Ci si sofferma sul ruolo del soggetto fallito nell'attuale legge fallimentare, anche alla luce della giurisprudenza, e nel nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.
L'accertamento dello stato passivo nell'attuale legge fallimentare
Se verifichiamo attentamente la stesura semantica dell'art. 95 dell'attuale L. fall. anche con le modifiche nel frattempo intervenute, ci accorgiamo che il fallito, nell'ambito della dinamica processuale dell'accertamento dello stato passivo, ha un ruolo effettivamente marginale.
L'impostazione inquisitoriale della legge fallimentare fa dunque tralucere come il fallito vada relegato e messo da parte, perché, oltre a subire o spossessamento e la perdita della capacità processuale, in nulla può interferire per l'accertamento dei suoi debiti.
Eppure si sa che
per delibare le domande di insinuazione,
la trama dei contratti,
la storia dei rapporti intercorsi con il ceto creditorio
la sua funzione potrebbe essere molto incisiva.
La conseguenza inevitabile, ferrea, sillogistica di questo sistema (forse poco costituzionale) non improntato alla tutela del favor debitoris, all'equo contemperamento degli interessi in giuoco, a soppesare anche le marginali esigente del fallito, è quella di ottenere uno stato passivo quasi mai aderente alla realtà effettiva dei fatti accaduti e molto spesso punitivo della parte più debole della relazione contrattuale: il fallito appunto, che avrebbe potuto e dovuto essere sentito per dare la sua versione dei fatti, dalla quale si sarebbe potuto desumere che quella pretesa, che appare granitica ed inconcussa, tuttavia, ad un esame retrospettivo coinvolgente il rapporto fondamentale, talora si rivela fragile, poggiante su un terreno brullo, arido. Facciamo un esempio semplice: se vi è un creditore con il possesso formale e pacifico di effetti cambiari, il Giudice delegato ed il curatore al cospetto di essi devono semplicemente e supinamente decretarne l'ammissione, dal momento che il titolo cambiario è asettico nelle sue obbligazioni cartolari, prescinde dal rapporto fondamentale, la cui emersione è ammessa solo per sostenere ragioni portate da prove suffraganti e dimostrative di natura contraria, sollevabili solo dal debitore cambiario. Nell'esempio dato immaginiamo che il fallito sia stato costretto a dover comprare quella fornitura da un usuraio che ha propinato della merce viziata e gli abbia rilasciato cambiali non onorate. È ovvio che il creditore usuraio farà valere i suoi diritti in ragione dei detti effetti cambiari nella sede opportuna dell'accertamento dello stato passivo e non può trovare ostacolo alcuno la sua insinuazione. In sede di opposizione allo stato passivo, in mancanza di una sottesa legittimazione, il fallito non potrà mai far leva su doglianze inerenti il rapporto causale ed esplicitare le sue lamentele. Il risultato sarà che il creditore usuraio, proprio perché il fallito “non conta nulla”, è privo di poteri e facoltà processuali formali, vedrà accolta un'insinuazione che agli effetti di un'evidenza palmare è una sconfitta per la giustizia sostanziale.
Il curatore non sentirà - non può sentire le ragioni ed il grido di dolore del fallito - ed il creditore ha la strada spianata per ottenere un risultato iniquo ed ingiusto.
L'impianto della legge è chiaro: il curatore forma l'elenco, avvisa i creditori che possono far pervenire le loro domande: in tutto questo scenario il fallito non viene neppure menzionato dal legislatore.
Solo nel penultimo comma è scritto: “il fallito può essere sentito”.
Perciò non vi è nemmeno un obbligo del Giudice delegato e del curatore di chiedere al fallito lumi, pareri, di consultarlo preventivamente, di conoscere un suo giudizio calzante. Il verbo utilizzato dal legislatore è di chiara evidenza: il Giudice può, non deve. E lo stesso fallito se chiedesse di essere sentito, non essendo parte processuale, potrebbe non essere ascoltato dal Giudice.
La Cassazione recentemente è stata chiara: “ In tema di procedure concorsuali, non sussiste la legittimazione del fallito ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di formazione dello stato passivo non solo perché essi hanno efficacia meramente endoconcorsuale, ma anche per quanto disposto dall'art. 43 l.fall., che sancisce la legittimazione esclusiva del curatore per i rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento e, soprattutto, per l'espressa previsione di cui all'art. 98 l.fall., a tenore del quale il decreto con cui il giudice rende esecutivo lo stato passivo non è suscettibile di denunzia con rimedi diversi dalle impugnazioni tipiche ivi disciplinate, esperibili soltanto dai soggetti legittimati, tra i quali non figura il fallito (Cass. civ. Sez. I Ord., 21-01-2020, n. 1197; Cass. sez. VI, ord. n. 7407 del 25/03/2013; Cass. sez. I, Sentenza n. 19653 del 13/09/2006; Cass. Sez. I, n. 5095 del 29/03/2012).
Dunque, tra i soggetti legittimati all'impugnazione non figura il fallito.
Sotto un diverso profilo va rilevato che il fallito è privo di legittimazione sostanziale e capacità processuale funzionali a contestare le pretese creditorie, in quanto non è parte del sub-procedimento di verifica, senza che possa, in senso opposto, argomentarsi dalla disposizione di cui alla L. Fall., art. 95, che prevede unicamente che egli possa chiedere di essere sentito. Del resto, già nel vigore del precedente testo dell'art. 95, secondo il quale il fallito "doveva" essere sentito, la S. Corte aveva affermato che la norma (cfr. ord. n. 7407 del 25/03/2013 cit.) lungi dall'attribuire allo stesso veste di legittimato sostanziale o formale in seno al sub-procedimento in esame, era dettata dalla necessità di consentire la partecipazione a tale fase della procedura concorsuale di tutti i soggetti coinvolti nel fallimento, (nell'esercizio di un'attività di cooperazione a tutela dell'interesse generale, del ceto creditorio e del fallito medesimo, all'esatta individuazione della massa passiva), ma non introduceva, sul piano giuridico, un vero e proprio contraddittorio tra fallito e singolo creditore, nè attribuiva al primo un potere autonomo di azione (Cass. nn. 3719/03, 667/00).
La Corte è stata anche più penetrante nel suo divieto, non ammettendo neppure una legittimazione sostitutiva del fallito in caso di inerzia degli organi della procedura: “in tema di procedure concorsuali, l'art. 98 legge fall. - nel regime intermedio di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 ed anteriore al d.lgs. n. 169 del 2007, applicabile "ratione temporis" - nel prevedere che il decreto con cui il giudice delegato rende esecutivo lo stato passivo non è suscettibile di denunzia con rimedi diversi dalle impugnazioni tipiche ivi disciplinate, esperibili, peraltro, soltanto dai soggetti legittimati, tra i quali non figura il fallito, costituisce normativa speciale, specificamente dettata per la procedura endoprocessuale della verifica dello stato passivo. Ne consegue che non opera l'istituto della legittimazione sostitutiva del fallito in caso di inerzia degli organi fallimentari nelle cause riguardanti la massa, la cui mancata estensione non si pone in contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Cost.” (Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 25-03-2013, n. 7407).
Ciò implica che, nell'ipotesi in cui occorra impugnare il decreto esecutivo dello stato passivo, perché in esso vi sono criticità, asimmetrie, del resto possibili nel seno di un sub-procedimento veloce e spedito quale quello della verifica, anche quando vi è l'inerzia dei creditori ammessi, non si riscontra la legittimazione sostitutiva del fallito.
La questione ha avuto anche un approdo innanzi alla Corte costituzionale, ma questa ha ritenuto di non intervenire ed additivamente modificare la norma. È stato il Tribunale di Ferrara a porre la questione giudicando rilevante e, in riferimento all'art. 24 Cost., non manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 100 L.F. nella parte in cui non consente al fallito di impugnare i crediti ammessi al passivo del suo fallimento. Il fallito avrebbe dovuto ottenere dal legislatore altro trattamento, anche perché dall'accertamento dello stato passivo, eseguito in conformità delle reali situazioni di un'azienda decotta, scaturiscono conseguenze ulteriori.
Per esempio:
proposta di concordato fallimentare;
ipotesi di un'azione di responsabilità per mala gestio nei confronti del fallito che coinvolge anche la sua responsabilità personale e patrimoniale sul piano risarcitorio;
configurabilità o meno dei reati di bancarotta semplice e fraudolenta.
Si legge nella pronuncia della Consulta: “l'attribuzione al fallito della legittimazione alla impugnazione dei crediti ammessi offrirebbe facile esca alla perpetuazione della fase di cognizione ordinaria con grande nocumento dei creditori”(Corte Costituzionale, 25/07/1984,n.222).
La questione si ripropose nel 1992 ed il Collegio rimettente osservò: “quando l'accertamento del passivo non ha, come nella specie, efficacia limitata ai fini delle operazioni procedurali ma investe l'accertamento di uno dei presupposti del fallimento, quando in particolare, la pronunzia del giudice delegato ha efficacia preclusiva anche in un giudizio nel quale il fallito conserva la sua legittimazione, appare fortemente lesiva del diritto alla difesa, garantito dal citato art. 24, l'esclusione della legittimazione del fallito dalla impugnazione dei crediti ammessi al passivo dal giudice delegato”.
La Corte Costituzionale ha ritenuto laquestione di costituzionalità“inammissibile in questa sede, per i noti limiti entro i quali è consentita l'adozione di decisioni additive, come quella nella specie richiesta…”.
La conclusione è stata inappagate e frustrante: “l'intervento come nella specie richiesto alla Corte non può esercitarsi, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore” (Corte Cost. , 29/04/1992 n.205).
Sulla intricata questione è intervenuta anche parte della dottrina favorevole alle ragioni di tutela del fallito, ma con esiti poco efficaci. È stato infatti scritto: “se, come si è appena evidenziato, sono comunque incisi diritti soggettivi del debitore con effetti che si risentono anche al di fuori del fallimento, non mi sembra che, pur considerando tutte le peculiarità ed esigenze della procedura concorsuale, si possa ritenere realizzata la garanzia della difesa con la semplice possibilità del fallito di essere sentito dal giudice delegato e di partecipare all'udienza di verifica, senza alcun effettivo potere o posizione di parte. Le garanzie previste dalla costituzione possono adeguarsi o limitarsi in particolari situazioni, ma non certo essere totalmente annullate. Tutti sono consapevoli, credo, che la vera ragione che induce la giurisprudenza e la stessa Corte costituzionale a mantenersi ferme sulle proprie posizioni va plausibilmente individuata nella preoccupazione di un possibile abuso da parte del fallito del potere di impugnazione dei crediti ammessi, con rischi di «espansione» di un suo ruolo attivo di contestazione ad altri aspetti della disciplina concorsuale. Si teme insomma di innescare un meccanismo che, al di fuori di un disegno organico da perseguire con una riforma complessiva delle procedure concorsuali, possa compromettere la concentrazione, celerità ed efficace direzione ufficiosa del fallimento, aprendo la strada a manovre ostruzionistiche del debitore”(così F. Marelli, Ricorso del fallito avverso il decreto di esecutività dello stato passivo, a commento della sentenza della Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 2003, n. 3719, in Fall., 2004, 2, 151).
Ma vi è di più. È chiaro come il fallito sia poco considerato sia quando si forma lo stato passivo, potendo solo essere sentito e non avendo alcuna legittimazione processuale, sia quando si ponga un problema di impugnazione ai sensi degli artt. 98 e 99 L. fall.
Ma il suo ruolo è inesistente anche quando occorra ottenere la revocazione di un credito ammesso, qualora l'insinuazione sia frutto di falsità, dolo, errore essenziale di fatto o mancata conoscenza di documenti decisivi che non sono stati prodotti tempestivamente per causa non imputabile.
È questo un momento decisivo nel quale potrebbe ottenersi uno stato passivo aderente quanto più possibile alla realtà dei fatti, perché per esempio si è scoperto che il creditore cambiario sia stato pagato ed il fallito sia in possesso della relativa quietanza, ma tuttavia egli non può intervenire nel giudizio di revocazione ed ottenere la possibilità di dimostrare che quel creditore non andrebbe ammesso. Lo può fare solo un altro creditore ammesso, ma non il fallito. E se per esempio il fallito sia inviso al ceto creditorio o alla stessa curatela, come può trovare tutela ordinamentale, visto che non è prevista né contemplata la sua posizione legittimante nel seno della legge fallimentare?
Anche in questo caso, pure al cospetto di un rimedio straordinario quale quello della revocazione, il fallito ha un ruolo inesistente. Ha così statuito la Corte di legittimità: “L'istanza di revocazione contro crediti ammessi ha carattere d'impugnazione straordinaria, finalizzata a conseguire il risultato che l'esecuzione collettiva vada a vantaggio di coloro che risultano effettivamente creditori, e può quindi essere proposta, oltre che dal curatore e dai soggetti titolari di diritti sui beni del fallito, soltanto dai creditori ammessi al passivo, in quanto unici portatori di un interesse concreto ed attuale all'esclusione di credito o garanzie fatti valere da terzi, potendo ricevere concreto pregiudizio dalla partecipazione al concorso di soggetti privi della qualità di creditore o di creditore privilegiato”(Cassazione civile sez. I, 02/10/2015, n.19721).
E perciò chiaro che la facoltà di proporre la predetta impugnativa non viene ad essere riconosciuta al fallito, che non è parte del procedimento di verificazione del passivo ed al quale non spetta alcun potere d'impugnazione dei crediti ammessi, neppure attraverso il rimedio di carattere generale previsto dalla L. Fall., art. 26, in quanto tale disposizione fa espressamente salve le norme contrarie, tra le quali non possono non comprendersi anche quelle della medesima legge che negano al fallito la legittimazione all'esercizio del potere in questione (cfr. Cass., Sez. 1, 16 marzo 1996, n. 2224; Cass. 3 dicembre 1991, n. 12987).
La consultazione del fascicolo fallimentare
Tra l'altro se lo stesso fallito volesse consultare il fascicolo fallimentare per capire e comprendere quale sia lo stato della procedura, se effettivamente il curatore stia agendo per tutelarlo sia pure di riflesso, se rispetti la legge ed abbia a cuore l'equo contemperamento degli interessi tra cui anche il suo, deve chiedere il permesso allo stesso curatore. Anche in questo caso la Cassazione è stata categorica: “In tema di fallimento, il necessario contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale, le cui vicende sono documentate dal fascicolo fallimentare, con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo porta ad escludere che i soggetti (fallito, creditori e terzi) comunque coinvolti dallo svolgimento della procedura fallimentare abbiano il diritto di consultare liberamente il fascicolo in questione, con la conseguenza che la consultazione degli atti e dei documenti in esso inseriti è subordinata alla presentazione di una specifica istanza, la quale deve essere formulata in modo da consentire non solo l'identificazione dell'istante e degli atti che si intendano visionare, ma anche la valutazione del concreto interesse che ne giustifica la consultazione” (Cass. civ. Sez. I Ord., 08-01-2019, n. 212).
Dunque, sia il curatore che il Giudice delegato possono impedire al fallito di visionare gli atti della procedura. Vero è che il diniego del giudice delegato del tutto discrezionale, può essere impugnato ex art. 26 innanzi al collegio, ma la decisione di quest'ultimo non è ricorribile in Cassazione. È infatti orientamento ormai unanime quello secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso il decreto del tribunale che respinge il reclamo ex art. 26 legge fall. di rigetto dell'istanza del fallito di esaminare il fascicolo fallimentare e di estrarne copia, trattandosi di provvedimento non decisorio, in quanto - attesa la insussistenza di un illimitato diritto del fallito alla consultazione di tutti gli atti della procedura concorsuale, subordinata, invece, alla presentazione di specifica istanza formulata in modo da consentire non solo l'identificazione dell'istante e degli atti che intende visionare, ma anche la valutazione del concreto interesse che ne giustifica la consultazione, è solo il Giudice delegato arbitro per consentirne il relativo accesso” (Cass. civ. Sez. I, 06-10-2005, n. 19509).
Il necessario contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale, le cui vicende sono documentate dal fascicolo fallimentare, con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo, porta a escludere che i soggetti comunque coinvolti dallo svolgimento della procedura fallimentare abbiano il diritto di consultare liberamente il fascicolo in questione e sarà il Giudice delegato a stabilire se l'interesse del fallito, che intenda per esempio controllare e voglia ottenere un rendiconto dell'agire del curatore, possa essere degno di tutela. Anche su tale aspetto è stata lapidaria la Cassazione: “La consultazione o estrazione di copie di atti del fascicolo fallimentare non integra un diritto soggettivo del fallito, ma postula una specifica autorizzazione da parte del giudice delegato (o del tribunale fallimentare in sede di reclamo), rilasciata in esito alla discrezionale valutazione degli interessi di riservatezza del procedimento fallimentare” (Cass. civ. Sez. I, 04-09-2004, n. 17885).
Il giudizio per la revoca del curatore
Va de plano che anche per il giudizio in ordine alla revoca del curatore, ex art. 37 L.F., il fallito non ha alcun potere.
La conseguenza è che il curatore non potrà mai essere accusato di malagestio dal fallito, almeno in sede fallimentare, perché quest'ultimo non può consultare il fascicolo e perciò non potrà mai procurarsi liberamente le prove del suo eventuale agire contra legem. Ogni sua richiesta passa sotto le scure degli organi della procedura.
Affinché possa essere revocato il curatore il processo relativo potrà essere attivato dal comitato dei creditori, dallo stesso Giudice delegato che lo ha nominato e dal Pubblico Ministero, che rappresenta il sotteso interesse pubblico. Nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di revoca del curatore, la decisione deve essere adottata non con il procedimento previsto dall'art. 36 L.F., ma con il diverso procedimento di cui all'art. 37 , che prevede la partecipazione del giudice delegato al collegio fallimentare che decide sull'istanza, oltre che del comitato dei creditori e del P.M. ( Tribunale Udine, 26-03-2010).
Del resto, sarà il nuovo curatore nominato dal Giudice delegato a promuovere l'azione di responsabilità contro il precedente, come stabilisce l'art. 38 secondo comma: “Durante il fallimento l'azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori”.
La riassunzione dei giudizi in corso di natura attiva
Alla stessa stregua si deve puntualizzare che, nel caso in cui intervenga il fallimento per i giudizi in corso nei quali il fallito è parte attrice, per la necessaria riassunzione il medesimo ha comunque un ruolo secondario e marginale, essendo tale scelta demandata al curatore e al giudice delegato, come previsto dall'art. 43 L.F.: “È inammissibile la riassunzione del giudizio da parte della società fallita, in persona del legale rappresentante della stessa, in virtù del disposto dell'art. 43 l. fall., il quale dispone che “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il Curatore”. Tale difetto di capacità processuale della fallita è rilevabile anche d'ufficio, in assenza di eccezione da parte del Curatore nell'interesse della massa dei creditori” (Trib. Roma, sez. XVII, 2/10/2019, n.18729).
Il curatore è l'unico legittimato alla riassunzione del processo, con riferimento alle controversie di cui all'art. 43, comma 1, L.F., stante la perdita della capacità di stare in (e quindi di proseguire il) giudizio del fallito ( Tribunale Milano, 26/05/2014).
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha indicato una legittimazione sostitutiva ed eccezionale, quando il fallito provi che dall'inerzia del curatore possa derivare un danno alla massa dei creditori.
È stato infatti statuito, in tema di cosiddetta eccezionale legittimazione processuale suppletiva del fallito relativamente a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento per il caso di disinteresse od inerzia degli organi fallimentari, che la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente ad escludere detta legittimazione, allorquando venga espressa con riguardo ad una controversia della quale il fallimento sia stato parte, poiché, in tal caso, è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, mentre non lo è, allorquando si tratti di una controversia alla quale il fallimento sia rimasto del tutto estraneo ed in particolare quando alla negativa valutazione si accompagni l'espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere (principio affermato dalla Suprema Corte con riferimento ad un caso in cui il fallito aveva rivolto agli organi fallimentari istanza per la riassunzione di una controversia rimasta interrotta per effetto del fallimento e l'istanza, su conforme parere del curatore, era stata rigettata dal giudice delegato in considerazione dell'aleatorietà del giudizio, ma con salvezza della riassunzione in proprio da parte del fallito ed a sue spese) (Cass. civile, sez. III, 16 dicembre 2004, n.23435).
Il ruolo marginale del fallito (debitore) anche nel Codice della crisi e dell'insolvenza: un'occasione mancata
Anche il nuovo Codice della crisi d'impresa non ha riservato un ruolo rilevante o migliorativo al fallito (ma, rectius, al debitore, come viene ivi definito), che perde l'amministrazione dei suoi beni al momento della declaratoria fallimentare e la capacità processuale di stare in giudizio, che si trasferisce in capo al curatore, come avviene con l'attuale legge fallimentare. La disciplina è contenuta negli articoli 142 e 143 del Codice della crisi e dell'insolvenza.
In dottrina è stato evidenziato “come al cospetto dell'ideologia soppressiva del fallimento e del fallito non si sia accompagnata alcuna modifica dell'impianto fondamentale costituito dal principio per il quale la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale dell'imprenditore genera come effetto immediato la perdita della disponibilità da parte del debitore di tutti i suoi beni con il coevo trasferimento dei poteri di amministrazione del patrimonio al curatore. (…) Lo spossessamento è dunque una chiara manifestazione della visione afflittiva della liquidazione giudiziale e questa visione, in parte qua, non si è affatto attenuata con la Riforma: il solo fatto che sia stato sostituito il lemma fallito con il lemma debitore non è dimostrazione della volontà di attenuare l'impatto negativo della dichiarazione di insolvenza, ma solo un modo per edulcorare uno status. Il clima di sfiducia che regna sul debitore e sulla sua capacità di assumere comportamenti allineati al bisogno di gestire le attività, non più in funzione della conduzione dell'impresa ma in funzione di liquidazione dei beni e soddisfazione dei creditori, rappresentano le rationes sulla base delle quali ancor oggi al debitore è inibito, nell'immediatezza della dichiarazione della liquidazione giudiziale, di conservare la titolarità dell'impresa…“ (M. Fabiani, Gli effetti della liquidazione giudiziale sul debitore e sui creditori, in Fall., 2019, 10, 1161).
Anche per la formazione dello stato passivo possiamo ritenere che il codice della crisi e dell'insolvenza non abbia apportato alcuna modifica sul piano della legittimazione processuale del fallito per tutelare i suoi interessi ed intervenire nel corso della procedura. Si ripete perciò al comma 4 dell'art. 203: “Il debitore può chiedere di essere sentito”.
Come avviene con l'attuale legge fallimentare al debitore non è dato diritto di opposizione al decreto che ha reso esecutivo lo stato passivo e neppure alla revocazione. Dunque, nulla è mutato e gli artt. 206 e 207 rendono il ruolo del debitore inesistente.
La Corte Costituzionale aveva però auspicato un intervento del legislatore per rendere possibile, in applicazione dell'art. 24 Cost., che il fallito la partecipazione del fallito al giudizio di impugnazione di crediti ammessi. Anche il nuovo legislatore ha seguito però una logica inquisitoriale di tutela solo dell'interesse della massa: il debitore, infatti, sia nella fase di accertamento, che in quella di impugnazione dei crediti, ha ancora un ruolo marginale e secondario.
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Sommario
L'accertamento dello stato passivo nell'attuale legge fallimentare
Il ruolo marginale del fallito (debitore) anche nel Codice della crisi e dell'insolvenza: un'occasione mancata