maniera significativa l'asimmetria informativa presente sul mercato finanziario, in quanto essa generalmente opera successivamente alla stipula del contratto, regolando il flusso di informazioni afferenti all'esecuzione del mandato. Diversamente, si è chiarito che la stessa decisione di investire o meno richiede alti costi di transazione (es. i costi di ricerca e informazione citati precedentemente), i quali sono poi esacerbati dalla complessità, sia economica che giuridica, degli strumenti finanziari derivati, per cui si è resa necessaria una regolazione apposita. Gli obblighi informativi nel TUF e nel Regolamento IntermediariL'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 58/1998, nel testo attualmente vigente, dispone che nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l'interesse dei clienti e per l'integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi e delle attività. Detta previsione si combina con quella posta in sede regolamentare di cui si dirà, la quale trova a propria volta fondamento nella normativa primaria. L'art. 5 d.lgs. n. 58/1998, che apre il Capo I del testo unico della finanza, intitolato alla «Vigilanza», contiene al previsione secondo cui la vigilanza sulle attività ivi contemplate mira a: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l'osservanza delle disposizioni in materia finanziaria. In particolare la Banca d'Italia è competente per quanto riguarda il contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione degli intermediari; la Consob è competente per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza dei comportamenti. La Banca d'Italia e la Consob, al fine di coordinare l'esercizio delle proprie funzioni di vigilanza e di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati, stipulano un protocollo d'intesa, avente ad oggetto: a) i compiti di ciascuna e le modalità del loro svolgimento, secondo il criterio della prevalenza delle funzioni; b) lo scambio di informazioni, anche con riferimento alle irregolarità rilevate e ai provvedimenti assunti. Il successivo art. 6 d.lgs. n. 58/1998, indica i principi ai quali la Banca d'Italia e la Consob devono attenersi nell'esercizio delle funzioni di vigilanza regolamentare ed individua i presupposti e i limiti perché, con riguardo alle materie contemplate dalla direttiva 2006/73/CE del 10 agosto 2006 della Commissione, esse mantengano o introducano nei regolamenti obblighi aggiuntivi a quelli previsti dalla direttiva medesima. In particolare, la Banca d'Italia, sentita la CONSOB, disciplina con regolamento: a) gli obblighi delle Sim e delle Sgr in materia di adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e partecipazioni detenibili, nonché l'informativa da rendere al pubblico sulle stesse materie e sul governo societario, l'organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione; b) gli obblighi delle Sim, delle imprese di paesi terzi, delle Sgr, nonché degli intermediari finanziari iscritti nell'albo previsto dall'art. 106 del Testo unico bancario, delle banche italiane autorizzate all'esercizio dei servizi o delle attività di investimento, in materia di modalità di deposito e di sub-deposito degli strumenti finanziari e del denaro di pertinenza della clientela; c) le regole applicabili agli Oicr italiani aventi a oggetto: 1) i criteri e i divieti relativi all'attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo; 2) le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio, limitatamente agli Oicr diversi dai FIA riservati. La Banca d'Italia può prevedere l'applicazione ai FIA italiani riservati di limiti di leva finanziaria massima e di norme prudenziali per assicurare la stabilità e l'integrità del mercato finanziario; 3) gli schemi tipo e le modalità di redazione dei prospetti contabili che le società di gestione del risparmio, le Sicav e le Sicaf redigono periodicamente; 4) i metodi di calcolo del valore delle quote o azioni di Oicr; 5) i criteri e le modalità da adottare per la valutazione dei beni e dei valori in cui è investito il patrimonio e la periodicità della valutazione. Per la valutazione di beni non negoziati in mercati regolamentati, la Banca d'Italia può prevedere il ricorso a esperti indipendenti e richiederne l'intervento anche in sede di acquisto e vendita dei beni da parte del gestore; 6) le condizioni per la delega a terzi della valutazione dei beni in cui è investito il patrimonio dell'Oicr e del calcolo del valore delle relative quote o azioni; c-bis) gli obblighi dei soggetti abilitati relativi alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento e alla gestione collettiva del risparmio, in materia di: 1) governo societario e requisiti generali di organizzazione, compresa l'attuazione dell'art. 4-undecies; 2) sistemi di remunerazione e di incentivazione; 3) continuità dell'attività; 4) organizzazione amministrativa e contabile, compresa l'istituzione della funzione di controllo della conformità alle norme; 5) gestione del rischio dell'impresa; 6) audit interno; 7) responsabilità dell'alta dirigenza; 8) esternalizzazione di funzioni operative essenziali o importanti o di servizi o di attività; La Consob, sentita la Banca d'Italia, tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale dei medesimi, disciplina con regolamento gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di: a) trasparenza, ivi inclusi: 1) gli obblighi informativi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché della gestione collettiva del risparmio, con particolare riferimento al grado di rischiosità di ciascun tipo specifico di prodotto finanziario e delle gestioni di portafogli offerti, all'impresa e ai servizi prestati, alla salvaguardia degli strumenti finanziari o delle disponibilità liquide detenuti dall'impresa, ai costi, agli incentivi, alle strategie di esecuzione degli ordini e alle pratiche di vendita abbinata; 2) le modalità e i criteri da adottare nella diffusione di comunicazioni pubblicitarie e promozionali e di ricerche in materia di investimenti; 3) gli obblighi di comunicazione ai clienti relativi all'esecuzione degli ordini, alla gestione di portafogli, alle operazioni con passività potenziali e ai rendiconti di strumenti finanziari o delle disponibilità liquide dei clienti detenuti dall'impresa; 3-bis) gli obblighi informativi nei confronti degli investitori dei FIA italiani, dei FIA UE e dei FIA non UE; b) correttezza dei comportamenti, ivi inclusi: 1) gli obblighi di acquisizione di informazioni dai clienti o dai potenziali clienti ai fini della valutazione di adeguatezza o di appropriatezza delle operazioni o dei servizi forniti, ivi inclusi i casi di pratiche di vendita abbinata; 2) le misure per eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per i clienti; 3) gli obblighi in materia di gestione degli ordini; 4) l'obbligo di assicurare che la gestione di portafogli si svolga con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quella su base collettiva avvenga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell'OICR; 5) le condizioni alle quali possono essere corrisposti o percepiti incentivi; b-bis) prestazione dei servizi e delle attività di investimento e di gestione collettiva del risparmio, relativi: 1) alle procedure, anche di controllo interno, per la corretta e trasparente prestazione dei servizi e delle attività di investimento, ivi incluse quelle per: a) il governo degli strumenti finanziari e dei depositi strutturati; b) la percezione o la corresponsione di incentivi; 2) alle procedure, anche di controllo interno, per la corretta e trasparente prestazione della gestione collettiva del risparmio, ivi incluse quelle per la percezione o la corresponsione di incentivi; 3) alle modalità di esercizio della funzione di controllo della conformità alle norme; 4) al trattamento dei reclami; 5) alle operazioni personali; 6) alla gestione dei conflitti di interesse potenzialmente pregiudizievoli per i clienti, ivi inclusi quelli derivanti dai sistemi di remunerazione e di incentivazione; 7) alla conservazione delle registrazioni; 8) alla conoscenza e competenza delle persone fisiche che forniscono consulenza alla clientela in materia di investimenti o informazioni su strumenti finanziari, servizi di investimento o accessori per conto dei soggetti abilitati Lo stesso art. 6 detta poi ulteriori disposizioni in tema di potestà regolamentare della Banca d'Italia e della Consob. Attraverso il rinvio dell'art. 6, i regolamenti adottati nella materia dalla Consob assumono dunque la posizione di fonti normative secondarie. In particolare, la disciplina dei doveri gravanti sugli intermediari si distingue in dipendenza della tipologia delle attività che costituiscono oggetto del contratto quadro. Più in specifico, a tutti i servizi di investimento si applicano le regole concernenti gli obblighi informativi; viceversa le regole in tema di appropriatezza e adeguatezza si applica solo ad alcuni dei servizi contemplati. Quanto al Regolamento intermediari adottato con delibera n. 20307 del 15 febbraio 2018, esso stabilisce all'art. 36 (Requisiti generali delle informazioni), che: «- tutte le informazioni, comprese le comunicazioni pubblicitarie e promozionali, indirizzate dagli intermediari a clienti o potenziali clienti devono essere corrette, chiare e non fuorvianti; le comunicazioni pubblicitarie e promozionali sono chiaramente identificabili come tali; - gli intermediari forniscono in tempo utile ai clienti o potenziali clienti, in una forma comprensibile, informazioni appropriate affinché essi possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari che sono loro proposti, nonché i rischi a essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti con cognizione di causa; tali informazioni si riferiscono: a) all'intermediario e ai relativi servizi; b) agli strumenti finanziari e alle strategie di investimento proposte, inclusi opportuni orientamenti e avvertenze sui rischi associati agli investimenti relativi a tali strumenti o a determinate strategie di investimento, nonché l'indicazione se gli strumenti finanziari sono destinati a clienti al dettaglio o professionali, tenuto conto del mercato di riferimento di cui all'art. 21, comma 2-bis T.U.; c) alle sedi di esecuzione; d) ai costi e oneri connessi, comprese le informazioni relative sia ai servizi di investimento che ai servizi accessori, al costo dell'eventuale consulenza e dello strumento finanziario raccomandato o offerto in vendita al cliente e alle modalità di pagamento da parte del cliente, ivi inclusi eventuali pagamenti di terzi; le informazioni sui costi e oneri, compresi quelli connessi al servizio di investimento e allo strumento finanziario, non causati dal verificarsi di un rischio di mercato sottostante, sono presentate in forma aggregata per permettere al cliente di conoscere il costo totale e il suo effetto complessivo sul rendimento e, se il cliente lo richiede, in forma analitica. Laddove applicabile, tali informazioni sono fornite al cliente con periodicità regolare, e comunque almeno annuale, per tutto il periodo dell'investimento - ai fini della disposizione gli intermediari di cui all'art. 35, comma 1, lett. b), applicano gli artt. 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51 e 52 del regolamento (UE) 2017/565. Gli intermediari che detengono strumenti finanziari o somme di denaro appartenenti ai clienti forniscono loro le informazioni di cui all'art. 49 del predetto regolamento, ove pertinenti, anche ai sensi del regolamento della Banca d'Italia adottato in conformità all'art. 6, comma 1 T.U. - gli intermediari di cui all'art. 35, comma 1, lett. b), che prestano il servizio di consulenza in materia di investimenti su base indipendente applicano altresì l'art. 53 del regolamento (UE) 2017/565». Capo II Contratti. Secondo l'art. 37 (Contratti), poi: «1. Gli intermediari forniscono i propri servizi di investimento, compresa la consulenza in materia di investimenti che preveda lo svolgimento di una valutazione periodica dell'adeguatezza degli strumenti finanziari o dei servizi raccomandati, sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata al cliente. 2. Gli intermediari di cui all'art. 35, comma 1, lett. b), applicano l'art. 58 del regolamento (UE) 2017/565. 3. Il contratto con i clienti al dettaglio: a) specifica i servizi forniti e le loro caratteristiche, indicando il contenuto delle prestazioni dovute e delle tipologie di strumenti finanziari e di operazioni interessate; b) stabilisce il periodo di efficacia e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; c) indica le modalità attraverso cui il cliente può impartire ordini e istruzioni; d) prevede la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire al cliente a rendiconto dell'attività svolta; e) indica i corrispettivi spettanti all'intermediario o i criteri oggettivi per la loro determinazione, specificando le relative modalità di percezione e, ove non diversamente comunicati, gli incentivi ricevuti in conformità al Titolo V; f) indica se e con quali modalità e contenuti in connessione con il servizio di investimento può essere prestata la consulenza in materia di investimenti; g) indica le altre condizioni contrattuali convenute con l'investitore per la prestazione del servizio; h) indica le procedure di risoluzione stragiudiziale di controversie, definite ai sensi dell'art. 32-ter T.U. 4. Fermo restando quanto previsto ai sensi del TUB, le disposizioni di cui al presente articolo si applicano al servizio accessorio di concessione di finanziamenti agli investitori». La modulazione degli obblighi informativi in relazione alla controparteCom'è stato messo in evidenza, l'asimmetria informativa è un dato certo ma non costante, per cui la si può ritenere una variabile dipendente dalle caratteristiche soggettive del cliente, dalle sue esperienze di negoziazione sul mercato finanziario, dalle sue competenze professionali, dal capitale di cui dispone e dalle finalità che intende raggiungere (Cian, 221). Ne consegue che lo stesso legislatore ritiene di dover intervenire a colmare l'asimmetria informativa solo laddove effettivamente ve ne sia bisogno, esimendosi dall'imporre obblighi superflui alle parti che, invece di diminuire i costi di transazione, finiscano per aumentarli. Espressione di questo medesimo principio può essere rinvenuto nella delega alla Consob a regolare la materia, ai sensi del citato art. 6 TUF, tenendo conto «delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale dei medesimi». La Consob ha dunque distinto le tre categorie delle «controparti qualificate», dei «clienti professionali» e dei «clienti al dettaglio». In particolare, nei confronti dei clienti professionali, la legge permette la disapplicazione di buona parte degli obblighi informativi, secondo quanto previsto di volta in volta dalle singole norme, oltre che della regola dell'appropriatezza, mentre l'adeguatezza si applica in maniera meno pervasiva (Annunziata, 167). Si ritiene, tuttavia, che il venir meno degli obblighi, in particolare in materia di informazione, ed ancor di più per strumenti finanziari derivati, non comporti comunque il rispetto dello standard di buona fede nella conduzione delle trattative e nell'esecuzione del rapporto contrattuale (Cian, 224). Tralasciando la figura di «controparte qualificata», i clienti professionali sono divisi tra «clienti professionali di diritto» e «clienti professionali su richiesta». Ai sensi dell'allegato n. 3 del Regolamento Intermediari sono clienti professionali di diritto: 1) i soggetti che sono tenuti a essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari, siano essi italiani o esteri quali: a) banche; b) imprese di investimento; c) altri istituti finanziari autorizzati o regolamentati; d) imprese di assicurazione; e) organismi di investimento collettivo e società di gestione di tali organismi; f) fondi pensione e società di gestione di tali fondi; g) i negoziatori per conto proprio di merci e strumenti derivati su merci; h) soggetti che svolgono esclusivamente la negoziazione per conto proprio su mercati di strumenti finanziari e che aderiscono indirettamente al servizio di liquidazione, nonché al sistema di compensazione e garanzia (locals); i) altri investitori istituzionali; l) agenti di cambio; 2) le imprese di grandi dimensioni che presentano a livello di singola società, almeno due dei seguenti requisiti dimensionali: — totale di bilancio: 20.000.000 €; — fatturato netto: 40.000.000 €; — fondi propri: 2.000.000 €; 3) gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti finanziari, compresi gli enti dediti alla cartolarizzazione di attivi o altre operazioni finanziarie. Dall'elenco appare evidente che i clienti professionali di diritto sono soggetti che professionalmente operano sul mercato finanziario e che dunque il legislatore presume competenti ed idonei ad assumere in piena razionalità decisioni consapevoli dei rischi. Ciononostante, si prevede la possibilità per un cliente professionale di ottenere una protezione più elevata, facendone richiesta mediante modifica dei termini dell'accordo. Specularmente, la qualifica di cliente professionale su richiesta accomuna coloro che abbiano fatto specifica richiesta di essere trattati al pari dei clienti professionali di diritto, salvo che l'intermediario, dopo aver effettuato una valutazione adeguata della competenza, dell'esperienza e delle conoscenze del cliente, non possa ragionevolmente ritenere, tenuto conto della natura delle operazioni o dei servizi previsti, che il cliente sia in grado di adottare consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e di comprendere i rischi che assume. È in questo senso rimessa all'intermediario la possibilità di negare il trattamento meno protettivo benché il cliente ne abbia fatto richiesta, sulla base di una valutazione discrezionale, all'interno della quale, specifica il Regolamento, devono essere esaminate l'entità e la continuità di operazione di dimensione significativa (nello specifico, dieci operazioni a trimestre per i precedenti quattro trimestri), il valore del portafoglio del cliente (non inferiore a 500.000 €), o l'impiego dello stesso in un ambito lavorativo per almeno un anno che presupponga la conoscenza delle operazioni o dei servizi previsti. Si discute in dottrina sul punto se il fatto che siano soddisfatti almeno due dei criteri indicati, come prevede la regolamentazione, sia sufficiente a riconoscere la qualifica di cliente professionale di a richiesta o se invece, tali criteri costituiscano una condizione necessaria ma non sufficiente, e dunque debbano essere inseriti all'interno della valutazione generale sull'idoneità ad assumere consapevolmente decisioni in materia d'investimento (Perrone, 510). In particolare, se, appare evidente la volontà del legislatore di definire una fattispecie avente un alto grado di oggettività (Cian, 223), soprattutto se si confronta, come si vedrà in seguito l'attuale assetto della regolamentazione con quello definito dal precedente Regolamento Consob n. 11522/1998, ed in tal senso dunque, sarebbe possibile propendere per una ricostruzione nel senso che dalla presenza dei requisiti discenderebbe necessariamente al qualifica di cliente professionale, da altri è messo in luce come il fatto che i requisiti debbano essere accertati «nel corso della valutazione», implicherebbe che la loro presenza non esaurisca l'analisi da parte dell'intermediario. La qualifica di cliente al dettaglio è invece categoria residuale e negativa, per il fatto che vi rientra chiunque non sia altrimenti definito cliente professionale. È il caso, giunti a questo punto, ricordare la disciplina operante sotto il precedente Regolamento Consob, n. 11522/1998, in ragione del fatto che buona parte del contenzioso in materia di contratti derivati attiene anche a profili concernenti la contestazione dell'inquadramento nella categoria di «operatore qualificato», secondo l'espressione contenuta nel precedente Regolamento, poi sostituita dalla figura del cliente professionale. Ai sensi dell'art. 31, vecchio testo del Regolamento Intermediari, oltre all'elencazione oggettiva di operatori «di diritto», il riferimento interpretativo era dato dall'indicazione di ogni «società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante». Non essendo, com'è invece attualmente fatto dalla normativa secondaria già ricordata, regolato il meccanismo in forza del quale chi non era operatore qualificato, la questione posta all'attenzione della giurisprudenza atteneva alla possibilità per l'intermediario di recepire passivamente la dichiarazione «autoreferenziale» dell'investitore o l'ammissibilità di un'interpretazione che, in ragione della tutela del contraente debole, imponesse una valutazione ulteriore in capo all'intermediario, e dunque, che oltre alla dichiarazione del cliente, fosse necessaria la rispondenza al vero della stessa. La giurisprudenza, in un primo tempo, si era divisa tra due posizioni. Era stato dunque affermato, da una parte, che «non appare ragionevole ipotizzare che l'accertamento in concreto di un requisito dai così incerti confini (essere la controparte contrattuale «in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari») debba essere rimesso alla banca piuttosto che al prudente apprezzamento del legale rappresentante della società (soggetto che, in quanto investito del potere di rappresentanza della persona giuridica è, per legge, idoneo ad impegnarne la volontà) il quale potrà essere chiamato a rispondere nei confronti della società da lui amministrata ove abbia reso dichiarazioni false ovvero negligentemente stimato sussistenti requisiti di professionalità e competenza in capo all'ente che rappresenta» (Trib. Milano 2 aprile 2004, in Giur comm. 2005, II, 36). In forza di ciò, dunque, l'intermediario sarebbe esonerato dall'effettuare ulteriori verifiche sull'effettivo possesso delle specifiche competenze del cliente (Trib. Rimini 25 marzo 2005). Ulteriormente, si era fatta strada l'opinione che «l'attestazione di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari, potesse assumere valenza confessoria ... a condizione che la dichiarazione medesima non fosse indeterminata e contenesse l'elencazione di fatti (non di opinioni) effettivamente indicativi di tale competenza e di tale esperienza» (Trib. Torino 18 settembre 2007, in Nuova giur. civ. comm. 2008, I, 339). Altra strada percorsa dalla giurisprudenza era stata quella di definire come questa come dichiarazione di volontà di non sottoporsi alle tutele tipiche predisposte in via generale dall'ordinamento, e non come dichiarazione di scienza, come attestazione di fatti che certificassero la effettiva competenza e conoscenza del mercato sul quale il cliente intendeva ad operare; e, in ragione della natura di dichiarazione di volontà, riconoscere l'operare del principio di affidamento per l'intermediario che avesse riposto la sua fiducia su questa. Secondo questa opinione, «la norma riconduce in sostanza alla responsabilità di chi amministra, ed esprime nella realtà giuridica la volontà della società, gli effetti di una tale dichiarazione, come avviene nella generalità della gestione, ordinaria o straordinaria che sia» (Trib. Milano 20 luglio 2006, in Nuova giur. civ. comm. 2007, I, 809). Correlata all'affidamento dell'intermediario era la necessità di ridurre il rischio di sottomettere questo al peso eccessivo di dover compiere valutazioni in merito ad aspetti tipicamente di competenza del privato autoresponsabile, il che avrebbe dovuto far escludere «che gli intermediari finanziari abbiano l'obbligo di verificare l'effettiva sussistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari dichiarata dal legale rappresentante della società» (App. Milano 12 ottobre 2007, in Giur. it., 2008, 1160). Particolare poi è l'opinione, sempre espressa al tribunale milanese, che, nel propendere per l'interpretazione letterale, poneva l'attenzione sul parallelismo tra la clausola qui analizzata e quelle normalmente oggetto di trattativa individuale in relazione a clausole vessatorie, le quali opererebbero nella medesima maniera, «legando cioè ad una specifica adesione, che normalmente risulterà da una separata o congiunta sottoscrizione, la deroga ad una regola generale di condotta» (Trib. Milano 20 luglio 2007). Dall'altra parte, invece, era l'opinione per cui alla dichiarazione del cliente dovesse corrispondere l'effettiva competenza dello stesso, e che l'accertamento di tale rispondenza fosse onere dell'intermediario. Era dunque affermato che «anche l'investitore «società o persona giuridica», per essere considerato operatore qualificato ai sensi e per gli effetti dell'art. 31 Reg. Consob n. 11522/98, deve effettivamente possedere la specifica competenza e l'esperienza richieste per comprendere i rischi connessi all'operazione finanziaria che intende porre in essere». In tal senso deriverebbe che «la struttura lessicale della norma di cui all'art. 31, comma 2, Reg. Consob n. 11522/98 evidenzia il possesso di una specifica competenza in materia di operazioni in strumenti finanziari come prerequisito della sia pur necessaria dichiarazione scritta» (Trib. Torino 18 settembre 2007, in Nuova giur. civ. comm. 2008, I, 339). Era inoltre affermata la necessità di una valutazione puntuale e concreta dell'effettiva conoscenza richiesta, escludendosi il rilievo di semplici clausole di stile inserite nel contratto quadro d'investimento, per cui «poiché il reg. Consob n. 11522/98 è stato emanato proprio al fine di circostanziare e dettagliare le condotte in cui si estrinseca il dovere di informazione attiva e passiva dell'intermediario e che gli obblighi informativi hanno la principale finalità di assicurare una effettiva, e non presuntiva consapevolezza delle caratteristiche dello strumento acquistato, la dichiarazione di cui all'art. 31 del citato regolamento non può essere intesa come una mera autocertificazione, dovendo per contro ricorrere in concreto il possesso di una conoscenza specifica che consenta al giudice di ritenere il consenso prestato come pienamente consapevole. Ne consegue che la dichiarazione in esame non può limitarsi a ripercorrere il testo della norma, ma deve allegare e riportare elementi circostanziati (quali operazioni intraprese, negozi, professionalità acquisita, studi effettuati) da cui dedurre che il contraente fosse effettivamente in grado di comprendere la natura del negozio sottoscritto» (Trib. Rovigo 3 gennaio 2008, in Giur. it., 2008, 2235). Nello stesso senso, poi, è l'opinione che lega il divieto di ricevere passivamente la dichiarazione autoreferenziale agli standard di correttezza e diligenza dovuti dal professionista, per cui «qualora l'intermediario, nel momento in cui riceve la dichiarazione, sia in grado di apprezzare la non corrispondenza alla posizione effettiva dell'investitore, in quanto ne conosca l'ignoranza o l'inesperienza in materia di negoziazione degli strumenti finanziari, i doveri di diligenza professionale e il necessario rispetto delle comuni regole di correttezza escludono che l'intermediario stesso possa limitarsi ad un comportamento meramente passivo...» (Trib. Verona 22 giugno 2007, in Contratti, 2007, 1093). Sul punto della necessità di una puntuale indicazione, sia nella dichiarazione, che nell'accertamento dell'intermediario, degli specifici fatti posti a fondamento dell'inquadramento come «operatore qualificato» si era concentrata poi parte della giurisprudenza, per cui tale si sarebbe dovuto ritenere che «tale dichiarazione è una dichiarazione di scienza che non assume rilievo di per sé, ma in quanto presuppone una preesistente situazione giuridicamente rilevante e quando tale collegamento manca o non è puntualmente individuabile e determinabile, la dichiarazione o non dispiega alcun effetto per la radicale indeterminatezza di quanto dichiarato o, in radice, non assume alcun significato giuridicamente apprezzabile, perché tale da risolversi in una mera opinione personale» (Trib. Novara 18 gennaio 2007, in Banca, borsa, tit. cred. 2008, II, 57). La dottrina, la quale si è divisa alla stessa maniera, ha concentrato la propria analisi sull'interpretazione dei riferimenti normativi alla «competenza» e alla «esperienza», come definiti a Regolamento Intermediari. In particolare, si è sostenuto che la specificità dei requisiti, richiesta dalla legge, comporterebbe il rispetto degli stessi solo nel caso di «professionalità», intesa come «l'esercizio di un'attività svolta con continuità e stabilità, anche se non necessariamente con esclusività e permanenza» (Chionna, 367). La «professionalità», che è poi l'attuale criterio utilizzato dal legislatore, mancherebbe nel caso di sottoscrizione di un unico contratto di swap, o di sottoscrizione di più contratti di swap consistenti in realtà in «rinegoziazioni» di un contratto precedente, proprio perché in tali evenienze si è di fronte ad attività svolte in via esclusivamente occasionale (Salatino, 201-216). È stato inoltre messo in luce come tra le disposizioni che l'art. 31 consente di disapplicare, non rientra l'art. 26 del regolamento Consob, che recitava: «gli intermediari autorizzati, nell'interesse degli investitori e dell'integrità del mercato immobiliare: a) operano in modo (...) coerente con i principi e le regole generali del testo unico», il che renderebbe impossibile giungere alla sostanziale disapplicazione dell'art. 21 TUF, in forza del quale gli intermediari devono «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza» (Chionna, 50; Sartori). Nello stesso senso — afferma un altro autore — si dovrebbe argomentare a partire dalla gerarchia delle fonti del diritto, per cui non si potrebbe mai ammettere una deroga di una norma primaria ad opera di una regolamentazione secondaria (Tommasini, 814) Opinione poi espressa è quella secondo cui una manifestazione del principio di diligenza professionale sarebbe quella che impone all'intermediario l'obbligo di illustrare alla clientela le conseguenze giuridiche della propria dichiarazione in relazione alla perdita di tutela (Sangiovanni, 1100). Nel senso di qualificare la dichiarazione come «dichiarazione di scienza» e non di volontà è la teoria espressa da qualche autore, di tal modo da escludere l'operatività del principio di affidamento a favore dell'intermediario (Salatino, 216). In relazione alla correlazione della fattispecie con il rischio che l'approvazione per iscritto possa essere sottoposta alle medesime critiche riservate al 1341 c.c., per cui «si rischiava di riprendere, in ultima analisi, una soluzione ... che pure si era voluta superare in quanto ritenuta di non sufficiente tutela del cliente «debole» (Lener, 367). Argomentando dalla natura inderogabile della disciplina in materia di protezione dell'investitore al dettaglio, per cui la legge assegnerebbe in funzione della competenza differenti obblighi informativi, ma ciò non comporterebbe la disponibilità della qualifica, poi, un'autrice afferma che n assenza del presupposto sostanziale, l'effettivo possesso di specifiche conoscenze ed esperienza, la dichiarazione sarebbe in tal caso improduttiva di effetti (anche a prescindere dall'applicabilità della disciplina ex art. 1341 c.c. o ex art. 36 cod. cons., quest'ultima peraltro preclusa dalla qualità di «professionista» del cliente corporate), per contrarietà a norma imperativa o se del caso come negozio in frode alla legge (Motti, 1167), in quanto sarebbe comunque vessatoria la prassi che «forza» il rilascio della dichiarazione (Inzitari). Un'evoluzione del dibattito giurisprudenziale si è avuto con l'intervento della S.C., la quale sembra aver adottato la tesi secondo cui l'intermediario non è sottoposto all'obbligo di accertare l'eventuale discrasia tra la dichiarazione e la realtà, avendo affermato che «in tema di contratti di intermediazione mobiliare, ai fini dell'appartenenza del soggetto, che stipula il contratto con l'intermediario finanziario, alla categoria degli operatori qualificati, è sufficiente l'espressa dichiarazione per iscritto da parte dello stesso (società o persona giuridica) di disporre della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari — ai sensi dell'art. 13 del Regolamento Consob approvato con delibera 2 luglio 1991, n. 5387 — la quale esonera l'intermediario dall'obbligo di ulteriori verifiche, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in suo possesso; pertanto, salvo allegazioni contrarie in ordine alla discordanza tra contenuto della dichiarazione e situazione reale, tale dichiarazione può costituire argomento di prova che il giudice può porre alla base della propria decisione, ex art. 116 c.p.c., anche come unica fonte di prova, restando a carico di chi detta discordanza intenda dedurre l'onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza da parte dell'intermediario delle circostanze medesime o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro» (Cass. n. 12138/2009). In tal senso, pare che la S.C. si sia espressa, da una parte, per la non contrarietà a buona fede del comportamento dell'intermediario che, ricevuta passivamente la dichiarazione con cui il cliente abbia dato atto della propria competenza, disapplichi le regole previste, e, dall'altra parte, per la possibilità, per il cliente, di provare in giudizio la discordanza tra la situazione reale e quella dichiarata, pur operando la dichiarazione precedentemente resa come argomento di prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c.. Appare dunque possibile la valutazione successiva del giudice sulla competenza ed esperienza dell'investitore, in ragione del quale, benché l'intermediario possa avvantaggiarsi della collocazione dell'onere della prova in capo al cliente, subisce il rischio della discordanza tra realtà e dichiarazione. Nel dettare criteri più definiti, la S.C. ha quindi stabilito che «in tema di contratti di intermediazione finanziaria, la caratteristica di operatore qualificato ha un preciso contenuto tecnico — giuridico, espressamente disciplinato dall'art. 31, comma 2, del regolamento Consob 1° luglio 1998, n. 11522, e non integrato dal mero riferimento all'entità del patrimonio dell'investitore ed alle sue attitudini imprenditoriali» (Cass. n. 17333/2015). D'altra parte, in altra occasione la S.C. è parsa aderire alla tesi opposta, in forza della quale l'intermediario non può esonerarsi dal ritenere applicabili gli obblighi informativi in forza della semplice dichiarazione autoreferenziale del cliente, dovendo piuttosto accertare la veridicità della prospettazione fornita. In tal senso è stato affermato che «in tema di intermediazione finanziaria, l'art. 31 del regolamento Consob n. 11522 del 1998 secondo il quale gli investitori persone fisiche rientrano nella categoria degli operatori qualificati ove documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso società di intermediazione mobiliare, impone all'intermediario di accertare, al momento dell'instaurazione del rapporto, il pregresso svolgimento di quei ruoli e compiti da parte dell'investitore per il periodo minimo indicato, in quanto non è sufficiente ad escludere la responsabilità del primo la semplice dichiarazione del cliente di esonerarlo dalla detta verifica» (Cass. n. 13872/2017). Successivamente ancora, tuttavia, la Cassazione è parsa tornare all'opzione originaria, per cui: «In tema di contratti di intermediazione mobiliare avente ad oggetto derivati, la dichiarazione scritta di appartenenza alla categoria dell'operatore qualificato, rilasciata dall'investitore nel contratto quadro stipulato con la società per azioni incorporata, in qualità di originaria intermediaria, costituisce una dichiarazione di scienza fornita di valenza probatoria anche nel giudizio instaurato nei confronti dell'incorporante, restando a carico dell'investitore l'onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza della qualifica sopraindicata» (Cass. n. 3962/2018). A meno di dover ritenere una sostanziale diversità di vedute, potrebbe ritenersi di riportare ad unità le differenti teorie sulla base della distribuzione dei rischi derivanti, sia per clienti che per intermediari, dai propri comportamenti. In particolare, potrebbe sostenersi che l'intermediario deve accertare la rispondenza al vero della situazione dichiarata per il fatto che correrà sempre il rischio che il cliente possa far provare la propria mancanza di esperienza e competenza per far valere la violazione degli obblighi di comportamento; dall'altro lato, tuttavia, il cliente soffre il rischio di sottoscrivere una dichiarazione, che, pur non impedendogli di provare di non essere adeguatamente abile nella gestione degli investimenti effettuati, potrà sempre essere usata come argomento di prova contro di lui, rendendo più difficile soddisfare lo standard probatorio. I singoli obblighi informativiSe l'art. 21 TUF si limita a dettare in via generale l'obbligo per gli intermediari di acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati, definendo così un sistema fondato sulla distinzione di informazioni che devono essere trasmesse dall'investitore all'intermediario, e di informazioni che devono essere trasmesse dall'intermediario all'investitore, è tuttavia nella regolamentazione europea della Mifid 2 che sono definiti nello specifico gli obblighi informativi cui sono sottoposti i prestatori dei servizi d'investimento. La regolamentazione secondaria, contenuta nel libro III, parte II del Regolamento Intermediari, opera oramai in via sussidiaria rispetto alla Mifid 2 e al Regolamento Delegato 2017/565 della Commissione Ue. È poi da ritenere che per quanto riguarda i prodotti finanziari derivati emessi direttamente dall'intermediario con cui si contratta (si pensi ad esempio a swap OTC) possano in qualche modo considerarsi utili le raccomandazioni in materia di prodotti finanziari illiquidi e/o complessi della Consob nn. 9019104 del 2 marzo 2009 e 0097996 del 24 dicembre 2014. Infine, a partire dal 2018, è stata disposta l'applicazione del Regolamento PRIIP (acronimo di Packaged Retail Investment and Insurance-Based) e del Regolamento Delegato (UE) 2017/653 della Commissione, che hanno regolato la pubblicazione del KID (Key Information Document), inteso come vero fulcro di riduzione delle asimmetrie informative, per il fatto che si prevede sia un documento breve e conciso, in grado di raffigurare in maniera intuitiva costi e rischi del prodotto finanziario, ed integrante, come atto di natura precontrattuale, tutte le informazioni rilevanti nel futuro contratto. In quanto sia strumenti finanziari sia prodotti finanziari, ovverosia oggetti rispettivamente di negoziazione e di offerta diretta alla clientela, i derivati dunque si pongono a metà tra la disciplina in materia di servizi d'investimento, e la disciplina di offerta di prodotti finanziari, che comporta necessariamente il sovrapporsi di discipline tra loro eterogenee. L'art. 24, § 3 della Mifid 2 introduce il tema degli obblighi informativi prevedendo che «tutte le informazioni, comprese le comunicazioni di marketing, indirizzate dalle imprese di investimento a clienti o potenziali clienti sono corrette, chiare e non fuorvianti. Le comunicazioni di marketing sono chiaramente identificabili come tali». Tale previsione non aggiunge alcunché rispetto alla precedente contenuta nell'art. 27 del precedente Regolamento Intermediari n. 16190/2007. Parimenti, com'era indicata la finalità degli obblighi informativi nella precedente regolazione secondaria, il paragrafo 5 ora correla il rispetto delle disposizioni in questione alla funzione per gli investitori di comprendere la natura dell'investimento, il tipo degli strumenti finanziari oggetto di negoziazione, e, in particolare, i rischi ad essi connessi. È da ritenere che quest'ultimo punto sia quello che, soprattutto in relazione all'investimento in strumenti finanziari derivati, debba essere accuratamente soddisfatto, in particolare in relazione alla intrinseca natura complessa degli stessi. Nello specifico, è messo in evidenza come la funzione ultima della regolazione sia quella di permettere un investimento consapevole. Una prima delimitazione dell'oggetto degli obblighi di trasparenza, almeno per quello che qui interessa in relazione agli strumenti finanziari derivati, appare dalla lettura del paragrafo 4 lett. b) e c), come informazioni su rischi e costi. Ulteriormente, il Regolamento Delegato 2017/565 della Commissione distingue tra: informazioni riguardanti la classificazione dei clienti, l'impresa di investimento e i servizi che offre, gli strumenti finanziari, la salvaguardia degli strumenti finanziari o dei fondi dei clienti ed infine i costi e gli oneri connessi. L'art. 6 del Regolamento PRIIP, invece, prevede che le informazioni del KID costituiscono informazioni precontrattuali. Esse devono essere accurate, corrette, chiare e non fuorvianti. Le informazioni chiave contenute nel documento — è previsto — sono coerenti con ogni altro documento contrattuale vincolante, con le corrispondenti parti dei documenti di offerta e con i termini e le condizioni del PRIIP, e dunque è da ritener che non possano discostarsene, Per quanto attiene alla classificazione del cliente, ai sensi dell'art. 45 del Regolamento Delegato 2017/565 l'intermediario ha l'obbligo di informare l'investitore della qualifica entro la quale è stato inquadrato. Ciò permette al cliente di conoscere il livello di protezione che gli deve essere riservato, e, dunque di richiedere una differente qualificazione in relazione alle necessità del caso, se superiore, passando da cliente professionale a cliente al dettaglio, o inferiore, viceversa, per beneficiare di una maggiore flessibilità ed efficienza delle procedure. Significativi, poi gli obblighi informativi post-trade, ovverosia quelli inerenti ad eventi successivi alla negoziazione che possano riguardare l'eventuale modifica di valore degli strumenti finanziari. In particolare, se a partire dal Regolamento n. 10943/1997, si prevedeva, all'art. 28, con specifico riferimento alla negoziazione di strumenti derivati, l'obbligo per l'intermediario di notificare «una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50%», in relazione al «valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l'esecuzione delle operazioni», successivamente, il Regolamento Intermediari del 2007 ha modificato approccio, descrivendo una fattispecie più generale e, dunque, discrezionale, che, ai sensi dell'art. 34, prevedeva che «gli intermediari notificano al cliente in tempo utile qualsiasi modifica rilevante delle informazioni fornite ai sensi degli articoli da 29 a 32». Il riferimento ai precedenti articoli indicava le singole categorie di informazioni, tra le quali rilevavano in particolare, anche quelle attinenti ai singoli strumenti finanziari e al loro valore. Da ultimo invece, il Regolamento Delegato della Commissione, all'art. 62, stabilisce che gli intermediari «che detengono un conto di un cliente al dettaglio che include posizioni in strumenti finanziari caratterizzati dall'effetto leva o in operazioni con passività potenziali informano il cliente quando il valore iniziale di ciascuno strumento subisce un deprezzamento del 10% e successivamente di multipli del 10 %». Il riferimento dunque non è agli strumenti derivati, e cioè ad una particolare categoria normativa, ma è identificata in funzione dell'effetto prodotto, ovverosia quello di amplificare i rischi assunti e di poter produrre un aumento delle passività a carico del cliente. L'informazione sui rischiIn relazione a tutte le categorie di informazioni, ed in particolare alle informazioni sui rischi degli strumenti finanziari, il legislatore detta norme uniformi, per mezzo dell'art. 44 del Regolamento Delegato 2017/565, con riguardo all'utilizzo di serie storiche, simulazioni di risultati passati e previsioni su risultati futuri. Le serie storiche non devono essere inferiori a 5 anni, o se la vita dello strumento è stato inferiore, l'intero periodo per il quale è stato negoziato, con evidente indicazione dei periodi di riferimento e la chiara specificazione che risultati passati non costituiscono previsioni attendibili sul futuro e, se con riferimento ad una diversa divisa, la componente relativa alle oscillazioni del cambio, nonché l'eventuale natura lorda del risultato. Per quanto riguarda invece le simulazioni si risultati passati, esse devono essere fornite sulla base di risultati reali di strumenti o indici identici, e l'indicazione che, parimenti, esse non costituiscono affidabile previsione per il futuro. Le aspettative di risultati futuri, invece, non possono basarsi su risultati passati, dovendosi in tal senso intendere che non possono far riferimento a ritorni passati positivi per ingenerare nel cliente la convinzione che uguali saranno i risultati futuri, debbono essere fondati su ipotesi ragionevoli fondati su dati obiettivi (problema fondamentale, vedremo, attiene per i derivati ai modelli di pricing predisposti dagli intermediari), indicano al pari se il risultato è lordo, devono prendere in considerazione differenti scenari di mercato perché siano ipotizzati differenti possibili attese, ed infine, indicano la non affidabilità di tali previsioni ipotetiche. Come detto, fondamentale è la indicazione dei rischi correlati all'investimento, per cui il legislatore europeo ha ritenuto di obbligare, secondo l'art. 24 paragrafo 4 della direttiva 2014/65/UE, gli intermediari a fornire informazioni su strumenti finanziari e strategie d'investimento con tanto di avvertenze sui rischi associati, e l'indicazione del rispetto della normativa in materia di product governance. In ragione di ciò, l'acquirente di strumenti finanziari derivati avrà diritto a ricevere l'indicazione del mercato di riferimento per cui lo strumento è stato creato nonché se esso è stato strutturato in relazione ad una clientela retail o professionale. Si prevede dunque un generale obbligo per l'intermediario, ai sensi dell'art. 48 del Regolamento Delegato 2017/565, di fornire una descrizione della natura degli strumenti finanziari e dei rischi ad essi connessi secondo differenti condizioni di mercato. In particolare, si vedrà nel prossimo paragrafo l'evoluzione delle modalità di esplicazione del rischio avutesi per mezzo dell'evoluzione della normativa europea. Significativo il riferimento per cui gli intermediari forniscono «una descrizione generale della natura e dei rischi degli strumenti finanziari, tenendo conto, in particolare, della classificazione del cliente come cliente al dettaglio, cliente professionale o controparte qualificata»; in tal senso parrebbe potersi desumere che la stessa complessità ed approfondimento della descrizione dello strumento debba essere calibrata in relazione alla qualifica riservata al cliente per il quale si negozia, richiedendosi uno sforzo di sintesi maggiore nel caso di clienti al dettaglio. Il Regolamento, poi, specifica più nel dettaglio il contenuto della disclosure relativa ai rischi dello strumento finanziario. Deve essere chiaramente esplicato il rischio di mercato, ovverosia il rischio di perdite derivanti da movimenti sfavorevoli nei prezzi della generalità degli strumenti finanziari (Caputo Nassetti, 16). In relazione agli strumenti derivati, chiaramente, tale figura di rischio si lega alla componente derivata del valore sottostante cui lo strumento derivato rimanda nella determinazione del proprio valore. Rileva, e la comunicazione ne è altrettanto decisiva per il caso di operazioni su derivati, la spiegazione dell'effetto leva con le sue conseguenza sull'incidenza del rischio di mercato. Si definisce innanzitutto la leva finanziaria come il meccanismo di utilizzo di capitale di debito con la finalità di aumento dei rischi, e dunque di profitti e perdite attese. La Consob, nel Regolamento n. 10943/1997, già aveva così spiegato il fenomeno della leva finanziaria: «le operazioni su futures comportano un elevato grado di rischio. L'ammontare del margine iniziale è ridotto (pochi punti percentuali) rispetto al valore dei contratti e ciò produce il così detto effetto di leva. Questo significa che un movimento dei prezzi di mercato relativamente piccolo avrà un impatto proporzionalmente più elevato sui fondi depositati presso l'intermediario: tale effetto potrà risultare a sfavore o a favore dell'investitore. Il margine versato inizialmente, nonché gli ulteriori versamenti effettuati per mantenere la posizione, potranno di conseguenza andare perduti completamente. Nel caso i movimenti di mercato siano a sfavore dell'investitore, egli può essere chiamato a versare fondi ulteriori con breve preavviso al fine di mantenere aperta la propria posizione in futures. Se l'investitore non provvede ad effettuare i versamenti addizionali richiesti entro il termine comunicato, la posizione può essere liquidata in perdita e l'investitore debitore di ogni altra passività prodottasi». Deve poi essere comunicato il livello di volatilità del prezzo, intesa come valore medio delle variazioni normalmente osservate. Particolarmente rilevante è per gli strumenti finanziari derivati negoziati OTC la comunicazione del rischio di liquidità, inteso come il rischio derivante dalla mancanza o dallo scarso spessore della domanda o dell'offerta di strumenti finanziari tali da rendere impossibile o difficile la liquidazione di una posizione (Caputo Nassetti, 17). Il paragrafo 4 dell'art. 48 definisce poi il caso di negoziazione, piuttosto frequente nel caso di derivati sintetici, su strumenti che risultino la composizione di più strumenti finanziari; si prevede che particolare informativa debba dunque essere data sulla natura giuridica del contratto, nonché sugli elementi che lo compongono e sulle modalità di interazione tra questi ultimi e i rischi che vi conseguono. Ulteriormente, e tale profilo è anch'esso rilevante per il caso di strumenti finanziari derivati, l'informativa deve contenere l'indicazione della possibilità che il cliente, per mezzo dell'investimento, potrebbe assumersi, a seguito di operazioni su tali strumenti, impegni finanziari e altre obbligazioni aggiuntive, comprese eventuali passività potenziali, nonché eventuali requisiti di margine. In relazione alla comunicazione delle informazioni riguardanti gli strumenti finanziari oggetto di investimento, la S.C. ha messo in evidenza il collegamento funzionale di tale previsione con le regole in materia di adeguatezza ed appropriatezza dell'operazione posta in essere. Si è affermato che «la pluralità degli obblighi (di diligenza, di correttezza e trasparenza, di informazione, di evidenziazione dell'inadeguatezza dell'operazione che si va a compiere) previsti dagli artt. 21, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 58/1998, 28, comma 2, e 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998 (applicabile ratione temporis) e facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie, convergono verso un fine unitario, consistente nel segnalare all'investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere (cd. suitability rule). Tale segnalazione deve contenere specifiche indicazioni concernenti: 1) la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto; 2) la precisa individuazione del soggetto emittente, non essendo sufficiente la mera indicazione che si tratta di un «Paese emergente»; 3) il rating nel periodo di esecuzione dell'operazione ed il connesso rapporto rendimento/rischio; 4) eventuali carenze di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo (situazioni cd. di grey market); 5) l'avvertimento circa il pericolo di un imminente default dell'emittente» (Cass. n. 11641/2016). Sul tema della comunicazione dei rischi connessi all'utilizzo di leva finanziaria la Corte di cassazione si è già espressa, coerentemente con la finalità di permettere una chiara individuazione dei rischi cui il cliente soggiace per mezzo dell'utilizzo del capitale di debito, ricordando la necessità della previsione di un'informativa puntuale e specifica. Così, si è affermato che non possa «il relativo obbligo informativo considerarsi assolto con il generico riferimento alla possibilità di notevoli variazioni del valore di mercato, con l'assunzione di un elevato rischio di perdite di dimensioni anche eccedenti l'esborso originario e comunque non quantificabili» (Cass. n. 17440/2016). Tornando al Regolamento PRIIP, l'art. 6 prevede che il KID contenga una sezione dal titolo «Quali sono i rischi e qual è il potenziale rendimento?», che deve esporre una breve descrizione del profilo di rischio/rendimento. Tale descrizione è effettuata attraverso un indicatore sintetico di rischio, l'indicazione della perdita massima possibile del capitale investito (ovverosia l'ammontare di quanto può esser perso attraverso l'investimento, se possano essere computate passività ulteriori al capitale, e se vi siano strumenti di protezione del capitale o di copertura dei rischi assunti), e gli scenari di performance adeguati e le ipotesi formulate per realizzarli, cui si aggiungono informazioni sulle condizioni dei rendimenti agli investitori al dettaglio ed informazioni in materia fiscale. Appare evidente dunque che indicatore sintetico di rischio, massimo ammontare che può esser perso e scenari di performance sono gli strumenti attraverso cui l'investitore che non abbia le competenze di matematica finanziaria adatte riesce a farsi un'idea sulla rischiosità dell'operazione che sta compiendo. Gli allegati del Regolamento Delegato (UE) 2017/653 della Commissione indicano le regole di dettaglio di presentazione di tali strumenti di informativa, definendo così, ad esempio l'indicatore sintetico di rischio come una scala su 7 livelli facilmente comprensibili, o suddividendo gli scenari di performance tra: scenario favorevole, scenario moderato, scenario sfavorevole e scenario di stress. Si è molto dibattuto, anche precedentemente alla Mifid 2 e al Regolamento PRIIP, alle necessità di regolare le modalità attraverso cui imprese di investimento e banche forniscono al cliente una completa informativa dei rischi che assume per mezzo dell'investimento. In particolare, è stato sostenuto che l'aspetto rilevante che caratterizza la struttura del documento informativo, per come definito dal Regolamento PRIIP sarebbe «costituito dalla rigorosa predeterminazione ed oggettività che informano i criteri e le metodologie di calcolo: nulla è rimesso alla valutazione dell'emittente» (Marcelli). Si è detto che la scelta dell'utilizzo, nell'allegato IV, degli scenari di performance si pone, tra un'opzione fondata sugli scenari deterministici (metodo cosiddetto what if) ed un'altra sugli scenari probabilistici, maggiormente vicino al primo modello, poiché in essi è principale la funzione di simulazione dei rendimenti attesi e residuale quella di previsione degli stessi. Le misurazioni, dunque, avvengono su dati storici, i rendimenti passati, e non su metodi di calcolo delle probabilità di verificazione dell'evento. La rappresentazione, invece, degli scenari probabilistici dell'investimento finanziario sull'orizzonte temporale consigliato è l'indicazione, per ciascun evento, di un valore percentuale, corrispondente alla probabilità dell'evento medesimo e un valore centrale, corrispondente alla mediana dei controvalori finali del capitale investito che risultano associati all'evento medesimo. L'utilizzo delle analisi di scenario condotte con il metodo what if, che dunque analizza per differenti variabili i possibili scenari che potrebbero attuarsi, a scapito del metodo probabilistico, che definisce in termini matematici la probabilità di verificazione dei vari eventi tali da incidere sul valore degli strumenti finanziari, è stato criticato, da parte della dottrina, perché esso sarebbe strumento poco efficiente in quanto «si offrono al lettore diversi scenari che tipicamente non riflettono la totalità dei risultati possibili e basati su ipotesi di evoluzione delle variabili di mercato che però sono selezionate senza tener conto della loro effettiva probabilità di accadimento» (Patroni Griffi, 38). Sicuramente gli scenari di performance si distinguono dagli scenari deterministici basati sul what if e sembra, in ciò maggiormente vicino alla figura dello scenario probabilistico. Tuttavia, da questo esso si discosta per il fatto che quelli definiti dal Regolamento PRIIP danno luogo ad una stima effettuata sulla base di prove relative alle variazioni passate del valore dell'investimento. Una prova di tale concentrazione sul valore conoscitivo delle serie storiche dei rendimenti è desumibile «dal richiamo, contenuto nel § 13 dell'All. IV, al c.d. metodo di bootstrapping, che viene così riassunto nel § 22 dell'All. II, cui il cit. § 13 a sua volta rimanda: i) calcolo del rendimento di ciascun periodo osservato negli ultimi 5 anni; ii) selezione a caso di un periodo osservato che corrisponde al rendimento di tutti i contratti sottostanti per ciascun periodo simulato nel periodo di detenzione raccomandato; iii) calcolo del rendimento di ciascun contratto, sommando i rendimenti nei periodi selezionati e correggendo il rendimento così ottenuto in modo tale da garantire che il rendimento atteso misurato dalla distribuzione simulata dei rendimenti sia l'aspettativa neutrale al rischio del rendimento nel periodo di detenzione raccomandato; iv) calcolo del prezzo di ciascun sottostante» (Girino). Si può dunque affermare che, se il legislatore ha dettato un criterio che si discosta dalla metodologia what if, non è stato abbracciato l'altro metodo degli scenari previsionali. Dall'altra parte, è stato messa in discussione la piena obiettività dell'utilizzo di scenari probabilistici, in ragione del fatto che, per la costruzione di tali modelli, «è necessario fare assunzioni sul premio a rischio richiesto dagli investitori per detenere attività rischiose. Il premio a rischio varia da soggetto a soggetto e ogni ipotesi su un determinato livello del premio a rischio valido per tutti gli investitori è inevitabilmente arbitraria e discutibile; per ciò che riguarda, ad esempio, i derivati su azioni, esiste un'ampia letteratura che documenta la forte variabilità nel tempo (ma anche fra paesi) del premio al rischio misurato ex post (cioè come differenza fra i rendimenti delle azioni e il tasso risk-free)»; in ragione di ciò, «gli scenari probabilistici calcolati sulla base delle «probabilità reali» finiscono quindi per essere inevitabilmente arbitrari e dipendenti dalle ipotesi sull'avversione al rischio degli investitori» (Giordano, Siciliano, 6). A far da contraltare all'utilizzo di un metodo obiettivo, non passibile di esser criticato per l'arbitrarietà degli analisti, fondato sulle serie storiche dei rendimenti osservabili, stanno tuttavia tutta una serie di clausole di disclaimer, contenute nell'allegato V, quali ad esempio la previsione per cui: «Gli scenari presentati sono una stima della performance futura sulla base di prove relative alle variazioni passate del valore di questo investimento e non sono un indicatore esatto. Gli importi dei rimborsi varieranno a seconda della performance del mercato e del periodo di tempo per cui è mantenuto l'investimento/il prodotto», o «il grafico presentato mostra una serie di possibili risultati e non è un'indicazione esatta dell'importo del possibile rimborso. L'importo del rimborso varierà a seconda dell'andamento del sottostante. Per ciascun valore del sottostante il grafico mostra quale sarebbe il profitto o la perdita del prodotto. L'asse orizzontale mostra i diversi prezzi possibili del valore sottostante alla data di scadenza, mentre l'asse verticale mostra il profitto o la perdita». La giurisprudenza non si è espressa sulla distinzione tra le differenti metodologie di prospettazione del rischio, tuttavia, spesso in ragione del clamore che hanno avuto nell'opinione pubblica, ha ritenuto come parte degli obblighi informativi dell'impresa di investimento la necessità di indicazione degli scenari di probabilità. Anticipando le questioni che saranno delineate in futuro in relazione all'applicazione dei rimedi della nullità per mancanza della causa in concreto del contratto in ragione della mancata conoscenza bilaterale dell'alea, che comporterebbe la sanzione della nullità per la violazione, sostanzialmente, di una norma di comportamento, si è affermato che: «Perché l'alea, che ... costituisce l'oggetto del contratto, possa considerarsi «razionale» debbono essere definiti e conosciuti ex ante, con certezza, gli scenari probabilistici e delle conseguenze del verificarsi degli eventi. In sostanza, tutti gli elementi dell'alea e gli scenari che da essa derivano costituiscono ed integrano la causa stessa del contratto, perché appartengono alla «causa tipica» del negozio, indipendentemente dalle ricorrenti distinzioni tra scopo di copertura o speculativo. In difetto di tali elementi, il contratto deve ritenersi nullo per difetto di causa, poiché il riconoscimento legislativo risiede nella «razionalità» dell'alea e, quindi, nella sua «misurabilità», non essendo concepibile e non meritando, pertanto, tutela un negozio caratterizzato dalla creazione di alee reciproche e bilaterali, la qualità e la quantità delle quali siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all'oggetto dell'accordo» (App. Milano 18 settembre 2013). Questo, in particolare, perché «in assenza di informazioni specifiche sul profilo di rischio del prodotto, ricostruito attraverso il ricorso a scenari probabilistici e senza informazioni sul valore del mark to market alla data di stipulazione, l'investitore non è in grado di formulare un giudizio di convenienza economica del derivato in termini di costo/rischio/beneficio» (Trib. Milano 13 febbraio 2014, in dirittobancario.it). L'informazione sui costi. Il mark to market. L'upfrontDopo aver poi indicato nel dettaglio le informazioni che attengono alla salvaguardia degli strumenti finanziari detenuti dall'intermediario, il legislatore regola l'altra grande categoria rilevante in particolare per gli strumenti derivati, ovverosia il profili riguardanti le informazioni sui costi connessi alla negoziazione all'art. 50 del Regolamento Delegato. Fondamentale è, in apertura della disposizione, l'esclusione della possibilità, pur concessa per differenti strumenti finanziari, di concordare, nel caso di negoziazione di strumenti finanziari derivati, se il cliente è professionale, una riduzione dell'informativa in materia di costi. Con ciò dunque il legislatore ha inteso porre un freno a qualsiasi pratica volta alla minimizzazione della trasparenza in materia di derivati, pur sostenuta sulla base della natura professionale della controparte dell'impresa di investimento. Tale meccanismo — prevede la norma — opera anche in via indiretta, per il fatto che è esclusa qualsiasi limitazione dell'informativa in materia di costi in operazioni con controparti qualificate, che abbiano come fine quello di permettere la successiva offerta ai clienti degli strumenti finanziari. I costi, secondo quanto definito dall'allegato II del Regolamento Delegato (UE) 2017/653, sono indicati dal § 2 come i costi e gli oneri connessi applicati dall'impresa di investimento per il servizio o i servizi di investimento o per i servizi accessori prestati al cliente e i costi e gli oneri connessi associati alla realizzazione e gestione degli strumenti finanziari. La nozione contenuta nel Regolamento Intermediari precedente definiva i costi come «il corrispettivo totale che il cliente deve pagare in relazione allo strumento finanziario o al servizio di investimento o accessorio, comprese tutte le competenze, le commissioni, gli oneri e le spese connesse, e tutte le imposte che verranno pagate tramite l'intermediario». È da ritenere che l'individuazione specifica fatta nell'allegato II del Regolamento Delegato della Commissione sostanzialmente replichi tale nozione, individuando le singole voci cui è applicabile l'obbligo di disclosure. Le informazioni sui costi e oneri, poi, compresi quelli connessi al servizio d'investimento e allo strumento finanziario, non causati dal verificarsi da un rischio di mercato sottostante, devono essere presentate in forma aggregata per permettere al cliente di conoscere il costo totale e il suo effetto complessivo sul rendimento e, se il cliente lo richiede, in forma analitica. Laddove applicabile, tali informazioni sono fornite al cliente con periodicità regolare, e comunque almeno annuale, per tutto il periodo dell'investimento. Se questo è quanto definito dalla Mifid 2, è da ritenere tuttavia che, in particolare agli strumenti derivati finanziari OTC, in quanto a rischio di illiquidità, si applichi la comunicazione Consob n. 9019104 del 2 marzo 2009 in materia di prodotti finanziari illiquidi, la quale prevede che venga effettuata la cosiddetta scomposizione (unbundling) delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente, con distinzione tra fair value e costi che gravano, implicitamente o esplicitamente, sul cliente. Chiaramente l'esposizione in maniera chiara e scomposta delle singole voci di costo permette una maggiore trasparenza di quelli che sono stati definiti «costi impliciti» (Maffeis, 648). Ciò è coerente con la successiva comunicazione Consob n. 0097996 del 24 dicembre 2014, per cui «sul piano dell'informativa da fornire alla clientela, specie nella fase di mercato primario e per le operazioni negoziate in conto proprio, le indicazioni dell'ESMA andranno declinate con l'evidenziazione separata di ogni costo, anche implicito (mark-up), del prodotto e del suo fair value», ed, avendo aggiunto che «le metodologie applicate per la determinazione delle richiamate informazioni saranno coerenti con i criteri ed i modelli impiegati dagli intermediari a «fini interni» per la valutazione dei prodotti finanziari nel portafoglio di proprietà, per la redazione del bilancio o per finalità di gestione del rischio, nonché per le analisi eventualmente compiute in fase di costruzione della gamma dei prodotti da emettere od offrire alla clientela». Per quanto attiene invece alla normativa contenuta nel Regolamento PRIIP, invece, l'art. 8 prevede, sinteticamente la necessaria presenza nel KID di una voce dal titolo «Quali sono i costi?», che indichi i costi legati a un investimento nel PRIIP, comprendente sia i costi diretti che quelli indiretti a carico dell'investitore al dettaglio, inclusi i costi una tantum e ricorrenti, presentati mediante indicatori sintetici di detti costi e, per garantire la comparabilità, i costi complessivi espressi in termini monetari e percentuali, onde dimostrare l'incidenza composta dei costi complessivi sull'investimento. Il significato di questa disposizione può essere inteso solo dalla lettura della normativa secondaria contenuta all'art. 5 del Regolamento Delegato (UE) 2017/653, che prevede sia l'inserimento di un indicatore sintetico di costo, il metodo di calcolo dei costi, e una tabella che segnali le singole voci di costo, come divise tra costi una tantum, costi ricorrenti e oneri accessori. In particolare, merita di essere ricordato quanto inserito nell'allegato VI del Regolamento Delegato, al numero 37, per cui «la differenza tra il prezzo e il valore equo del prodotto è considerata una stima dei costi di ingresso totali inclusi nel prezzo. Se l'ideatore del PRIIP non è in grado di distinguere i costi impliciti rilevanti da comunicare (ovverosia commissioni di vendita, costi di strutturazione, compresi i costi di market-making (differenziale) e costi di regolamento, oneri di copertura, spese legali; costi per la garanzia del capitale, premio implicito pagato all'emittente) utilizzando la differenza tra il prezzo e il valore equo, deve contattare l'emittente delle diverse componenti del prodotto, o l'organismo competente, per ottenere le informazioni rilevanti su tali costi», ed al numero 38, per cui «il valore equo è il prezzo che si riceverebbe in caso di vendita di un'attività o si pagherebbe in caso di trasferimento di una passività in una transazione regolare nel mercato principale (o più vantaggioso) alla data di misurazione nelle condizioni attuali di mercato (ossia un prezzo di uscita), indipendentemente dal fatto che il prezzo sia direttamente osservabile o stimato mediante un'altra tecnica di valutazione». Per comprendere la natura dei riferimenti effettuati da Regolamento a costi impliciti, valore equo (fair value) e modalità di pricing risulta utile richiamare il dibattito della dottrina sul tema. Si definisce innanzitutto mark to market una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark-to-market è influenzato da una serie di fattori ed è, quindi, sistematicamente aggiustato in funzione dell'andamento dei mercati finanziari (Caputo Nassetti, 2016, 299). Essa costituirebbe, secondo tale autore, una metodologia di analisi completamente obiettiva e priva di alcun elemento di soggettività riconducibile alla persona di chi effettua tale valutazione. Così, dunque, si afferma che «l'oggettività nasce dal fatto che vengono utilizzati, ad esempio, i tassi di interesse pubblicati e diffusi sul mercato. Si tratta della media di prezzi di mercato, ma non è — di conseguenza — un prezzo di mercato. Utilizzando tale prezzo medio il valore attuale dei flussi di cassa delle obbligazioni di pagamento di uno swap è zero, cioè il valore delle obbligazioni di pagamento di una parte equivale esattamente al valore delle obbligazioni di pagamento dell'altra parte. Da qui il concetto di «par swap”» (Caputo Nassetti, 2012, 453). Una tale definizione è da ritenere sostanzialmente coerente con quanto espresso al punto 38 del Regolamento Delegato (UE) 2017/653 indicato precedentemente. Avuto riguardo a questo valore teorico, tuttavia, lo stesso Regolamento, al numero 37, prevede che possa esservi una differenza tra il prezzo e il valore equo del prodotto, la quale è considerata una stima dei costi di ingresso totali inclusi nel prezzo, che fondamentalmente sono quelli ammessi dal numero 29 (commissioni di vendita, costi di strutturazione, compresi i costi di market-making (differenziale) e costi di regolamento, oneri di copertura, spese legali; costi per la garanzia del capitale, premio implicito pagato all'emittente). Tale scostamento, in tal senso, contraddistinguerebbe la differenza tra attività di pricing e attività di valuation: la prima mirerebbe a determinare in maniera oggettiva il prezzo teorico di partenza, mentre la seconda consentirebbe di determinare il prezzo effettivo a cui viene negoziato il contratto derivato (Caputo Nassetti, 299). È dunque possibile affermare che i contratti derivati OTC si caratterizzano per la sistematica presenza di un differenziale positivo fra prezzo di negoziazione e prezzo teorico di mercato (mispricing). E che tale differenza di valore costituisce il profitto finanziario all'intermediario. Si suole dunque distinguere tra contratti derivati par e non par. I contratti par sono strutturati in modo tale che le prestazioni delle due controparti siano agganciate al livello dei tassi di interesse corrente al momento della stipula del contratto; a tale data il contratto ha quindi un valore di mercato nullo per entrambe le controparti. I contratti non par, invece, presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. In generale, i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di upfront (Tezzon). La dottrina citata tuttavia contesta la natura unitaria della nozione di upfront. In particolare, si mette in evidenza come la funzione di bilanciamento mediante pagamento di upfront di un derivato nato par e a cui vengono applicati i vari premi e commissioni a favore dell'intermediario non avrebbe senso, per il fatto che a questo si chiederebbe di retrocedere il compenso per la prestazione del servizio e concludere il contratto senza profitto. Altrimenti, l'upfront potrebbe consistere, in uno swap, specificamente nel momento in cui non vi siano precedenti contratti derivati tra le parti da rinegoziare, semplicemente in un'anticipazione sui pagamenti che l'intermediario dovrà effettuare secondo i termini contrattuali. Infine, ed è questo il caso in cui la fattispecie risulta di maggiore applicazione, l'upfront consiste nell'anticipo non aleatorio del differenziale positivo necessario a compensare in via principale la perdita originaria di un precedente primo swap da negoziare (Lembo, L'analisi giuridica delle rinegoziazioni e dell'upfront, in dirittobancario.it; in tal senso esso consisterebbe nel valore negativo del mark to market per il cliente del precedente derivato). Si è detto in giurisprudenza che il mark to market «consiste in una sorta di simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima probabilistica del rapporto di debito/credito fra le parti che non comporta conseguenze giuridiche perché non si traduce in una perdita monetaria o in un obbligo di pagamento» (App. Milano 3 giugno 2014, in dirittobancario.it). Esso dunque si pone come un valore puramente teorico, e non il prezzo di mercato vero e proprio, al quale il contratto, prima della scadenza dovrebbe poter essere scambiato o sostituito. Coerentemente a tale lettura è l'opinione che «la nozione di mark to market trova eco in due norme: l'art. 203 TUF, che ai fini dell'applicazione dell'art. 76 legge fall. lo descrive come costo di sostituzione degli strumenti finanziari derivati e di quelli analoghi individuati ai sensi dell'art. 18 comma 5, lett. a), dello stesso TUF e delle operazioni a termine su valute nonché delle operazioni di prestito titoli, di pronti contro termine e di riporto; e l'art. 2427-bis, comma 1, n. 1 c.c., in base al quale nella nota integrativa del bilancio deve essere indicato per ciascuna categoria di strumenti finanziari derivati il fair value, ossia il relativo prezzo di scambio in una transazione tra terzi indipendenti. Dunque, il costo di sostituzione degli strumenti finanziari (derivati ed equiparati) non è un vero e proprio prezzo di mercato concreto ed attuale, ma una grandezza monetaria teorica che è calcolata per l'ipotesi in cui il contratto cessi prima della sua scadenza naturale» (Cass. n. 9644/2016). È dunque da mettere in evidenza come ad un valore negativo del mark to market non corrisponda alcuna obbligazione pecuniaria per il cliente (Trib. Terni, 8 febbraio 2012). Parte della giurisprudenza riconosce la differenza precedentemente ricordata tra valuation e pricing nel momento in cui afferma che «la c.d. commissione implicita, più correttamente definibile come margine lordo di intermediazione, non comporta, né al momento della conclusione di un contratto swap, né durante la vigenza di esso, un esborso a favore dell'istituto di credito da parte del cliente poiché consiste nella differenza tra il valore corrente (c.d. fair value) del contratto al momento della sua rilevazione e il fair value di analogo contratto stipulato, a condizioni praticate sul mercato, con soggetti terzi» (Trib. Verona 25 marzo 2013, in dirittobancario.it). Il mark to market, dunque, «consiste in un differenziale attualizzato di contrapposti flussi finanziari, assumendo la veste di vero e proprio oggetto del contratto di IRS; lo stesso, quindi, lungi dall'operare solo in vicende estintive (risoluzione consensuale anticipata; risoluzione per procedure concorsuali; risoluzione per inadempimento contrattuale), viene utilizzato per misurare l'alea i) in sede di costruzione dello strumento, ovvero di predeterminazione delle condizioni economiche del contratto; ii) in sede di risk management; iii) in sede di indicazione del fair value nella redazione del bilancio dell'investitore (ex art. 2427-bis c.c.); iv) in sede di segnalazione alla Centrale Rischi di Banca d'Italia dell'esposizione in derivati del cliente» (App. Milano 25 settembre 2018). L'alea razionaleDefiniti così una serie di punti di partenza (distinzione di regole di validità e regole di condotta, previsione di obblighi informativi dei principali elementi del contratto, funzioni degli strumenti finanziari derivati tra copertura e speculazione), è necessario descrivere come giurisprudenza e dottrina hanno sintetizzato tali elementi nell'analisi del rapporto tra causa, corretta conoscenza dell'alea e conseguenze della violazione degli obblighi di condotta imposti agli intermediari. Prima questione da porsi è quella della natura dei contratti derivati, se aleatoria o commutativa. Non potendo qui ripercorrere l'intero dibattito sul significato dell'aleatorietà del contratto, si può ricordare solo come differenti e multiformi siano state le opinioni al riguardo. Assunto che il codice civile «enuncia la categoria [...] ma non la identifica, demandando all'interprete il relativo compito» (Balestra, 2011, 666), una prima concezione «strutturale» dell'alea afferma che essa sarebbe causa tipica del contratto consistente nello «scambio tra rischi equivalenti» (Boselli, 777), La ricostruzione pone l'accento sugli scopi concreti perseguiti attraverso la pretesa di rinvenire un'unica natura all'interno della categoria, quella in forza della quale «è impossibile valutare la relazione di reciprocità tra vantaggi e perdite» (Di Giandomenico, 66), sicché l'alea in senso tecnico manifesta una relazione di scambio tra due rischi equivalenti di cui costituisce la causa generica (del contratto aleatorio in generale), dovendosi poi specificare gli elementi tipici secondo le caratteristiche di ciascun contratto appartenente alla categoria (Boselli, 473). Sostanzialmente, dunque, si fonda la categoria sull'effetto finale che una parte ottiene (Santoro Passarelli, 224). In questo senso, il contratto è definito aleatorio se il rischio tocca immediatamente l'oggetto contrattuale, per il fatto che la res dedotta si determina solamente in ragione del rischio predefinito dalle parti, per cui l'oggetto sostanziale del contratto è il rischio (Messineo, 1968, 774). Tale opinione era nel suo nucleo simile a quella secondo la quale, perché si possa definire aleatorio il contratto, è necessario che l'evento dedotto incida direttamente sull'oggetto contrattuale, di modo da determinare il quantum o l'an stesso della prestazione, di modo che al verificarsi di un evento muta il sinallagma contrattuale, sia nell'entità della prestazione, sia nel suo stesso equilibrio. Differenza dai contratti commutativi sarebbe la necessaria determinazione all'atto di formazione del contratto della qualificazione del rischio, ineliminabile ad opera di una delle parti (Nicolò, 1024). Dall'altra parte, la teoria cosiddetta «funzionale» del contratto aleatorio vuole che esso sia tale in forza del fatto che «la prestazione di una delle parti (o di ciascuna delle parti) è determinata nella sua misura (comprendendo in detto termine anche la misura zero) — nella sua misura, non nel suo oggetto, contro quanto a volte si insegna; tanto meno direttamente nel suo valore economico — in funzione di un evento futuro e incerto, definito nel contratto e considerato indipendente dalla volontà delle parti ... La caratteristica del contratto aleatorio è così quella discendente da un particolare criterio di misura della prestazione» (Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa, tit. cred., 1958, 440). Ulteriore opinione è quella che tenta di mediare tra le prospettive funzionale e strutturale, per cui occorre definire l'evento incerto come necessariamente diretto ad incidere sull'equilibrio negoziale, di modo che l'alea «determina distintamente i singoli rapporti che compongono il complesso rapporto contrattuale» (Gambino, 243). D'altro canto, tuttavia, in relazione al profilo funzionale, «nei contratti aleatori, la caratteristica mancanza di nesso di correlatività nel mutamento giuridico afferente alle singole posizioni subiettive rappresenta l'elemento teleologico della categoria, per il quale essa è idonea ad assolvere, nella vita dei traffici, una funzione di essenziale incertezza del complessivo e finale risultato contrattuale: essenziale incertezza, derivante non da eventi estranei alla dinamica contrattuale ed incidenti sul valore economico delle prestazioni, come accade per l'alea normale, ma derivante da un avvenimento contrattualmente previsto e destinato ad incidere direttamente sul rapporto contrattuale, realizzandosi automaticamente, al suo verificarsi, un mutamento giuridico nelle posizioni giuridiche individuali» (Gambino, 246). A queste ricostruzioni se ne aggiunge una che fonda, oltre alla deduzione di un evento incerto in contratto da cui far dipendere le prestazioni delle parti ed alla modulazione di queste alle variazioni della realtà esterna al contratto, la presenza dell'effettiva volontà delle parti di «rischiare» ovvero conferire natura aleatoria al contratto stesso (Balestra, 2000, 142). È evidente il rilievo centrale che ha la presenza di rischi derivanti dall'oscillazione del sottostante nei contratti derivati. La giurisprudenza maggioritaria si è dunque espressa per la natura aleatoria di tali contratti, assumendo l'essenzialità dell'alea nella individuazione delle prestazioni dovute dalle parti. In questo senso, ad esempio, è normalmente riconosciuto il carattere aleatorio del contratto di swap, sovente utilizzato anche in funzione di contenimento del rischio, in ragione della possibilità di porre in essere operazioni di segno opposto, in modo da ridurre l'esposizione connessa alla fluttuazione degli interessi o dei cambi, per cui le parti si obbligano reciprocamente all'esecuzione, l'una nei confronti dell'altra, alla scadenza di un termine prestabilito, di una prestazione pecuniaria il cui ammontare è determinato da un evento incerto (Cass. n. 10598/2005). Coerentemente a tale impostazione anche la Corte costituzionale si è pronunciata sancendo «il carattere intrinsecamente aleatorio» dei «contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati» (Corte cost. n. 52/2010). Parimenti dunque, si afferma che «nel derivato ... l'oggetto del contratto è costituito da uno scambio di differenziali a determinate scadenze, mentre la sua causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono» (App. Milano 18 settembre 2013). L'alea, tuttavia, una volta identificata, deve essere definibile «razionale». Con tale espressione si intende che l'accettazione del rischio da parte di entrambi i contraenti deve essere consapevole delle possibilità di verificazione degli eventi dedotti in contratto. In tal modo, come si era già affermato in precedenza, il tema degli obblighi informativi, dalla giurisprudenza ricondotti a criteri la cui violazione produce un inadempimento e non dovrebbe avere ripercussioni sulla validità del contratto, si interseca con quello della liceità della causa della pattuizione. In tal senso, per essere valida e lecita la causa aleatoria sottesa al derivato, i rischi che la costituiscono devono essere stati consapevolmente assunti dalle parti e distribuiti tra di esse (Zuccarello). L'alea, poi, non dovrebbe essere «unilaterale», ovverosia non dovrebbe esservi una sproporzione tra i rischi assunti dal cliente e quelli assunti dalla banca, tale da far sopportare il peso economico del contratto ad una sola parte. È dibattuto tuttavia se sia ammessa una deviazione dalla perfetta simmetria di rischi e sia sanzionata solo il caso in cui l'intermediario non corra alcun rischio per mezzo del contratto o se invece ogni forma di sbilanciamento dell'alea sia tale da produrne l'invalidità. Si afferma così, secondo l'orientamento più severo, che il contratto swap, assimilabile alla scommessa, tipico contratto aleatorio, dovrebbe presentare una componente di fortuna divisa in parti eguali tra i contraenti. Ove una suddivisione dell'alea non sia riscontrabile (c.d. contratto aleatorio unilaterale) deve escludersi che siffatti contratti possano meritare la tutela del nostro ordinamento, in quanto troppo sbilanciati in favore del singolo contraente banca, il quale si presenta «al tavolo di gioco» con molte più possibilità di successo rispetto all'altro giocatore, per aver esso stesso dettato le regole del gioco. Così, quando in un contratto IRS in cui il cliente sia esposto al rischio di tasso fino a un determinato valore del parametro di riferimento, al di là del quale il tasso a suo carico rimane bloccato (c.d. cap), il cap sia talmente elevato che si possa ragionevolmente escludere che esso sarà mai raggiunto dall'andamento del mercato, la sproporzione tra la probabilità che si verifichi una perdita per il cliente e la probabilità che si verifichi una perdita per la banca (c.d. alea unilaterale) rende il derivato nullo per assenza di una causa meritevole che lo sorregga (Trib. Salerno 2 maggio 2013). Ulteriormente, si afferma che l'oggetto del contratto è costituito da uno scambio di differenziali a determinate scadenze, mentre la sua causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono, con la precisazione che nella scommessa legalmente autorizzata, come quella ritenuta meritevole di tutela da parte del legislatore finanziario, l'alea non può che essere «razionale» per entrambi gli scommettitori e ciò a prescindere dall'intento che ha determinato la conclusione del contratto, sia esso di mera copertura, ovvero speculativo. Perché l'alea, che, come detto, costituisce l'oggetto del contratto, possa considerarsi «razionale» debbono essere definiti e conosciuti ex ante, con certezza, gli scenari probabilistici e delle conseguenze del verificarsi degli eventi. In sostanza, tutti gli elementi dell'alea e gli scenari che da essa derivano costituiscono ed integrano la causa stessa del contratto, perché appartengono alla «causa tipica» del negozio, indipendentemente dalle ricorrenti distinzioni tra scopo di copertura o speculativo. In difetto di tali elementi, il contratto deve ritenersi nullo per difetto di causa, poiché il riconoscimento legislativo risiede nella «razionalità» dell'alea e, quindi, nella sua «misurabilità», non essendo concepibile e non meritando, pertanto, tutela un negozio caratterizzato dalla creazione di alee reciproche e bilaterali, la qualità e la quantità delle quali siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all'oggetto dell'accordo» (App. Milano 18 settembre 2013). Il collegamento con gli obblighi informativi è poi posto in un'altra sentenza in cui si sostiene che ciò che rileva ai fini della valutazione della sussistenza della causa in concreto non è tanto o solo lo squilibrio dell'alea rispettivamente assunta, quanto la consapevolezza del contraente debole del differente livello di rischio assunto dalle parti. Il mero squilibrio delle alee assunte, infatti, non di per sé motivo per ritenere assente la causa in concreto, ben potendo le parti, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, consapevolmente stipulare un contratto di swap in cui una di esse si assume un rischio maggiore dell'altra. Questo squilibrio deve, però, essere frutto di una libera scelta delle parti e non una conseguenza derivante dai parametri inseriti nel contratto soggettivamente ignota al contraente debole, in quanto unilateralmente predisposta dalla banca, la quale indubbiamente riveste sia la qualifica di operatore qualificato, sia quella di controparte diretta del cliente e, quindi, come tale, per definizione in conflitto di interessi. Ciò che rileva, dunque, ai fini dell'insussistenza della causa in concreto è l'assenza di adeguata informazione fornita dalla banca al cliente in ordine ai rischi effettivamente assunti (Trib. Torino 17 gennaio 2014). 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