La Corte di Giustizia si pronuncia nuovamente sulle Società in house e sugli affidamenti alle stesse

26 Marzo 2020

Non sono incompatibili con il diritto dell'Unione europea le disposizioni nazionali che impongono un obbligo di motivazione aggravata in caso di affidamenti diretti a Società in house (art. 192, co. 2, del D.lgs. n. 50/2016) e che non consentono alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto.

La questione giuridica posta al vaglio della Corte di Giustizia. Con tre ordinanze d'identico tenore (si tratta dell'ordinanza n. 138 del 7 gennaio 2019 e delle ordinanze n. 296 e 293 del successivo 14 gennaio) la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha formulato alla Corte di Giustizia due quesiti interpretativi relativamente alla disciplina nazionale in materia di Società in house e di affidamenti diretti a queste ultime.

Sul primo quesito interpretativo. Il primo di detti quesiti aveva ad oggetto l'obbligo di motivazione rafforzata di cui all'art. 192 del Codice dei contratti pubblici. Il quale, com'è noto, stabilisce, al comma 2, che, qualora le amministrazioni aggiudicatrici intendano procedere all'affidamento diretto ad una Società in house di un «contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza», le stesse sono previamente tenute a operare una «valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house».

Detta norma, com'è parimenti noto, prevede, altresì, che in tali evenienze le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a dare «conto nella motivazione del provvedimento di affidamento», sia «delle ragioni del mancato ricorso al mercato», sia «dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta».

Al riguardo, la quinta Sezione ha ritenuto che siffatto obbligo di motivazione rafforzata, nell'attribuire per certi versi all'affidamento in house un ruolo giuridicamente subordinato rispetto alle altre modalità di affidamento contemplate dalle Direttive del 2014, risulti incompatibile con il «Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche», che consente alle Amministrazioni di decidere se esternalizzare, o meno, l'esecuzione di un dato servizio.

Dunque, secondo la quinta sezione la disciplina di cui al comma 2 dell'art. 192 finirebbe per conculcare quella libertà di scelta tra i diversi modelli di affidamento riconosciuta dalle richiamate previsioni delle più volte citate Direttive del 2014.

Da qui il primo quesito interpretativo sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia, a cui si chiedeva, anzitutto, «se il diritto dell'Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell'articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) [che] colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto».

Sul secondo quesito interpretativo. Il secondo quesito interpretativo aveva ad oggetto l'art. 4, comma 1, del D.lgs. n. 175/2016. Norma, quest'ultima, che stabilisce che «le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società».

Con riferimento a tale disposizione, che si pone nel solco di quell'indirizzo legislativo volto a disincentivare la partecipazione pubblica in società di capitali, il Consiglio di Stato, ritenendo che la stessa sembri «non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un

organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell'organismo pluripartecipato», ha chiesto alla Corte di Giustizia se detta disciplina possa ritenersi compatibile con l'art. 12 della Direttiva 2014/24/UE, che parrebbe ammette (o meglio non escludere) l'in house a controllo analogo congiunto anche nel caso di partecipazione di capitale di amministrazioni pubbliche.

Sulla decisione assunta dalla Corte di Giustizia. La Corte di Giustizia, con una succinta ordinanza, ha ritenuto entrambe le norme nazionali poste al suo vaglio non incompatibili con il diritto UE

Quanto alla prima questione pregiudiziale. La Corte di Giustizia, richiamando quanto dalla stessa statuito nella precedente sentenza Irgita (3 ottobre 2019, in causa C‑285/18), ha evidenziato che «la libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze li autorizza a subordinare la conclusione di un'operazione interna all'impossibilità di indire una gara d'appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna».

Muovendo da tali presupposti, la Corte ha dunque ritenuto che «l'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che subordina la conclusione di un'operazione interna, denominata anche «contratto in house», all'impossibilità di procedere all'aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna».

Con riferimento al secondo quesito pregiudiziale. La Corte ha in modo tranchant statuito che «l'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24 non prevede alcun requisito relativo alle condizioni in cui un'amministrazione acquisisce partecipazioni al capitale in una società partecipata da altre amministrazioni». E che, dunque, tale norma «non osta ad una normativa nazionale che impedisce ad un'amministrazione aggiudicatrice di acquisire partecipazioni al capitale di un ente partecipato da altre amministrazioni aggiudicatrici, qualora tali partecipazioni siano inidonee a garantire il controllo o un potere di veto e qualora detta amministrazione aggiudicatrice intenda acquisire successivamente una posizione di controllo congiunto e, di conseguenza, la possibilità di procedere ad affidamenti diretti di appalti a favore di tale ente, il cui capitale è detenuto da più amministrazioni aggiudicatrici».

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