Il Consiglio di Stato considera il curatore sempre tenuto a smaltire i rifiuti inquinanti prodotti dal fallito
23 Marzo 2021
Per l'analitica ed articolata disamina della (molto criticabile) sentenza 26 gennaio 2021, n. 3 del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, con cui è stato affermato che ricade sempre sulla curatela fallimentare l'obbligo di smaltimento dei rifiuti inquinanti (eventualmente) prodotti dal fallito, e di ripristino dei luoghi che egli abbia inquinato, come previsto dall'art. 192 del Codice dell'ambiente (d.lgs. n. 152/2006), conseguendone anche che i relativi costi debbano gravare in via prededucibile sulla massa fallimentare, non posso che rinviare all'esaustivo commento pubblicato contestualmente in questo stesso portale (P. Pizza, Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare, in ilfallimentarista.it). Come in esso ha puntualmente annotato l'Autore, il Consiglio di Stato è pervenuto a tale categorica e draconiana soluzione, da un lato, enfatizzando il principio comunitario “chi inquina paga”, e, dall'altro, traducendo l'obbligo ex lege di cui al summenzionato art. 192 in una sorta di obbligazione propter rem di cui il curatore risponderebbe (non come successore del fallito, ma) come “detentore” dei rifiuti che si rinvengano nel bene immobile inquinato appartenente al fallito, posizione che il curatore acquisirebbe - in ragione della sua veste gestoria - “dal momento della dichiarazione del fallimento dell'impresa, tramite l'inventario dei beni dell'impresa medesima”. Senza entrare qui nel merito delle critiche che possono muoversi alle ragioni in concreto esposte dal Consiglio di Stato per prospettare tale inquadramento, e che sono state in effetti mosse e ben poste in luce nel succitato commento, mi preme qui rimarcare ciò che invece il S. Giudice amministrativo – inspiegabilmente - non ha affatto detto né esaminato, così incorrendo in una gravissima omissione. Il Consiglio di Stato, infatti, nel pervenire alla sua decisione, ha del tutto omesso di considerare quella che doveva invece considerarsi la norma più importante, conferente e dirimente ai fini del decidere, ossia l' art. 104 ter, comma 8, L.fall.., che, com'è noto, consacra la generale possibilità di derelictiodei beni fallimentari (“il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente”). Quale che sia la ragione di tale omissione (ignoranza “semplice” o addirittura “intenzionale”?) essa appare comunque grave, inficiando integralmente la decisione del Consiglio di Stato e, di conserva, il principio di diritto in cui essa si compendia. Assumere, infatti, che il curatore debba sempre provvedere allo smaltimento dei rifiuti (sostenendo i relativi costi in prededuzione) per effetto di una situazione di detenzione di un bene immobile del fallito acquisita ex lege - per effetto della sua nomina - “tramite l'inventario dei beni dell'impresa medesima”, ma senza considerare in alcun modo il potere – del tutto contrapposto - di non acquisire affatto il bene stesso, quindi di non inventariarlo, previsto dall'art. 104-ter, comma 8,L.F., non inventariazione che eliminerebbe all'evidenza “in nuce” l'acquisizione della qualità di “detentore” da parte del curatore,equivale, in ultima analisi, a “fare i conti senza l'oste”, a un parlar d'altro, a basare l'intera costruzione interpretativa sul nulla. Non che – beninteso – qualora il Consiglio di Stato avesse specificamente considerato, e non invece bellamente ignorato come ha fatto, l'art. 104-ter, comma 8,L.fall., la soluzione avrebbe dovuto essere necessariamente diversa. Ben potrebbe infatti ipotizzarsi, quantomeno su un piano puramente teorico, che sulla predetta norma fallimentare possano comunque prevalere in parte de qua le norme del Codice dell'ambiente, ad esempio in ragione della loro emanazione in data successiva al D.Lgs. n. 5/2006, che ha introdotto l'art. 104 ter (“lex posterior derogat priori”), o in base al criterio di prevalenza per specialità (“lex specialis derogat generali”) -, e via discorrendo, secondo la variabilmente fervida immaginazione degli interpreti e l'assai generoso trovarobato del tradizionale armamentario argomentativo, anche se, naturalmente, a ciascun argomento favorevole alla prevalenza delle norme ambientali potrebbero contrapporsene altri di segno contrario, ugualmente plausibili. Ma, appunto, le possibili ragioni interpretative avrebbero dovuto esporsi alla luce di un complessivo test di tenuta e resistenza delle norme ambientali (in particolare dell'art. 192 d.lgs. n. 152/2006) al cospetto della chiara possibilità di dismissione/derelizione di qualunque bene fallimentare prevista dall'art. 104-ter, comma 8, L.fall., che tale norma subordina a due sole condizioni, l'una di carattere formale (autorizzazione conferita dal comitato dei creditori), l'altra di carattere sostanziale (che l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente). In particolare, avrebbe dovuto valutarsi se le norme ambientali possano davvero aver determinato una parziale abrogazione dell'art. 104-ter, comma 8,escludendo la possibilità di derelictio quanto meno per i casi – appunto - in cui siano presenti rifiuti inquinanti sopra un immobile del fallito, e se in tali casi l'obbligo di bonifica s'imponga per il curatore anche se questa – per i suoi costi – sia manifestamente non conveniente per la massa. Inoltre, e comunque, il Consiglio di Stato non avrebbe potuto e dovuto nemmeno ignorare la problematica connessa alla frequente impossibilità di sostenere tutti i costi della bonifica ambientale nei casi di incapienza parziale del fallimento, laddove l'eventuale realizzo degli immobili in cui i rifiuti inquinanti siano allocati sia insufficiente a ripagarli tutti; né, infine, avrebbe potuto tacere sulla valenza di tale incapienza – oltre che dell'autorizzazione alla derelictio concessa dal comitato dei creditori - come eventuale (per quanto assai probabile, se non addirittura implicita) scriminante del curatore rispetto alla previsione incriminatrice dell'art. 255, comma 3, d.lgs. n. 156/2006, laddove tale norma prevede che “Chiunque non ottempera all'ordinanza del Sindaco, di cui all'articolo 192, comma 3.....è punito con la penadell'arresto fino ad un anno”, quando e se, giustappunto, un'ordinanza sindacale di tal genere fosse emessa a carico della curatela. In definitiva, lungi dal potersi considerare sopita e risolta la questione degli obblighi di smaltimento dei rifiuti inquinanti da parte delle curatele per effetto della sentenza 26 gennaio 2021, n. 3 dell'Adunanza Plenaria, essa andrà riesaminata in futuro molto più approfonditamente da parte (anche) del Giudice amministrativo, senza le inammissibili omissioni che inficiano ora – palesemente – la suddetta decisione. |