Codice Civile art. 1367 - Conservazione del contratto.Conservazione del contratto. [I]. Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno [1424]. InquadramentoI criteri di interpretazione previsti dal codice civile sono di duplice natura, nel senso che un primo gruppo di norme (artt. 1362-1365 c.c.) regola l'interpretazione soggettiva (o storica), diretta ad accertare la comune intenzione delle parti mentre un secondo gruppo (artt. 1366-1371 c.c.) disciplina l'interpretazione oggettiva, la quale si propone di dare al contratto (o a sue singole clausole) il significato meglio rispondente ai valori di obiettiva ragionevolezza, equità e funzionalità, alla quale si fa ricorso quando la comune intenzione dei contraenti, pur dopo l'applicazione dei criteri appartenenti al primo gruppo, resta oscura o di dubbio significato. L'art. 1367 c.c. applica all'interpretazione del contratto il principio della conservazione degli effetti giuridici, nel senso che si deve tendere ad un'interpretazione che garantisca la permanenza in vita del vincolo negoziale piuttosto che ad una che ne determini la «morte». La ratio è evidente: se i contraenti hanno concluso il contratto è da presumere che essi vollero produrre qualche effetto: sicché appare logico cercare di attribuire al contratto un senso che consenta di raggiungere tale risultato, piuttosto che uno che non glielo consenta (la medesima ratio è sottesa al successivo art. 1371 c.c.) Natura dell'interpretazione ex art. 1367 c.c.Le clausole contrattuali vanno interpretate nel senso della loro validità ed efficacia anziché nel senso che non ne abbiano: deve, pertanto, prevalere una ricostruzione della volontà negoziale nel senso di attribuire al contratto o alla clausola un senso compiuto o utile, idoneo, cioè, alla produzione di effetti giuridici, rispetto ad altri significati che ne escluderebbero l'utilità e, quindi, la produzione di effetti. Si tratta dell'applicazione di un principio generale, trasversale all'ordinamento (riassumibile nel brocardo utile per inutile non viatiatur) e che trova ampia applicazione nel campo della nullità (cfr. gli artt. 1419 e 1424 c.c.). La regola non concerne, invece, le c.d. clausole di stile (cfr. l'art. 1340 c.c.) e, cioè, quelle clausole che vengono aggiunte per mera prassi stilistica, senza aggiungere alcunché alla volontà delle parti. In tal senso è stato chiarito che la conservazione può orientare l'interpretazione anche in ordine alla verifica della ricorrenza o meno di una clausola di stile ovvero di clausola dal contenuto pleonastico: sicché è rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e corretta motivazione, lo stabilire se una determinata clausola contrattuale sia soltanto di stile ovvero costituisca espressione di una concreta volontà negoziale con efficacia normativa del rapporto. (Cass. II, n. 19104/2009). È controverso se la regola dettata dall'art. 1367 c.c. implichi, quale conseguenza inevitabile, quella di privilegiare, tra le varie soluzioni possibili, quella che non solo consenta la preservazione del contratto, ma che attribuisca ad esso i massimi effetti possibili. Secondo un primo orientamento, la soluzione dovrebbe essere positiva, dovendosi intendere il principio di conservazione quale sinonimo di massima espansione della disposizione negoziale (Grassetti, 907). Prevale, però, in dottrina, l'opinione per cui l'art. 1367 c.c. richiede esclusivamente una esegesi del dato letterale tale da impedire l'inefficacia della disposizione negoziale e non anche quella in grado di produrre il massimo effetto possibile: sicché, ove le possibili significazioni del contratto (o della clausola) siano tutte utili, non potrà applicarsi la regola di conservazione per prediligere la lettura che riconosce un effetto giuridico maggiore, dovendosi piuttosto applicare gli altri criteri di interpretazione oggettiva (Carresi, 530; Mirabelli, 282). Anche la giurisprudenza appare divisa sul punto: a fronte di un orientamento che ritiene che l'applicazione del criterio conservativo non impone di attribuire all'atto un significato tale da assicurare la sua più estesa applicazione, specie se l'interpretazione comportante la più estesa applicazione dell'atto è da escludersi sulla base di una lettura che tenga conto degli altri, prioritari, criteri ermeneutici codificati (Cass. I, n. 3293/1997) se ne pone un altro, diametralmente opposto, per cui la regola conservativa va intesa nel senso, sulle varie ipotesi prospettate come possibili e perciò dubbie, deve preferirsi l'effetto di maggiore e più sicura ampiezza (Cass. sez. lav., n. 869/1977). In tale contesto appare perciò mediana la soluzione offerta da (Cass. I, n. 2773/1996) che non guarda all'ampiezza degli effetti ma alla loro congruità rispetto agli interessi perseguiti dalle parti: ove il contratto contenga due clausole che disciplinano in modo diverso, e ciascuno esaustivo, lo stesso fatto, deve essere attribuita prevalenza a quella ritenuta più congrua alla soddisfazione degli interessi di entrambe le parti. In tema di interpretazione dei contratti, il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica ed indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale, sicché deve interpretarla in relazione al contesto (art. 1363 c.c.) per consentire alla stessa di avere qualche effetto (art. 1367 c.c.) e, solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto (art. 1325 c.c.), ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera della effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia qualificandola come clausola di stile (Cass. I, n. 13829/2013). In tale ottica, il principio di conservazione degli effetti utili del contratto o di una sua clausola ha carattere sussidiario, sicché può e deve trovare applicazione solo quando siano stati utilizzati i criteri letterale, logico e sistematico di indagine e, nonostante ciò, il senso del contratto o della clausola sia rimasto oscuro o ambiguo (Cass. III, n. 27564/2011; Cass. I, n. 7972/2007). Sotto altro profilo, ancora, può evidenziarsi che la conservazione non comporta solo che il contratto (o le sue singole clausole) venga interpretato nel senso in cui possa avere un qualche effetto (Cass. III, n. 3275/2016), ma richiede anche che il contratto non risulti neppure in parte frustrato e che la sua efficacia potenziale non subisca alcuna limitazione (Cass. I, n. 8301/1997) Ambito di applicabilità della previsioneSi ritiene in dottrina che il principio di conservazione ex art. 1367 c.c. trovi applicazione relativamente al testamento, ma non ai negozi di diritto familiare e agli atti unilaterali (Mirabelli, 282). Il criterio è solo parzialmente seguito in giurisprudenza, ove si afferma che il criterio conservativo nell'interpretazione dei contratti è applicabile anche agli atti negoziali unilaterali (Cass. II, n. 2130/1975) e al testamento (Cass. II, n. 23278/2013, cfr., recentemente, Cass. II, n. 23393/2017, per cui nell'interpretazione del testamento il giudice di merito, mediante un apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se congruamente motivato, deve accertare, in conformità al principio enunciato dall'art. 1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l'effettiva volontà del testatore, valutando congiuntamente l'elemento letterale e quello logico ed in omaggio al canone di conservazione del testamento; si veda anche Cass. II, n. 5487/2024), ma non ai negozi familiari (come il riconoscimento di figlio naturale, cfr. Cass. I, n. 1308/1949) o agli atti unilaterali non negoziali (come i bilanci societari Cass. I, n. 2516/1950). Si ritiene, infine, che esso non possa applicarsi al negozio nullo (Cass. III, n. 4163/1974) o, comunque, ai contratti non meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. (Cass. n. 2479/1954). 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