Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 13 - Patti contrari alla legge 1 .Patti contrari alla legge 1. 1. E' nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. E' fatto carico al locatore di provvedere alla registrazione nel termine perentorio di trenta giorni, dandone documentata comunicazione, nei successivi sessanta giorni, al conduttore ed all'amministratore del condominio, anche ai fini dell'ottemperanza agli obblighi di tenuta dell'anagrafe condominiale di cui all' articolo 1130, numero 6), del codice civile (A). 2. Nei casi di nullita' di cui al comma 1 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, puo' chiedere la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e registrato. 3. E' nulla ogni pattuizione volta a derogare ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla presente legge. 4. Per i contratti di cui al comma 3 dell'articolo 2 e' nulla ogni pattuizione volta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello massimo definito dagli accordi conclusi in sede locale per immobili aventi le medesime caratteristiche e appartenenti alle medesime tipologie. Per i contratti stipulati in base al comma 1 dell'articolo 2, e' nulla, ove in contrasto con le disposizioni della presente legge, qualsiasi pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito. 5. Per i conduttori che, per gli effetti della disciplina di cui all' articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 , prorogati dall' articolo 5, comma 1-ter, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n. 80 , hanno versato, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone annuo di locazione nella misura stabilita dalla disposizione di cui al citato articolo 3, comma 8, del decreto legislativo n. 23 del 2011 , l'importo del canone di locazione dovuto ovvero dell'indennita' di occupazione maturata, su base annua, e' pari al triplo della rendita catastale dell'immobile, nel periodo considerato. 6. Nei casi di nullita' di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, puo' richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore puo' altresi' richiedere, con azione proponibile dinanzi all'autorita' giudiziaria, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione e', altresi', consentita nei casi in cui il locatore non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine di cui al comma 1 del presente articolo. Nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il giudice determina il canone dovuto, che non puo' eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati. L'autorita' giudiziaria stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti. 7. Le disposizioni di cui al comma 6 devono ritenersi applicabili a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin dall'entrata in vigore della presente legge. 8. I riferimenti alla registrazione del contratto di cui alla presente legge non producono effetti se non vi e' obbligo di registrazione del contratto stesso.
--------------- (A) In riferimento al presente comma vedi: Circolare dell'Agenzia delle Entrate 13 giugno 2016, n. 27/E [1] Articolo sostituito dall'articolo 1, comma 59, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208. InquadramentoL'art. 79 della l. n. 392/1978 – espressamente abrogato dall'art. 14, comma 4, della l. n. 392/1978 ma limitatamente alle locazioni abitative – prevedeva la nullità di qualsiasi pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dalla legge, o, comunque, “ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni” della legge medesima: pertanto, da tale disposizione, discendeva l'inderogabilità in peius nei riguardi del conduttore non solo delle norme sulla durata legale e sull'importo massimo del canone percepibile ma, più in generale, di tutti gli aspetti della disciplina del rapporto locativo dettata dalla legge sull'equo canone. In quest'ottica, la pattuizione invalida veniva individuata non solo in ragione di un determinato contenuto, relativo alla durata o al canone, ma anche in relazione all'effetto (ossia il vantaggio ulteriore al locatore) che produceva nel sinallagma contrattuale: si contemplava una sorta di illecito a condotta libera, connotato essenzialmente per il risultato che determinava nell'equilibrio delle reciproche prestazioni. Il conduttore veniva riguardato aprioristicamente come il “contraente debole”, atteso che, sin dal momento della stipulazione della locazione, la sua costituiva una sorta di adesione necessitata, poiché egli era costretto a subire – non avendo altro modo per ottenere la fruizione abitativa se non alle condizioni proposte dal dominus – i prodotti negoziali imposti ex adverso in via unilaterale (anche se le disposizioni codicistiche afferenti alle principali obbligazioni nascenti dalla locazione si consideravano tradizionalmente derogabili). Si prevedevano, a tal fine, alcune norme “inderogabili” (soprattutto in ordine alla durata del contratto ed al canone c.d. equo), che erano inserite di diritto nei contratti in corso, ai sensi dell'art. 1339 c.c., in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti, che venivano eliminate dall'art. 79 della l. n. 392/1978, senza che, dalla nullità di dette clausole, potesse derivare la nullità dell'intero contratto, ai sensi dell'art. 1419 c.c. In forza dell'art. 11 della del d.l. n. 333/1992, convertito nella l. n. 359/1992 (c.d. patti in deroga), tale scopo protettivo da parte del legislatore si era, poi, ristretto riguardo sia ai contratti concernenti le nuove costruzioni sia alla tipologia della locazione c.d. 4+4, rimanendo, però, in vigore l'art. 79 della l. n. 392/1978, seppure adattato alla nuova disciplina imperniata, a certe condizioni, sulla libera determinazione del canone. Il legislatore del 1998, nel redigere l'art. 13 in commento, abbandonando l'atipicità del regime precedente, ha optato, invece, per una tecnica normativa “analitica”, in luogo di quella sintetica adoperata nel 1978, ed ha previsto specifiche e tassative ipotesi di nullità, segnatamente in tema di forma, durata e canone, cui si affiancano fattispecie di nullità “virtuali”, ossia sprovviste di una tale testuale comminatoria, il cui scopo è quello di conservare l'equilibrio del rapporto così come complessivamente delineato dal legislatore. In particolare, all'interno del suddetto art. 13, le nullità di cui ai commi 1 e 3 interessano entrambi i modelli contrattuali (ivi comprese le locazioni transitorie), mentre il comma 4 riguarda fattispecie di nullità riguardanti le singole tipologie contrattuali. La disciplina dei “patti contrari alla legge” è, dunque, confluita nella formulazione dell'art. 13 – rivelatasi, sin da sùbito, norma alquanto affastellata e piena di ripetizioni, a fronte dell'asciutta e piana formulazione dell'art. 79 della legge sull'equo canone – che attualmente va letta nella versione modificata dall'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015 (recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, c.d. legge di stabilità 2016, in Gazzetta ufficiale 30 dicembre 2015, n. 302, entrata in vigore il 1° gennaio 2016); sul punto, si è chiarito che il riferimento, contenuto nell'art. 13, comma 7, della l. n. 431/1998, come sostituito dall'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015, alla "entrata in vigore della presente legge" come momento a partire dal quale devono ritenersi applicabili le disposizioni di cui al precedente comma 6 del medesimo art. 13, va inteso secondo i criteri di interpretazione dettati dall'art. 12 delle preleggi come riguardante la data di entrata in vigore della legge modificata, ossia la l. n. 431/1998), e non di quella modificante, ossia la l. n. 208/2015, derivandone che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati a decorrere dall'entrata in vigore della l. n. 431/1998, per i quali il locatore non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine indicato al comma 1 dell'art. 13 citato, sono affetti da nullità relativa di protezione, a prescindere dal fatto che siano stati conclusi o meno in forma scritta ed ancorché i correlati giudizi siano stati introdotti prima della modifiche apportate dal richiamato art. 1, comma 59, allo stesso art. 13, causa di nullità, peraltro, denunciabile dal solo conduttore, ricorrendo uno dei casi nei quali quest'ultimo ha la facoltà di domandare “la riconduzione del contratto a condizioni conformi”, v. Cass. III, n. 9475/2021 cui adde Cass. III, n. 27806/2021, secondo la quale, ai contratti di locazione conclusi anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 431/1998 e rinnovatisi dopo questa, ma non assoggettati, al momento della stipulazione, alla disciplina di cui al capo I della l. n. 392/1978, si applica l'art. 13 della citata l. n. 431/1998, con conseguente diritto del conduttore, a far data dalla prima rinnovazione successiva all'entrata in vigore dello ius superveniens, a ripetere il canone di locazione versato in misura superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato). L'articolo in commento esordisce, al comma 1, con una disposizione (rimasta invariata) concernente il canone, sanzionando di nullità “ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato” (il precedente art. 1, al comma 4, della l. n. 431/1998 già prevedeva l'obbligo della forma scritta, ma taceva del tutto riguardo alla registrazione). Il comma 1, rispetto al testo originario, si è arricchito di un'ulteriore previsione che non riguarda direttamente l'invalidità dei patti aggiunti non registrati, quanto piuttosto due adempimenti correlati agli obblighi di una delle parti contraenti: invero, si stabilisce che è fatto carico esclusivo al locatore (e non più ad entrambe le parti) di provvedere alla registrazione nel termine di trenta giorni dalla data della stipula (termine definito “perentorio”, salva la possibilità, ai fini tributari, di pagare l'imposta sia pure con la prevista sanzione), con l'ulteriore incombente, da espletare nei successivi sessanta giorni, di dare “documentata comunicazione” – e, quindi, non solo una mera informazione, ma una comunicazione contenente gli estremi del versamento effettuato ed il numero di registrazione attribuito al contratto – sia al conduttore sia all'amministratore del condominio, anche per agevolare quest'ultimo nell'ottemperanza degli obblighi di tenuta dell'anagrafe condominiale contemplata dall'art. 1130, n. 6), c.c. (come novellato dalla l. n. 220/2012, riforma della normativa condominiale, entrata in vigore il 18 giugno 2013). Nei casi di cui al comma 1 – prosegue il capoverso successivo (anch'esso non oggetto di modifica) – il conduttore, “con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può chiedere la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e registrato”. Al successivo comma 3 (rimasto uguale), il citato art. 13 si sofferma, invece, sulla durata del contratto per sancire la nullità di “ogni pattuizione volta a derogare ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla presente legge” (facendo implicito riferimento ai due regimi c.d. 4+4 e 3+2, salva motivata disdetta). La disposizione in commento, al comma 4, torna di nuovo a disciplinare il canone di locazione. Segnatamente, per i contratti a canone c.d. concordato (previsti dall'art. 2, comma 3), si stabilisce la nullità di “ogni pattuizione volta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello massimo definito dagli accordi conclusi in sede locale per immobili aventi le medesime caratteristiche e appartenenti alle medesime tipologie” (espressione sostanzialmente identica al testo precedente). Per i contratti a c.d. canone libero (contemplati all'art. 2, comma 1), mentre prima la nullità era correlata all'ipotesi in cui, in contrasto con le disposizioni della l. n. 431/1998, si registrasse “qualsiasi obbligo del conduttore nonché qualsiasi clausola o altro vantaggio economico o normativo diretti ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito”, adesso è sanzionata soltanto “qualsiasi pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito”. Il comma 5 – che costituisce una new entry – stabilisce che, per i conduttori i quali, per gli effetti della disciplina di cui all'art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011, prorogati dall'art. 5, comma 1-ter, del d.l. n. 47/2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 80/2014, hanno versato, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del suddetto d.lgs. n. 23/2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone annuo di locazione nella misura stabilita dalla disposizione di cui al citato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 23/2011, “l'importo del canone di locazione dovuto o dell'indennità di occupazione maturata, su base annua, è pari al triplo della rendita catastale dell'immobile, nel periodo considerato”. Trattasi di una disposizione che, con una serie di complicati rinvii, tenta di supplire al vuoto normativo causato dalle due pronunce del giudice delle leggi (Corte cost., n. 50/2014 e Corte cost., n. 169/2015) che, rispettivamente, avevano espunto dall'ordinamento i commi 8 e 9 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011 (c.d. cedolare secca) e la disposizione introdotta in sede di conversione del d.l. n. 47/2014 che aveva cercato di porvi rimedio; in pratica, il legislatore del 2016 ha cercato di tamponare – salvi i giudicati intervenuti nelle more – gli effetti nefasti di quelle pronunce di incostituzionalità, atteso che, essendo venuto meno quel “nuovo rapporto locatizio” fondato sul comma 8 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011, che, a sua volta, traeva origine dalla conversione legale della locazione tardivamente registrata dopo il 5 giugno 2011, decorrendo per la durata legale dalla data della registrazione stessa con un canone pari al triplo della rendita catastale, i conduttori si erano ritrovati nella disponibilità degli immobili locati in forza di una locazione non registrata, o tardivamente registrata, e perciò irrimediabilmente esposti alle sanzioni invalidanti di cui agli artt. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 e 13, comma 1, della l. n. 431/1998; in quest'ottica, si riscrivono le regole di quei rapporti e si detta imperativamente la misura del canone dovuto, o dell'indennità ex art. 1591 c.c. maturata, per tutti i conduttori che avessero beneficiato della rideterminazione ex lege del corrispettivo, conseguente, quale sanzione civile, alla mancata o parziale registrazione del contratto. Si giunge, poi, al comma 6 (ex 5), che contiene la disciplina dell'azione di ripetizione di quanto corrisposto oltre il dovuto e di riconduzione a condizioni conformi nei casi di nullità di cui al comma 4. In particolare, la norma dispone, in primo luogo, che, nelle ipotesi di nullità attinenti alla sola misura del corrispettivo nelle locazioni a canone concertato ed a canone libero, il conduttore, “con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate”, aggiungendo che lo stesso conduttore – oltre ad agire per la ripetizione – può altresì richiedere al giudice che “la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto” dall'art. 2 in riferimento ai contratti rispettivamente a canone concertato e a canone libero. Il comma 5 (ante riforma) proseguiva prevedendo un'apposita disciplina per il caso di violazione dell'obbligo di forma scritta contenuto nell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, disponendo che l'azione di riconduzione a condizioni conformi era, altresì, consentita nei casi in cui il locatore avesse “preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto”; con decorrenza dal 2016, scompare il concetto di locazione di fatto (ossia la locazione abitativa stipulata in forma verbale su pretesa del locatore), facendosi riferimento, in maniera innovativa, solo alla “prescritta registrazione del contratto” nel termine di cui al comma 1 dello stesso art. 13. Nel giudizio che accerta ora “l'esistenza del contratto di locazione”, il giudice determina, come in passato, il canone dovuto, che non può eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell'art. 2 o quello definito ai sensi dell'art. 5, commi 2 e 3 (che si occupano delle c.d. locazioni transitorie) nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati, aggiungendo – forse pleonasticamente – che l'autorità giudiziaria stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti. Il nuovo comma 7 dispone, sul versante del diritto transitorio, che le disposizioni di cui al precedente comma 6 devono ritenersi applicabili a tutte le ipotesi ivi previste “insorte sin dall'entrata in vigore della presente legge”, ossia la l. n. 431/1998, così da sancirne – anche se con una formulazione non autoritativa – l'applicazione retroattiva fin dal 30 dicembre 1998; sul punto, nessun problema sembra porsi per le azioni di restituzione e conformazione previste con riferimento alle nullità (parziali) di cui al comma 4 dell'art.13 (canoni ultralegali per i contratti a canone concordato e canoni in nero), trattandosi di nullità già previste nell'art. 13 della c.d. legge Zagatti nella sua vecchia formulazione, mentre dubbia appare l'esperibilità della summenzionata azione di riconduzione e ripetizione per i contratti non registrati ma stipulati in data antecedente alla legge finanziaria del 2005, che per la prima volta aveva introdotto (a pena di nullità) l'obbligo della registrazione. L'art. 13 si chiude con il comma 8 (identico all'ex 6, anche questo forse superfluo), precisando che i riferimenti alla registrazione del contratto di cui alla presente legge, e soprattutto quelli concernenti la nullità contemplata al comma 1, “non producono effetti se non vi è obbligo di registrazione del contratto stesso”. Premesse dell'intervento riformatoreSi è correttamente evidenziato (Scarpa 2016, 64) che l'intervento modificativo operato sull'art. 13 della l. n. 431/1998 ad opera della legge di stabilità 2016 presuppone due premesse storiche legate ad accadimenti giurisprudenziali e legislativi ancora recenti, che sembrano aver funzionato come occasiones legis. Sul versante giurisprudenziale, si registrano due rilevanti (coeve) pronunce delle Sezioni Unite. In una decisione (Cass. S.U., n. 18213/2015), il massimo consesso decidente – prendendo le distanze da un precedente del 2003, che aveva ridefinito in via interpretativa l'àmbito di applicazione della nullità fissata dal comma 1 dello stesso art. 13, intendendola come diretta a sanzionare esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, restando viceversa valido il contratto registrato e, quindi, dovuto il canone apparente – aveva chiarito che pure che il patto occulto di canone superiore, in quanto nullo, non potrebbe dirsi nemmeno sanato dalla registrazione tardiva, in quanto fatto a rilievo fiscale inidoneo a influire sulla validità civilistica (in senso conforme, v. anche Cass. III, n. 8465/2019; Cass. III, n. 20881/2018; Cass. III, n. 924/2017). Nell'altra decisione (Cass. S.U., n. 18124/2015), lo stesso supremo organo di nomofilachia aveva, poi, spiegato che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta, agli effetti dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d'ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale, facendo eccezione a tale meccanismo la sola ipotesi in precedenza contenuta nel comma 5 dell'art. 13 – nella formulazione ora mutata con la legge di stabilità – poiché qui, essendo stata la forma verbale abusivamente imposta dal locatore, il contratto si riteneva affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. Sul versante legislativo, rispetto all'impianto normativo del 1998, si era inserito, con evidente portata innovativa, l'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, c.d. finanziaria 2005 (in Gazzetta ufficiale 31 dicembre 2004, n. 306), a norma del quale “i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati” Incidentalmente, i giudici della Consulta (Corte cost., n. 110/2009), in tema di registrazione del contratto di locazione, in conformità con la giurisprudenza già formatasi, avevano escluso l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 41 Cost., sostenendo che la suddetta norma, non precludendo l'azione giurisdizionale alle parti dell'accordo negoziale e conservando il suo carattere meramente tributario, non interferisce sull'autonomia negoziale privata e sulla validità del contratto. Successivamente, nell'àmbito delle disposizioni agevolative del regime fiscale dei redditi provenienti da locazione ad uso abitativo (c.d. cedolare secca) – e, quindi, in un àmbito diverso dal regime delle nullità negoziali – con l'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011 (in Gazzetta ufficiale n. 67 del 23 marzo 2011), era stata introdotta dal legislatore delegato un'articolata disciplina sanzionatoria inerente il (mancato) versamento dell'imposta di registro (nel termine di cui all'art. 17 del d.P.R. n. 131/1986) esposta nei commi 8 e 9 di tale articolo, per effetto della quale dal momento della registrazione – dell'intero contratto, comma 8, o del patto dissimulato sul canone, comma 9 – veniva a costituirsi ex lege un nuovo contratto di locazione, legalmente predeterminato quanto alla durata ed al canone; dichiarata l'illegittimità delle disposizioni di cui ai suddetti due commi (Corte cost., n. 50/2014), in sede di conversione del d.l. n. 47/2014, con la l. n. 80/2014, è stato aggiunto all'art. 5 del decreto de quo un comma 1-ter, con il quale erano “fatti salvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell'art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011” (anch'esso caduto sotto la scure di Corte cost., n. 169/2015). In altri termini, con quest'ultima decisione del 2015, il giudice delle leggi aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 1-ter, del d.l. n. 47/2014, il quale aveva disposto la salvezza di cui sopra, e questa disposizione era stata, a sua volta, introdotta in sede di conversione dalla l. n. 80/2014, a seguito della precedente sentenza del 2014, con cui si era dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011, norma di per sé operante una rideterminazione ex lege della durata e del canone dei contratti di locazione abitativa non registrati; in buona sostanza, il legislatore del 2014 aveva inteso prorogare l'efficacia e la validità dei contratti di locazione registrati sulla base delle norme del 2011 costituzionalmente illegittime per contrasto con l'art. 76 Cost. ed i magistrati della Consulta avevano semplicemente sottolineato che, ai sensi degli artt. 136 e art. 30, comma 3, della l. n. 87/1953, al legislatore era vietato di prorogare l'efficacia di norme incostituzionali, le quali non possono essere applicate “dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Tale sorta di sanatoria, circoscritta al periodo dal 23 marzo 2011 al 31 dicembre 2015, degli effetti della reiterata dichiarazione di incostituzionalità dei commi 8 e 9 dell'art. 23 del d.lgs. n. 23/2011, che quindi resterebbero in vigore ma solo per i canoni e le indennità di occupazione pagate in misura pari al triplo della rendita catastale, è apparsa (ad avviso di Scripelliti 2017, 526), anche in tale versione ridotta, giustificare forti sospetti di incostituzionalità, non superati o attenuati dalla sua limitazione temporale. L'origine di tutte queste problematiche era stata l'introduzione del d.lgs. n. 23/2011, e, in particolare, i commi 8, 9 e 10 dell'art. 3, i quali stabilivano il trattamento sanzionatorio delle locazioni non registrate e delle simulazioni concernenti il canone di locazione, prescrivendo che, alle locazioni abitative non registrate entro il termine di sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto legislativo (ossia entro il 5 giugno 2011), così come alle locazioni abitative registrate per un importo inferiore a quello realmente corrisposto – e ancora alle locazioni abitative dissimulate da comodati fittizi – venisse imposta, a far data dalla registrazione tardivamente intervenuta, volontaria o d'ufficio, una durata di quattro anni più quattro anni ai sensi dell'art. 2, comma 1, della legge n. 431/1998, nonché una riduzione del canone annuo fino alla misura pari al triplo della rendita catastale. In quest'ordine di concetti, una volta onerato esplicitamente il solo locatore della formalità di registrazione del contratto di locazione abitativa – laddove il relativo pagamento rimaneva ad entrambe le parti in parti uguali, come entrambe erano obbligate solidalmente per l'intera somma (e passibili di sanzioni in caso di omessa/tardiva registrazione) – risulta ancor più evidente (ad avviso di Scarpa 2016, 67) il favor conductoris sottinteso dalla previsione di invalidità dell'ipotesi del patto di canone superiore a quello risultante dalla scrittura registrata. La riformulazione dell'art. 13 della l. n. 431/1998 guarda ancor di più al conduttore come soggetto da tutelare con una nullità negoziale e una actio indebiti, peraltro ora fregiando dei gradi di “sentinella del fisco” non soltanto lo stesso inquilino, ma anche l'amministratore del condominio in cui si trova l'immobile locato; dell'avvenuta registrazione della locazione, infatti, il locatore è tenuto a darne comunicazione al suddetto amministratore “anche”, e dunque “non solo” ai fini dell'ottemperanza agli obblighi di tenuta dell'anagrafe condominiale. Tale comunicazione della registrazione va data al conduttore e all'amministratore condominiale nei successivi sessanta giorni rispetto ai trenta giorni decorrenti dalla stipula del contratto, e dunque entro novanta giorni al massimo da essa, anche se il novellato art. 1130, n. 6), c.c. – secondo il quale il registro dell'anagrafe condominiale deve contenere i dati anagrafici, tra gli altri, dei conduttori – prescrive che le variazioni di questi dati devono essere comunicate all'amministratore per iscritto entro sessanta giorni dal loro verificarsi. Previsioni di nullità del contratto di locazioneIl regime della violazione delle norme introdotte dalla nuova disciplina delle locazioni ad uso abitativo è contemplato nell'art. 13 della l. n. 431/1998 il quale, sotto la rubrica “patti contrari alla legge”, ha configurato talune nullità di ordine generale (commi 1 e 3) ed altre peculiari di un determinato canone contrattuale (comma 4). Resta inteso che vanno considerate escluse, dall'applicazione di tale norma, le locazioni abitative c.d. speciali previste dai commi 2 e 3 del precedente art. 1, individuate in ragione di determinate caratteristiche oggettive dell'immobile locato o di particolari destinazioni contrattuali; trattasi degli immobili di rilievo storico-culturale vincolati ai sensi della l. n. 1089/1939, degli immobili inclusi nelle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile), A/8 (abitazioni in ville), A/9 (castelli di eminente pregio artistico e storico), degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, degli appartamenti destinati esclusivamente per finalità turistiche, nonché degli immobili condotti in locazione da Enti locali per soddisfare esigenza abitative di carattere transitorio. Per questi contratti, viene espressamente richiamata la disciplina “dispositiva” prevista dal contratto di locazione tipizzato nel codice civile (artt. 1571 ss. c.c.), o, per l'edilizia residenziale pubblica, la normativa imperativa di settore, mentre, laddove manca qualsiasi richiamo – come per gli alloggi ad uso turistico – non sembra dubitabile (ad avviso di Petrolati 2000, 211) che la cornice tipologica va tratta ancora dal codice civile, dovendosi argomentare proprio dalla sottrazione di tali rapporti locativi all'àmbito di applicazione dell'art. 13 della l. n. 431/1998, quale norma cardine della nuova locazione abitativa ordinaria disciplinata dalla legge di riforma. Con la sopra delineata, complessa, disciplina delle nullità del contratto di locazione, il legislatore ha perso – secondo alcuni (Scripelliti 2017, 522) – il senso della misura, poiché, mosso dai pregiudizi smentiti dalla realtà e che identificano nel conduttore la parte più debole del contratto di locazione, oltretutto presentato come frequente strumento di evasione fiscale, concentra su questo negozio, già da anni sottratto in gran parte all'autonomia privata, una sovrapposizione di ipotesi di nullità, succedutesi nel tempo ma non ordinate sistematicamente, il cui effetto è quello di creare incertezze sullo svolgimento del rapporto e sui reciproci diritti e obblighi delle parti. Ad oggi – secondo l'Autore – le previsioni di nullità, esulanti l'alveo codicistico, interessanti il contratto di locazione possono così compendiarsi in ordine cronologico: a) la previsione della forma scritta ai sensi dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998; b) la previsione di nullità dell'art. 1, comma 346, l. n. 311/2004 (legge finanziaria 2005), nel caso di mancata registrazione del contratto; c) la previsione di nullità introdotta dalla disciplina del d.lgs. n. 23/2011 (c.d. cedolare secca), il cui art. 3, commi 8 e 9, ha disposto: 1) che, nel caso di mancata tempestiva registrazione del contratto, la durata della locazione è adeguata a quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, 2) che al rinnovo del contratto si applichi la disciplina di cui all'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, 3) che, a decorrere dalla registrazione, l'ammontare del canone annuo di locazione viene ridotto al triplo della rendita catastale, 4) che le disposizioni del citato comma 346 e del comma 8 dell'art. 3 si applicano anche ai contratti di locazione registrati per un importo inferiore a quello effettivo, ed ai contratti di comodato definito fittizio (rectius, dissimulante una locazione); d) la previsione di nullità introdotta all'art. 13 della l. n. 431/1998 ad opera dell'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016); e) le nullità di protezione, quindi relative, ossia fatte valere dal solo conduttore anche se rilevabili ex officio, previste dagli artt. 32-36 del d.lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo), subordinate alla presenza nei contraenti dei requisiti previsti in generale dal Codice del consumo, e quindi la condizione di professionista del locatore e di privato consumatore del conduttore. Per completezza, va segnalato che il d.l. n. 63/2013, convertito con modificazioni dalla l. n. 90/2013, che ha sostituito il previgente art. 6 del d.lgs. n. 192/2005, aveva introdotto l'obbligo di rilascio dell'attestazione di prestazione energetica, prevedendo la nullità in caso di mancata allegazione ai nuovi contratti di locazione aventi decorrenza dal 4 agosto 2013; detta disposizione è rimasta in vigore solo per un limitatissimo periodo di tempo, e cioè dal 4 agosto 2013 al 23 dicembre 2013, in quanto successivamente soppressa con il d.l. n. 145/2013 (c.d. destinazione Italia), convertito con modificazioni dalla l. n. 9/2014, il quale ha sostituito i previgenti artt. 3 e 3-bis dell'art. 6 del d.lgs. n. 192/2005, prescrivendo l'inserimento di una dichiarazione circa la ricezione da parte del conduttore delle informazioni e della documentazione in ordine all'attestazione della prestazione energetica e stabilendo, in caso di mancata dichiarazione, o allegazione, se dovuta, una mera sanzione amministrativa pecuniaria. Merita particolare attenzione, infine, anche per i delicati risvolti penalistici, l'ipotesi di nullità del contratto di locazione per illiceità della causa – ex parte locatoris e ritenuta come di protezione, e quindi, eccepibile soltanto dal conduttore – di cui all'art. 12, comma 5-bis, del d.l. n. 286/1998, introdotto dal d.l. n. 92/2008 (convertito dalla l. n. 125/2008), quando il contratto abbia previsto a carico di un conduttore immigrato e privo di titolo di soggiorno un canone o condizioni contrattuali più gravose di quelle di mercato (da ultimo, Cass. pen. n. 32391/2017); i giudici penali hanno puntualizzato, in proposito, che sia necessario il dolo specifico del proprietario – di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità del conduttore, imponendogli condizioni di canone o di altra natura sensibilmente peggiori delle condizioni correnti di mercato per abitazioni analoghe – e non il danno subìto dal conduttore (Cass. pen. n. 41437/2013; Cass. pen. n. 27543/2010); a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 94/2009, è stato precisato che il reato è configurabile solo qualora l'inquilino versi in una situazione di irregolarità all'atto della stipula o del rinnovo del contratto di locazione; eventuali revoche o mancati rinnovi del titolo di soggiorno, in corso di locazione, non determinano nel proprietario alcuna responsabilità penale e tale sopravvenienza potrà, in sede civile, costituire motivo di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta a norma dell'art. 1467 c.c. quando il mancato rinnovo configuri evento straordinario ed eccezionale, e che alteri il rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni dei contraenti; è ipotizzabile l'inserimento in contratto di una clausola risolutiva espressa, a norma dell'art. 1456 c.c., che preveda la risoluzione di diritto del contratto, in caso di cessazione o mancato rinnovo del permesso di soggiorno, oppure il mancato rinnovo del permesso o del visto potrà integrare il grave inadempimento che giustifica la risoluzione ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c. Ora, non può disconoscersi che, nel vasto contenzioso in materia locatizia, la maggior parte delle controversie, da qualunque angolo di prospettiva vengano esaminate – giudizi di sfratto, pretese risarcitorie, asserite occupazioni senza titolo, ecc. – presuppongono un giudizio preliminare sulla validità dell'intero contratto azionato o delle sue singole clausole; per converso, l'insussistenza di ragioni di nullità costituisce il fondamento di base sotteso ad ogni domanda di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento, per cui logico corollario è che la questione di nullità costituisce una pregiudiziale logico-giuridica rispetto alla pronuncia finale giudiziale, nonostante le differenze strutturali intercorrenti tra le diverse azioni di impugnativa negoziale. D'altronde, trattasi di indagine preliminare di particolare delicatezza, se solo si consideri che, nelle controversie locatizie che si esauriscono nell'àmbito di una trattazione c.d. sommaria – come le procedure di sfratto concluse con ordinanza di convalida, emessa in difetto di opposizione dell'intimato e persino in assenza di questi – si può formare un giudicato intangibile anche sulla validità dello stesso contratto di locazione (Cass. III, n. 17049/2017; Cass. III, 411/2016), questione non può essere rimessa in discussione neanche nel giudizio di opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso su convalida ex art. 664 c.p.c. (Cass. III, n. 13207/2015). Fattispecie relative alla durataAl fine di soddisfare l'esigenza del conduttore di godere, in via tendenzialmente stabile, la casa ai fini abitativi, le varie leggi che si sono succedute in materia – l. n. 392/1978, l. n. 359/1992, l. n. 431/1998 – hanno tutelato quest'ultimo mediante la previsione di una durata minima del rapporto locatizio, assistita dalla sanzione di nullità della pattuizione che contemplasse una durata inferiore a quella legislativamente prevista. In particolare, nel regime del c.d. equo canone, nei casi di destinazione dell'immobile ad esigenze abitative primarie – all'infuori dell'ipotesi che si trattasse di esigenze primarie infraquadriennali – la pattuizione di una durata inferiore a quattro anni era di per sé nulla e comportava la sua sostituzione di diritto con la durata legale (v., per tutte, Cass. III, n. 3733/1996, secondo cui “le norme inderogabili stabilite dalla l. n. 392/1978 in ordine alla durata delle locazioni si inseriscono di diritto, secondo il principio dell'eterointegrazione, in sostituzione della clausola difforme apposta dalle parti”). Si consideravano parimenti nulle – incidendo sempre sulla durata – le clausole che regolamentassero la disdetta in maniera più gravosa per il conduttore, come, ad esempio, qualora fosse prevista, per la tempestività di essa, la semplice consegna della raccomandata all'ufficio postale nel termine di sei mesi (Pret. Monza 23 ottobre 1986; Pret. Milano 14 gennaio 1985; Trib. Milano 22 dicembre 1983); a fortiori, venivano ritenute nulle le clausole che riducessero il periodo di preavviso richiesto per la disdetta o escludessero la rinnovazione ex art. 3 della l. n. 392/1978 (in argomento, v. la criticata Cass. III, n. 5314/1995, che ha ritenuto valida la clausola con cui le parti avevano stabilito che, alla scadenza, fissata in conformità alla normativa vigente, esse non intendevano rinnovare il contratto, quando era formulata in modo tale da far conoscere inequivocabilmente al conduttore che il rapporto locativo sarebbe cessato anche in mancanza di ulteriore disdetta ex art. 3 della l. n. 392/1978). Trattavasi, comunque, di nullità “parziale”, operante secondo il meccanismo previsto dagli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., nel senso che le norme inderogabili relative alla durata minima risultavano inserite di diritto nel contratto in sostituzione delle clausole difformi, con piena salvezza delle restanti pattuizioni (Cass. III, n. 6246/1992; Cass. III, n. 3870/1989), a nulla rilevando che le parti (o una di esse) non avrebbero concluso il contratto senza quella particolare clausola sostituita (Cass. III, n. 6308/1991). Un analogo congegno si rinviene nella l. n. 431/1998, nel senso che, se le parti abbiano contrattualmente convenuto una durata inferiore a quella legale, trova applicazione l'art. 13, comma 3, il quale sanziona con la nullità “ogni pattuizione volta a derogare ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla (presente) legge”. La dottrina è, sul punto, concorde nel ritenere che la nullità operi anche qui secondo il combinato disposto degli artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c. (Carrato 1999, 24), sicché, in caso di violazione del limite minimo di durata della locazione, il citato art. 13, comma 3, non pregiudica la validità del contratto nel suo complesso, ma determina – analogamente, peraltro, a quanto prevedeva la legge sull'equo canone – esclusivamente la sostituzione della clausola viziata con quella conforme al disposto di legge: in altri termini, il contratto di locazione rimane valido ed efficace in ogni sua parte, eccezion fatta per la clausola relativa alla durata inferiore a quella quadriennale, automaticamente sostituita dalla disposizione imperativa dettata dall'art. 2 della l. n. 431/1998. Pertanto, il comma 3 dell'art. 13 – non modificato dalla legge di stabilità 2016 e sempre nell'ottica di tutelare il conduttore al quale viene garantito il diritto di permanere nell'immobile locato almeno per il periodo minimo legale – dichiara nulle le pattuizioni in violazione dei limiti minimi di durata previsti dalla legge che vengono indicati, salvo diniego motivato, in quattro anni (più quattro anni) per i contratti a canone libero (art. 2, comma 1), e in tre anni (più due anni) per quelli agevolati (art. 2, comma 3); la norma è, peraltro, applicabile anche con riferimento ai contratti stipulati per esigenze transitorie (art. 2, comma 5), la cui durata è stata fissata dai vari decreti ministeriali che si sono succeduti in subiecta materia in mesi da uno a diciotto per gli usi transitori ordinari e in mesi da sei a trentasei per quelli destinati a soddisfare le esigenze abitative degli studenti universitari fuori sede. La norma in commento appare applicabile, in quanto parimenti derogatoria, sia pure in via indiretta, della “durata minima legale” (quadriennio o biennio che sia), anche nell'ipotesi in cui le parti prevedano l'automatica cessazione del rapporto alla prima scadenza, o la facoltà di denegare il rinnovo del rapporto locativo alla stessa senza giustificazione alcuna, o comunque per ragioni diverse da quelle sancite tassativamente dall'art. 3; e ciò vale anche, per quanto concerne la seconda scadenza (ai cinque anni in caso di contratto agevolato), per la clausola con cui si preveda l'esclusione del rinnovo tacito senza l'osservanza delle modalità previste dall'art. 2. Sono, invece, valide le pattuizioni volte a garantire una durata superiore della locazione o che prevedano la rinuncia del locatore ad avvalersi della facoltà del diniego di rinnovo alla prima scadenza, così come quelle limitative della durata legale intervenute nel corso del rapporto, trattandosi di disposizione volta a sanzionare un'elusione preventiva dei diritti del conduttore e vertendosi, d'altronde, in materia non sottratta alla disponibilità delle parti per cui il conduttore può ben rinunciare ai diritti già sorti in suo favore. È controversa in dottrina l'applicabilità dell'azione di riconduzione ex art. 13, comma 5 (oggi 6), secondo periodo, della l. n. 431/1998 nel caso di clausole contrattuali difformi alla disciplina legale sulla durata. Favorevoli si mostrano alcuni (Bucci, 74), sul rilievo che, tra le condizioni alle quali dovrebbe conformarsi il contratto, è prevista la durata minima legale – che, anzi, nel modello c.d. libero costituisce l'unico profilo imperativo inerente al contenuto del contratto – sicché l'azione di riconduzione può essere esperita anche ai fini dell'accertamento preventivo dell'illegittimità di clausole limitative della durata garantita ex lege; in senso conforme, si è osservato (Scripelliti 1999, 558) che l'illegittimità delle clausole riduttive della durata minima legale non derivi ope legis, bensì debba essere, di volta in volta, accertata in sede giudiziale, ai sensi dell'art. 13, comma 5 (oggi 6), ai fini di una pronuncia costitutiva che operi la sostituzione della clausola invalida con la durata minima legale. Di parere contrario è altra parte della dottrina (Petrolati 2000, 221), la quale evidenzia che l'incipit dei primi due periodi del citato comma 5 (oggi 6) sembrano circoscrivere univocamente l'àmbito di applicazione della suddetta azione di riconduzione alle ipotesi di nullità inerenti al canone previste al precedente comma 4: invero, la riconduzione è consentita solo “nei medesimi casi” nei quali è ammissibile la ripetizione del canone indebitamente percepito in ragione delle integrazioni delle “nullità di cui al comma 4”; il rinvio ai commi 1 e 3 dell'art. 2, operato dal secondo periodo del comma 5 (oggi 6) dell'art. 13, del resto, viene giustificato dalla semplice esigenza di individuazione del “modello” di contratto cui riferire la conformazione giudiziale, ferma restando l'operatività della riconduzione solo per fronteggiare le pattuizioni nulle relative al canone. Del tutto peculiare si presenta, poi, la “riconduzione alla durata” ordinaria del canone libero nei contratti di transitori, previsti dall'art. 5 della l. n. 431/1998 – al cui commento si rinvia – in ordine ai quali i vari decreti ministeriali succeditisi tempo prevedono un particolare onere di “conferma” del persistere della sottesa esigenza transitoria. Fattispecie relative al corrispettivoPattuizioni nel regime della legge sull'equo canone Al fine di analizzare il regime delle nullità riguardo la pattuizione relativa al canone, è opportuno richiamare gli approdi ermeneutici raggiunti dalla giurisprudenza e dalla dottrina riguardo all'analogo meccanismo congegnato dalla l. n. 392/1978, poiché alcuni mantengono piena validità anche nell'àmbito dell'attuale disciplina. Innanzitutto, l'art. 79 della l. n. 392/1978 è stato pacificamente interpretato nel senso che la nullità colpiva qualsiasi pattuizione che, volutamente o meno, si risolvesse nell'attribuzione al locatore di un canone maggiore rispetto a quello risultante dai criteri legali, anche se ciò si realizzasse incidendo su taluni dei coefficienti (ad esempio, attribuendo una categoria catastale superiore, v. Cass. III, n. 5142/2001), laddove le norme inderogabili attinenti al canone legale venivano inserite di diritto nei contratti in corso, in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti, senza che, dalla nullità di tali clausole, potesse derivare la nullità dell'intero contratto. Non era, invece, colpita da alcuna sanzione la pattuizione di un canone inferiore a quello “equo”, essendo espressione del potere di autonomia contrattuale, dovendo, però, risultare in modo non equivoco la volontà di derogare, in maniera favorevole al conduttore, ai criteri fissati dall'art. 12 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 10024/1998; Cass. III, n. 3802/1998; Cass. III, n. 390/1997; Cass. III, n. 840/1988). In quest'ottica, l'errore di calcolo era ovviabile attraverso il procedimento di determinazione dell'equo canone, poiché si risolveva in un vizio ad esso attinente (Cass. III, n. 4305/1987, in un caso di errore di calcolo in cui le parti erano incorse nel sommare gli addendi costituenti le componenti della superficie convenzionale), e legittimato a richiedere la correzione era anche il locatore ove non risultasse una sua volontà di derogare ai criteri legali; parimenti, si doveva ritenere circa l'errore di valutazione, come, ad esempio, l'indicazione di una categoria catastale inferiore (Trib. Torino 19 febbraio 1987 opinava, invece, per l'applicabilità ex nunc dell'adeguamento ex art. 25 della l. n. 392/1978, in alternativa all'azione di annullamento dell'intero contratto, ai sensi dell'art. 1427 c.c.). Se un errore di questo tipo si fosse risolto in un aumento (rispetto al canone “equo”) del corrispettivo convenuto – si pensi all'ipotesi in cui le parti, per comune errore, avevano considerato centro storico una zona, invece, semiperiferica – ferma la possibilità per il conduttore di ricondurre il canone alla misura legale mediante il ricorso al giudice (contra, Pret. Cremona 17 settembre 1982), restava aperto il problema dell'annullabilità dell'intero contratto ex art. 1427 c.c. su iniziativa del locatore, il quale assumeva che, senza l'errore in cui era incorso sull'ammontare del canone, non avrebbe stipulato il contratto (Pret. Lucca 29 aprile 1985). La giurisprudenza era, poi, concorde nell'affermare la nullità delle clausole di “aggiornamento” I.S.T.A.T. che prevedessero criteri diversi e più gravosi di quelli indicati dalla l. n. 392/1978 (Pret. S. Maria Capua Vetere 27 giugno 1981), e ciò ancorché al conduttore fossero stati attribuiti altri vantaggi, quali la durata del contratto ultraquadriennale e l'accollo delle spese di registrazione da parte del locatore (Trib. Milano 19 gennaio 1985); le parti, invece, potevano prevedere l'aggiornamento del canone con una cadenza maggiore o secondo percentuali minori di quelle previste dalla legge sull'equo canone, perché tale accordo era più favorevole per il conduttore e non rientrava, quindi, tra quelli vietati dall'art. 79 della citata legge, che sanciva solo la nullità dei patti in deroga vantaggiosi per il locatore (Cass. III, n. 8499/1992). Poteva porsi il problema della validità di una clausola double face che, ad esempio, stabilisse l'aggiornamento nella misura del 100%, ma con aggiornamento biennale; la soluzione di tale questione, come di altre analoghe, doveva essere ricercata (ad avviso di Lazzaro, Di Marzio, 282) attraverso una valutazione ex post, opinandosi per la sua validità se, nel periodo considerato, il conduttore fosse stato tenuto a corrispondere un importo globalmente inferiore (o eguale) a quello risultante dall'applicazione dei criteri legali; nell'ipotesi inversa, invece, la clausola doveva credersi nulla con la conseguente reviviscenza dei criteri di cui all'art. 24 della l. n. 392/1978 e l'obbligo per il conduttore di corrispondere l'aggiornamento anche per l'anno non considerato (senza che rilevasse, data la situazione, la mancanza di richiesta). Un patto che contemplava il pagamento in moneta straniera appariva valido, anche se – purché non fossero eluse le norme inderogabili sulla misura del canone – restava fermo il diritto del conduttore ad eseguire la prestazione nella misura legale e, quindi, di rifiutare l'esecuzione nella misura stabilita ove, alla scadenza prevista, essa, per il meccanismo dei cambi, avesse avuto un valore superiore (Tamponi, 769); in altri termini, la pattuizione poteva restare valida quanto all'obbligo del conduttore di procurarsi la moneta straniera, mentre il quantum doveva essere, invece, rapportato al valore che essa aveva al momento della conclusione del contratto (artt. 1277 ss. c.c.). In proposito, ci si era chiesti se potesse essere pattuito il pagamento del canone con qualsiasi periodicità, e se la libertà dei contraenti potesse spingersi fino a consentire il pagamento integralmente anticipato del dovuto; il problema si intersecava con quello – ancora attuale – della vigenza dell'art. 2-ter del d.l. n. 236/1974, convertito in l. n. 351/1974, secondo cui “sono nulle le clausole contrattuali che contemplano l'obbligo di corresponsione anticipata del canone della locazione per periodi superiori a tre mesi”. Sul punto, i giudici di legittimità, nel soffermarsi sul rapporto tra tale disposizione e la l. n. 392/1978, hanno offerto risposte contrastanti: in un primo momento, si è sostenuta la perdurante vigenza della disposizione del 1974 riguardo alle locazioni abitative sulla base del rilievo per cui essa non rientra tra le norme vincolistiche in senso stretto (Cass. III, n. 5376/1988); si è ritenuto, poi, che la menzionata disposizione fosse stata implicitamente abrogata, non essendo compatibile con la libertà di determinazione del canone locativo degli immobili per uso non abitativo consentita alle parti (Cass. III, n. 6247/1992; v., però, Cass. III, n. 5475/2015, secondo cui, in tema di locazione commerciali, la pattuizione della corresponsione anticipata del canone di locazione, per un periodo superiore a tre mesi, incorre nella sanzione della nullità ai sensi degli artt. 79 della l. n. 392/1978, e 2-ter della l. n. 351/1974, applicabile ratione temporis, in quanto diretta ad attribuire al locatore vantaggi superiori a quelli previsti dalla disciplina legale delle locazioni); in senso diverso, si è espressa un'ulteriore pronuncia, muovendo, nel quadro di applicazione degli artt. 32 e 79 della l. n. 392/1978, dalla constatazione che, con il pagamento anticipato in unica soluzione, si viene normalmente a penalizzare la posizione economica e giuridica del conduttore oltre i limiti tuttora stabiliti dalla legge sull'equo canone (Cass. III, n. 6274/1996; cui adde Cass. III, n. 9971/2008). In definitiva, per quanto riguarda le locazioni abitative ed in riferimento al periodo di vigenza della l. n. 392/1978, si riteneva (Lazzaro, Di Marzio, 285) che la summenzionata norma vincolistica dovesse trovare applicazione, atteso che il solo argomento in contrario avanzato dai magistrati di Piazza Cavour atteneva, infatti, alla libertà di determinazione del canone che caratterizzava le locazioni ad uso diverso e che, quindi, non poteva essere utilizzato con riferimento al regime dell'equo canone per quelle abitative. Quindi, il pagamento anticipato del canone poteva legittimamente stabilirsi entro il limite delle tre mensilità, mentre se riguardava, invece, più di tre, la clausola era da considerarsi nulla, come, ad esempio, nel caso della previsione di rate annuali anticipate (Pret. Brescia 13 luglio 1985; Pret. Milano 23 gennaio 1981), o, addirittura, di pagamento in unica soluzione del canone dell'intero quadriennio (Trib. Napoli 29 novembre 1991), salvo, però, ritenere che, per la parte che non superava il limite delle tre mensilità, la clausola pattizia restasse valida. Riguardo alla l. n. 431/1998, si è rilevato che, a seguito dell'integrale liberalizzazione della misura del canone delle locazioni abitative, la pattuizione consistente nel raggiungimento dell'intesa del pagamento del canone anticipato anche per periodi superiori al trimestre, come anche l'integrale pagamento anticipato “non collide con lo spirito della l. n. 431/1998, né con un divieto inderogabilmente trasparente nella nuova normativa” (così Carrato 1999, 33); in senso conforme, si è osservato (Mazzeo 2012, 120) che il patto che preveda il versamento anticipato di diverse mensilità di canone deve ritenersi valido, giacché l'art. 13 della l. n. 431/1998 sanziona con la nullità (solo) i patti finalizzati ad attribuire al locatore un “canone” superiore a quello previsto nel contratto scritto e registrato (o comunque quei patti attributivi di vantaggi economici aventi detta finalità), oltre, naturalmente, ai patti volti a derogare ai limiti di durata previsti dalla citata legge. Per quanto concerne gli interessi per ritardato pagamento, l'art. 79 della l. n. 392/1978 tendeva solo a garantire l'equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, senza porre limiti all'autonomia negoziale riguardo alla determinazione preventiva del risarcimento del danno nel caso di ritardo nell'adempimento delle reciproche prestazioni, sicché era considerata valida, agli effetti di cui all'art. 1224, comma 2, c.c. – non, invece, ai fini della sanatoria della morosità – la clausola con la quale le parti avessero convenuto un tasso di interesse superiore a quello legale sull'importo dei canoni corrisposti in ritardo (Cass. III, n. 1303/1989). Relativamente, poi, al deposito cauzionale, si era considerato nullo, nel regime dell'equo canone, il patto con il quale venisse stabilito un deposito superiore a tre mensilità del canone, o l'imposizione di un secondo deposito cauzionale (Trib. Roma 11 giugno 1990); la clausola con la quale fossero stabiliti interessi inferiori alla misura legale sul deposito cauzionale era da reputarsi parimenti nulla, stante il chiaro disposto dell'art. 11 della l. n. 392/1978 – al cui commento si rinvia – anche se poteva opinarsi che, ritenendo il locatore di non aver modo di impiegare la somma in un'attività che fruttasse un rendimento pari o superiore all'interesse legale, fosse consentito alle parti concordare una diversa forma di cauzione (così, ad esempio, il deposito di B.O.T., i cui frutti sarebbero spettati al conduttore nella misura stabilita per quei titoli, o mediante fideiussione bancaria): una clausola in tal senso, proprio perché non incidente sull'equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, né risolvendosi in un “vantaggio” per il locatore – il quale avrebbe evitato solo il pregiudizio economico di dover sottrarre dall'importo annuale del canone la differenza tra gli interessi legali e quelli da lui percepiti con il deposito della somma avuta a garanzia – sarebbe stata, quindi, da reputare valida. Nel vigore della l. n. 431/1998, si ritiene (Lazzaro, Di Marzio, 289) ammissibile una deroga alla disciplina legale dettata in tema di deposito cauzionale dal non abrogato art. 11 della l. n. 392/1978 solo nei limiti di una reale trattativa fra le parti che mantenga sostanzialmente equilibrato il sinallagma del rapporto. Inoltre, si era dell'opinione che, non trovando alcuna giustificazione nel sinallagma contrattuale, erano nulle le pattuizioni che prevedevano il versamento, da parte del conduttore, di ulteriori somme una tantum, a qualunque titolo, ad esempio, per “buona entrata, per “buon ingresso”, a “fondo perduto”, per “buona permanenza”, cioè per rimanere nella disponibilità dell'appartamento attraverso la previa rinuncia del locatore a dare disdetta (v., tra le altre, Cass. III, n. 8815/1996; Cass. III, n. 3896/1993, specificando che trattavasi di pattuizioni volte a costituire un vantaggio per il locatore mediante l'acquisizione immediata di una somma di denaro, per le potenzialità di investimento che siffatta disponibilità gli offriva sul piano economico). A titolo esemplificativo, si era stabilito che il conduttore aveva diritto a ripetere, stante la nullità del relativo accordo ai sensi dell'art. 79 della l. n. 392/1978, la somma da lui versata al locatore apparentemente a titolo di espromissione di un debito lasciato insoluto dal precedente inquilino, ma in realtà pretesa dal locatore stesso quale condicio sine qua non per poter ottenere in locazione l'appartamento (Trib. Milano 19 novembre 1998); al contrario, era stata esclusa la nullità del patto che prevedeva la corresponsione al locatore di un corrispettivo per il consenso di questo all'anticipata risoluzione del contratto locativo con il conduttore che intendeva alienare l'azienda esercitata nell'immobile, trattandosi di accordo utile anche per quest'ultimo, dato che, in mancanza, la proposta di alienazione dell'azienda non sarebbe stata accettata dall'acquirente, che aveva interesse a stipulare un nuovo contratto locativo, piuttosto che a subentrare nel contratto in corso, prossimo alla scadenza (Cass. III, n. 2069/1995); parimenti, è stato reputato valido il patto con il quale veniva scomputata mensilmente a titolo di canone la somma dovuta dal locatore per versamenti effettuati dalla controparte extra legem, puntualizzando che le parti, lungi dal violare la normativa prevista dalla l. n. 392/1978, nel dare un assetto definitivo al rapporto contrattuale relativo al godimento dell'immobile, avevano previsto in favore del locatore il diritto di ritenere le somme percepite in più dell'equo canone fino alla data di riconsegna del bene, diritto che, non incidendo sull'entità del rapporto locativo bensì sul termine di adempimento dell'obbligazione di ripetizione, doveva ritenersi legittimo, non solo perché frutto dell'incontro della volontà delle parti, ma anche perché non comportante il conseguimento da parte del locatore di un canone maggiore di quello dovuto (Trib. Milano 18 marzo 1991). Nella stessa lunghezza d'onda, si pone la dottrina riguardo all'inammissibilità della c.d. buona entrata nel regime introdotto dalla l. n. 431/1998 (Bucci, 71); anzi, l'art. 13, comma 4, sembra avere inteso rafforzare il principio affermato dal giudice di legittimità secondo il quale, anche nei casi in cui il canone può essere liberamente determinato dai contraenti, non è consentito al locatore di pretendere ulteriori somme (in senso dubitativo, Di Marzio 2000, 46). In ordine agli oneri condominiali, è stata reputata nulla la pattuizione di ripartizione degli stessi, rispetto a quanto previsto dall'art. 9 della l. n. 392/1978 – al cui commento si rinvia – in senso più sfavorevole al conduttore (Trib. Roma 19 ottobre 1983); parimenti poteva opinarsi per il patto con cui il conduttore rinunciasse preventivamente al diritto di voto in assemblea, mentre non si poneva, invece, alcun problema se la pattuizione fosse più favorevole al conduttore (Cass. III, n. 5836/1992). Riguardo, infine, alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, a carico del locatore, si è ritenuto che la loro assunzione pattizia da parte del conduttore ricadeva sotto la sanzione di nullità stabilita dal comma 1 dell'art. 79 della l. n. 392/1978 in relazione sia alla specifica previsione dell'art. 23 di tale legge in tema di riparazioni straordinarie, sia alla predeterminazione legale dei limiti massimi del canone, suscettibili di superamento in caso di attribuzione convenzionale dell'onere economico delle spese di manutenzione (Cass. III, n. 8812/1996; Cass. III, n. 1303/1989, che ha optato, invece, per la liceità della clausola riguardo alle locazioni non abitative), conseguendone che il locatore non poteva esigere l'osservanza di un tale patto, non essendo configurabile un inadempimento (Pret. Milano 24 novembre 1987). Pattuizioni contemplate dalla nuova disciplina L'art. 13 della l. n. 431/1998 – anche nella versione del 2016 – nel compendiare la disciplina dei “patti contrari alla legge”, si occupa del canone per tre volte, e precisamente: a) al comma 1, prevede la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, riferendosi a tutte le tipologie contrattuali che essa disciplina; b) al comma 4 prima parte, prevede la nullità di ogni pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello massimo definito in sede di contrattazione locale, riferendosi ai soli contratti a canone concertato, e c) al comma 4 seconda parte, prevede la nullità, ove in contrasto con le disposizioni della stessa legge, di qualsiasi pattuizione diretta ad attribuire al locatore un corrispettivo superiore a quello contrattualmente stabilito, riferendosi ai soli contratti a canone libero. Alle suddette sanzioni di nullità, conseguono l'azione di ripetizione di indebito e, per quanto riguarda le sole nullità di cui al comma 4, l'azione c.d. di riconduzione a condizioni conformi a quanto previsto rispettivamente per i contratti a canone libero e per i contratti a canone concertato (v. infra). Canone concertato Rinviando l'analisi del primo gruppo di nullità al prosieguo – atteso che la tematica della registrazione impone una trattazione ad hoc – e prendendo le mosse dal secondo gruppo, l'art. 13, comma 4, primo periodo, della l. n. 431/1998 (il cui testo è rimasto sostanzialmente invariato) stabilisce, dunque, la nullità della pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello massimo consentito dal contratto-tipo per la categoria di immobili in cui rientra, per le caratteristiche e le tipologie, la cosa oggetto della locazione. In proposito, si è acutamente osservato (Izzo 1999, 72) che, a fronte della paventata minore tutela del conduttore, nel disegno complessivo della riforma del 1998, le ragioni di quest'ultimo hanno trovato congrua protezione attraverso la conformazione, sollecitata dalle agevolazioni fiscali, al contratto-tipo elaborato in sede locale dalle Organizzazioni della proprietà edilizia e degli inquilini, essendosi preferita una tutela di tipo “preventivo” che agisce per lo spontaneo adeguamento del mercato delle locazioni a determinati standard ritenuti soddisfacenti dalle categorie interessate. Ovviamente, tale nullità si applica soltanto qualora le parti abbiano scelto di utilizzare il modello contrattuale a canone c.d. concertato di cui all'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1978, in cui le stesse parti non sono del tutto libere di concordare la misura del canone, dovendo anzi tener conto delle fasce di oscillazione fissate in sede di contrattazione locale (trattasi, in fondo, di una nullità analoga a quella prevista dall'art. 79 della l. n. 392/1978 riguardo alle pattuizioni dirette ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello “equo” legalmente previsto). Spetta, pertanto, al giudice il compito di verificare, in via preliminare, l'adesione delle parti alla tipologia contrattuale introdotta dal comma 3 dell'art. 2, accertamento da condursi alla stregua delle comuni regole ermeneutiche avendo come punto di riferimento il contenuto complessivo del contratto (epigrafe, dichiarazione di intenti, ecc.), le clausole non direttamente concernenti il corrispettivo, nonché il contegno in concreto tenuto dalle parti anche in epoca successiva alla stipulazione ai sensi dell'art. 1362, comma 2, c.c. (Lazzaro, Di Marzio, 314). In proposito, va seguito quel consolidato orientamento giurisprudenziale già applicato nel vecchio regime, secondo cui il congegno invalidante opera secondo il combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. – ossia la sostituzione della misura di canone concordata con quella massima consentita dal contratto-tipo, con salvezza però della restante disciplina contrattuale – con l'unica differenza, rispetto al passato, che il parametro di riferimento per la determinazione del canone va ricercato non già nella legge, bensì nella contrattazione locale (l'art. 1339 c.c. contempla l'inserzione di diritto nel contratto delle clausole imposta dalla “legge” ma, in tale termine, vanno ricomprese tutte le fonti cui essa devolva di statuire nella materia di volta in volta interessata). Secondo una parte della dottrina (Petrolati 2000, 224), il termine “canone” di cui alla disposizione in esame va interpretato estensivamente, comprensivo di tutte le clausole, economiche e normative, incidenti nella misura della complessiva controprestazione del conduttore, così da includere non solo ogni pattuizione relativa all'aggiornamento dello stesso (i d.m. 5 marzo 1999 e 30 dicembre 2002 prevedono che l'aggiornamento non possa superare il 75% delle variazioni I.S.T.A.T.), ma anche altre clausole contrattuali dirette, anche surrettiziamente, ad attribuire al locatore vantaggi superiori a quelli previsti dagli accordi-tipo o dagli accordi territoriali (o dai tipi di contratto di cui alla l. n. 2/2002 che ha ha introdotto l'art. 4-bis); in altri termini, nel modello contrattuale agevolato, il limite massimo stabilito in sede locale non può esser eluso attraverso l'attribuzione al locatore di vantaggi comunque incidenti sul sinallagma contrattuale. Alla sanzione di nullità di cui al comma 4 – oltre l'esclusione dell'accesso alle agevolazioni fiscali contemplate in favore del locatore dall'art. 8, comma 1,della l. n. 431/1998 – si accompagna, al comma 6 (ex 5), la previsione della condictio indebiti spettante al conduttore, da esperirsi, come, peraltro, già disponeva l'art. 79 della l. n. 392/1978, entro il termine di decadenza semestrale, nonché l'azione di riconduzione del contratto a condizioni conformi a quanto disposto all'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998 (v. anche appresso). In proposito, si è sostenuto (Cuffaro 1999, 8) che l'azione di riconduzione di cui al comma 5, secondo periodo, dell'art. 13 consente la possibilità di conseguire la conformazione al contratto-tipo non solo per quanto attiene al canone, ma anche per tutte le “altre condizioni contrattuali” (così l'art. 2, comma 3) caratterizzanti il modello concertato; in particolare, il contratto-tipo diventa assimilabile ai c.d. contratti regolamentari e le rispettive clausole sono non solo suscettibili di automatico inserimento nel contratto individuale ove non risulti che le parti non le abbiano volute (argomentando ex 1340 c.c.), ma anche dotate di forza cogente tale da imporsi su qualsiasi deroga in peius a sfavore del conduttore (argomentando ex art. 1374 c.c.). Altri (Bucci, 103) hanno evidenziato la difficoltà di un eventuale accertamento fiscale volto a verificare il contenuto delle singole clausole contrattuali, atteso che, nella denuncia dei redditi, il locatore è tenuto ad indicare solo gli estremi della registrazione del contratto, sostenendo, quindi, che, per le clausole diverse da quelle da quelle relative al canone o alla durata, non sanzionate espressamente da nullità, l'azione di conformazione sia affidata all'iniziativa del conduttore, restando preclusi sia il meccanismo di sostituzione automatica ex lege sia il rilievo ex officio della difformità dal contratto-tipo. In argomento, è intervenuta una recente pronuncia (Cass. III, n. 27022/2016), la quale ha chiarito che la questione della nullità delle pattuizioni va distinta dal caso in cui il contratto stipulato dalle parti si discosta da quello “tipo”, nel senso che possa parlarsi di nullità solo con riferimento alle pattuizioni inerenti il canone e la durata. A ben vedere, la l. n. 431/1998 contiene solo una norma che regola espressamente in termini di inderogabilità il rapporto tra il contratto-tipo risultante dall'accordo territoriale con le Organizzazioni categoria (che, a sua volta, è modellato sul tipo di contratto centralizzato) ed il contratto individuale; parimenti inderogabile è la disciplina della durata, ma per questa la determinazione è data dalla legge e non dagli accordi territoriali e, infatti, la sanzione di nullità di cui al comma 3 dell'art. 13 rimanda “ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla legge”; per il resto, l'art. 2, comma 3, si limita a rinviare a quanto stabilito negli apposti accordi definiti in sede locale, “sulla base” dei quali va stipulato il contratto di locazione individuale. Qualora, tuttavia, le parti regolino le reciproche obbligazioni, in modo tale che il contratto non appaia più sussumibile nello schema del contratto c.d. concordato, in quanto viene alterato l'assetto degli interessi da questo complessivamente definito, la conseguenza è che il contratto deve essere disciplinato come contratto ordinario (in tale caso, il locatore non potrà godere delle agevolazioni fiscali cui è funzionale la stipulazione dei contratti c.d. concordati per quando le parti abbiano formalmente adottato la denominazione di contratto agevolato e richiamato l'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998); quando invece le parti, utilizzando lo schema del contatto c.d. concordato adottato in àmbito territoriale, se ne discostino in parte, regolando solo obbligazioni accessorie o aspetti marginali delle obbligazioni principali, sì da non alterare l'assetto degli interessi quale precostituito nei contratti-tipo, il contratto individuale è riconducibile alla disciplina vincolistica quanto a durata e canone. Pertanto – ribadisce la Suprema Corte – la qualificazione di contratto c.d. concordato, e la correlata applicazione dei benefici fiscali, non opera se le parti, pur rispettando la durata legale e la determinazione del canone risultante dagli accordi definiti in sede locale, modifichino in tutto o in parte le altre condizioni contrattuali, in modo da alterare l'assetto dei reciproci interessi precostituito nel modello concordato; mentre non è imposta alle parti l'utilizzazione del “modello grafico” del tipo di contratto adottato in sede nazionale e/o locale, questo, però, è un dato dirimente ai fini della qualificazione, nel senso che non si discuterà di quale disciplina applicare ove il modello sia quello allegato al decreto interministeriale, così come recepito nell'accordo applicabile. Canone libero Per quanto concerne i contratti a canone libero di cui all'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, l'art. 13, comma 4, seconda parte, sanzionava con la nullità, ove in contrasto con le disposizioni della presente legge, “qualsiasi obbligo del conduttore nonché qualsiasi clausola o altro vantaggio economico o normativo diretti ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito”, mentre il nuovo testo, a seguito dei rimaneggiamenti operati dalla l. n. 208/2015, si riferisce soltanto a “qualsiasi pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito”. Si deve ricordare, al riguardo, che, a seguito delle abrogazioni degli articoli da 12 a 26 della l. n. 392/1978 ad opera della l. n. 431/1998, il corrispettivo, quanto alle locazioni abitative, non è più predeterminato in base ai parametri della legge sull'equo canone, ma può essere aggiornato liberamente e, ove lo parti lo convengano, anche in base al 100% delle variazioni Istat dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificate nell'anno precedente o in base ad altro indice di aggiornamento (in questo senso, la liberalizzazione del canone di cui alla legge del 1998 appare più ampia di quella già prevista dall'art. 11 della l. n. 359/1992, sui c.d. patti in deroga, che consentiva la libertà contrattuale del canone con il limite espresso del rispetto dell'art. 24 della l. n. 392/1978 in materia di aggiornamento del canone). La versione del 1998 richiamava alla memoria la formulazione dell'art. 79 della l. n. 392/1978, laddove veniva parimenti sanzionata ogni pattuizione comunque diretta ad attribuire al locatore un vantaggio in contrasto con la legge, senonché è profondamente mutato il parametro legale di riferimento (come sottolineato da Petrolati 2000, 226): infatti, mentre la legge sull'equo canone aveva introdotto una disciplina imperativa sui profili essenziali del rapporto locativo ad uso abitativo primario (durata, canone, oneri accessori, ecc.) – sicché l'equilibrio tra le prestazioni reciproche poste a carico delle parti non poteva essere infranto in favore del locatore – nella legge di riforma, l'unico profilo imperativo attinente al contenuto dei reciproci obblighi delle parti riguarda, nel contratto c.d. libero, solamente la durata, sicché si rivela assai diversa, nel nuovo contesto normativo, la portata del requisito del “contrasto con le condizioni della presente legge”. Si è sottolineata l'ovvietà di tale previsione, atteso che non esiste un obbligo per il conduttore di pagare un canone maggiore di quello pattuito, salvo ipotizzare che la norma debba essere interpretata come conferma del comma 1 dell'art. 13 e, quindi, come previsione di nullità della pattuizione non registrata tempestivamente di maggior canone (Scripelliti 2017, 526, il quale ritiene trattarsi di norma “tautologica e sovrabbondante”, che ripetitivamente dichiara di vietare ciò che la legge vieta, considerando che il canone, per i contratti di cui all'art. 2, comma 1, è libero e un eventuale canone extracontratto potrebbe già cadere nella nullità per omessa pattuizione per iscritto e/o per omessa registrazione, a meno che non si voglia sostenere che la norma preveda l'invariabilità del canone del corso del rapporto anche per accordo tra le parti regolarmente registrato, il che, però, avrebbe richiesto maggiore chiarezza e, comunque, non risponde ad alcun interesse apprezzabile del conduttore). Va segnalato, per completezza, che il secondo periodo del comma 4 prevedeva la nullità di “qualsiasi clausola, o vantaggio economico o normativo” sempre che in contrasto con le disposizioni della presente legge, diretti ad attribuire un canone maggiore rispetto a quello contrattualmente stabilito: si trattava di una previsione che poneva oggettive difficoltà interpretative, stante che né l'art. 2, comma 1, né altra disposizione della l. n. 431/1998 stabilivano alcunché con riferimento agli aspetti economici del rapporto. Dalla prevalente dottrina (Bucci, 98; Izzo 1999, 76; Scarpa 1999, 156), era stata prospettata un'interpretazione riduttiva della norma, considerata come meramente rafforzativa dell'obbligo della forma scritta ad substantiam e della registrazione; in quest'ottica, si è ritenuto che la nullità de qua avesse ad oggetto solamente quei patti aggiunti al contratto che erano diretti ad incrementare il canone senza essere dotati dei requisiti formali indispensabili per assumere efficacia novativa dell'accordo originario concluso tra le parti; nonostante l'ampia perifrasi adottata dal legislatore (“qualsiasi” obbligo o vantaggio), la nullità riguardava comunque solo l'attribuzione di un canone superiore a quello contrattualmente pattuito, sicché il contemplato vantaggio illecito consisteva unicamente nell'obbligo pecuniario assunto dal conduttore a titolo di corrispettivo del godimento dell'immobile. Altra parte della dottrina (Petrolati 2000, 227) – partendo dalla considerazione che l'obiettivo della novella del 1998 era quello dell'emersione fiscale dei redditi da locazione e contrapponendo il canone “contrattualmente stabilito”, locuzione riferibile al corrispettivo mensile in senso stretto, al “canone superiore” inteso come complessiva controprestazione posta a carico del conduttore – aveva ritenuto che la predetta sanzione di nullità potesse colpire tutte quelle clausole che, rispetto alla disciplina naturale del rapporto locativo (ad esempio, in tema di ripartizione delle spese di manutenzione straordinaria), rendessero più gravosa la controprestazione del conduttore e, al contempo, sottraessero al fisco il reddito imponibile; in altri termini, la norma poteva trovare applicazione qualora le parti, stabilito il canone, disciplinassero il rapporto con pattuizioni riguardanti altri aspetti sia “economici” che “normativi” – come il deposito cauzionale, le spese di registrazione, le spese per la manutenzione straordinaria, gli oneri accessori – ponendo gli stessi a carico del conduttore secondo modalità difformi da quanto oggi previsto dal legislatore, di modo che il locatore potesse trarre dal contratto un vantaggio superiore a quello solo apparentemente derivante dalla percezione del canone, esclusivamente sul quale versava le imposte di legge. Orbene, la c.d. legge di stabilità del 2016 ha snellito il secondo periodo del comma 4, con una formula più chiara rispetto a quella previgente, sicché la norma è ora diretta a comminare la nullità di ogni patto aggiunto destinato ad incidere solo sul canone (Petrelli 2017). In passato, sotto la vigenza dell'art. 79 della l. n. 392/1978 – predecessore dell'art. 13 – la giurisprudenza si era espressa nel senso della nullità di clausole contrattuali che obbligavano il conduttore al pagamento degli oneri accessori in misura superiore a quella prevista dall'art. 9 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 10081/1998; Cass. III, n. 12718/1997), oppure in misura forfetariamente determinata (Cass. III, n. 15630/2005; Cass. III, n. 3431/2002); la giurisprudenza di merito ha, però, sostenuto che, dopo l'entrata in vigore delle legge n. 431/1998, in un contratto di locazione abitativa si può validamente pattuire una clausola di forfetizzazione degli oneri accessori a carico del conduttore in aggiunta al canone propriamente detto, restando così invariabile l‘importo pattuito che risulta indifferente all'effettiva entità ed all'esistenza degli oneri, né può configurarsi a carico del locatore l'onere di dimostrare e documentare l'entità degli oneri, ed anche nel caso che questi non siano stati effettivamente sostenuti, e senza che possa ritenersi attribuita al conduttore la facoltà di dimostrare che le spese sono state inferiori al forfait o non sono state effettuate (Trib. Firenze 8 marzo 2007). Analogamente si è ritenuto per quanto concerne la clausola relativa al deposito cauzionale, ricordando che l'art. 11 della l. n. 392/1978 – non abrogato dalla nuova disciplina – stabilisce la misura massima del deposito cauzionale nonché le modalità di corresponsione degli interessi legali sulla somma; in proposito, sotto la vigenza dell'art. 79 della l. n. 392/1978, si era ritenuta la nullità delle clausole contrattuali che non prevedevano la corresponsione degli interessi sulla base della natura imperativa dell'obbligo del locatore di versare gli interessi sul deposito cauzionale, obbligo che perseguiva finalità di tutela del contraente più debole e diretto ad impedire che i frutti della relativa somma, percepibili dal locatore, potessero tradursi in un surrettizio incremento del canone locatizio (Cass. III, n. 75/2010; Cass. III, n. 8330/2004; Cass. III, n. 12117/2003); ma anche qui la giurisprudenza di merito, pronunciatasi dopo l'entrata in vigore della l. n. 431/1998, ha ritenuto la validità della clausola che esclude l'obbligo del locatore di restituire al conduttore gli interessi maturati sul deposito cauzionale da quest'ultimo versato al momento della stipula del contratto se accede ad un contratto stipulato dopo l'entrata in vigore della l. n. 431/1998, mentre è invalida se accede ad un contratto stipulato anteriormente (Trib. Modena 23 luglio 2004). In questa ipotesi di canone libero, come nel canone concordato, il conduttore “può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate”, ai sensi del comma 6 della medesima disposizione; in proposito, si era acutamente osservato (Lazzaro, Di Marzio, 315) che la dizione era sintomaticamente differente da quella del comma 2, atteso che quest'ultimo copriva il canone ulteriore, mentre l'ex comma 5 riguarda, invece, le somme che, pur apparentemente estranee al canone, si risolvono in un aumento del prezzo del godimento e, proprio per questo, sono considerate non dovute (“indebitamente versate”) pur se in astratto giustificate. La norma aveva inteso, da un lato, rafforzare il principio affermato dal giudice di legittimità, secondo il quale anche nei casi in cui il canone poteva essere liberamente determinato dai contraenti, non era consentito al locatore di pretendere ulteriori somme (Cass. III, n. 1936/1987, in tema di buona entrata), e, dall'altro, il legislatore aveva voluto escludere commistioni tra le varie voci che convergevano nella composizione del complessivo costo del godimento dell'abitazione, sia per riaffermare quell'esigenza di “trasparenza”, sia, soprattutto, per evitare possibili aggiramenti fiscali (si pensi, ad esempio, alla possibilità di contrabbandare esborsi fissi come oneri condominiali forfetizzati, sottoposti così ad una differente imposizione). Fattispecie relative alla registrazioneInvariabilità del canone e simulazione relativa La previsione di nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto “scritto e registrato”, come previsto nel comma 1 (rimasto invariato) della l. n. 431/1998, aveva posto numerosi interrogativi (peraltro, l'ultimo comma dell'art. 13 aggiunge che le sanzioni di nullità previste con riferimento alla mancata registrazione del contratto trovano applicazione solo laddove tale adempimento sia obbligatorio ex lege). Ad una prima approssimazione, sembra configurarsi un'invalidità derivante non già dal superamento di un limite massimo di canone predeterminato dalla legge (come si caratterizzava il previgente regime dell'equo canone), quanto piuttosto dall'elusione degli oneri di redazione in forma scritta e di registrazione del contratto, apparendo, per converso, legittima qualsiasi misura del canone a condizione che siano rispettati tali adempimenti di ordine formale; a ben vedere, però, la ragion d'essere della regola fissata dall'art. 13, comma 1, non è stata quella di imporre determinati requisiti alla stipulazione del contratto, perché non si è affermata la nullità della clausola non scritta o non registrata, bensì soltanto ad “incrementare” la misura del canone consacrata nell'originario documento contrattuale sottoposto alla registrazione; la nullità de qua, pertanto, presuppone che siano già stati assolti gli oneri della forma scritta e della registrazione relativamente alla prima stipulazione contratto, investendo così solo un patto aggiunto o successivo (Montesanto, 475). A fronte di tale norma, atteso che, rispetto alla prescrizione della forma a pena di invalidità stabilita dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 – al cui commento si rinvia – viene ad assumere rilievo essenziale anche un ulteriore adempimento “estrinseco” al contratto qual è la registrazione (la norma li prevede, infatti, entrambi prescrivendo che quest'ultimo sia scritto “e” registrato), le problematiche più rilevanti hanno riguardato segnatamente, per un verso, il rilievo della stessa registrazione nella genesi del contratto di locazione e, per altro verso, gli effetti della mancata registrazione: sia la dottrina che la giurisprudenza, a testimonianza della non ineccepibile formulazione del precetto legale (semplice ed enigmatico) hanno dato risposte profondamente diverse. Sotto il primo profilo, un autore aveva affermato che la suddetta disposizione poneva il divieto di aumento del canone pattuito inizialmente, nel senso che la norma de qua fissava il principio dell'immutabilità del canone nel corso del rapporto attraverso la sanzione di nullità degli aumenti del canone iniziale (Izzo 1999, 372); in particolare sarebbe preclusa la modificabilità dell'accordo sul canone nel corso del rapporto, in quanto le parti avrebbero potuto legittimamente convenire un incremento del corrispettivo soltanto operando una vera novazione contrattuale, con il riconoscimento, in correlazione al nuovo canone, anche di una nuova durata. Secondo l'opinione dottrinale del tutto prevalente, il disposto dell'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998 costituiva l'espressione dell'attenzione della nuova legge ai risvolti fiscali del contratto di locazione e, in particolare, era diretto a reprimere il fenomeno della formazione di due scritture contrattuali, l'una diretta a regolare i rapporti tra le parti, l'altra alla registrazione (Scarpa 1999, 155); quindi, la nullità era diretta, in prima approssimazione, a dissuadere la prassi della simulazione relativa del contratto di locazione, con la dissimulazione del canone effettivamente pattuito rispetto a quello risultante dal contratto registrato (Cuffaro 2000, 186, il quale inquadrava tale nullità nell'àmbito delle sanzioni civili volte a salvaguardare, sia pure su impulso di una parte privata, un interesse generale quale appunto quello concernente il corretto adempimento della prestazione fiscale). Anche le prime pronunce di merito che avevano affrontato la questione si erano poste in quest'ultima linea interpretativa (Trib. Verona 21 giugno 2000; Trib. Roma 16 maggio 2000); la formulazione della citata norma costituirebbe una sorta di reazione all'atteggiamento della pregressa giurisprudenza la quale, al fine di preservare il rapporto, inquadrava il fenomeno nell'àmbito della simulazione relativa e non della frode alla legge, sicché il conduttore era tenuto a pagare il canone vero e reale, ossia quello più elevato, e non il canone simulato. Sotto il secondo profilo, si è osservato, in prevalenza, che la norma in esame concerneva in realtà solo i patti aggiunti o successivi al contratto redatto in forma scritta e registrato, laddove la sanzione di nullità non colpiva il contratto originario scritto, ma non registrato, in quanto in quest'ultima ipotesi avrebbe vanificato la ratio antielusiva che presiedeva tutto l'impianto normativo della novella del 1998 (Petrolati, 214); del pari, si era evidenziato che la mancata registrazione desse luogo solo ad una mera irregolarità incidente sull'opponibilità o sull'efficacia del contratto e sussistente sino alla registrazione tardiva (Bernardi, 215). In proposito, nella giurisprudenza di merito, si erano registrate opinioni assai diverse. Secondo una prima ricostruzione, la tardiva registrazione del contratto avrebbe avuto efficacia sanante ex nunc (Trib. Modena 13 novembre 2001; Trib. Verona 21 giugno 2000; Trib. Roma 16 maggio 2000), evidenziando che la registrazione non costituisse un elemento essenziale del contratto, deponendo in tal senso l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, che non annoverava questo adempimento fiscale tra i requisiti di validità del contratto di locazione, menzionando, difatti, la sola forma scritta, che andava così ad aggiungersi agli altri elementi essenziali tipicamente previsti dal codice civile per la locazione, sicché doveva considerarsi valido il contratto scritto anche se non registrato, come provava, del resto, sia pure indirettamente, la possibilità, positivamente prevista, di chiederne la registrazione tardiva, diversamente inconcepibile ove fosse stata messa in discussione la stessa genesi del rapporto giuridico; la registrazione operava, dunque, alla stregua di una mera condizione di esigibilità del canone, incidendo essa sul ristretto piano dell'efficacia negoziale, nel senso che, fino a quando il contratto non veniva registrato, il locatore non poteva esigere il corrispettivo. È stato, altresì, esaminato il caso – assai frequente nella pratica – della mancata registrazione della scrittura privata aggiuntiva con cui le parti avessero previsto un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (ipotesi di simulazione relativa del canone a fini elusivi del carico fiscale). Secondo una tesi giurisprudenziale, tale circostanza non implicava, ex se, la nullità del contratto simulato ex art. 13 l. n. 431/1998: diversamente opinando, infatti, ove l'interpretazione della norma dovesse comportare, attraverso un'affermazione assoluta di nullità, la caducazione della volontà delle parti e l'inefficacia della clausola contrattuale, si sarebbe ottenuta la subordinazione del rapporto civilistico all'inadempimento di una finalità (la registrazione) rivolta esclusivamente a fini fiscali (Trib. Pordenone 19 gennaio 2002). In senso contrario, si era posta una pronuncia di merito (Trib. Palermo 20 novembre 2000), secondo la quale doveva ritenersi che la registrazione integrasse requisito necessario per la giuridica esistenza del contratto di locazione, con la conseguenza che la validità dell'accordo inizialmente registrato non poteva porsi in discussione dalla registrazione tardiva ad opera del solo locatore di una distinta e coeva controscrittura recante l'impegno del conduttore a corrispondere un canone maggiore rispetto a quello risultante dal contratto; si era così optato per la tesi della “intangibilità” della scrittura originariamente registrata, mentre, diversamente opinando, il proprietario avrebbe finito sempre per eludere l'imposta dovuta, non avendo alcun interesse a registrare il contratto con l'importo effettivamente percepito, potendo sempre, nel caso di contrasto, provvedere alla registrazione della controdichiarazione contenente il canone maggiore. Nell'ampio dibattito giurisprudenziale sin qui delineato, era intervenuta, con notevole apporto chiarificatore, la Suprema Corte, la quale ha limitato il raggio applicativo dell'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998 – e della conseguente azione di ripetizione di cui al comma 2 – interpretandolo come diretto a sanzionare con la nullità non l'ipotesi di simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone, bensì la pattuizione nel corso di svolgimento del rapporto di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario che doveva restare invariato per tutta la durata del rapporto legalmente imposta (Cass. III, n. 16089/2003). In altri termini, si era esclusa qualsivoglia sanzione di nullità per l'ipotesi di mancata registrazione di un accordo ulteriore intercorso tra le parti, rispetto all'originario contratto di locazione, avente ad oggetto la previsione di un più elevato canone locatizio – non spiegando, all'uopo, influenza la circostanza che al conduttore fosse in tal caso concessa l'azione di ripetizione – sicché la registrazione non era stata elevata dal legislatore speciale a requisito di validità del contratto di locazione, conseguentemente la nullità prevista dall'art. 13, comma 1, era riferita alla pattuizione, nel corso di svolgimento del rapporto di locazione, e quindi successiva, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, in consacrazione del principio di invariabilità del canone per tutta la durata del rapporto posto a tutela del conduttore. In particolare, tale pronuncia, nell'enucleare il principio dell'invariabilità del canone originariamente pattuito – fatta salva l'applicabilità degli aumenti I.S.T.A.T. senza limiti percentuali – si poneva in contrasto con quella dottrina che aveva invece riconosciuto la piena validità, nell'àmbito dei contratti a canone libero, di quegli accordi intervenuti nel corso del rapporto concernenti un aumento del canone purché consacrati in un documento scritto registrato nei termini di legge (Bucci, 20, il quale aveva, peraltro, sottolineato l'importanza, ai fini della validità delle pattuizioni aggiuntive successive o contemporanee al contratto originario scritto e registrato, della tempestività dell'assolvimento del relativo obbligo di registrazione, ritenendo che, nell'ipotesi di regolarizzazione fuori termine rispetto alle leggi fiscali, la nullità non sarebbe stata comunque impedita). Le pronunce successive di merito si erano sostanzialmente adeguate alla soluzione autorevolmente adottata dalla magistratura di vertice (Trib. Monza 6 giugno 2007; Trib. Como 9 marzo 2007; Trib. Salerno 24 febbraio 2006; Trib. Bari 31 marzo 2005), ed anche i giudici della Consulta sembravano aver implicitamente prestato adesione al ragionamento degli ermellini (Corte cost., n. 242/2004). Anche i magistrati del Palazzaccio si erano posti sulla stessa lunghezza d'onda, affermando che, con riferimento ai contratti di locazione ad uso abitativo stipulati prima dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, dovesse escludersi la nullità di un accordo contemporaneo ed ulteriore relativo alla determinazione di un canone locativo più elevato rispetto a quello risultante dal contratto scritto e registrato, atteso che l'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998 non si riferiva all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione rispetto alla misura del corrispettivo, quanto piuttosto alla pattuizione, nel corso dello svolgimento del rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, sotto la comminatoria della ripetizione delle somme versate (Cass. III, n. 8230/2010; Cass. III, n. 8148/2009; Cass. III. n. 19568/2004). Tuttavia, la particolare interpretazione offerta dalla Suprema Corte, volta, in buona sostanza, a negare la riferibilità dell'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998 alla simulazione relativa al canone, non aveva mancato di suscitare aspre critiche da parte della quasi unanime dottrina (tra gli altri, Scarpa 2004, 130; Petrolati 2004, 462). Ad ogni buon conto, quell'approdo ermeneutico appare sconfessato dal successivo intervento del supremo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 18123/2015), il quale, invitato a rimeditare l'orientamento espresso nel 2003, ha ricondotto correttamente il significato della suddetta norma alla simulazione relativa, negando però in radice qualsiasi rilevanza alla registrazione tardiva (del patto sul canone o del contratto), a fronte dell'opposto indirizzo interpretativo adottato successivamente dalla giurisprudenza di merito, che aveva riconosciuto al pagamento tardivo dell'imposta di registro l'effetto di rendere (ex nunc o ex tunc, ma) comunque efficace il patto dissimulato (Trib. Modena 12 luglio 2006; Trib. Verona 21 giugno 2000; Trib. Roma 16 maggio 2000, resta inteso, ad avviso di Cass. III, n. 9672/2020, che, in tema di locazione immobiliare, la prova per testimoni è ammissibile se la domanda è diretta a far valere l'illiceità dell'accordo dissimulato che preveda un canone superiore rispetto a quello risultante dal contratto registrato ex art. 1417 c.c.) e quando vi è un principio di prova per iscritto ex art. 2724, comma 1, n. 1, c.c., che conferisca alla testimonianza riscontro probatorio documentale presuntivo). Validità sostanziale o elemento estrinseco Le questioni che la soluzione accolta nel 2003 dalla Suprema Corte sembrava aver sopito sono state, poi, interamente tornate in auge per effetto dell'innovazione legislativa, di portata generale, introdotta dalla legge finanziaria 2005, secondo cui “i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati” (art. 1, comma 346, della l. 30 dicembre 2004, n. 311). Dunque, nella legge finanziaria 2005, vanno ricompresi i contratti di comodato, mentre invece restavano sottratti all'obbligo di registrazione i contratti di locazione di immobili di durata non superiore ai trenta giorni annui – a norma del d.p.r. n. 131/1986 e delle recenti modifiche apportate allo stesso dal d.l. n. 223/2006 – ed i contratti di affitto, non rientrando nemmeno i terreni; l'obbligo di registrazione di cui sopra non si applica, infine, al contratto preliminare di locazione, atteso che, da un lato, detta norma si riferisce ai contratti di locazione ed a quelli che “comunque costituiscono diritti reali di godimento” e, pertanto, ai soli contratti definitivi che attribuiscono ad una delle parti l'effettiva disponibilità del bene, e, dall'altro, la finalità antielusiva della stessa non è configurabile rispetto al mero preliminare di locazione, dal quale non sorge l'obbligo di pagamento del canone (Cass. III, n. 2037/2017). Si tratta di una disposizione avente chiara finalità antievasiva che, pur ponendosi in raccordo con quanto già stabilito dal legislatore per le locazioni ad uso abitativo con la l. n. 431/1998, rispondente anch'essa ad una ratio di lotta all'evasione fiscale, muta profondamente l'assetto delle locazioni di immobili in generale, ivi comprese quelle ad uso abitativo, soprattutto alla luce del ridimensionamento della portata del disposto dell'art. 13, comma 1, operato dalla Suprema Corte con la pronuncia del 2003 sopra analizzata (si faceva, altresì, conseguire, dalla nullità per omessa registrazione del contratto, la presunzione di “esistenza del rapporto di locazione anche per i quattro periodi di imposta antecedenti quello nel corso del quale è accertato il rapporto stesso” ex art. 1, comma 342, l. n. 311/2004, che ha inserito l'art. 41-ter del d.P.R. n. 600/1973). A mente di tale nuova norma, dunque, i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati successivamente al 1° gennaio 2005 devono essere registrati a pena di nullità assoluta e rilevabile ex officio (v., per tutte, Cass. III, n. 25503/2016, per la quale la previsione de qua si applica solo ai contratti stipulati dopo la sua entrata in vigore, giusta il criterio generale di cui all'art. 11 delle preleggi e considerata l'assenza nella norma di una previsione che imponga la registrazione dei contratti in corso). Va dato atto che l'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 (testo normativo poco comprensibile e disomogeneo) ha dato molto filo da torcere agli interpreti, senza purtroppo pervenire a risultati definitivi. La maggioranza della giurisprudenza di merito si è rifiutata di avallarne un'interpretazione meramente letterale, che sancisca la nullità della locazione, in quanto la disciplina de qua è stata considerata contrastante con i principi generali che escludono l'interferenza tra profilo fiscale e profilo civilistico del rapporto, anche perché la registrazione è stata vista come non connessa al difetto di un elemento costitutivo del contratto (art. 1325 c.c.), ma, piuttosto, all'omissione di un adempimento tributario estrinseco; invero, si è opinato che la previsione de qua non sia caratterizzata da imperatività, pervenendo per tal via ad una lettura “costituzionalmente orientata” che svaluta il riferimento alla nullità, considerando la registrazione del contratto condicio iuris di efficacia del medesimo, ossia un adempimento che può intervenire in momento successivo rispetto alla conclusione del negozio, in tal modo, determinando, con effetto ex tunc, la definitiva efficacia del rapporto, ai sensi dell'art. 1360, comma 1, c.c. (Trib. Messina 23 maggio 2013; Trib. Bari 18 ottobre 2012; Trib. Bergamo 7 febbraio 2012; Trib. Napoli 18 ottobre 2009; Trib. Firenze 1 aprile 2009; in ordine agli effetti ex nunc, si registrava Trib. Lecce 8 gennaio 2014). Altro formante di merito minoritario, in aderenza alla lettera del testo normativo, ha ritenuto, invece, che l'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 non introduce una condizione al diritto di agire in giudizio, ma opera sul piano sostanziale, limitandosi a sancire una nullità non prevista in via immediata e diretta dal codice civile (art. 1418, comma 2, c.c.), ma ricavabile attraverso il rango di norma imperativa riconosciuto alla disposizione tributaria (art. 1418, comma 1, c.c.), la cui violazione determina la nullità del negozio (App. Brescia 28 maggio 2012). Secondo parte della dottrina, questa volta la registrazione, normalmente correlata all'assolvimento della prestazione fiscale, viene elevata, alla stregua dell'inequivoco tenore letterale della disposizione de qua, a requisito di validità sostanziale del contratto; la funzione della registrazione in subiecta materia, allora, si espande, nel senso che non rimane più solo un mezzo per assicurare l'opponibilità della data certa del contratto nei confronti dei terzi ai sensi dell'art. 2704 c.c., ma assume un rilievo essenziale ai fini dell'efficacia civilistica inter partes, senza perciò mutare la sua ontologica natura di adempimento estrinseco e successivo alla formazione del consensus, il che implica che il contratto di locazione si palesa quale fattispecie a formazione progressiva, necessitando, prima, del raggiungimento dell'accordo e, quindi, della registrazione fiscale (Lazzaro, Di Marzio, 84). Si è, altresì, sostenuto che il legislatore aveva inteso riferirsi, più che ad una vera e propria ipotesi di nullità, alla carenza di un elemento costitutivo del negozio, da considerarsi come “fattispecie contrattuale a formazione progressiva” (così Scripelliti 2005, 111). Ad avviso di altri ancora, la registrazione operava come condizione legale di efficacia del contratto, che si perfezionava, come di consueto, con l'incontro delle volontà delle parti, laddove la registrazione – elemento estrinseco all'accordo – condizionava sospensivamente il prodursi di quegli effetti che il negozio programma (Cuffaro 2000, 190). Ravvedimento tributario e sanatoria civile La tematica relativa alla validità del contratto di locazione non registrato, con tutte le problematiche ad essa connessa, prima fra tutte la sorte di tale contratto in caso di (illecita ma possibile) registrazione tardiva, ha trovato, di recente, interessanti contributi da parte della magistratura di vertice (l'ipotesi è diversa da quella sopra esaminata di accordi locativi in cui i contraenti sottoscrivono due contestuali scritture private, la prima, debitamente registrata, regolante il rapporto di locazione per un certo ammontare di canone, e la seconda, disciplinante l'effettiva misura di canone annuo voluta dalle parti, tenuta celata ai fini di elusione fiscale). Un'innovativa pronuncia del Supremo Collegio (Cass. III, n. 10498/2017, avente ad oggetto un uso non abitativo, ma con principi esportabili a quello abitativo), ha, infatti, confermato la tesi della nullità del contratto di locazione non registrato, segnatamente per mancanza dell'adempimento fiscale, ma, al contempo, ha statuito che la registrazione del contratto, quand'anche compiuta tardivamente rispetto alla tempistica dettata dalla normativa fiscale, ha un'efficacia sanante, con valenza retroattiva, dell'ordito contrattuale, il quale, dunque, riprenderà a spendere effetti senza soluzione di continuità a decorrere dall'inizio del godimento pattuito (il principio risulta, peraltro, autorevolmente confermato da Cass. S.U., n. 23601/2017, secondo cui il contratto di locazione di immobili, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, contenente ab origine l'indicazione del canone realmente pattuito e, dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio, ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, ma, in caso di tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, atteso che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” è coerente con l'introduzione nell'ordinamento di una nullità funzionale “per inadempimento” all'obbligo di registrazione). In particolare, si è rilevato che la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo e, in particolare, dall'espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall'istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti ex tunc dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente, per un verso, con l'esigenza di contrastare l'evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, e, per altro verso, con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributaria con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998 (la giurisprudenza successiva ha dato continuità giuridica a tali rilievi, v., tra le altre, Cass. III, n. 20858/2017, nonché, da ultimo, Cass. III, n. 32934/2018, precisando che gli effetti della decorrenza retroattiva valgono sia pure limitatamente al periodo di durata del rapporto indicato nel contratto successivamente registrato). In pratica, il contratto illo tempore concluso tra le parti viene convalidato, con effetto retroattivo, per via della sua denuncia al fisco, e l'efficacia sanante della registrazione tardiva viene correlata al fatto che la normativa tributaria non qualifica come perentorio il termine di trenta giorni previsto per assolvere al pagamento dell'imposta, ed anzi contempla sia la registrazione d'ufficio sia il c.d. ravvedimento operoso riconoscendo l'attenuazione della sanzione prevista per la violazione delle norme tributarie nei casi ed alle condizioni indicate dall'art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472; d'altronde, una perentorietà preclusiva dell'effetto salvifico retroattivo della registrazione non può desumersi dal nuovo art. 13 della l. n. 431/1998, atteso che la norma circoscrive la perentorietà del termine alla sola condotta del locatore ed “esclusivamente al fine di far operare la correlata possibilità per il conduttore di ottenere la conformazione del contratto al canone autoritativamente predeterminato”. Si trattava, dunque, di verificare, in primis, quale sorte avesse il contratto di locazione non registrato e, in secondo luogo, se la tardiva registrazione del contratto fosse idonea a svolgere una funzione sanante dello stesso. Innanzitutto, gli ermellini confermano che, per effetto dell'art. 1, comma 346, della I. n. 311/2004, il contratto di locazione non registrato “è nullo e privo di effetti”, ribadendo, al riguardo, l'impostazione ricevuta da plurime pronunce dei giudici della Consulta (Corte cost., n. 87/2017, secondo cui l'azione di conformazione legale di cui al novellato art. 13, comma 6, della l. n. 431/1998, si concreta nell'accertamento dell'esistenza del contratto non registrato, quale operazione consentanea a rendere valido ed efficace un contratto nullo; Corte cost., n. 389/2008; Corte cost., n. 420/2007, secondo cui la citata disposizione “non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 c.c.”), dei giudici di legittimità (Cass. III, n. 5612/2017; Cass. III, n. 25503/2016). nonché di merito (App. Roma 24 giugno 2015, la quale, sul presupposto l'interferenza delle ragioni fiscali sull'autonomia negoziale risponde alla ratio ispiratrice del sistema della l. n. 431/1998, che ha sì liberalizzato i corrispettivi delle locazioni abitative ma ha, nel contempo, imposto alle parti oneri di trasparenza sui contratti, a cominciare dalla forma scritta ad essentiam, per agevolare la percezione dei tributi in relazione ai canoni, presumibilmente maggiori, invalsi sul mercato, ha affermato che tale ratio ha trovato coerente seguito nella nullità dell'intero contratto non registrato di cui all'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, sicché l'incidenza dell'omessa registrazione sulla validità del contratto non è incompatibile con l'autonomia negoziale, considerati i limiti che ab extra possono legittimamente essere imposti, anche al fine di agevolarne i controlli opportuni, in vista del coordinamento con le finalità sociali insite nel prelievo fiscale; Trib. Vicenza 5 marzo 2015). In seconda battuta, la pronuncia de qua aderisce alla tesi per cui non si tratta di nullità insanabile, poiché la registrazione tardiva del contratto è idonea ad assicurarne in via retroattiva la validità e l'efficacia (anche se, la medesima III Sezione, qualche mese addietro, era pervenuta, si ignora quanto consapevolmente, ad un risultato ermeneutico antitetico, seppur con motivazione assai sbrigativa, Cass. III, n. 25503/2016). In altri termini, i magistrati di Piazza Cavour – sul presupposto che si versi in caso di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative indipendente da violazioni attinenti a elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, in quanto meramente connessa ad un'attività esterna alla formazione del negozio che, diversamente, risulta privo di deficienze strutturali e perfezionato – acconsentono a che l'adempimento del precetto tributario sani con efficacia retroattiva la nullità del contratto. La Suprema Corte giunge a tale conclusione affermando che il principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con la validità del negozio agirebbe in senso “bidirezionale”, ossia non solo nel senso di sanzionare con la nullità il contratto di locazione non registrato, ma anche nel rendere lo stesso pienamente valido ed efficace indipendentemente dal momento in cui la registrazione sia effettuata. Gli ermellini trovano le basi normative di tale affermazione nelle disposizioni fiscali che, mentre hanno previsto la sanzione della nullità in ipotesi di mancata registrazione del contratto di locazione, contemporaneamente hanno previsto la possibilità di sanatoria, ammettendo la registrazione tardiva; in quest'ottica, la sanatoria deriva non tanto dall'applicazione della normativa civilistica, quanto dalla trasposizione di quella tributaria e fiscale, che prevede la possibilità di sanatoria, con richiamo all'art. 76, comma 5, del d.p.r. n. 131/1986 (disposizione che ammette, implicitamente, la possibilità della registrazione tardiva) e come emergerebbe dalle norme sul c.d. ravvedimento operoso. Dunque, nel complessivo dato legislativo, va offerta una lettura ispirata a criteri di coerenza sistematica, sicché la statuizione indicata non abbisogna di un'espressa previsione derogatoria, in quanto il principio dell'efficacia sanante della registrazione tardiva può ricavarsi dall'intero sistema (d'altronde, non si spiegherebbe diversamente perché sia ammessa la registrabilità tardiva del contratto di locazione). Sotto altro punto di vista, la soluzione adottata risponde – ad avviso dei magistrati del Palazzaccio – anche ad esigenze di buon senso e pace sociale, in quanto considerare il contratto di locazione non registrato come insanabilmente nullo rende il locatore privo della possibilità di riscuotere il canone derivante da un contratto nullo e consente al conduttore di richiedere indietro quanto versato di più del dovuto. Viceversa, la sanabilità con efficacia ex tunc in esito alla tardiva registrazione assicura stabilità nel tempo agli effetti del contratto voluti dalle parti sia nell'interesse del locatore, che potrà trattenere quanto ricevuto in pagamento, sia nell'interesse del conduttore, che non rischierà azioni di rilascio e godrà della durata della locazione come prevista nel contratto: effetti negativi, questi ultimi, che non appaiono superabili o non interamente superabili con il riconoscimento di un'efficacia ex nunc del contratto. La soluzione adottata dalla pronuncia in commento, avuto riguardo soprattutto all'affermazione della sanabilità ex tunc del contratto di locazione non registrato, non si presenta come del tutto pacifica e incontroversa sia in giurisprudenza che in dottrina. Si è obiettato, in contrario, che portato inevitabile della tesi della nullità del contratto non registrato è l'esclusione della possibilità di convalidare il contratto sotto il profilo civilistico a mezzo di una registrazione tardiva, potendo rilevare tale eventuale adempimento solo sul piano della sanatoria fiscale; all'uopo, non può valere la salvezza finale posta dall'art. 1423 c.c. in raccordo con quanto disposto (in tema di ravvedimento) dall'art. 13 del d.lgs. n. 472/1997, in mancanza di un'espressa deroga al principio per cui quod initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere riconnessa alla tardiva regolarizzazione fiscale (App. Brescia 28 febbraio 2013, per cui la disciplina dettata dalla legge finanziaria 2005 ha elevato la registrazione del contratto di locazione a requisito di validità dello stesso, sicché va dichiarata la nullità dello stesso contenente la previsione di un canone più elevato, registrato solo successivamente alla cessazione del rapporto, ed il locatore può pretendere per tutta la durata del rapporto solo il canone più basso derivante dal contratto registrato anteriormente). È, infatti, opinione radicata che il contratto nullo non possa essere sanato con una rimozione volontaria della causa di invalidità dell'atto, quale potrebbe essere nella materia la registrazione tardiva del contratto; esclusa, allora, ogni forma di recupero del contratto nullo, per le parti si aprono due possibilità: la stipula di un novello contratto di locazione da registrarsi tempestivamente, rimanendo il precedente periodo di tempo qualificabile come occupazione sine titulo, oppure la reciproca rinuncia all'azione di nullità. La rinuncia alla domanda, a differenza della mera rinuncia agli atti del giudizio, estingue l'azione in quanto incide sul diritto fatto valere, e ne preclude ogni ulteriore tutela giurisdizionale; su tale presupposto, la Corte regolatrice (Cass. III, n. 3925/1977) aveva reputato che, se è vero che il negozio giuridico nullo non è convalidabile, è, però, anche vero che la parte interessata possa rinunciare all'azione di nullità, così come può rinunciare al giudicato di nullità, dovendosi configurare queste rinunce come atti di disposizione della situazione sostanziale legittimante all'azione di nullità, con la conseguenza (esplicitata da Cass. I, n. 2280/1973), per cui la indisponibilità dell'esistenza di una causa di nullità non impedisce al soggetto che ha proposto la domanda diretta alla relativa declaratoria di rinunciare alle situazioni soggettive cui si ricollegano l'interesse e la legittimazione all'azione proposta e, quindi, di determinare la cessazione della materia del contendere. Vero è che la dottrina non condivide tale opinione, atteso che, in ultima analisi, “tale condotta avrebbe sul piano sostanziale il significato di una conferma dell'atto” (così Bianca, 597). Le conclusioni sopra esposte in ordine all'irrilevanza civilistica della registrazione tardiva del contratto sono condivise da alcuni autori, i quali segnalano che, in materia, il legislatore del 2004 non ha previsto che la registrazione tardiva del contratto sia idonea alla rimozione della causa di nullità, con recupero degli effetti iure civili del negozio, “col che dovrebbe fondatamente argomentarsi a contrario che l'atto seppur tardivamente registrato, conservi in sé il vizio che l'inficia” (così Masoni 2018, 485); appare assai curioso, oltrechè assai ardito in diritto, ritenere, come fa la pronuncia, che la nullità civilistica comminata ex art. 1418 c.c. per violazione di norma imperativa fiscale (afferente ad omessa registrazione del contratto), possa essere posta nel nulla e con ciò sanata in applicazione della normativa fiscale che implicitamente l'ammetterebbe, a seguito dell'effettuazione dell'adempimento fiscale tardivo inizialmente omesso dalle parti; la sanatoria del negozio giuridico nullo (negozio che secondo l'ordinamento è tamquam non esset, a tutela di interessi generali) è, infatti, eccezionalmente ammessa unicamente quando “la legge dispone altrimenti” (art. 1423 c.c.) – ovvero, in applicazione del principio di conservazione del rapporto, nelle classiche ipotesi della donazione (art. 799 c.c.), del testamento (art. 590 c.c.), della società per azioni (art. 2332, comma 5, c.c.) – e questo significa che, per ammettersi l'eccezionale forma di convalida, “la legge” deve “disporre” al riguardo, oppure prevederne espressamente l'effetto convalidante a fronte di un determinato comportamento attivo, mantenuto a seguito del verificarsi della nullità; e questo effetto, di eccezionale sanatoria, non può che essere espressamente previsto dalla legge, non potendosi altrimenti desumere, implicitamente, dalle fonti normative (fiscali), come sembra, invece, ritenere la decisione in commento. Sempre di recente, l'insanabilità del contratto di locazione è stata ravvisata anche dal supremo consesso decidente amministrativo (Cons. Stato V, n. 2465/2017), per il quale l'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 introduce nell'ordinamento una nullità testuale in senso stretto, con la conseguente preclusione della possibilità di una sanatoria attraverso la registrazione tardiva del contratto, non potendosi ritenere ex post sanabile la nullità di un contratto; sul punto, i giudici di Palazzo Spada richiamano a sostegno della divisata conclusione la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U., n. 18213/2015 cit.), le quali, stante che le disposizioni di legge successive alla l. n. 431/1998 introducono un principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con la validità del negozio, avevano chiarito che, in tema di locazione immobiliare ad uso abitativo, la nullità prevista dall'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998 sanzionava esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, mentre restava valido il contratto registrato e restava dovuto il canone apparente, per cui il patto occulto, in quanto nullo, non era sanato dalla registrazione tardiva, “fatto extranegoziale inidoneo ad influire sulla validità civilistica”. In senso discorde rispetto al principio di diritto affermato dalla pronuncia in commento, si è posta anche la giurisprudenza di merito (App. Roma 24 giugno 2015), per la quale, nel codice civile, la nullità è in linea di principio non sanabile (art. 1423 c.c.), mentre è suscettibile di sanatoria il mero illecito tributario; né è congruo invocare il principio stabilito dall'art. 10, comma 3, della l. n. 212/2000 – secondo cui “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” – in quanto la richiamata legislazione civile sulla nullità del contratto di locazione esclude in radice che sia in questione una mera violazione di una disposizione di rilievo esclusivamente tributario, dovendosi più correttamente inquadrare la fattispecie nell'àmbito dei rapporti interprivati piuttosto che in quelli tra il privato e la P.A.; secondo tale impostazione più rigorosa, il principio di indifferenza tra àmbito negoziale e fiscale implica, piuttosto, che la sanatoria dell'illecito tributario non si estende di per sé alla disciplina contrattuale, in applicazione della quale si è nella fattispecie già integrata una nullità assoluta ai sensi dell'art. 1418 c.c.; d'altro canto, si osserva che una peculiare sanatoria era stata introdotta nella legislazione civile in virtù dell'art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011, dichiarati poi costituzionalmente illegittimi (Corte cost., n. 50/2014), e proprio il rilievo per cui il legislatore civile ha ritenuto necessario introdurre una nuova disciplina per sanare il contratto originariamente nullo per omessa registrazione “entro il termine stabilito dalla legge” testimonia inequivocabilmente che non può dirsi già operante una diversa sanatoria mutuata dal complessivo sistema tributario. Secondo i primi commentatori, alla luce di tale ricostruzione giurisprudenziale – quantomeno nel suo assetto maggioritario – l'omessa registrazione determina una nullità “sopravvenuta” del contratto di locazione per mancanza di un requisito extraformale di validità: quindi, il contratto produce i propri effetti fino a trenta giorni dalla sua stipulazione (termine ultimo per effettuare la registrazione), diviene, poi, nullo perché non registrato nel tempo, ma, infine, “rivive con effetti retroattivi (sin da dove si era interrotto il fatidico ed infausto trentunesimo giorno) nel momento futuro, seppur remoto, in cui sia tardivamente registrato” (così Scarpa 2017, 47). Pertanto, sino a che non intervenga la citata registrazione (sia pure tardiva), l'ordinamento, in base al novellato comma 6 dell'art. 13 della l. n. 431/1998, attribuisce al conduttore la possibilità di promuovere l'azione di riconduzione con diritto alla ripetizione; in buona sostanza, si riconosce (solo) al conduttore la facoltà di far convertire giudizialmente (art. 1424 c.c.) la locazione non registrata, conferendo al giudice il potere di sostituire il contratto e determinare l'entità del canone dovuto che non potrà eccedere quello minimo definito in sede locale (stante l'efficacia ex tunc di tale rideterminazione, è previsto che il Tribunale stabilisca la restituzione delle somme eccedenti, sembra anche in assenza di domanda del conduttore). Si tratta, in buona sostanza, di un'azione analoga – tranne la misura del canone rideterminato ora nel minimo di quelli concordati – a quella che l'art. 13, comma 5 (vecchia formulazione), che si riconosceva al conduttore cui fosse stato imposto un rapporto locativo di fatto, e quindi non solo non registrato ma anche verbale (Mazzeo 2017, 15, il quale sembra, comunque, escludere che la registrazione tardiva possa avere efficacia sanante sul contratto, sia perché, se la locazione fosse validata, non si spiegherebbe la concomitante esperibilità dell'azione di riconduzione del conduttore, sia perché il legislatore, all'art. 13, comma 1, qualifica espressamente come perentorio il termine per la registrazione del contratto e, diversamente dalle scadenze ordinatorie, ciò che viene compiuto dopo lo spirare di tale termine deve ritenersi sempre improduttivo di effetti, men che meno sananti). Altra dottrina (Troncone, 143) sostiene che il regime di nullità insanabile non sia privo di ragionevolezza rispetto agli interessi pubblici inerenti al prelievo fiscale, poiché mira a spiegare un'evidente efficacia dissuasiva, non rendendo conveniente alle parti omettere la registrazione riservandosi di provvedere solo in caso di sopravvenuto conflitto tra i contraenti, in tal senso prefiggendosi un obiettivo conformativo più ambizioso rispetto a quello conseguibile dalle eventuali sanatorie a posteriori, circoscritte alle ipotesi di contenzioso tra le parti. Azione di ripetizioneIn termini generali (per tutti, Rota, 142), si rammenta che il pagamento dell'indebito è l'esecuzione di una prestazione non dovuta: il codice civile prevede all'art. 2033 che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto a ripetere ciò che ha pagato, oltre i frutti e gli interessi dal giorno del pagamento se chi lo ha ricevuto era in mala fede, o dal giorno della proposizione della domanda se l'accipiens si trovava in buona fede. Per altro verso, l'obbligo restitutorio gravante su quest'ultimo trae linfa dall'art. 1173 c.c. in materia di fonti dell'obbligazione e si giustifica con la necessità di riequilibrare le sfere giuridiche patrimoniali del solvens e dell'accipiens in tutti quei casi in cui lo spostamento patrimoniale che si è verificato non abbia avuto a fondamento una causa giustificativa ritenuta meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico (gli elementi dell'indebito oggettivo sono, quindi, il pagamento e la mancanza del titolo, che può mancare ab origine o venir meno successivamente alla prestazione per vizio sopravvenuto alla funzione negoziale). Con particolare riferimento alla locazione, si osserva che, quale contratto di durata snodantesi nel corso di un determinato lasso di tempo, allorché imponga al conduttore, nelle more della protrazione del rapporto, il pagamento di un corrispettivo per il godimento del bene, può succedere lo stesso conduttore possa avere in itinere pagato somme in eccedenza rispetto al dovuto, sì da dover intraprendere ai fini recuperatori un giudizio nei confronti del locatore volto alla ripetizione di indebito di quanto versato in eccedenza. Orbene, si è sopra rilevato che l'art. 79, comma 2, della l. n. 392/1978 – attualmente abrogato dall'art. 14 della l. n. 431/1998 limitatamente alle locazioni abitative – stabiliva che il conduttore potesse ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla stessa legge con azione proponibile fino a sei mesi dopo la riconsegna dell'immobile locato. Stante l'analogo meccanismo contemplato dal legislatore nell'art. 13 della l. n. 431/1998 (quanto a ratio e regime), riguardante sia i contratti a canone libero che quelli a canone c.d. concertato, sia il “maggior” corrispettivo versato rispetto a quello derivante dal contratto scritto e registrato, possono mutuarsi gli approdi interpretativi (della giurisprudenza e della dottrina) raggiunti al riguardo. Sul versante dottrinale, nel quadro della tesi ricostruttiva imperniata sulla nozione di pena privata, a tale azione di ripetizione è stata assegnata (Cuffaro 1999, 25) una funzione essenzialmente punitiva, rilevando che l'obbligo di restituzione non trova giustificazione in un “pregiudizio” subìto dal conduttore, atteggiandosi piuttosto come sanzione irrogata su iniziativa dell'altro contraente, il quale sarebbe chiamato a beneficiare della pena conseguente alla violazione fiscale. Ad avviso di altri (Petrolati 2000, 217), è apparso, invece, dubitabile che, ad un obbligo di restituzione pianamente riconducibile all'inefficacia dell'originaria causa solvendi, e quindi volta a realizzare una mera restitutio ad integrum, possa positivamente attribuirsi natura afflittiva, non apparendo nemmeno persuasivo il richiamo all'insussistenza di un danno patrimoniale a carico del conduttore, in quanto trattasi di requisito pertinente alla disciplina del fatto illecito piuttosto che a quella del regime di invalidità dell'atto (sottolineando, comunque, che lo stesso conduttore, in virtù della condictio indebiti, non viene a godere gratuitamente dell'immobile locato). In ordine alla finalità della disposizione, è parso intuitivo (Lazzaro, Di Marzio, 325) che si vuole consentire al conduttore di riottenere quanto indebitamente corrisposto, senza la remora che il locatore possa agire in ritorsione nei suoi confronti (ad esempio, con la “finita locazione” alla prima scadenza utile); nulla esclude, però, il conduttore possa far valere il suo diritto alla restituzione delle somme anche prima della riconsegna dell'immobile al locatore; in senso contrario, si registra l'opinione secondo cui il termine semestrale sarebbe posto al fine di limitare il diritto di azione del conduttore, per garantire l'esigenza di certezza delle posizioni soggettive delle parti che non possono essere esposti per troppo tempo ad azioni recuperatorie (Petrolati 2001, 359). Al contempo, la norma in esame tende a far sì che i rapporti di locazione esauriscano i loro effetti entro un tempo ragionevole, al fine di evitare che un'eventuale situazione di incertezza perduri immotivatamente per troppo tempo oltre la conclusione del vincolo (Pret. Taranto 4 marzo 1982). Si è ritenuto che la suddetta decadenza dovrebbe incidere sul termine di prescrizione in un doppio senso: da un lato, comporta che non sia configurabile, una volta verificatasi la decadenza, alcuna azione a favore del conduttore per ottenere quanto corrisposto, neanche nei limiti della prescrizione decennale, ancorché il credito sia sussistente (Pret. Piacenza 23 aprile 1988); dall'altro, proprio per la ratio che sorregge l'istituto, la prescrizione decennale resta inapplicabile ed il conduttore può ripetere, agendo entro il semestre, anche le somme versate illecitamente nei periodi oltre il decennio (Pret Firenze 5 dicembre 1996; Pret. Udine 6 ottobre 1989; Pret. Molfetta 3 aprile 1987; Pret. Verona 26 giugno 1985). In senso opposto, la dottrina ha sottolineato che la prescrizione e la decadenza operano su piani distinti, e che le ipotesi di sospensione del corso della prescrizione sono tassative ed inapplicabili analogicamente; d'altro canto, la posizione del conduttore non sarebbe equiparabile a quella del lavoratore subordinato privo di garanzia di stabilità, considerata, appunto, la caratteristica di stabilità del rapporto locativo disegnato dalla l. n. 392/1978 (Scripelliti 1997, 666; nel senso che la previsione di tale decadenza si giustifica proprio per escludere l'applicazione della prescrizione, Bucci, 245). In giurisprudenza, si registrano pronunce di merito nel senso della compatibilità tra la previsione di decadenza di cui all'art. 79 e l'applicazione della prescrizione (Pret. Latina 23 febbraio 1994; App. Messina 28 giugno 1988); e anche la magistratura di vertice ha posto in rilievo che, se si ammettesse la decadenza del conduttore dall'azione di ripetizione alla scadenza del semestre dal rilascio, verrebbe a crearsi un'irragionevole disparità di trattamento con il locatore, non assoggettato ad analogo termine (Cass. III, n. 10128/2004; cui adde Cass. III, n. 16009/2010; Cass. III, n. 10964/2010; Cass. III, n. 13681/2007; Cass. III. n. 2936/1995). Di recente, sul punto si è chiarito (Cass. III, n. 2829/2014) che il termine semestrale di decadenza per l'esercizio dell'azione di ripetizione delle somme sotto qualsiasi forma corrisposte dal conduttore in violazione dei limiti e dei divieti previsti dalla legge, fa sì che, se l'azione viene esperita oltre il detto termine, il conduttore è esposto al rischio dell'eccezione di prescrizione dei crediti per i quali essa è già maturata, mentre il rispetto del termine di sei mesi gli consente il recupero di tutto quanto indebitamente è stato corrisposto fino al momento del rilascio dell'immobile locato, il che si traduce nell'inopponibilità di qualsivoglia eccezione di prescrizione; in altri termini, il meccanismo del termine semestrale consente al conduttore di poter richiedere in ripetizione somme maturate nel corso del rapporto anche a ritroso di svariati anni senza la mannaia della prescrizione decennale purché l'azione venga proposta entro il semestre dall'avvenuta riconsegna del bene, e che l'eventuale decorso di tale termine abilita comunque il conduttore ad agire in ripetizione sia pur nei limiti della prescrizione decennale. (in senso conforme, v., di recente, Cass. III, n. 9937/2023, ad avviso della quale il rispetto da parte del conduttore del termine semestrale di decadenza, previsto dall'art. 13, comma 2, della l. n. 431/1998, , per l'esercizio dell'azione di ripetizione delle somme corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e registrato, gli consente il recupero di tutto quanto indebitamente è stato corrisposto fino al momento della riconsegna dell'immobile locato, rendendo inopponibile nei suoi confronti qualsivoglia eccezione di prescrizione, laddove, in caso contrario, egli è esposto al rischio dell'eccezione di prescrizione dei crediti per i quali essa è già maturata al momento dell'esercizio dell'azione). La soluzione prospettata dai giudici di Piazza Cavour è apparsa condivisibile nella parte in cui esclude che il conduttore, una volta introdotta tempestivamente la domanda di ripetizione, rimanga esposto all'eccezione di prescrizione, mentre non è sembrata persuasiva laddove ammette che lo stesso possa proporre la medesima domanda anche dopo la scadenza del termine semestrale di cui all'art. 79, comma 2, della l. n. 392/1978, stante che l'unanime giurisprudenza qualifica il termine posto dalla disposizione quale termine di decadenza, sicché “o il conduttore propone l'azione di restituzione di quanto pagato in eccedenza entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile o non la può più proporre” (così Gabrielli, Padovini, 376). Comunque, ove si ritenga ammissibile l'applicazione del termine di prescrizione dopo la scadenza del termine semestrale di decadenza, il termine applicabile è quello ordinario decennale di cui all'art. 2946 c.c., atteso che il termine breve quinquennale di cui all'art. 2948, n. 3), c.c., riguarda esclusivamente l'azione del locatore diretta a ottenere il pagamento della “pigione” (ossia il canone locativo); d'altronde, l'azione del conduttore che agisce per la ripetizione delle somme che assume di aver versato oltre la misura legale del canone muove da una diversa situazione giuridica e resta soggetta ai medesimi principi che regolano la domanda di ripetizione di indebito, di cui contiene tutti i presupposti: trattandosi di pagamenti di maggiori somme non dovute e, quindi, prive di causa, a nulla rileva il titolo in base al quale furono eseguiti (Cass. S.U., n. 11666/2007). Va, poi, rammentato che, al fine della liquidazione della somma che il locatore deve restituire in relazione alla riscossione di un canone convenzionale eccedente il canone legale, calcolato ai sensi della l. n. 392/1978, quest'ultimo deve essere computato con gli aggiornamenti I.S.T.A.T., ancorché non richiesti dal locatore, in quanto la richiesta è implicita nella percezione del maggior corrispettivo pattuito (Cass. III, n. 2141/2006; Cass. III, n. 1897/2002; Cass. III, n. 13419/2001; Cass. III, n. 977/1995; Cass. III, n. 8257/1991). Quanto agli interessi sulle somme maturate, trovano applicazione i consueti principi stabiliti dall'art. 2033 c.c., con la precisazione che, alla violazione della norma imperativa che stabilisce il canone, non consegue automaticamente la malafede del locatore e, quindi, ai fini della decorrenza degli interessi sulla somma pagata in più, il conduttore deve dimostrare di esser stato indotto dal locatore medesimo alla corresponsione in misura superiore alla legale, malgrado la sua diversa volontà (Cass. III, n. 21113/2005; Cass. III, n. 7165/1997); opposto il responso di un'altra pronuncia, secondo cui il comportamento delle parti diretto ad eludere l'applicazione di norme imperative di legge vale, di per sé, a superare la presunzione di buona fede, agli effetti della restituzione dell'indebito, ove si concretizzi in atti che inequivocabilmente dimostrino la consapevolezza dell'esistenza della norma imperativa ed il deliberato intento di eluderne gli effetti (Cass. III, n. 1861/2009: in particolare, la coeva stipulazione di due contratti di locazione, uno simulato, recante l'indicazione del canone conforme alla legge, ed altro dissimulato, recante l'indicazione del canone realmente richiesto, impediva di applicare la presunzione di buona fede in favore del locatore che abbia indebitamente riscosso il canone maggiore). Sul presupposto che il credito per ripetizione del canone ultralegale ha natura di debito di valuta, si è statuito in ordine alla risarcibilità del maggior danno da svalutazione, ove appunto debitamente provato dal conduttore (Cass. III, n. 7165/1997; Trib. Roma 28 marzo 1984). Essendo il relativo credito azionabile al momento della riconsegna, si è sostenuto che fosse lecita, nel vigore dell'art. 79 della l. n. 392/1978, la rinuncia del conduttore, in quanto riferentesi ad un diritto già sorto: infatti, la norma era diretta ad evitare un'elusione preventiva dei diritti del conduttore, ma non escludeva la possibilità di disporne una volta che gli stessi fossero sorti e potessero essere fatti valere (Cass. III, n. 675/2005; Cass. III, n. 21520/2004; Cass. III, n. 3984/1999; Cass. III, n. 683/1996; Cass. III, n. 11402/1993; Cass. III, n. 4709/1991). La summenzionata incombente possibilità di azioni di ritorsione da parte del locatore impone di individuare correttamente il termine “riconsegna”, adoperato come dies a quo, per la decorrenza del semestre, dall'art. 13 della l. n. 431/1998 (attualmente ai commi 2 e 5, così come dall'art. 79, comma 2, della l. n. 392/1978). In argomento, si è chiarito che la riconsegna dell'immobile locato, segnando in pari tempo l'estinzione sia dell'obbligazione primaria del locatore di far godere quel bene al conduttore, sia dell'obbligazione residuale gravante sul conduttore exartt. 1590-1591 c.c., è certamente collegata alla cessazione del rapporto locativo da una relazione di dipendenza la quale si manifesta anche nel profilo cronologico di posterità o contemporaneità e mai anteriorità rispetto allo spirare della locazione e, comunque, essa implica l'eliminazione sia del vincolo negoziale sia della relazione di fatto che dal primo traeva titolo (Lazzaro, Di Marzio, 333). Tuttavia, si è ammesso il decorso del termine semestrale in alcuni casi peculiari in cui la “materiale” riconsegna della cosa locata non può aver luogo: ad esempio, nel mutamento del titolo del godimento del bene da detenzione qualificata per locazione ad esercizio del diritto di proprietà; o nella vendita dell'immobile al conduttore, o di positivo esercizio da parte di costui del diritto di prelazione (nel qual caso il termine decorre non dalla data dell'adesione alla denuntiatio, bensì da quella della stipulazione del contratto: Cass. III, n. 356/1988; contra, Pret. Taranto 2 giugno 1987); oppure nella morte del conduttore che abbia determinato la cessazione de iure del contratto, perché all'erede, pur gravato dall'obbligo di rilascio e legittimato ad agire in ripetizione, non può assimilarsi il conduttore, nei cui confronti trova applicazione la nozione di rilascio (Pret. Milano 20 aprile 1995). Risulta difficile, invece, concepire una “riconsegna” dell'immobile – obbligazione residuale dipendente dalla cessazione del rapporto – durante la vigenza del rapporto stesso che, infatti, continua con le stesse caratteristiche (Cass. III, n. 4195/1987; Cass. III, n. 2517/1984; favorevoli, invece, ad un'interpretazione logico-estensiva, si mostrano: Pret. Roma 7 dicembre 1992; Trib. Roma 12 novembre 1986; Pret. Napoli 22 marzo 1985; Pret. Taranto 15 marzo 1983). Per il resto, rimane ferma nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione per cui il termine semestrale per l'azione di ripetizione di somme indebitamente corrisposte dal conduttore – previsto dall'art. 79 della l. n. 392/1978 – decorre dalla materiale riconsegna, coincidente con la data in cui l'immobile viene posto nella “effettiva disponibilità del locatore” – in pratica, con lo sgombero effettivo dei locali, che si solito si cristallizza con la consegna delle chiavi e la redazione del verbale di rilascio posto in essere nel contraddittorio dei contraenti o con l'offerta per intimazione per il tramite dell'ufficiale giudiziario – e non dalla mera emissione del provvedimento di rilascio né dalla cessazione de iure del rapporto giuridico intercorrente tra le parti (Cass. III, n. 12994/2013; Cass. III, n. 21113/2005; Cass. III, n. 11185/1995; Cass. III, n. 2205/1994). La riconsegna dell'immobile, inoltre, si concreta in un facere indivisibile e non può, pertanto, identificarsi in atti antecedenti o preparatori del conduttore (Cass. III, n. 2071/1993), non rilevando, quindi, che già in precedenza il conduttore si sia trasferito altrove, o che abbia invitato il locatore a procedere alle formalità della riconsegna, o ancora che il locatore abbia in precedenza fatto incontestatamente “accesso nell'appartamento, trovandolo libero da persone e cose” (Cass. III, n. 6152/2005). La riconsegna, poi, va riguardata con riferimento all'oggetto principale, ossia all'alloggio (Pret. Milano 2 novembre 1988, il quale ha affermato l'avvenuta decadenza dalla domanda di ripetizione proposta oltre sei mesi dopo il rilascio dell'appartamento, a nulla rilevando che il conduttore fosse rimasto nella detenzione della cantina, parimenti affittata, non essendo questo l'immobile cui si riferiva la domanda di ripetizione di indebito e in relazione al quale doveva accertarsi il canone dovuto secondo la legge sull'equo canone). In relazione al soggetto obbligato alla restituzione, si è precisato che l'acquirente dell'immobile locato – subentrando nei diritti e nelle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione dal giorno dell'acquisto – si pone come terzo rispetto alla parte del rapporto esauritosi in data antecedente al suo acquisto e come contraente rispetto a quella ancora da eseguire (Cass. III, n. 6142/1984): non vi è, pertanto, alcuna sostituzione del compratore nei diritti di credito già maturati in favore del venditore (Cass. III, n. 637/1978), come pure nel “debito” per somme percepite contra legem (Trib. Bologna 23 giugno 1986). L'acquirente, poiché acquisisce anche la pattuizione nulla, è tenuto a restituire le somme indebitamente percette dal momento dell'acquisto alla riconsegna (Pret. Bari 17 novembre 1982); in senso contrario, si è affermato che il conduttore potrebbe agire nei confronti del nuovo locatore anche per la ripetizione dell'indebito maturato anteriormente al trasferimento del bene (Pret. Verona 8 novembre 1988). Qualora l'immobile sia locato congiuntamente a più persone – diversamente dall'ipotesi di una pluralità di conduttori di stanze distinte di un'unità abitativa, in cui ciascuno ha diritto al rimborso pro quota dei canoni versati in misura superiore a quello legale – ciascuno dei conduttori, sussistendo una solidarietà passiva per il pagamento dei canoni, diviene creditore in solido della somma versata in eccedenza rispetto alla misura legale e, pertanto, può chiedere l'intero con effetto liberatorio anche nei confronti degli altri senza che il proprietario-debitore, tenuto alla restituzione, possa opporre eccezioni personali a questi ultimi (Pret. Parma 17 ottobre 1990). Relativamente al dies ad quem, ossia quello della proposizione della domanda di ripetizione, occorre fare riferimento alla data di deposito del ricorso e non alla sua notificazione; trattandosi di azione inerente il rapporto locativo inter partes, la stessa dovrà essere promossa nelle forme di cui all'art. 447-bis c.p.c. (sempre che il giudizio non si estingua); tale decadenza, a mente dell'art. 2966 c.c., non può essere impedita se non dall'instaurazione della procedura giudiziaria, a nulla rilevando a tal fine eventuali iniziative stragiudiziali (sul versante dottrinale, Scalettaris 1991, 97). Il termine semestrale, di carattere perentorio, entro il quale il conduttore deve proporre l'azione di ripetizione delle somme indebitamente corrisposte al locatore, avendo natura processuale, va computato tenendo conto della sospensione dei termini feriali introdotta dell'art. 1 della l. n. 742/1969 (Cass. III, n. 8077/1994). L'eventuale decadenza in cui sia incorso il conduttore ricorrente non appare rilevabile d'ufficio e, quindi, dovrà essere eccepita dal locatore in sede di memoria ex art. 416 c.p.c. (Cass. III, n. 2220/1998; Cass. III, n. 778/1998; Cass. III, n. 11167/1997; Cass. III, n. 2936/1995; Cass. III, n. 11949/1992; tra le pronunce di merito, Trib. Genova 19 dicembre 1989). La domanda del conduttore si inquadra, infine, nella figura della ripetizione di indebito, e rimane soggetta alle regole proprie di questa, tra cui quella per cui il medesimo conduttore è tenuto a provare sia l'avvenuto pagamento delle maggiori somme, sia l'ammontare del canone altrimenti dovuto. Azione di riconduzioneL'art. 13, comma 6, (ex 5) della l. n. 431/1998 stabilisce che, nei “medesimi casi” di nullità di cui al comma 4 – ossia di nullità concernenti pattuizioni volte ad attribuire al locatore, per i contratti a canone c.d. concertato, un canone superiore a quello massimo stabilito in sede di contrattazione locale, oppure, per i contratti a canone libero, le pattuizioni in contrasto con le disposizioni della legge dirette ad attribuire al locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito – il conduttore possa richiedere al giudice che “la locazione venga ricondotta a condizioni conformi” a quanto previsto all'art. 2 della legge, rispettivamente, comma 3 per le locazioni a canone concertato, e comma 1 per le locazioni a canone libero (il riferimento per i primi, con evidente connotato sanzionatorio, viene fatto al “valore minimo” e, quindi, non entro i limiti dei canoni “concordati” ma nella misura più bassa della fascia di riferimento di quel tipo di immobile). Trattasi, quindi, di un'azione giudiziale, consentita al solo conduttore, il quale può agire, a fronte delle summenzionate nullità, non solo con la ripetizione di quanto indebitamente versato (con riflessi rivolti al passato), ma anche con la corretta riconduzione del contratto al modello di riferimento (al fine di assicurare per il futuro la valida prosecuzione del rapporto). Di tale previsione ne è stata sottolineata, assieme alla novità, la superfluità, dal momento che essa nulla aggiunge alla sanzione di invalidità dettata dal comma 2 citato: non v'è dubbio, infatti, che, se la determinazione del canone in misura maggiore di quella consentita è invalida, la parte, a tutela della quale l'invalidità è prevista, non deve certo attendere la fine del rapporto per poter agire in giudizio ed ottenere l'applicazione della regola sostitutiva (Cuffaro 1999, 173). A voler rimanere fedeli alla lettera della legge, peraltro, deve ritenersi che l'azione di riconduzione sia ammessa esclusivamente “nei medesimi casi” di nullità sopra delineati, nel senso che possa trovare ingresso soltanto in caso di locazioni viziate sotto il profilo della pattuizione di canoni – intesa ancora una volta l'espressione nel senso più ampio, come prezzo complessivo della locazione – superiori a quelli consentiti; in quest'ottica, alcuni autori (Petrolati 2000, 228) propendono per l'applicabilità della medesima solo con riferimento alle ipotesi di nullità stabilite dal comma 4, che si riferisce alle pattuizioni di canoni contra legem superiori a quelli massimi previsti dai contratti-tipo (o dagli accordi territoriali) o che aggravano la prestazione complessiva a carico del conduttore nei contratti a canone libero. Seguendo un'altra suggestiva impostazione, l'azione di riconduzione potrebbe essere usata dal conduttore, in costanza di rapporto, per ottenere il rispetto delle clausole contrattuali contenute nel contratto-tipo, quando queste siano difformi da quelle contenute nel contratto individuale; in quest'ottica, tale domanda potrebbe essere esperita anche per ottenere la correzione giudiziale di difformità di clausole contrattuali attinenti la durata dei rapporti locativi, se inferiore al minimo legale e, in particolare, di quelle pattuizioni contenute nei contratti ad autonomia limitata non espressamente colpite dalle suddette sanzioni di nullità (Lazzaro 1999, 118). Comunque, mentre nel modello c.d. libero, l'azione di riconduzione appare giustificata soltanto dall'esigenza di individuare in concreto i vantaggi economici e normativi che surrogano indebitamente il canone di locazione, implicando un intervento meramente ricognitivo dell'invalidità di determinate pattuizioni, sicché, nell'ottica di una complessiva ricostruzione del sinallagma contrattuale, il tutto si risolve in una declaratoria di inefficacia – ad esempio, di una clausola sulla c.d. buona entrata o sull'obbligo di manutenzione posto a carico del conduttore – considerazioni più articolate sono state esplicitate per il canale c.d. assistito. In quest'ultimo, infatti, la riconduzione giudiziale al contratto-tipo si giustifica (ad avviso di Piombo 1999, 143), perché il modello “collettivo” di riferimento non detta una disciplina puntuale, suscettibile di essere immediatamente applicabile ope legis, sicché essa va integrata dall'accertamento giudiziale del caso concreto con funzione determinativa degli elastici parametri fissati dalla contrattazione di settore (i decreti ministeriali succeditisi sul punto contemplano, infatti, fasce di oscillazione del canone considerando le peculiari caratteristiche dell'edificio e dell'unità immobiliare). Ulteriori considerazioni si impongono circa la c.d. autoriduzione del canone nel vigore della l. n. 431/1998. Si è sopra rilevato che, in ossequio ai principi generali in tema di nullità, la clausola nulla è automaticamente sostituita dalla norma imperativa, eventualmente operante nella materia, secondo il ridetto congegno previsto dagli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., sicché sembrerebbe naturale sostenere che il conduttore, trovandosi esposto per contratto al pagamento di un canone superiore al limite massimo previsto dalla legge – seppure attraverso il rinvio alle previsioni degli accordi locali – possa legittimamente limitarsi a pagare il canone legale, indipendentemente da ogni provvedimento giurisdizionale sul punto (se il patto è nullo, infatti, manca in radice l'obbligazione di pagamento del canone convenzionalmente pattuito). Tuttavia, in riferimento alla disciplina dell'equo canone, si è formato un ampio fronte giurisprudenziale che ha guardato all'autoriduzione come ad un comportamento illecito tale da configurare una ipotesi di “ragion fattasi”, e in questo quadro, v'è stato chi ha osservato che tale orientamento avrebbe finito per persuadere il legislatore, il quale, infatti, introducendo l'azione di riconduzione, avrebbe implicitamente stabilito che, sino a quando l'azione non è proposta. la clausola nulla deve trovare applicazione (Gabrielli, Padovini, 375). L'esattezza dell'osservazione è, però, temperata (ad avviso di Lazzaro, Di Marzio, 317) dal rilievo che l'art. 14 della l. n. 431/1998 non ha abrogato – in quello che era un tempo l'ultimo comma e che, dopo i reiterati interventi legislativi succedutesi al riguardo, è rimasto il solo comma – l'art. 45 della l. n. 392/1978, sicché rimangono attuali, in riferimento all'autoriduzione in pendenza del giudizio di riconduzione, gli argomenti avanzati in tema di autoriduzione in pendenza del giudizio di determinazione dell'equo canone. In quest'ordine di concetti, nel corso del giudizio di riconduzione al canone prefissato dai contratti-tipo (o dagli accordi territoriali), potrebbe trovare applicazione il disposto dell'art. 45 della l. n. 392/1978, in base al quale il conduttore ha la facoltà di limitare il versamento del corrispettivo alla misura non contestata, purché ragionevole, non temeraria e, comunque, congrua (argomentando da Cass. III, n. 9873/1990). Ad avviso di alcuni (Scripelliti 2017, 527), trattasi di “norme di evidente derivazione equocanonistica” (art. 79 l. n. 392/1978), con la non trascurabile differenza che, quanto alla durata minima legale, gli artt. 1 e 27 della l. n. 392/1978 ne prevedevano l'automatico inserimento ope legis nei contratti che avessero previsto una durata inferiore, mentre l'art. 13 ora prevede l'espunzione, con pronuncia giudiziale, delle clausole difformi dalle norme imperative e la loro eventuale sostituzione con norme di legge secondo il meccanismo di cui all'art. 1419 c.c. ad opera del giudice, il che esclude la legittimità dell'autoriduzione del canone da parte del conduttore. Resta inteso che la previsione di nullità per ipotesi determinate prevista dall'art. 13, comma 6, della l. n. 431/1998 non si applica agli immobili inclusi nella categoria catastale A/8 (abitazioni in villa) per i quali, non essendo prevista alcuna nullità collegata a limiti di durata del rapporto o di misura del canone, resta esclusa la speciale azione del conduttore di riconduzione del rapporto a condizioni conformi allo schema della valida locazione (Cass. III, n. 19568/2004). Locazione di fattoVersione originaria del 1998 L'azione di riconduzione a condizioni conformi era, altresì, data al conduttore, nella versione originaria dell'art. 13 (allora) comma 5, terzo periodo, nei casi in cui il locatore avesse “preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto”, in violazione della previsione di forma di cui all'art. 1, comma 4, e, in tal caso, nel giudizio che accertava l'esistenza del contratto di locazione, il giudice avrebbe determinato il canone dovuto, che non poteva eccedere quello definito dagli accordi locali per i contratti a canone c.d. concertato (o per i contratti transitori nel caso di conduttore che abitasse stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati). Il legislatore aveva, così, inteso contemperare gli effetti della locazione “orale” – sancita essenzialmente per ragioni di ordine fiscale – con l'immanente necessità di tutelare l'esigenza abitativa primaria del conduttore (parte debole del rapporto), dettando una disciplina che, soltanto su iniziativa di tale soggetto del rapporto locatizio e mediante un complesso intervento integrativo del giudice, consentiva un “recupero al diritto” del contratto nullo per difetto del requisito formale, segnatamente riguardo al corrispettivo del godimento latamente inteso, con conseguente statuizione circa il debito restitutorio, ma senza escludere anche gli altri elementi accessori del rapporto, in primis la durata (De Palo, 230). Tale speciale azione di recupero della locazione esitava con l'accertamento di un contratto, il cui contenuto era diverso dall'originario programma, quanto meno sotto il profilo economico, atteso che la conclusione di un contratto di locazione in forma verbale esponeva il locatore al rischio di vedersi riconoscere un canone diverso da quello pattuito e presumibilmente inferiore ad esso, dovendo essere fissato in riferimento agli accordi locali relativi ai contratti a canone concertato; tuttavia, si era evidenziato (Lazzaro, Di Marzio, 318) che se il legislatore, con l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, avesse inteso porre un requisito di forma ad substantiam, dando conseguentemente vita ad un'ipotesi di nullità nel senso tradizionale dell'espressione, riconducibile all'art. 1325, n. 4), c.c., non vi sarebbe stata necessità alcuna di dettare un intervento volto ad identificare gli effetti della sanzione ed a individuare il soggetto legittimato a farla valere, bastando, in tal caso, all'interprete ricercare le pertinenti risposte nella disciplina generale della nullità, come prevista dagli artt. 1418 ss. c.c. Al contrario, proprio la specialità della previsione di invalidità, non riconducibile – secondo un'impostazione ricostruttiva – alla nozione abituale di nullità come strumento di tutela dell'ordinamento e, invece, diretta, essenzialmente, al soddisfacimento delle esigenze informative del contraente debole e di semplificazione della prova dell'esistenza del rapporto, aveva motivatamente indotto il legislatore a prestare attenzione alle conseguenze derivanti dal rilievo del vizio ed alla legittimazione alla conseguente azione, così da evitare che esso potesse porsi in pregiudizio degli interessi tutelati dalla norma. Era, quindi, sembrato più importante impedire alla nullità di ritorcersi contro colui che essa tendeva a proteggere, piuttosto che assicurare l'inefficacia del contratto, laddove, facendo valere la nullità di quest'ultimo secondo le regole generali, il conduttore si sarebbe esposto alla riconsegna dell'immobile dove abitava. In questo quadro, si collocava la figura del rapporto di fatto, del resto non nuova, che richiamava altre ipotesi disseminate nel codice civile (ad esempio, art. 128 c.c. sul matrimonio putativo e l'art. 2126 c.c. sul rapporto di lavoro) o nella legislazione speciale (si pensi alla l. 18 giugno 1998, n. 192 in materia di subfornitura), che registravano la presenza di fattispecie nulle, ma comunque produttive, a certe condizioni, di effetti giuridici, e tutte ispirate al principio generale di conservazione del negozio. Pertanto, la suddetta figura manifestava una sua prima utilità proprio nel temperare gli effetti della sanzione di invalidità in relazione a rapporti di durata che, per la loro natura, rendevano praticamente inattuabile la cancellazione della realtà giuridica di un effetto che si era definitivamente prodotto nella realtà naturale, attraverso la reciproca restituzione delle rispettive prestazioni; e ciò era esattamente quanto accadeva in materia di locazione, giacché, quando quest'ultima fosse dichiarata nulla, pur conseguendone, in linea di principio, il reciproco diritto delle parti di ripetere le prestazioni effettuate, il conduttore non poteva ottenere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo del godimento della cosa, in quanto ciò avrebbe comportato un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore (Cass. III, n. 4849/1991). Altra dottrina (Petrolati 2000, 231) aveva sottolineato la contemporanea valenza sanzionatoria a carico del locatore – il quale, attraverso l'imposizione della forma orale, avesse inteso sottrarsi all'incombenza fiscale della registrazione – sì da sussumere la nuova disciplina nell'alveo del fatto illecito, soggettivamente doloso, configurando la riconduzione del contratto come “sanzione a carico del locatore volta a reintegrare in forma specifica le ragioni del conduttore”; tale lettura della norma spiegava la non totale riconducibilità alle ipotesi codicistiche di “sanatoria” e, in particolare, alla conversione del negozio nullo ex art. 1424 c.c., atteso che il giudice non teneva affatto conto dello “scopo delle parti”, poiché la determinazione giudiziale del canone, necessariamente ancorata ai parametri fissati dai contratti-tipo, secondo le differenti ipotesi di cui agli artt. 2, comma 3, e 5, commi 2 e 3, si sostituiva d'imperio, in termini penalizzanti per il locatore, a quella concordata oralmente dalle parti. A fronte del rilievo per cui il conduttore era così incentivato a provocare l'emersione dell'inadempimento fiscale connesso alla mancata registrazione del contratto, venendo preventivamente a costituire, in capo al locatore, un deterrente contro la locazione c.d. in nero, si era osservato (Izzo 1999, 74) che tale incentivo sarebbe stato ben poco appetibile ove il conduttore, all'esito del giudizio da lui stesso promosso, fosse contestualmente tenuto a restituire l'immobile al locatore, qualora si ritenesse che la riconduzione de qua aveva il limitato effetto di rideterminare in peius il canone dovuto per il periodo di svolgimento del rapporto di fatto, ma non anche quello di sanare per il futuro il titolo legittimante la locazione, scoraggiando così il medesimo conduttore dall'esperimento della suddetta azione a fronte delle sua necessità abitative. Si era, comunque, precisato che il rapporto di fatto era pur sempre qualificato “di locazione”, nel senso che non si trattava di una sorta di occupazione senza titolo: in altri termini, il rapporto esisteva con le caratteristiche fondamentali del sinallagma locatizio – godimento di un bene dietro pagamento di un corrispettivo – ma non era riconducibile ad alcuno degli statuti riconosciuti per l'uso abitativo, sicché la sua disciplina doveva essere ricercata, riguardo a tutti i profili (e, quindi, anche durata, rinnovazione, canone, ecc.) nella regolamentazione pattizia, che ovviamente poteva coincidere con quella “legale” (Lazzaro, Di Marzio, 320). L'invalidità finiva, insomma, con il cogliere l'insufficienza di quella fonte – contratto non scritto – e ricondurre il rapporto ad uno degli statuti presenti nell'ordinamento, anche se doveva rimarcarsi la significativa differenza tra le ipotesi menzionate e quella disegnata dall'art. 13, comma 5, terzo periodo, della l. n. 431/1998: la figura della “locazione di fatto” ivi contemplata – come sopra rilevato – a differenza delle altre prima enumerate, valeva ad individuare la disciplina di un rapporto destinato a protendersi nel futuro e non a coprire quanto irrimediabilmente verificatosi nel passato per effetto della pattuizione afflitta da invalidità. In questa prospettiva, la scelta del legislatore, in talune leggi speciali, risultava quella di concepire fattispecie di invalidità, caratterizzate da finalità protettive, con legittimazione esclusiva a favore del contraente debole, attraverso l'utilizzazione della figura della nullità c.d. relativa, in modo che l'altro contraente non avesse la possibilità di caducare il contratto. Orbene, mentre la questione della legittimazione a far valere la nullità speciale prevista dall'art. 79 della l. n. 392/1978 era prevalentemente risolta nel senso dell'applicabilità dell'art. 1421 c.c., ossia sollevabile da chiunque vi avesse interesse (Cass. III, n. 5827/1993; Cass. III, n. 1776/1989; nella giurisprudenza di merito, Trib. Busto Arsizio 26 gennaio 2000), il problema è oggi superato, in coerenza con l'illustrata ratio dell'istituto, dal tenore letterale dell'art. 13, comma 5, che attribuisce espressamente al solo conduttore le azioni di ripetizione e riconduzione: difatti, non altri che il conduttore “può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate” ed il solo medesimo conduttore “può altresì richiedere ... che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi”. La relatività dell'azione era, quindi, implicitamente ma inequivocabilmente ribadita dal terzo periodo della disposizione, secondo cui “tale azione”, indubitabilmente con le medesime caratteristiche, era “altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto” (contra, nel senso dell'applicabilità dell'art. 1421 c.c., Mirenda, 7). In questo senso, occorreva riconoscere che la formulazione dell'art. 13, comma 5, della l. n. 431/1998, laddove rimetteva al solo conduttore la legittimazione ad agire, si mostrava coerente con l'intento del legislatore di disciplinare, in una prospettiva protettiva, l'ipotesi in cui la carenza di forma avrebbe altrimenti impedito la prosecuzione del rapporto, in pregiudizio dell'interesse del soggetto economicamente più debole. Nell'indagare la ratio della norma, però, non era sufficiente fermarsi all'aspetto di tutela del contraente debole, ove si rammentava che il requisito formale, almeno nelle iniziali intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto altresì avere una finalità di ordine fiscale: sotto tale aspetto, l'azione di riconduzione della “locazione di fatto”, oltre alla tutela del conduttore, avrebbe dovuto perseguire uno scopo sanzionatorio e dissuasivo (Cuffaro 2009, 199). In proposito, si era osservato che l'azione di riconduzione della locazione di fatto dava vita ad un contratto il cui contenuto era difforme dall'originario programma negoziale – il che consentiva incidentalmente di rilevare come il congegno non potesse essere ricondotto all'istituto della conversione del negozio nullo di cui all'art. 1424 c.c. e richiamasse, semmai, per alcuni aspetti, il principio di conservazione sancito dall'art. 1423 c.c. – quantomeno sotto il profilo del canone (salvo che, per pura coincidenza, il canone applicato per via giudiziale risultasse identico a quello verbalmente pattuito); ed allora, la conclusione del contratto di locazione in forma verbale, in ragione della previsione dell'azione di riconduzione della locazione di fatto, esponeva il locatore al rischio di vedersi riconoscere un canone diverso da quello pattuito e presumibilmente inferiore ad esso, dovendo essere fissato in riferimento agli accordi locali relativi ai contratti a canone concertato. In altri termini, posto che il comma 4 dell'art. 1 della l. n. 431/1998 prevedeva per il contratto di locazione il requisito della forma scritta a pena di nullità, nell'ultimo periodo del comma 5 dell'art. 13 era dettata un'articolata disciplina nel caso di violazione del precetto sulla forma, che risultava in qualche misura complementare all'altra relativa alla diversa fattispecie dell'omessa registrazione del patto dissimulato sul canone, in quanto dalla mancata redazione per iscritto del contratto (e conseguentemente dalla mancata registrazione) faceva discendere non già la nullità tout court del contratto, bensì la possibilità di ottenere una pronuncia con cui il giudice doveva non solo constatare che il rapporto contrattuale era stato instaurato sulla base di un titolo invalido, ma anche dichiararne l'esistenza con un contenuto solo in parte coincidente con la volizione originaria delle parti almeno per quanto riguardava la misura del canone, risultando determinato con riferimento ai parametri dei contratti agevolati e quindi, all'interno di quelle “fasce di oscillazione” approntate dalla contrattazione territoriale delle Organizzazioni nazionali rappresentative dei proprietari e inquilini (Cuffaro 1999, 484, secondo il quale la reazione alla violazione del precetto sulla forma, con la determinazione di un contenuto legale del contratto, e la reazione alla mancata registrazione dell'accordo sul canone, con la prescrizione di inefficacia del patto non registrato, venivano a collocarsi su piani sostanzialmente limitrofi, entrambi riconducibili al paradigma della “pena privata”). Su tali premesse, si sottolineava che il presupposto di operatività dell'azione di riconduzione della locazione di fatto era costituito dall'essere stata “pretesa” la stipulazione in forma verbale del contratto da parte del locatore; in tale nozione, non era insito, né sul piano letterale, né sul piano della ratio, alcun coefficiente di costrizione nei confronti del conduttore ad opera del locatore, tale da impedire che, sul punto, le parti convenivano liberamente – se non validamente, stante la previsione di forma – la pattuizione di una locazione verbale: il locatore “pretendeva” la stipulazione del contratto verbale non diversamente da quanto “pretendeva” la pattuizione del canone in una certa misura piuttosto che in un'altra, e il conduttore, per parte sua, non aveva che da accettare o respingere la “pretesa”, salvo prospettare una diversa soluzione negoziale (Lazzaro, Di Marzio, 321). Pertanto, il verbo “pretendere” doveva essere inteso nel senso di “esigere ciò che non è dovuto”, ma tale l'espressione non aveva, neppure per approssimazione, un significato analogo ad “estorto con violenza” di cui all'art. 1427 c.c.; il presupposto di operatività della norma de qua era ravvisabile, quindi, non solo nei casi di vera e propria imposizione (ossia radicale indisponibilità del locatore alla stipula scritta), anche nei casi di coazione indiretta o di semplice pressione, come nell'ipotesi del maggior canone richiesto in alternativa dal locatore pr assentire a tale formalizzazione e conseguente induzione del conduttore alla stipula orale (De Palo, 233). Escluso, dunque, che la “pretesa” del locatore dovesse determinare una coartazione della volontà del conduttore, si concludeva nel senso che, pur dinanzi alla menzionata pretesa, ben potesse liberamente formarsi il consenso delle parti sulla conclusione verbis del contratto, conseguendone che il presupposto in esame si realizzava ogni qual volta la stipulazione verbale non fosse avvenuta ad iniziativa del conduttore, interessato a tutelare proprie ragioni di riservatezza più o meno legittime; in buona sostanza, la nozione di “pretesa” si risolveva in un connotato meramente negativo, nel senso che la forma verbale poteva dirsi pretesa ogni qual volta non fosse stata richiesta per proprie ragioni dal conduttore. In senso ancora diverso, si era posto un giudice di merito (Trib. Varese 18 maggio 2000), secondo il quale la disciplina in esame copriva “un'area del tutto residuale, segnata, per così dire, dall'abuso di posizione dominante del locatore, nella parte in cui questi pretendeva l'accordo verbale, e perciò lo impone al conduttore” Nel giudizio introdotto ai sensi dell'art. 13, comma 5, terzo periodo, della l. n. 431/1998, sul piano probatorio, ai fini dell'azione di conformazione della locazione di fatto, incombeva, innanzitutto, sul conduttore l'onere di dimostrare l'esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, in primis “l'esistenza del contratto di locazione”, e, poi, la circostanza che fosse stato il locatore a pretendere l'instaurazione del rapporto di fatto (Trib. Catanzaro 27 gennaio 2011). Pertanto, qualora ne fosse stata contestata la stessa conclusione, il conduttore doveva provare il relativo fatto storico, ossia la data in cui aveva avuto inizio l'esecuzione del rapporto mediante l'immissione nel godimento del bene ed il pagamento del corrispettivo, giovandosi, se del caso, di presunzioni quali la reiterata accettazione di canoni ed il protrarsi della detenzione senza contestazioni da parte del proprietario (sull'inesistenza di preclusioni in tal senso, poteva richiamarsi Cass. II, n. 3351/1987, secondo cui i limiti legali alla prova di un contratto, di cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 c.c. per la prova per testi, operano solo se il contratto sia invocato in giudizio quale fonte di diritti ed obblighi tra le parti contraenti, e non anche se esso sia dedotto quale mero fatto storico influente sulla decisione). Lo stesso conduttore doveva, poi, dimostrare che la mancata formalizzazione per iscritto del contratto fosse stata la conseguenza di una “pretesa” del locatore, nel senso sopra delineato; si era, però, ritenuto (Scalettaris 1999, 19) che tale pretesa non potesse ritenersi, in re ipsa, per ogni ipotesi di locazione orale, proprio perché il legislatore – attraverso l'inequivoca e preventiva previsione di tale requisito nel testo normativo – ne aveva ritenuto necessaria l'esistenza in fatto e, in caso di contestazione, il suo concreto accertamento, con onere della prova a carico del conduttore che agiva in giudizio, secondo le regole generali (non escludendo il ricorso alle presunzioni, stante l'evidente squilibrio economico tra le parti del rapporto e la stringente necessità abitativa del conduttore). Spettava, poi, al giudice accertare l'esistenza del contratto di locazione emergente tanto dall'accordo verbale, quanto dalla concreta esecuzione che le parti vi avessero dato, determinando la formazione di un contratto nel quale l'osservanza della forma scritta restava affidata alla pronuncia giudiziale; a tal riguardo, il giudice doveva, in primo luogo, individuare la data di esordio del rapporto, coincidente con l'inizio della sua esecuzione (il pregresso godimento dell'immobile da parte del conduttore andava, quindi, imputato alla durata del contratto), e, poi, doveva con pronuncia costitutiva avente effetto retroattivo, determinare il canone dovuto in forza del contratto ricondotto, quantificando il medesimo canone in riferimento alla previsione dei contratti-tipo ordinari o transitori per studenti, e pronunciando, altresì, in caso di richiesta del conduttore, condanna del locatore alla restituzione delle somme precedentemente versate in misura superiore al canone determinato in giudizio. Relativamente all'importo del canone, il giudice poteva determinarlo entro i limiti di oscillazione all'uopo previsti dalla contrattazione in sede locale: in quest'àmbito, esclusa una valutazione arbitraria, il magistrato doveva necessariamente considerare i criteri (stato di conservazione dell'immobile, ubicazione, finiture, pertinenze, ecc.) specificamente contemplati dal contratto-tipo di riferimento. Per quanto concerne la durata del rapporto giudizialmente accertato, non facendo la norma alcun espresso riferimento, si propendeva per una durata quadriennale dello stesso con decorrenza dall'immissione del conduttore nel godimento dell'immobile (Cuffaro 1999, 32; contra, Preden, 357, che ritiene applicabile la disciplina dei contratti-tipo ordinari o quella dei contratti transitori per studenti sempre che fosse stata accertata la stabile abitazione del conduttore per i motivi di cui all'art. 5, commi 2 e 3). Di diverso avviso l'opinione di un giudice di merito, ad avviso del quale l'accertamento del contratto e del rapporto locativo di fatto da parte del giudice era ammesso al solo fine di consentire al conduttore di ottenere la determinazione del canone dovuto e la restituzione di quanto eventualmente pagato in eccedenza, ma non la determinazione di una scadenza diversa da quella pattuita dalle parti, e ciò in considerazione del richiamo operato dall'art. 13, comma 5, della l. n. 431/1998 al solo comma 4 dello stesso articolo (al quale si doveva l'inderogabilità della norma sull'invariabilità del canone) e non anche al comma 3 dello stesso articolo, che disponeva l'inderogabilità della durata legale (App. Firenze 18 marzo 2010). Qualora, poi, tale prova non fosse fornita, o, comunque, risultava che la violazione del requisito della forma scritta fosse il frutto di un accordo liberamente adottato dalle parti o pretesa dal conduttore, trovavano applicazione i principi generali in tema di rapporti di mero fatto, conseguendone il diritto del locatore ad agire per il rilascio dell'immobile e quello del conduttore di ottenere la restituzione delle somme versate a titolo di canone nei limiti di quelle che eccedevano il canone massimo consentito, secondo quanto stabilito dagli accordi territoriali (Bucci, 74); altra dottrina (De Palo, 232), pur riconoscendo in linea astratta il diritto di ciascun contraente alla ripetizione delle prestazioni effettuate in attuazione di un contratto nullo, sottolineava come il conduttore che avesse usufruito del godimento dell'immobile non poteva pretendere la restituzione dei canoni corrisposti, in quanto ciò comportava un ingiustificato arricchimento in danno del locatore. Ad ogni buon conto, nessuna efficacia (quanto alla integrazione del requisito della forma scritta) poteva riconoscersi alla denuncia operata, unilateralmente, all'Agenzia delle entrate, trattandosi di atto idoneo a produrre i propri effetti solo sul piano fiscale e non su quello civilistico (Trib. Bari 20 marzo 2016); peraltro, anche la registrazione ai sensi del d.lgs. n. 23/2011 non valeva a supplire la carenza di forma scritta, atteso che le disposizioni dell'art. 3, comma 8 – nel periodo di loro precaria vigenza – non avrebbero potuto supplire al vizio di forma di cui fosse affetto il contratto di locazione abitativa concluso verbalmente, atteso che si presupponeva, in ogni caso, l'esistenza di un contratto di locazione valido ed immune da vizi sotto ogni altro profilo diverso dalla mancata registrazione nel termine di legge (Trib. Roma 29 aprile 2016; in argomento, v., altresì, Cass. III, n. 329/2000, secondo cui la denuncia di un contratto verbale di locazione all'ufficio del registro ha finalità solo fiscale, sicché la stessa, quand'anche sottoscritta da entrambe le parti contraenti e quand'anche annualmente ripresentata al fisco, una volta prodotta in giudizio e contestata dalla controparte, non è idonea, in sé, a provare che una pregressa convenzione scritta di locazione pluriennale sia stata novata con accordi di diverso contenuto). Legge di stabilità 2016 La previsione del c.d. rapporto contrattuale di fatto, già rivelatasi poco praticabile in quanto subordinata al raggiungimento della prova “diabolica” dell'imposizione del rapporto non scritto ad opera del locatore, o della coazione del locatore idonea ad influenzare il processo di formazione della volontà del conduttore, condizionando alla forma verbale l'instaurazione del rapporto di locazione in violazione dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, è stata definitivamente eliminata dall'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015 (in vigore dal 1° gennaio 2016). In altri termini, la c.d. legge di stabilità per il 2016 limita la previsione al solo caso del conduttore che ha subìto la scelta del locatore di “non registrare” il contratto, concedendo al primo la facoltà di far convertire giudizialmente la locazione non registrata e attribuendo al magistrato il potere di sostituire il contratto e determinare l'entità del canone che non potrà eccedere quello “minimo” definito in sede locale (in una fattispecie particolare, di recente, Cass. III, n. 32574/2024ha chiarito che, qualora le parti concludano un primo contratto verbale e, poi, un altro contratto redatto in forma scritta e regolarmente registrato, non possono trovare applicazione con riferimento al contratto originario i meccanismi correttivi del canone di cui all'art. 13, commi da 5 a 7, della l. n. 431/1998, nel testo novellato dall'art. 1, comma 59, della l. n. 208 del 2015, perché, per effetto della stipulazione del contratto posteriore, quello antecedente deve ritenersi definitivamente venuto meno; nella specie, si era confermata la sentenza di merito che, dichiarando la risoluzione per morosità del secondo contratto scritto contenente la previsione di un canone più alto rispetto al primo contratto verbale, aveva rigettato la domanda del conduttore di restituzione integrale dei canoni versati ab initio in misura eccedente rispetto ai criteri fissati dall'art. 13 della l. n. 431/1998). Nello specifico, il nuovo testo dell'art. 13 della l. n. 431/1998, così come modificato dalla l. n. 208/2015, abbandona l'espressione “locazione di fatto” come specifica prescrizione invalidante, e, al comma 6, terzo periodo, concede l'azione di riconduzione “nei casi in cui il locatore non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine di cui al comma 1” dello stesso art. 13 (ossia termine perentorio di trenta giorni dalla stipula), aggiungendo che, “nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione, il giudice determina il canone dovuto, che non può eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati”, e confermando che “l'autorità giudiziaria stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti”. Nello specifico, l'ex comma 5 ora è diventato 6, ma, inalterati i primi due periodi, risulta profondamente modificato il terzo: la regola, benché esplicitamente riferita alla previsione del comma 1, è in effetti implicitamente connessa anche al dettato dell'art. 1, comma 346, l. n. 311/2004 che – come sopra rilevato – sancisce la nullità del contratto di locazione ove non sia registrato. Ad avviso della migliore dottrina (Cuffaro 2016, 600) – ferma la regola (enunciata nell'invariato art. 13, comma 1) sull'invalidità del patto con il quale sia stato concordato un canone diverso da quello risultante dal contratto registrato e fermo il diritto del conduttore non solo di far valere l'invalidità del patto nel corso del contratto, ma anche di dedurre la nullità successivamente alla cessazione del rapporto contrattuale, nel termine decadenziale fissato nel comma 2 – attualmente, sulla falsariga della disposizione del comma 8 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011 (dichiarata costituzionalmente illegittima) – viene riproposta una disciplina circa gli effetti della mancata registrazione del contratto di locazione, che consente al conduttore di ottenere una pronuncia con la quale il giudice: a) “accerta l'esistenza del contratto di locazione”; b) “determina il canone dovuto”, stabilendolo non già nella misura pattuita tra le parti nel contratto non registrato – e quindi nullo, non certo “inesistente”, per violazione della norma di cui alla l. n. 311/2004 – bensì in quella risultante dall'applicazione dei criteri, ma calcolati al “valore minimo”, relativi ai contratti agevolati di cui all'art. 2, comma 3, (ed all'art. 5, comma 2, per le locazioni a studenti universitari) della l. n. 431/1998; e c) “stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti”. La regola ora ricavabile dal combinato disposto del comma 1, secondo periodo (obbligo del locatore di provvedere alla registrazione del contratto) e del comma 6 (sanzione per il mancato adempimento dell'obbligo) dell'art. 13 non ha riferimento all'ipotesi, di cui al primo periodo del comma 1 della disposizione, del patto con il quale le parti convengano un canone diverso da quello risultante dal contratto registrato, bensì alla diversa ipotesi, riconducibile al dettato dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, di mancata registrazione del contratto (in argomento, Cass. III, n. 19808/2024, ha precisato che, a la nullità del contratto di locazione per violazione dell'obbligo di registrazione, ai sensi dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311 / 2004, consegue il diritto del proprietario del bene alla corresponsione dell'indennità di occupazione, la cui quantificazione soggiace alla predeterminazione legale di cui all'art. 1, comma 59, della l. n. 208 / 2015 nel solo caso in cui, ricorrendone gli altri presupposti, il rapporto sia sorto dopo l ' entrata in vigore della norma ). In altri termini, la regola che, nella legge del 1998, era stata concepita per fornire una risposta coerente alla regolamentazione di un rapporto di locazione basato su un titolo invalido perché carente del requisito della forma ad substantiam, viene ora riscritta e proiettata, “con tratto brusco e impreciso” – prosegue l'Autore – sulla diversa fattispecie del contratto scritto ma non registrato. In tal modo, il tema della rilevanza dell'obbligo di registrazione, banco di prova del rapporto tra la regola civilistica (che enuncia la nullità del patto per mancato pagamento dell'imposta) e la regola tributaria (che ammette il pagamento tardivo dell'imposta), si ripropone in termini perentori, dovendo altresì confrontarsi con il dictum della legittimità (Cass. S.U., n. 18123/2015) che ha, però, ribadito il carattere extranegoziale dell'adempimento tributario “inidoneo a spiegare influenza sull'aspetto civilistico della validità/efficacia”, sino ad affermare che, “se la sanzione della nullità derivasse dalla violazione dell'obbligo di registrazione, allora é ragionevole ammettere un effetto sanante al comportamento del contraente che, sia pure tardivamente, adempia a quell'obbligo”. In termini pratici, il nuovo comma 6 dell'art. 13 della l. n. 431/1998 estende, all'ipotesi in cui il locatore non abbia provveduto alla registrazione del contratto nel termine di trenta giorni, l'azione, proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, volta a richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate, nonché l'azione volta a ricondurre la locazione a condizioni conformi a quanto previsto dagli artt. 2 o 5, commi 2 e 3; questa nuova ipotesi della locazione non registrata dal locatore prende, così, il posto della vecchia “locazione di fatto”, e parimenti il giudice, “accertata l'esistenza del contratto di locazione”, determinerà anche il canone dovuto, entro i limiti di quanto stabilito negli appositi contratti-tipo dalle Organizzazioni di categoria, nonché le somme eventualmente eccedenti da restituirsi. Pertanto, è data facoltà al solo conduttore di domandare giudizialmente la riconduzione della locazione non registrata ad uno degli statuti locativi abitativi: se l'obbligo di registrazione delle locazioni per uso di abitazione viene posto a carico esclusivo del locatore, così abbinandosi l'obiettivo di imposizione fiscale con l'esigenza di sopperire allo squilibrio economico esistente tra i contraenti al momento della conclusione del contratto e di tutelare, perciò, la parte debole del rapporto, è pure inevitabile (secondo il parere di Scarpa 2016, 67) che debba permettersi soltanto al conduttore di poter agire giudizialmente per assicurare vitalità ad un rapporto locativo inizialmente non registrato, per sua convenienza, dal locatore. Va considerato, al riguardo, che la nullità della locazione non registrata dovrebbe preludere, di regola, alla condanna, su reciproca domanda delle parti, a restituire le rispettive attribuzioni contrattuali, sicché il locatore sarebbe chiamato a restituire i canoni percepiti, mentre il conduttore andrebbe a pagare, a titolo di ingiustificato arricchimento, il valore obiettivo del godimento fruito. Nel sistema delineatosi con il nuovo comma 6 dell'art. 13 della l. n. 431/1998, al conduttore che abbia subìto la scelta del locatore di non registrare il contratto, è così data, però, una diversa soluzione di tutela, costituita da una sorta di conversione giudiziale della locazione non registrata, rimettendo al giudice di sostituire l'esistente contratto con le condizioni di stipula prospettate negli artt. 2 o 5, nonché di determinare l'entità economica del canone, e alla domanda di conformazione del rapporto potrà aggiungersi specifica domanda per la restituzione dei corrispettivi, eventualmente eccedenti, già pagati. È evidente (ad avviso di Scarpa 2016, 68) la finalità sanzionatoria, in danno del locatore, della costituzione da parte del giudice di un contratto in pratica modulato sul tipo assistito, consentendosi il mantenimento del contratto non registrato fino alla scadenza del rapporto originariamente previsto, ma con un canone ribassato; la conformazione per sentenza della locazione non registrata dà luogo a un'ulteriore ipotesi di conferimento al giudice di un potere di tipo “determinativo-integrativo” del contenuto negoziale, finalizzato all'obiettivo del contratto giusto. Secondo alcuni, non è, invece, chiaro il contenuto di tale potere ricostruttivo del giudice quando vi sia accertamento dell'esistenza del contratto di locazione, atteso che tale accertamento non potrà avvenire quando il contratto sia affetto da nullità, e sarà possibile solo quando la nullità sia parziale a causa dell'indicazione di canone inferiore a quello effettivamente pattuito (per iscritto) con sua parziale registrazione; in tal caso, il giudice determinerà il canone dovuto, che non potrà eccedere quello del valore minimo della fascia concordata in sede locale dalle Organizzazioni di categoria ai sensi dell'art. 2 o dell'art. 5, commi 2 e 3 (Scripelliti 2017, 527, il quale saluta, comunque, con favore la sparizione della norma che ammetteva, ma nell'interesse del conduttore, la sanatoria dei contratti non redatti in forma scritta, quando ciò fosse stato imputabile a pretesa del locatore nel corso delle trattative per la stipulazione del contratto, trattandosi di “norma singolare e di difficile applicazione” poiché diretta attribuire rilievo ad una sorta di abuso del supposto maggior potere contrattuale del locatore, così venendo a configurare la responsabilità precontrattuale di questo, pur in presenza di accettazione della proposta di locazione da parte del conduttore, la cui volontà sarebbe stata viziata da una pressione indebita). 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