Qualificazione del concordato c.d. misto quale concordato in continuità aziendale

Gianluca Minniti
Luca Russo
19 Novembre 2020

Il concordato preventivo, in cui alla liquidazione atomistica di una parte di beni si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, può essere qualificato, salvi i casi di abuso, come un concordato in continuità aziendale  ex art. 186-bis L.F.?

Il concordato preventivo, in cui alla liquidazione atomistica di una parte di beni si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, può essere qualificato, salvi i casi di abuso, come un concordato in continuità aziendale ex art. 186-bis L.F.?

Caso pratico - Una società presentava una proposta di concordato preventivo, qualificata come liquidatoria, che prevedeva, in una prima fase, la vendita di alcuni immobili (già terminati o per i quali era stata ritenuta più opportuna la vendita al grezzo) in adempimento di altrettanti preliminari di vendita già parzialmente eseguiti e, in una seconda fase, l'impiego della liquidità generata dalla cessione dei primi per il completamento degli immobili residui, affinché potessero essere alienati con maggior profitto.

La descritta proposta veniva ritenuta inammissibile dal Tribunale di Arezzo, che dichiarava contestualmente il fallimento della debitrice.

La Corte d'Appello di Firenze rigettava il reclamo proposto dalla debitrice, sostenendo, tra l'altro, che la proposta – quantomeno con riferimento alla parte inerente al completamento degli immobili e alla loro successiva collocazione sul mercato – doveva ricondursi alla disciplina del concordato in continuità aziendale, con la conseguenza che la stessa violava l'art. 186-bis nella parte in cui impone l'allegazione di una relazione di attestazione avente ad oggetto la funzionalità delle prosecuzione dell'attività di impresa rispetto al miglior soddisfacimento dei creditori.

La società debitrice proponeva ricorso per cassazione eccependo, tra l'altro, che il concordato proposto aveva natura liquidatoria, atteso che la continuazione dell'attività aziendale era prevista per un tempo limitato e unicamente in funzione della successiva liquidazione.

Come anticipato, la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha confermato la riconduzione della proposta in esame nell'alveo del concordato in continuità aziendale ex art. 186-bis L.F., esprimendo un principio di diritto innovativo e chiarificatore in materia di c.d. concordato misto (vale a dire con componente sia di continuità che liquidatoria) destinato a risolvere il contrasto tra gli orientamenti nel frattempo formatosi nella giurisprudenza di merito.

Spiegazioni e conclusioni - La questione giuridica affrontata dalla Suprema Corte riguarda il c.d. concordato misto, termine utilizzato, sia in dottrina che nella giurisprudenza di merito, per individuare un concordato di contenuto complesso, il cui piano preveda, accanto alla continuazione (anche parziale) dell'attività di impresa, la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio della stessa.

Come anticipato, si sono formati, nel corso del tempo, diversi orientamenti circa il criterio da seguire ai fini della disciplina da applicare al concordato misto:

  • secondo alcuni, al fine di evitare abusi del ricorso allo strumento del concordato in continuità (e aggirare, così, l'obbligo di soddisfacimento dei creditori chirografari in misura pari ad almeno il 20% disposto dall'art. 160, comma 4, L.F. per i concordati liquidatori), la qualificazione in un tipo o nell'altro dipenderebbe dall'individuazione della fonte da cui provenga la maggior parte delle risorse destinate alla soddisfazione dei creditori. È la c.d. teoria della prevalenza, secondo la quale sarebbe da qualificarsi in continuità il concordato in cui le risorse da destinare ai creditori provengono prevalentemente dalla prosecuzione dell'attività e non dalla liquidazione di beni non funzionali alla stessa;
  • secondo altri, se la proposta prevede un segmento di continuità aziendale, troverebbe sempre applicazione la disciplina di cui all'art. 186-bis L.F., salvi i casi di abuso, a prescindere dalla consistenza delle risorse da essa provenienti destinate alla soddisfazione dei creditori;
  • secondo altri ancora, la proposta concordataria dovrebbe ricondursi alla categoria del concordato in continuità allorquando, a prescindere dall'origine delle risorse destinate a soddisfare i creditori, il piano consenta la conservazione di determinati livelli occupazionali (ad esempio, la metà della media dei dipendenti occupati negli ultimi due anni, sulla scorta di quanto previsto dal nuovo Codice delle Crisi d'impresa);
  • altri ancora hanno optato per una sovrapposizione delle differenti regole (previsione del soddisfacimento minimo del 20%, unitamente all'attestazione circa la funzionalità del segmento in continuità al miglior soddisfacimento dei creditori).

Ebbene, come anticipato, la Suprema Corte, con l'ordinanza in commento, ha finalmente fatto chiarezza sulla qualificazione del concordato c.d. misto e, partendo dal dato normativo ha espresso i seguenti principi di diritto:

  • il concordato tradizionalmente definito come misto è, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità aziendale che prevede la dismissione di beni. Infatti, la compresenza nel piano di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell'attività aziendale è espressamente contemplata dal legislatorenella disciplina, speciale e derogatoria dei criteri generali, relativa al concordato in continuità di cui all'art. 186-bis, comma 1, L.F. (a mente del quale il piano in continuità “può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”);
  • l'art. 186-bis, L.F. non evoca alcun rapporto di prevalenza di una parte dei beni (quelli funzionali alla continuità) rispetto all'altra destinata alla liquidazione, bensì un criterio qualitativo (e, dunque, non quantitativo) che impone un'indagine circa la funzionalità di una porzione dei beni (quella non destinata alla liquidazione) alla continuazione, totale o parziale, dell'attività aziendale;
  • l'enunciato criterio della funzionalità dei beni non destinati alla liquidazione rispetto alla continuità aziendale trova il suo limite nella manifesta dannosità per i creditori: prescindendosi, dunque, da un'analisi di prevalenza quantitativa, la porzione di continuità aziendale prevista dal piano deve, tuttavia, essere funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all'ipotesi liquidatoria. Tanto è vero che l'art. 186 bis, comma 2, lett. b), L.F. espressamente prevede che la relazione del professionista di cui all'art. 161, comma 3, L.F. “deve attestare che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.

Applicando dunque i ricordati principi, la Suprema Corte – ricondotta la proposta in esame nella fattispecie del concordato in continuità aziendale e constatato che la relazione dell'esperto difettava dell'attestazione (espressamente richiesta dall'art. 186 bis, comma 2, lett. b) L.F.) circa la funzionalità della continuità rispetto al miglior soddisfacimento dei creditori – ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Normativa

  • Art. 160 L. F.
  • Art. 186 bis L. F.

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