Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 31 - Sanzioni.

Mauro Di Marzio

Sanzioni.

Il locatore che abbia ottenuto la disponibilità dell'immobile per uno dei motivi previsti dall'art. 29 e che, nel termine di sei mesi dall'avvenuta consegna, non abbia adibito l'immobile ad abitazione propria, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, o non abbia adibito l'immobile ad esercizio in proprio di una delle attività indicate all'art. 27, ovvero non abbia rispettato i termini della concessione o quelli del piano comunale di intervento per quanto attiene l'inizio dei lavori di demolizione, ricostruzione, ristrutturazione o restauro dell'immobile ovvero, in caso di immobili adibiti ad esercizio di albergo, pensione o locanda, non abbia completato i lavori di ricostruzione nel termine stabilito dal Ministero del turismo e dello spettacolo, è tenuto, se il conduttore lo richiede, al ripristino del contratto, salvi i diritti acquistati da terzi in buona fede, e al rimborso delle spese di trasloco e degli altri oneri sopportati, ovvero al risarcimento del danno nei confronti del conduttore in misura non superiore a quarantotto mensilità del canone di locazione percepito prima della risoluzione del contratto, oltre alle indennità previste ai sensi dell'art. 34.

Il giudice, oltre a determinare il ripristino o il risarcimento del danno, ordina al locatore il pagamento di una somma da L. 500.000 a L. 2.000.000 da devolvere al comune nel cui territorio è sito l'immobile, ad integrazione del fondo sociale previsto dal titolo III della presente legge.

Inquadramento

La disciplina del diniego di rinnovazione alla prima scadenza è completata dalla disposizione sulle conseguenze giuridiche della mancata attuazione dell'intenzione posta a fondamento dell'intimata disdetta. Stabilisce difatti l'art. 31 l. n. 392/1978 che:

– il locatore che abbia ottenuto la disponibilità dell'immobile per uno dei motivi previsti dall'art. 29 e che, nel termine di sei mesi dall'avvenuta consegna, non abbia adibito l'immobile all'uso dichiarato, è tenuto, se il conduttore lo richiede, al ripristino del contratto, salvi i diritti acquistati da terzi in buona fede, e al rimborso delle spese di trasloco e degli altri oneri sopportati, ovvero al risarcimento del danno nei confronti del conduttore in misura non superiore a quarantotto mensilità del canone di locazione percepito prima della risoluzione del contratto, oltre alle indennità previste ai sensi dell'art. 34;

– il giudice, oltre a determinare il ripristino o il risarcimento del danno, ordina al locatore il pagamento di una somma da € 258 a € 1.032 da devolvere al comune nel cui territorio è sito l'immobile, ad integrazione del fondo sociale previsto dal capo III della l. n. 392/1978.

Natura della responsabilità

Nella vigenza del regime vincolistico, i rimedi del ripristino del contratto e del risarcimento del danno (previsti, come oggi, per l'ipotesi di mancata destinazione dell'immobile all'uso per il quale il locatore aveva agito) erano configurati da una parte della giurisprudenza come sanzioni per la responsabilità da fatto illecito (Cass. III, III, n. 1355/1962; Cass. III, n. 2076/1963) e, per un secondo indirizzo, come strumenti di tutela contro l'inadempimento contrattuale (Cass. III, n. 2980/1963).

Con riferimento all'art. 60 l. n. 392/1978, la giurisprudenza di legittimità si è espressamente pronunciata per la natura extracontrattuale della responsabilità in questione (Cass. III, n. 26841991): è tuttavia da segnalare che questa conclusione contrasta con l'affermazione, reperibile in altre decisioni, secondo cui le sanzioni previste dall'art. 60 a carico del locatore per l'ipotesi in cui questo non abbia tempestivamente adibito l'immobile all'uso per il quale fu ottenuto il provvedimento di rilascio configurano un'ipotesi di responsabilità per inadempimento (Cass. III, n. 3497/1991; Cass. III, n. 2282/1993); tale ultimo orientamento risulta esteso anche alla fattispecie contemplata dall'art. 31, essendosi affermato che le sanzioni del ripristino del contratto e dell'obbligo del risarcimento del danno che le norme di cui agli artt. 31 e 60 l. n. 392/1978, pongono a carico del locatore che non abbia tempestivamente adibito l'immobile all'uso per il quale ne ha ottenuto la disponibilità, configurano una forma di responsabilità per inadempimento inquadrabile nella generale disciplina degli artt. 1176 e 1218 c.c. (Cass. III, n. 6462/2000; Cass. n. 23296/2004; Cass. n. 11014/2011).

In dottrina, si è da alcuni sottolineato come nella formulazione dell'art. 31 l. n. 392/1978 prevalga, attraverso l'esclusione dell'inefficacia del titolo (affermata, invece, dall'art. 60) e la previsione in via alternativa del ripristino del contratto o del risarcimento del danno, il carattere sanzionatorio dell'istituto (da riguardare nell'ambito della responsabilità da fatto illecito), già affermato con riferimento al periodo vincolistico (Lazzaro, Preden, 408). Si è peraltro notato che il richiamo a meccaniche sanzionatorie sarebbe giustificato con esclusivo riferimento alla previsione del comma 2 dell'articolo, posto che, per il resto, la disposizione di legge mirerebbe a reintegrare, nella doppia forma del ripristino del rapporto e del risarcimento, l'interesse del conduttore (Sforza, 353).

Altra parte della dottrina ha condiviso la tesi della responsabilità contrattuale, argomentando dalla soggezione dell'avente causa a titolo particolare alla sanzione restitutoria (Cosentino, Vitucci, 576). Nell'ambito di quest'ultimo indirizzo, si afferma che, nell'ipotesi in cui il locatore, a seguito del rilascio, manchi di attuare la destinazione prospettata nel diniego di rinnovazione, verrebbe a delinearsi un abuso del diritto, sicché l'inadempimento troverebbe ragione nella violazione del principio di buona fede contrattuale, canonizzato dall'art. 1375 c.c. (Gabrielli, Padovini, 497).

È peraltro da ritenere che l'art. 31 l. n. 392/1978 presupponga un'obbligazione nuova e autonoma, avente ad oggetto la realizzazione della destinazione enunciata nella disdetta, il cui inadempimento espone, di per sé, il locatore alle conseguenze del ripristino del rapporto e del risarcimento del danno.

Può ricordarsi che, con riferimento all'analoga previsione contenuta nell'art. 60 l. n. 392/1978, la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare che mediante l'azione configurata da detta disposizione si realizzi la specifica e idonea tutela di un diritto del conduttore per l'appunto nuovo e autonomo rispetto al precedente rapporto: sicché, secondo lo stesso giudice delle leggi, la situazione soggettiva del locatario nei cui confronti è stato emesso il provvedimento di rilascio e la posizione fatta valere a seguito della riconsegna dell'immobile sul presupposto del mancato utilizzo del bene risultano sostanzialmente differenti (Corte cost., n. 580/1987).

Il nesso di consequenzialità tra titolo e rilascio

L'art. 8 l. n. 253/1950 correlava i rimedi del ripristino del contratto e del risarcimento del danno alla perdita di efficacia del provvedimento di rilascio, siccome indotta dalla mancata destinazione dell'immobile all'uso per il quale il locatore aveva agito.

Coerentemente a questo dato, la giurisprudenza riteneva che la norma in discorso non trovasse applicazione nel caso in cui il titolo della riconsegna fosse costituto da una transazione (Cass. III, n. 217/1962; Cass. III, n. 297/1963; Cass. III, n. 2169/1963; Cass. III, n. 2661/1964; Cass. III, n. 930/1968; Cass. III, n. 3610/1969). Era però correttamente precisato che a tale ipotesi non potesse essere parificata quella in cui, in esecuzione di una sentenza definitiva, il rilascio avveniva spontaneamente, senza un verbale di esecuzione redatto dall'ufficiale giudiziario e in mancanza dell'intervento della forza pubblica (Cass. III, n. 217/1962).

Sotto il profilo in questione la disposizione di cui all'art. 31 si presenta ben diversa da quella di cui all'art. 8, visto che il suo presupposto applicativo è dato dalla mera riconsegna del bene al locatore, a nulla rilevando che un tale atto sia conseguenza di un provvedimento del giudice.

Ovviamente dovrà trattarsi di consegna, potremmo dire, «titolata», cioè motivata da una delle cause previste dall'art. 29, che trovano (devono trovare, a pena di nullità) formale espressione nella lettera raccomandata prevista nel comma 3 del medesimo: il conduttore che abbia ricevuto questa rituale intimazione di rilascio e che senz'altro vi abbia ottemperato, non potendosi dire che sia spontaneamente receduto, godrà della protezione accordatagli dalla norma (Sforza, 354). La tesi della superfluità del titolo giudiziale trova assolutamente concorde la dottrina (Trifone, 604; Cosentino, Vitucci, 576; Bucci, Malpica, Redivo, 407, Catelani, 524).

Nello stesso senso è la giurisprudenza, la quale afferma che, in tema di locazione di immobili adibiti ad uso non abitativo, la disciplina prevista dall'art. 31 della l. 392/78 (ripristino del contratto, ovvero risarcimento del danno) per la ipotesi in cui il locatore nel termine di sei mesi dall'avvenuta consegna non abbia adibito l'immobile alla destinazione posta a base del recesso, presuppone il fatto della disponibilità dell'immobile comunque conseguita (per uno dei motivi previsti dal precedente art. 29) anche attraverso il rilascio spontaneo del conduttore (Cass. III, n. 6600/1994; Cass. III, n. 2205/1989; Cass. III, n. 4967/1997).

Con riferimento all'ipotesi della transazione occorrono però precisazioni. Vero è, infatti, che l'art. 31, a differenza dell'art. 8 l. n. 253/1950, il quale faceva riferimento al «provvedimento che dispone il rilascio» e, quindi, presupponeva l'esistenza di un provvedimento del giudice (v. Cass. III, n. 297/1962; Cass. III, n. 217/1962), ancora il diritto al risarcimento al solo fatto dell'inadempimento del locatore «che abbia ottenuto la disponibilità dell'immobile», cosicché deve ritenersi, in via generale, che il conduttore abbia diritto al ripristino del contratto ed al risarcimento del danno anche in ipotesi di rilascio spontaneo (Cass. III, n. 2205/89) ovvero di rilascio a seguito di transazione. Tuttavia, ciò non toglie che le parti possano disporre diversamente, nel senso che, con riferimento alle reciproche concessioni contenute nell'atto transattivo, possano stabilire che il locatore non sia tenuto a dare all'immobile la destinazione per la quale aveva agito in giudizio (Cass. III, n. 3624/1992).

Può dirsi che le sanzioni previste dall'art. 31 l. n. 392/1978 a carico del locatore che, avendo ottenuto la disponibilità dell'immobile per uno dei motivi previsti dall'art. 29, entro il termine di sei mesi dall'avvenuta consegna non lo abbia adibito all'uso per il quale il rilascio era stato richiesto, non sono applicabili se il rilascio sia avvenuto in esecuzione di un atto transattivo con cui le parti abbiano regolato in modo autonomo i propri interessi, indipendentemente dalle rispettive ragioni di diritto originariamente fatte valere (Cass. III, n. 5151/1995; Cass. III, n. 2307/1995; Cass. III, n. 11839/1992). In queste ipotesi, infatti, il rapporto tra le parti è regolato esclusivamente dal nuovo titolo di rilascio, costituito dalla transazione (Cass. III, n. 3071/1995), come nel caso in cui era stato riscontrato che il conduttore, in occasione della conciliazione, aveva rinunziato all'indennità di avviamento consentendo il locatore la permanenza, ancora per quindici mesi, nell'immobile locato (Cass. III, n. 11839/1992); ovvero nel caso in cui, nell'interpretazione della vicenda da parte del giudice del merito, era stato presupposto che il conduttore, nel concordare la data di rilascio a seguito della domanda proposta dalla parte locatrice, avesse lasciato libera quest'ultima di disporre dell'immobile sciogliendola dal vincolo di destinarlo all'uso per il quale aveva agito (Cass. III, n. 5151/1995).

Adibizione ad uso normativamente previsto, ma diverso da quello dichiarato

Mentre l'art. 60 l. n. 392/1978 e l'art. 8 l. n. 253/1950 attribuivano genericamente rilievo alla mancata destinazione dell'immobile all'uso per il quale il locatore aveva agito in giudizio, ovvero al mancato inizio dei lavori in relazione ai quali era stata rilasciata la licenza o la concessione edilizia, l'art. 31 contiene un'enumerazione dei singoli comportamenti omissivi sanzionati, il che ha sollevato alcuni problemi interpretativi.

È in primo luogo sorta questione se la formulazione della norma abbia lo scopo di istituire una corrispondenza biunivoca tra i singoli motivi di diniego di rinnovo e le attività che il locatore è obbligato a porre in essere con riferimento all'immobile locato: ci si interroga, in altri termini, se è soggetto ai rimedi previsti dall'art. 31 il locatore che, intimata disdetta per una delle ragioni di cui all'art. 29, imprima poi all'immobile riconsegnatogli una destinazione diversa rispetto a quella prospettata, ma pur essa normativamente contemplata.

Secondo un'opinione, l'interpretazione della disposizione non potrebbe essere diversa rispetto a quella formatasi nel vigore dell'art. 8 citato, con conseguente operatività dell'apparato sanzionatorio anche in caso di adibizione dell'immobile ad un uso diverso da quello dichiarato, quantunque previsto dalla disposizione (Sforza, 355). Si è sottolineato che, pur non contenendo l'art. 31 l. n. 392/1978 la locuzione «non lo adibisca all'uso per il quale aveva agito», presente nell'art. 60 della stessa legge, occorrerebbe comunque considerare che il sistema, in cui l'art. 31 si pone, vuole che il conduttore riceva comunicazione di diniego specificamente giustificata, a pena di nullità, da uno o più motivi tra quelli tassativamente indicati dall'art. 29 e che la specificità del motivo viene richiesta a garanzia della possibilità dello stesso di contrastare propositi non fondati o di valutare preventivamente intenzioni credibili e realizzabili: deve senz'altro escludersi allora che il locatore possa invocare l'esonero di responsabilità nel caso di destinazione diversa da quella proposta, giacché, in caso contrario, sarebbe frustrata ogni forma di tutela preventiva del conduttore contro il diniego illegittimo o pretestuoso e si finirebbe per attribuire efficacia di sanatoria ad un comportamento successivo, non ipotizzato al momento della richiesta di diniego e, perciò, diverso dall'adempimento specifico, cui il locatore è tenuto. In realtà, dovendosi riaffermare anche nella disciplina dell'equo canone la natura contrattuale dell'obbligo di destinazione dopo la consegna dell'immobile, il motivo di diniego, ad un tempo, qualifica il potere di impedire la rinnovazione del contratto e determina l'esatto contenuto dell'obbligo del locatore, con esclusione di altro adempimento alternativo (Trifone, 605).

La giurisprudenza afferma allo stesso modo che la specificazione del motivo di diniego è imposto (anche) dall'esigenza di consentire una verifica del successivo controllo dell'effettiva destinazione dell'immobile: in detta prospettiva è affermato espressamente che le sanzioni di cui all'art. 31 debbano trovare applicazione pure quando il locale sia adibito ad uso riconducibile a taluna delle ipotesi previste dall'art. 29, ma diverso da quello indicato nel preavviso (Cass. III, n. 5637/1997).

Destinazione parziale e destinazione temporanea

Secondo la giurisprudenza, una destinazione anche solo parziale dell'immobile all'utilizzo prospettato esclude l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 31.

Si è rammentato il principio formatosi nel regime vincolistico secondo cui l'utilizzazione del bene, sempreché realizzi la finalità dedotta a suo tempo dal locatore, può anche essere parziale (Cass. III, n. 3778/1957; Cass. III, n. 2577/1959), non escludendo siffatta circostanza che l'immobile sia stato adibito all'uso per il quale era stato richiesto (Cass. III, n. 526/1961; pronunce richiamate da Cass. III, n. 7974/1997; contra, nella giurisprudenza di merito, App. Brescia 31 luglio 1987).

È pure sorta questione in ordine all'arco temporale per il quale debba protrarsi la destinazione dell'immobile all'uso dichiarato.

Come ha osservato la dottrina, rientra certamente nella logica del sistema che la destinazione debba durare per un certo periodo di tempo, la determinazione del quale, peraltro, non può essere fatta in astratto, bensì con riferimento al caso concreto e tenendo conto del comportamento e della singolare situazione del locatore (Lazzaro, Preden, 417).

L'impiego dell'immobile non deve allora risultare fittizio o temporaneo, pur dovendosi ammettere che ai locali possa darsi una destinazione diversa in presenza di giustificati motivi o di fatti nuovi sopravvenuti (Cass. III, n. 2094/1957).

Imputabilità della condotta

È sostanzialmente fermo, nella giurisprudenza, l'orientamento secondo cui, ai fini dell'applicabilità delle sanzioni di cui all'art. 31, il comportamento omissivo debba essere imputabile al locatore a titolo di dolo o colpa (Cass. III, n. 2205/1989; Cass. III, n. 2684/1991; Cass. III, n. 4414/1993; Cass. III, n. 6462/2000; Cass. III, n. 23296/2004). L'art. 31 va cioè interpretato nel senso che la sanzione del ripristino (o la pretesa risarcitoria) non è connessa ad un criterio di responsabilità oggettiva o secondo una presunzione assoluta di colpa, per il solo fatto che la cosa locata non sia stata utilizzata entro sei mesi dall'acquisizione della sua disponibilità, ma si verifica nel caso in cui il locatore, cui compete l'onere di superare la presunzione iuris tantum di responsabilità, non dimostri l'esistenza del caso fortuito o della forza maggiore o di giuste cause, cioè di ragioni meritevoli di tutela che hanno impedito detto utilizzo (Cass. III, n. 391/1997). Il che ben si accorda con la natura contrattuale, di cui si è già detto, della responsabilità in discorso (Cass. III, n. 6462/2000; Cass. III, n. 23296/2004). Sicché anche di recente è stato ribadito che il risarcimento del danno a favore del conduttore non è connesso ad un criterio di responsabilità oggettiva, con presunzione assoluta di colpa; pertanto, si deve escludere ogni qual volta sia accertata l'esistenza di un impedimento non imputabile a dolo o colpa del locatore (Cass. VI/III, n. 3824/2017, in fattispecie in cui la morte del locatore aveva determinato l'impossibilità di realizzare il programma preannunciato con la disdetta). Ed ancora, non sussiste la responsabilità del locatore qualora la mancata adibizione dell'immobile alla destinazione indicata nella comunicazione di diniego di rinnovo del contratto sia in concreto giustificata da esigenze, ragioni e situazioni meritevoli di tutela e non riconducibili al comportamento doloso o colposo del locatore stesso, come nel caso in cui il conduttore abbia ritardato la ristrutturazione dell'immobile (Cass. III, n.1050/2016).

Vale osservare come la connotazione della responsabilità incida sul piano dell'onere probatorio circa l'esistenza, o l'esclusione, della colpa del locatore: ove, infatti, l'illecito avesse natura extracontrattuale sarebbe il conduttore a dover provare, positivamente, l'esistenza del comportamento colpevole; ove, invece, la mancata destinazione dell'immobile all'uso prospettato dia vita a una responsabilità contrattuale, graverebbe sul locatore l'onere di dimostrare, ai sensi dell'art. 1218 c.c., che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da un'impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile. L'affermazione giurisprudenziale, in termini più o meno espliciti, di un onere probatorio gravante sul locatore pare dunque coerente con la seconda delle soluzioni indicate (Cass. III, n. 2205/1989; Cass. III, n. 4414/1993; Cass. III, n. 391/1997; Cass. III, n. 6462/2000; con riferimento all'art. 60 l. n. 392/1978, Cass. III, n. 2684/1991; Cass. III, n. 2282/1993).

L'accertamento della causa di giustificazione della mancata destinazione dell'immobile all'uso per il quale è stato rilasciato può peraltro essere anche provato con presunzioni semplici, purché fondate su fatti gravi, precisi e concordanti (Cass. III, n. 2282/1993).

Mancata destinazione dell'immobile all'uso abitativo

Quanto al caso in cui il locatore non abbia adibito l'immobile ad abitazione propria, dei parenti, o dei coniugi entro il secondo grado in linea retta, occorre dire che egli deve effettivamente destinare l'immobile ad uso di residenza, non essendo sufficiente che, nel termine stabilito dalla legge, abbia provveduto a collocare all'interno dei locali dei mobili, mantenendo la res a propria disposizione (Trib. Spoleto 8 giugno 1987). Inoltre, ancorché non sia necessaria, per attuare la destinazione abitativa, l'ininterrotta presenza del locatore o del congiunto nell'alloggio, non facendo il temporaneo allontanamento venir meno l'occupazione, è tuttavia necessario che l'immobile costituisca la casa di normale abitazione dei soggetti indicati (Cass. III, n. 374/1987).

Accade sovente che, ottenuto il rilascio, pur ponendo in essere attività prodromiche alla destinazione dell'immobile all'uso di abitazione, il locatore non realizzi poi la destinazione dichiarata. Occorre in tal caso verificare l'imputabilità della condotta omissiva, valutando se il mancato utilizzo del bene sia da ricondurre a dolo o a colpa del locatore. Non è dunque sanzionabile il comportamento del locatore che avendo preso tempestivamente possesso dell'appartamento rilasciato ed essendosi attivato per sistemarlo ed arredarlo, non sia tuttavia riuscito, per ragioni economiche e di impegno lavorativo, ad occuparlo materialmente entro la scadenza del semestre contemplata dalla legge (Trib. Genova 4 marzo 1987). Allo stesso modo non sussiste responsabilità del locatore che abbia iniziato lavori di adattamento dell'appartamento prima della scadenza sopra menzionata, sempre che, terminate le opere, abbia adibito l'immobile all'uso per il quale aveva agito (Cass. III, n. 9904/1990). Sussiste invece la responsabilità del locatore che abbia realizzato interventi tali da non rendere impossibile la destinazione dell'immobile all'uso abitativo, come nel caso di opere di semplice pitturazione delle pareti e degli infissi (Trib. Trani 5 dicembre 1986). La responsabilità del locatore è stata esclusa, ancora, nel caso in cui la destinazione dell'immobile ad abitazione era stata resa impossibile dal grave peggioramento delle condizioni di salute del locatore, non in grado di salire e scendere le scale (Cass. III, n. 3497/1991), così come nel caso in cui il ritardo nella destinazione era da attribuire a infiltrazioni d'acqua all'interno dell'appartamento e al contestuale ricovero in ospedale del locatore, così impossibilitato di intervenire (Cass. III, n. 2684/1991).

Nel caso del rilascio ottenuto per consentire l'utilizzo dell'immobile ai parenti del locatore, è sorta questione se la responsabilità in discorso ricorra anche nell'ipotesi in cui il locatore abbia accordato ai congiunti la possibilità di utilizzare l'immobile, ma questi non vi si siano poi trasferiti.

Secondo un indirizzo, essendo la norma volta ad evitare che il locatore possa conseguire pretestuosamente il rilascio dell'immobile locato, essa non potrebbe applicarsi al locatore che abbia inteso costituire un titolo di godimento a vantaggio del parente: con detto comportamento, si è detto, il locatore avrebbe comunque adibito l'immobile ad abitazione dei soggetti indicati dalla norma; in quest'ottica si è altresì osservato che al conduttore uscente non interessa che l'avente diritto occupi i locali nel semestre, ma che il rilascio sia avvenuto per la soddisfazione di un'esigenza abitativa meritevole di tutela a norma dell'art. 29, lett. a) (Sforza, 357).

Si è convenientemente replicato che anche da un punto di vista lessicale, l'«adibire» l'immobile ad uso abitativo, è qualcosa in più della mera attribuzione, a terzi, della facoltà di godimento, non seguita da ulteriori condotte, attraverso cui si attui la materiale destinazione dell'immobile all'impiego indicato. Questo non significa che il locatore non possa far valere, ricorrendone i presupposti, le cause esimenti da responsabilità (si pensi al caso in cui il parente cui era riservato l'immobile venga a trovarsi nella necessità, sopravvenuta, assoluta e imprevedibile, di trasferirsi altrove; diverse conclusioni sembrano imporsi per il caso in cui l'imprevedibilità riguardi la condotta del parente, il quale autonomamente si determini a non abitare l'immobile: ciò in quanto il locatore risponde del fatto del terzo, avendo assunto l'impegno al raggiungimento del risultato attraverso il comportamento di lui) (Di Marzio, Falabella, 2187).

Ci si è inoltre interrogati se sia applicabile la sanzione nell'ipotesi in cui ad esempio, l'immobile venga adibito ad abitazione del figlio, piuttosto che della moglie del locatore. Le considerazioni precedentemente svolte circa la stretta correlazione esistente tra il precetto di cui all'art. 29, comma 4, e i rimedi contemplati dall'art. 31 hanno indotto ad una risposta certamente affermativa (Di Marzio, Falabella, 2187).

Mancata destinazione dell'immobile all'uso non abitativo

La norma non menziona né la destinazione dell'immobile all'attività di impresa o di lavoro autonomo dei parenti e del coniuge del locatore e non menziona, né la destinazione dell'immobile allo svolgimento di attività tendenti al conseguimento delle finalità istituzionali degli enti pubblici.

Come è stato detto, se la seconda esclusione può trovare una sua spiegazione nella volontà del legislatore di privilegiare gli enti pubblici, in vista della loro particolare posizione e nella inammissibilità di un sindacato da parte del giudice ordinario circa la inidoneità dell'avvenuta destinazione al perseguimento delle finalità istituzionali di natura pubblicistica, deve, invece, ovviarsi alle evidente omissione di menzione del coniuge e dei parenti entro il secondo grado nel senso di includere, in via analogica, nella previsione della norma anche la mancata attuazione del proposito del locatore di adibire l'immobile all'esercizio di attività imprenditoriali o di lavoro autonomo del coniuge e dei più stretti suoi congiunti (Trifone, 605).

Anche la giurisprudenza si orientata nello stesso senso, affermando che le sanzioni di cui all'art. 31, ancorché siano espressamente riferite all'ipotesi dell'esercizio «in proprio» da parte del locatore di una delle attività previste dall'art. 27, trovano applicazione (per la ratio dell'istituto e per il parallelismo con la corrispondente normativa dettata dall'art. 60) anche nel caso in cui il locatore non abbia destinato alla dedotta attività l'immobile del quale abbia ottenuto il rilascio per necessità dei parenti indicati nella lett. b) dell'art. 29 (Cass. III, n. 9962/1991; Cass. III, n. 723/1987).

Non può invece essere condivisa l'opinione secondo cui l'omissione avrebbe una sua precisa ragion d'essere, giacché non sarebbe stato conforme ai principi del diritto la previsione di un'obbligazione legale del locatore relativamente al mancato svolgimento dell'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale di un terzo, trattandosi sostanzialmente di un facere infungibile cui nessuno può di regola essere obbligato (Catelani, 522). Può difatti agevolmente replicarsi che attività infungibile è anche quella di adibire l'immobile ad abitazione, per la quale, però, il limite all'applicabilità del rimedio certo non opera.

Per escludere l'applicazione delle sanzioni è necessario che l'immobile venga destinato all'esercizio di attività menzionata nel diniego di rinnovo: non è invece indispensabile che siano state poste in essere le attività amministrative atte a consentire l'utilizzo prospettato. È dunque irrilevante, ai fini del ripristino del contratto o del risarcimento invocato dal conduttore ex art. 31 l. n. 392/1978, la mancata richiesta di autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso da parte del locatore, purché sia certo che questi abbia adibito l'immobile all'uso per il quale ha riottenuto la disponibilità (Cass. III, n. 4414/1993).

Per altro verso, ai fini dell'integrazione della fattispecie risarcitoria di cui all'art. 31 è come ovvio necessaria la concreta ed effettiva destinazione dell'immobile ad uso diverso da quello indicato nella disdetta, non essendo viceversa sufficiente la mera manifestazione da parte del locatore, prima della scadenza del termine ivi previsto, dell'intenzione di destinare l'immobile ad uso diverso (Cass. III, n. 3991/2003; Cass. III, n. 263/2005).

Trova nella specie applicazione la già menzionata regola secondo cui il locatore non risponde della mancata destinazione dell'immobile all'uso dichiarato, ove egli sia esente da dolo o colpa (Cass. III, n. 6462/2000).

Occorre ancora interrogarsi se la norma in esame debba trovare applicazione nell'ipotesi in cui abbia luogo una mutatio oggettiva, ma interna alla previsione della lett. b) dell'art. 29, dell'attività che avrebbe dovuto essere svolta. La risposta deve ancora una volta considerare la stretta correlazione che la legge che istituisce tra il motivo indicato nella disdetta e la destinazione data all'immobile dopo il rilascio: è quindi da escludere, ad esempio, che il locatore, dopo aver intimato disdetta, manifestando la propria intenzione di destinare l'immobile a proprio studio professionale, possa, senza incorrere nella responsabilità di cui al citato articolo, avviare, all'interno dello stesso immobile, un'attività commerciale (Di Marzio, Falabella, 2189).

Merita, tuttavia, sottolineare come la giurisprudenza abbia escluso l'applicazione della norma in casi in cui sussista una divaricazione solo marginale tra l'uso dichiarato e quello realizzato. In tal senso, in un caso in cui il locatore aveva dichiarato di voler destinare l'immobile ad esposizione e vendita, che lo aveva invece poi concretamente destinato a magazzino, la Suprema Corte ha stabilito che la coincidenza tra il motivo enunciato nella disdetta e l'impiego in concreto attuato deve intendersi sotto un profilo prettamente sostanziale, nel senso, cioè, che deve ritenersi accertata non già in base ad un formale confronto fra l'intenzione manifestata e la sua concreta realizzazione, bensì alla stregua di un giudizio volto a verificare se la destinazione concretamente data al bene sia in grado di realizzare quella intenzione costituente l'indefettibile elemento di riferimento (Cass. III, n. 2674/1999). Nella stessa prospettiva si è osservato che l'art. 31, comma 1, l. n. 392/1978 non individua come condotta sanzionata l'aver variato, nell'ambito del motivo indicato, le modalità di svolgimento dell'attività indicata. È stata perciò esclusa la responsabilità a fronte del comportamento del locatore che, dopo avere denegato il rinnovo alla prima scadenza, deducendo di voler adibire i locali a deposito e vendita all'ingrosso di articoli di abbigliamento, abbia poi destinato gli stessi a vendita al minuto (Cass. III, n. 1191/1997). Ancora, la domanda risarcitoria del locatore è stata respinta in un caso in cui era stata intrapresa, nei locali riconsegnati, un'attività di vendita di prodotti ortofrutticoli, in luogo di quella di supermercato, enunciata nel diniego motivato di rinnovo (Cass. III, n. 6462/2000).

Mancata osservanza dei termini assegnati per gli interventi edilizi

L'art. 31 menziona ancora l'inosservanza dei termini della concessione o del piano comunale di intervento per l'inizio dei lavori di demolizione, ricostruzione, ristrutturazione e restauro, ovvero, in caso di immobili adibiti all'esercizio di albergo, pensione o locanda, il mancato rispetto del termine stabilito dal Ministero del turismo e dello spettacolo per il completamento dei lavori di ricostruzione.

Come è stato osservato in dottrina, il possesso della concessione non pregiudica la valida intimazione di disdetta, costituendo mera condizione per l'esperimento dell'azione di rilascio. Perciò, se il conduttore resiste all'azione di sfratto, potrà far sì che il locatore, per riuscire vittorioso nell'azione giudiziaria, si procuri la concessione, e conseguentemente otterrà che decorra quel termine di efficacia della medesima, scaduto il quale sarà possibile l'irrogazione delle sanzioni previste nel nostro articolo. Al contrario, se il conduttore, non resistendo al motivato sfratto, libera l'immobile ed esclude l'interesse del locatore ad adire il giudice, si pregiudica l'azionabilità delle sanzioni, giacché nessun termine è posto al locatore per la richiesta della concessione, dall'ottenimento della quale decorre l'unico termine previsto dall'art. 31 (Sforza, 360).

Occorre aggiungere che, per quanto la legge sanzioni il mancato avvio delle opere nel termine indicato nella concessione, il successivo andamento dei lavori rileva comunque ai fini della verifica della serietà del proposito posto a fondamento del diniego di rinnovo. Vero è che nell'art. 31 l. n. 392/1978 è previsto soltanto per le ristrutturazioni degli immobili adibiti ad albergo, pensione o locanda (oltre il termine di sei mesi iniziale) anche un termine di completamento dei lavori medesimi, ma ciò non consente di ritenere che per gli altri casi contemplati nello stesso art. 31 la «serietà» dell'intento del locatore debba essere valutata esclusivamente in relazione alla tempestività dell'inizio dei lavori stessi, senza alcun riferimento al comportamento che il locatore abbia tenuto successivamente al detto inizio; inizio che altrimenti può avere anche solo fini pretestuosi o simulati (Cass. III, n. 11839/1995).

Anche nel caso in discorso occorre verificare se l'eventuale mancata destinazione sia caratterizzata, sotto il profilo soggettivo, da dolo o colpa. Valgono in proposito le considerazioni precedentemente svolte, sicché si è ritenuto che, ove il locatore abbia consentito al conduttore di lasciare dei mobili nei locali di sua proprietà, e quest'ultimo non abbia provveduto a rimuoverli nonostante specifici solleciti, le sanzioni previste per il mancato inizio dei lavori edilizi non debbano trovare applicazione, venendo in discorso un caso di ritardo incolpevole del locatore, non tenuto a sistemare altrove detti arredi (Cass. III, n. 1941/1988).

Vendita e locazione dell'immobile

La vendita dell'immobile a terzi concreta anch'essa un caso di mancata attuazione della destinazione indicata nella disdetta. La Suprema Corte lo ha stabilito in riferimento alla previsione dettata dall'art. 8, comma 2, l. n. 253/1950, argomentando proprio dalla riconducibilità di una tale eventualità alla previsione dell'uso dell'immobile per fini diversi da quelli per cui il locatore aveva agito (Cass. III, n. 5696/1989). Né può dubitarsi che il medesimo argomento debba essere impiegato con riguardo all'art. 31, atteso che l'alienazione del bene è, almeno di regola, concettualmente incompatibile con la realizzazione di uno dei motivi che possono essere posti a fondamento del diniego di rinnovo.

È peraltro ben possibile che la vendita sia necessitata da cause di forza maggiore, sopravvenute al rilascio: in tale eventualità le sanzioni di cui all'art. 31 devono ritenersi inapplicabili, tenuto conto del generale principio per cui l'inadempimento deve essere imputabile al locatore, comprendendo al locatore provare, con il necessario rigore, l'assenza del dolo e della colpa (si veda Cass. III, n. 7121/1990, in un caso in cui la locatrice aveva ottenuto il rilascio dell'immobile per necessità propria a seguito di separazione dal marito e lo aveva quindi posto in vendita, ma non risultava dimostrato quale fosse la composizione dell'alloggio e l'incidenza economica della separazione consensuale – onde provare la necessità di farvi fronte con la vendita dell'immobile – quando fosse insorta la separazione stessa, quando fosse venuto meno il contributo economico del marito, quale fosse il reddito da lavoro della predetta locatrice e l'apporto economico del coniuge). È stata al contrario esclusa la responsabilità del locatore in una fattispecie in cui lo stesso non era proprietario del bene e il proprietario aveva provveduto a vendere a terzi l'appartamento, in contrasto con le finalità per le quali era stato disposto il rilascio: si è infatti osservato che in un caso siffatto al locatore non poteva imputarsi il fatto del terzo (Trib. Napoli 15 marzo 1994). Analoghe considerazioni possono svolgersi in riferimento alla locazione dell'immobile a terzi, essendo in tal caso il locatore è tenuto al risarcimento (Trib. Milano 27 settembre 1990).

L'obbligazione risarcitoria non scatta, invece, in caso di conclusione di un nuovo contratto di locazione con il conduttore. Perché il conduttore possa esercitare le azioni per il ripristino del contratto o per il risarcimento del danno previste dall'art. 31 non è sufficiente che il locatore abbia avuto la disponibilità giuridica dell'immobile, ma è necessario che ne abbia avuto la disponibilità materiale per effetto dell'avvenuta riconsegna e che da questa sia decorso il termine di sei mesi entro il quale il locatore avrebbe dovuto adibire l'immobile all'uso per il quale aveva agito. Pertanto, in ipotesi di locazione di immobile urbano adibito ad uso diverso da quello di abitazione il locatore il quale abbia ottenuto una sentenza dichiarativa della cessazione del contratto di locazione, non è passibile delle sanzioni di cui all'art. 31 qualora prima di aver ottenuto la riconsegna dell'immobile, stipuli con il conduttore, il quale sia rimasto nella detenzione dell'immobile, un nuovo contratto di locazione, che non può ritenersi affetto da nullità, rientrando la stipula nella facoltà delle parti (Cass. III, n. 12071/1997; Cass. III, n. 7395/1990).

Ripristino e risarcimento in generale

L'art. 31 contempla due distinti rimedi, consistenti nel ripristino del contratto, con il rimborso delle spese di trasloco, e nel risarcimento del danno, in misura non superiore a quarantotto mensilità del canone di locazione.

La scelta dello strumento riparatorio spetta al conduttore, il quale può proporre anche una domanda alternativa, ma deve in ogni caso individuare il rimedio di cui voglia avvalersi in corso di causa (Trib. Salerno 24 aprile 1984). Secondo la Suprema Corte, poi, tale scelta non è irreversibile, potendola il conduttore modificare nel corso del giudizio. E cioè, nel caso in cui il conduttore abbia originariamente chiesto, ai sensi dell'art. 31, il ripristino del contratto di locazione e successivamente proposto, nell'ambito dello stesso giudizio, domanda di risarcimento dei danni, pure prevista dalla norma citata, tale richiesta è ammissibile, costituendo la stessa una semplice emendatio libelli. Ed invero, secondo i principi generali di cui all'art. 2058 c.c., il risarcimento del danno per equivalente si atteggia come la forma, per così dire, tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento dell'obbligazione da parte del debitore, mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato (Cass. III, n. 1700/2009).

In particolare, l'obbligo in capo al locatore, che abbia ricevuto la riconsegna dell'immobile e non lo abbia adibito, entro sei mesi, all'uso in vista del quale ne aveva ottenuto la disponibilità, di risarcire il danno al conduttore ha una duplice natura, risarcitoria e sanzionatoria che si riverbera sui criteri di quantificazione: il contemperamento tra il fine sanzionatorio e quello propriamente risarcitorio può ritenersi realizzato mediante la presunzione di sussistenza del danno comunque connesso all'anticipata restituzione dell'immobile che il giudice è chiamato a liquidare equitativamente sulla base delle caratteristiche del caso concreto anche in difetto di prova della sua precisa entità da parte del conduttore e salva la possibilità per il locatore di superare la presunzione suddetta provando l'assenza di conseguenze pregiudizievoli per il conduttore (Cass. III, n.23269/2022, che ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva onerato il conduttore di provare che dopo la disdetta del locatore era stato costretto a locare un immobile più ampio, stante il lungo periodo temporale di circa tre anni per cercare un nuovo locale commerciale).

In mancanza della fissazione di un termine per la proposizione della domanda di ripristino o di risarcimento, si è ritenuto, in dottrina, che debba trovare applicazione il disposto dell'art. 2948, n. 3) c.c., che indica in cinque anni il termine di prescrizione per ogni altro corrispettivo di locazione diverso dalle pigioni e dai fitti (Trifone, 607). Sembra però più corretto ritenere che, proprio in ragione dell'assenza di una previsione specifica al riguardo, venga in discorso la prescrizione ordinaria decennale (Lazzaro, Preden, 427).

In giurisprudenza, si è stabilito che il termine prescrizionale decorre dal momento in cui, con il rilascio, il locatore abbia ottenuto la disponibilità dell'immobile, salvo che non sia stato assegnato, con il provvedimento giudiziale, un più ampio termine, nel qual caso il dies a quo andrebbe individuato nel momento in cui il termine sia trascorso senza che sia stata in concreto data all'immobile la dichiarata destinazione (Cass. III, n. 3603/1984).

Vi è poi un intrinseco limite temporale alla proponibilità dell'azione ripristinatoria o risarcitoria, limite dato dal protrarsi del godimento dell'unità immobiliare per l'intera durata del secondo sessennio (o novennio) della locazione; in tale ipotesi, difatti, risulta insussistente il presupposto su cui la tutela si fonda: e cioè che il locatario abbia subito la perdita della disponibilità dell'immobile alla prima scadenza del rapporto (Cass. III, n. 10418/1994).

Questione diversa, ma che merita analoga risposta, è se il ripristino del contratto possa aver luogo dopo la scadenza del secondo sessennio (o novennio) della locazione: è stato infatti affermato che il ripristino del contratto di locazione, previsto per il caso in cui il locatore non abbia adibito l'immobile all'uso per il quale ne aveva ottenuto la disponibilità, importa che il rapporto prosegua fino alla originaria scadenza, restando escluso che quest'ultima possa essere prorogata per un periodo uguale alla durata del mancato godimento dell'immobile da parte del conduttore (Cass. III, n. 1796/1994; Cass. III, n. 6346/1991): questo, pertanto, dopo lo spirare del termine di durata del contratto locativo, non ha più diritto al ripristino del rapporto, ma solo al risarcimento del danno (Cass. III, n. 1796/1994; Cass. III, n. 4198/1997).

La legittimazione attiva compete al conduttore. In caso di decesso di quest'ultimo il diritto si trasferisce agli eredi; si è tuttavia osservato che il potere di richiedere il ripristino competa, a seguito della morte del locatario, ai soggetti che sarebbero subentrati nel contratto a norma dell'art. 37 l. n. 392/1978: ciò, stante il sistema di successione «canalizzata» nel rapporto delineata dalla norma (Sforza, 365).

La legittimazione passiva spetta al locatore. Ciò vale anche nel caso in cui il locatore stesso non sia proprietario dell'immobile locato; non deve cioè essere convenuto in giudizio il proprietario del bene che sia rimasto estraneo al rapporto locatizio, avendo la responsabilità risarcitoria del locatore natura contrattuale (Cass. III, n. 8383/1990). Nel caso di morte del locatore, l'azione va intrapresa nei confronti degli eredi di questo; nell'ipotesi, invece, di compravendita dell'immobile, legittimato passivamente continuerà ad essere il locatore, essendo costui tenuto a rispondere dell'inadempimento denunciato: detta conclusione vale con riferimento con ogni ipotesi in cui, a seguito del rilascio, il locatore abbia provveduto a costituire diritti reali o personali di godimento sul bene in contesa (usufrutto, uso, abitazione, locazione, comodato, etc.) in favore di terzi.

Quantunque tali terzi non possono essere considerati successori del locatore, essi sono litisconsorti necessari nel giudizio introdotto dall'conduttore e avente ad oggetto il ripristino del contratto (v. Cass. III, n. 292/1966; Cass. III, n. 1994/1962). Tali titolari di diritti di godimento sul bene sono pertanto legittimati a promuovere l'opposizione ordinaria di terzo, ai sensi dell'art. 404, comma 1, c.p.c. (Cass. III, n. 19/1988): ciò al fine di ovviare al pregiudizio che tale diritto possa subire per effetto dell'esecuzione della sentenza che abbia operato il ripristino in esito a un procedimento cui sono rimasti estranei.

Si è da ultimo affermato che l'omessa indicazione alle parti di una questione di fatto oppure mista di fatto e di diritto, rilevata d'ufficio, sulla quale si fondi la decisione, priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva e, pertanto, comporta la nullità della sentenza (cd. della terza via o a sorpresa) per violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui la parte che se ne dolga prospetti, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto fare valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato (Cass. III, n. 11308/2020, che, in una controversia locatizia, in cui il conduttore aveva richiesto il risarcimento dei danni patiti perché la locatrice, ottenuto il rilascio dell'immobile per diniego del rinnovo del contratto di locazione ad uso abitativo, non lo aveva destinato allo scopo comunicato, ha cassato con rinvio la decisione di appello che, non attenendosi al principio massimato, aveva rilevato d'ufficio, senza consentire alle parti di dedurre sul punto, la questione di diritto concernente la circostanza che la disdetta era relativa alla seconda scadenza, con conseguente inapplicabilità dell'art. 3, comma 5, l. n. 431/1998, disposizione invocata dal menzionato conduttore).

Il ripristino del contratto

Il conduttore può chiedere di essere reintegrato nel godimento dell'immobile alle stesse condizioni stabilite nell'originario contratto che, alla prima scadenza, si sarebbe rinnovato per un altro sessennio o novennio. L'intervento del giudice determini in tal modo la reviviscenza del contratto cessato: a seguito del ripristino, il conduttore e il locatore riacquistano i diritti e gli obblighi fondati sul contratto, che continua a disciplinare il rapporto fino alla successiva, naturale scadenza.

Il ripristino, secondo la norma, non può pregiudicare i diritti acquistati da terzi in buona fede: sicché, a fronte del conflitto dei titoli tra il conduttore e il terzo, la tutela giuridica accordata dal legislatore al locatario può non operare.

Vale osservare che la disposizione prevede un meccanismo diverso da quello disciplinato in via generale dall'art. 1380 c.c., secondo cui nel conflitto tra più titolari deve prevalere chi per primo ha conseguito il godimento dell'immobile. Detta regola è cioè sostituita da una regola diversa, la quale attribuisce rilievo allo stato di buona o malafede del terzo. Quest'ultimo è dunque preferito al conduttore vittorioso nell'azione di ripristino in tutti i casi in cui versi in buona fede, a prescindere dal fatto che si sia o meno preventivamente immesso nella detenzione dei locali. Inoltre, il terzo acquirente dell'immobile, se in buona fede, prevale sul conduttore, in difformità dal principio di cui all'art. 1599 c.c., riassunto nel latinetto emptio non tollit locatum.

Al fine di attenuare le conseguenze del fenomeno si è sostenuto, in dottrina, che nel caso di vendita dell'immobile locato l'art. 31 debba trovare una limitata applicazione: la disposizione sarebbe cioè operante nella sola ipotesi in cui il terzo acquirente occupi materialmente il bene. Si è osservato, infatti, che la disposizione mirerebbe a tutelare più che il diritto, il fatto, ossia il godimento attuale del bene da parte del terzo in buona fede. Nell'ipotesi, quindi, in cui l'acquirente non abbia occupato il bene, il conflitto tra detto soggetto e il conduttore resterebbe disciplinato dall'art. 1599 c.c. (Cosentino, Vitucci, 578).

La buona fede, che si presume secondo la regola generale di cui all'art. 1147 c.c., è da escludersi ogni qual volta il terzo sia a conoscenza del rapporto locatizio, della sua cessazione per uno dei motivi di diniego di rinnovo previsti dall'art. 29 e del correlativo obbligo, in capo al locatore, di destinare l'immobile ad uno degli usi contemplati dall'art. 31: normalmente il terzo si troverà in una situazione di buona fede, tenuto conto che la controversia relativa al rilascio non è soggetta a trascrizione e non è quindi conoscibile da terzi estranei (Catelani, 522).

Ai fini della verifica della sussistenza della buona fede, bisogna guardare alla situazione in atto al momento in cui al terzo è stato trasferito l'immobile e non a quello in cui detto soggetto abbia in ipotesi stipulato il contratto preliminare di acquisto (Cass. III, n. 11941/2006).

Quanto alla durata del contratto ripristinato, il nuovo sessennio o novennio riprenderebbe a decorrere, secondo alcuni, da quando ha avuto luogo il ripristino (Trifone, 607).

La Suprema Corte sottolinea viceversa come nessuna norma preveda la protrazione del contratto per un tempo pari a quello del mancato utilizzo (Cass. III, n. 6346/1991).

Al ripristino del contratto si collega l'obbligazione di rimborso delle spese di trasloco e degli ulteriori costi sopportati dal conduttore in ragione del rilascio dell'unità immobiliare. Le spese di trasloco comprendono quelle affrontate al momento del rilascio dell'immobile locato e quelle sopportate per effetto del ripristino del contratto (Trib. Matera 4 giugno 1985).

Il risarcimento dei danni

In alternativa al ripristino il conduttore può ottenere il risarcimento dei danni, in misura non superiore a quarantotto mensilità del canone di locazione corrisposto.

Nell'imporre al locatore che entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile non lo adibisca all'uso in vista del quale ne ha ottenuta la disponibilità l'obbligo di risarcire il danno al conduttore, l'art. 31 mira ad elidere le conseguenze pregiudizievoli che rappresentino effetti immediati e diretti dell'anticipato rilascio e perciò del comportamento del locatore. Non costituiscono pertanto danno risarcibile ai sensi del menzionato art. 31 né le spese occorse per la ristrutturazione del nuovo immobile preso in locazione dal conduttore né la differenza del canone dovuto, quando essa trovi giustificazione nelle diverse caratteristiche dei due immobili (Cass. III, n. 4967/1997).

Va comunque risarcito solo il danno in concreto provato. Come espressamente indica anche la lettera dell'art. 31 il meccanismo risarcitorio non deroga al principio fondamentale in forza del quale deve essere risarcito soltanto il danno effettivamente arrecato e provato dal danneggiato-attore. Il riferimento alle 48 mensilità indica il limite – legalmente stabilito – entro il quale il risarcimento deve essere contenuto – limite che evidentemente opera quando il conduttore pretende un risarcimento maggiore e che pertanto non indica l'ammontare di una sanzione inflitta quasi a titolo di pena privata (Cass. III, n. 15037/2000). In seguito è stato tuttavia affermato che il contemperamento tra il fine sanzionatorio della disposizione e quello propriamente risarcitorio può ritenersi realizzato mediante la presunzione di sussistenza del danno, comunque connesso alla anticipata restituzione dell'immobile: danno che il giudice è chiamato a liquidare equitativamente sulla base delle caratteristiche del caso concreto, in difetto di prova della sua precisa entità da parte del conduttore e salva la possibilità per il locatore di superare la presunzione suddetta provando l'assenza di conseguenze pregiudizievoli (Cass. III, n. 20926/2004; Cass. III, n. 1700/2009).

L'indennità di avviamento

L'ultimo inciso dell'art. 31, comma 1, fa salvo il diritto del locatario alla corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale.

Un punto dubbio è se la predetta indennità sia dovuta anche nell'ipotesi di ripristino del rapporto o se, piuttosto, essa competa nel solo caso in cui trovi espressione la tutela risarcitoria. Secondo un primo indirizzo, la precisazione, superflua se il conduttore abbia optato per il risarcimento del danno, è servita a risolvere la inevitabile questione che si sarebbe posta sul se l'avvenuta ricostituzione del rapporto tale diritto non avesse voluto far venir meno per la presunzione semplice di recupero del perduto avviamento (Trifone, 606). In una diversa prospettiva è stato ritenuto essere verosimilmente fondata l'impressione che il legislatore abbia collegato il pagamento dell'indennità al risarcimento del danno, non anche al ripristino del rapporto (Sforza, 369).

La prima soluzione sembra, però, da preferirsi: non solo perché, come sopra rilevato, nell'esclusivo riferimento al rimedio risarcitorio la disposizione non avrebbe avuto alcun senso, ma anche perché l'affermata incompatibilità tra ripristino del rapporto e perdita di avviamento potrebbe rilevarsi in concreto insussistente, perlomeno nei termini assoluti in cui è assunta. Nella normalità dei casi, infatti, il conduttore sarà reintegrato nel rapporto contrattuale a seguito di un giudizio, la cui definizione potrebbe richiedere anni; ora, costituisce un dato dell'esperienza il fatto che il mancato esercizio, per un lungo arco di tempo, dell'attività all'interno dei locali in cui la stessa veniva precedentemente svolta determini come conseguenza, e per regola, una certa, non trascurabile, dispersione dell'avviamento (Di Marzio, Falabella, 2203).

La sanzione pecuniaria

L'art. 31, comma 2, l. n. 392/1978 prevede che il giudice, oltre a determinare il ripristino o il risarcimento del danno, debba ordinare al locatore il pagamento di una somma da € 258 a € 1032 da devolvere al Comune nel cui territorio è sito l'immobile: detta somma va ad integrare il fondo di cui agli artt. 75 ss. l. n. 392/1978.

Secondo l'opinione prevalente, la somma pecuniaria da devolvere al Comune costituirebbe l'oggetto di una vera e propria sanzione amministrativa. Una diversa soluzione ricostruttiva risulta espressa in una decisione risalente (Trib. Verona 6 dicembre 1982). Secondo la Suprema Corte, il pagamento della somma, che il giudice deve porre a carico del locatore e a favore del Comune, costituisce una sanzione ulteriore del tutto subordinata all'accoglimento della domanda del conduttore, sicché l'interesse del comune, ove è situato l'immobile, a percepire la detta somma non assurge a dignità di diritto. Invero, il legislatore non privilegia la posizione soggettiva del Comune alla riscossione della somma di cui si discute, bensì il carattere sanzionatorio del provvedimento da pronunziarsi a carico del locatore (Cass. III, n. 13569/1991).

Perciò, il Comune è legittimato a spiegare, in detto giudizio, solo un intervento adesivo dipendente, avendo un mero interesse alla riscossione della somma da devolvere al fondo sociale (Cass. III, n. 7979/1991; Cass. III, n. 6600/1994).

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