Azioni revocatorie e principio di cristallizzazione del passivo alla data di dichiarazione di fallimento
03 Marzo 2021
A fronte della natura costitutiva delle azioni revocatorie ed in ragione del principio della cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso, è possibile esperirle contro un fallimento?
Caso pratico - Come premessa all'analisi del caso, si evidenzia che l'orientamento della Suprema Corte in relazione alla possibilità di esperire un'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, in danno di un fallimento si è, nuovamente, attestato nel senso dell'impossibilità di effettuarla in ragione del superiore principio di cristallizzazione del passivo alla data di dichiarazione di fallimento che, fisiologicamente, stride con il carattere costitutivo di tali azioni. Precipitato del predetto principio, immanente, seppur con sporadiche attenuazioni nella legge fallimentare, è l'insensibilità del patrimonio del fallito rispetto alla pretesa di soggetti che vantino titoli legittimanti successivi alla dichiarazione di fallimento. L'effetto costitutivo della sentenza di accoglimento di una azione revocatoria, dunque, non è amalgamabile alle ragioni della procedura concorsuale posto che, tale effetto, non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura della procedura stessa. La curatela fallimentare aveva chiesto, ai sensi dell'art. 103 L.Fall. la declaratoria di inefficacia ex artt. 2901 c.c. e 66 L. Fall. di alcuni atti dispositivi posti in essere dalla società, all'epoca in bonis, nei confronti di un'altra persona giuridica successivamente dichiarata fallita. Il Giudice Delegato aveva rigettato la domanda avanzata dalla curatela precisando che, in grazia del principio di cristallizzazione dell'attivo fallimentare alla data di apertura del concorso, l'azione era inammissibile. La curatela soccombente, quindi, ha proposto ricorso in cassazione prospettando i motivi di seguito sintetizzati: 1. errata interpretazione delle norme regolatrici degli effetti dell'azione revocatoria posto che gli stessi devono essere considerati idonei a comportare l'inefficacia originaria dell'atto dispositivo di cui si chiede la revoca; 2. errata interpretazione delle norme laddove si delimita il perimetro degli effetti positivi in favore della parte attrice solo in seguito all'accoglimento della domanda revocatoria e non, invece, al momento dell'atto dispositivo; 3. la violazione degli artt. 66 – 216 L.Fall. in ragione della conservazione degli effetti pregiudizievoli degli atti dispositivi o distrattivi nonostante la configurabilità , in concreto, di conseguenze penali connesse alla loro commissione. La Prima Sezione Civile della Corte, pur precisando che la questione era già stata affrontata dalle Sez. Unite con la sentenza n. 30416/2018, con ordinanza interlocutoria n. 19881/2019, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale nuova assegnazione alle Sezioni Unite con l'intento di proporre una revisione degli approdi riportati nella ridetta sentenza in ordine alla questione relativa all'ammissibilità dell'azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, in danno di un fallimento.
Spiegazioni e conclusioni - In generale, il tema proposto dalla predetta ordinanza prendeva le mosse da alcuni orientamenti dottrinari critici delle risultanze della sentenza del 2018 posto che non sembrava adeguatamente affrontata la questione relativa alla tutela del ceto creditorio del soggetto disponente dinanzi ad un evento comunque verificatosi prima del fallimento del beneficiario dell'atto provocando, quindi, un conseguente arricchimento del ceto creditorio del secondo in danno del primo. In sintesi, i temi proposti dall'ordinanza interlocutoria sono i seguenti: il primo si basa sul tenore dell'art. 290 CCI in ragione della presunta idoneità del predetto articolo a superare l'argomento letterale riportato nella sentenza n. 30416/2018 a proposito della natura speciale dell'omologa norma di cui all'art. 91 D.Lgs. 270/1999 . Gli altri riguardano la possibile rimodulazione della funzione dell'azione revocatoria che dovrebbe essere considerata di natura dichiarativa e non costitutiva. Diversamente, il fallimento dell'acquirente impedirebbe la possibilità di esperire la ridetta azione configurando, così, una ipotesi di non punibilità tale da rappresentare un incentivo alla frode. Soffermandoci sulle risposte delle Sezioni Unite, nella sentenza 24/06/2020 n. 12476, sgombrano subito ogni dubbio precisando che il Codice della crisi di impresa non è applicabile, per scelta del legislatore, alle procedure concorsuali anteriori alla sua entrata in vigore e, in ogni caso, non è possibile rinvenire in esso norme ontologicamente predisposte a rappresentare un criterio interpretativo degli istituti previsti dalla legge fallimentare anche in ragione dell'impossibilità di individuare un momento di contiguità tra il regime vigente e quello che entrerà in vigore. Nessun collegamento funzionale o sistematico è rinvenibile tra l'art. 91 D. Lgs. 270/1999 e l'art. 290 del CCI , aggiunge la Corte, posto che il primo concretizza un aggravamento del regime previsto dalla revocatoria fallimentare ampliando i termini del periodo sospetto mentre il secondo risponde all'esigenza di regolamentare le dinamiche tra gruppi di imprese conferendo al curatore poteri specifici non regolamentati dalla legge fallimentare. In relazione agli altri punti, la motivazione è più articolata e merita un approfondimento posto che vengono contemporaneamente affrontati i temi della natura e degli effetti delle azioni revocatorie e le questioni connesse al principio di cristallizzazione nella misura e con l'intento di prevenire l'innescarsi di aporie tra le prime e le seconde. La natura costitutiva (ribadita, quindi, dalla Suprema Corte) della sentenza che accoglie l'azione revocatoria è basata sulla considerazione che viene modificata ex post una situazione giuridica preesistente. Il risultato si ottiene privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti già eseguiti e determinando, di conseguenza, la ricostituzione della garanzia patrimoniale generica prevista dall'art. 2740 c.c. Di talché ne discende che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non è assimilabile ad un diritto di credito ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione al punto che, rispetto ad esso, è configurabile l'ipotesi di interruzione della prescrizione solo con l'introduzione del giudizio e l'espletamento delle connesse formalità e non con una semplice messa in mora. Questi orientamenti, aggiunge la Corte, sono rinvenibili nella stessa ratio dell'istituto e discendono da una tradizione interpretativa della norma che affonda le radici nel patrimonio dogmatico del legislatore del 1942, mentre la prospettazione ipotizzata dall'ordinanza interlocutoria nella misura in cui afferma la retrodatazione dell'inefficacia direttamente all'atto impugnato è, di fatto, priva di addentellati normativi posto che non è reperibile nell'ordinamento alcun precetto che preveda di non alienare o di non effettuare o ricevere il pagamento di crediti la cui violazione sarebbe tale da determinare l'illiceità originaria dell'atto o del pagamento. Sul punto, aggiunge la Corte, nulla cambia in relazione all'oggetto dell'azione, sia esso un atto dispositivo o un pagamento. Ulteriore considerazione meritevole è quella che emerge in relazione alla funzione dell'azione revocatoria, intendendo per tale quella che l'ordinamento le affida e che si concretizza nella propedeuticità della stessa alle successive azioni esecutive, senza le quali, gli effetti della ridetta diverrebbero sterili e fini a sé stessi. La Corte chiarisce, in punto, che la revocatoria quale strumento di conservazione della garanzia generica prevista dall'art. 2740 c.c. realizza uno scopo peculiare che non assume il carattere “restitutorio” rispetto al bene oggetto della disposizione fraudolenta, ma conferisce all'attore vittorioso la possibilità di agire in executivis anche contro il terzo proprietario configurando in danno dello stesso una ipotesi di responsabilità definita “responsabilità senza debito” (viene fatto il parallelismo con il terzo acquirente di un bene ipotecato o dato in pegno). L'ordinanza interlocutoria coglie un aspetto critico del sistema nella seguente considerazione: l'impossibilità di proporre l'azione costitutiva deriva da un fatto che trascende la volontà dei creditori dell'alienante ossia la dichiarazione di fallimento del terzo acquirente. Precisa che, ove ci si fermasse all'assioma di cui sopra, si correrebbe il rischio di lasciare senza possibilità di tutela tutti i diritti innervati alle ragioni dei creditori dell'alienante. Il ragionamento posto a base della soluzione adottata ha preso le mosse tenendo conto degli orientamenti formatisi in analoghi casi di impossibilità di realizzazione funzionale dell'azione revocatoria: se oggetto della domanda revocatoria non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) mediante l'assoggettabilità del bene ad esecuzione, ne deriva che il predetto assume importanza agli occhi di quei creditori solo in relazione al suo valore. In altre parole, il fallimento del terzo acquirente (o percepiente delle somme) dichiarato prima dell'inizio dell'azione revocatoria rende inammissibile la stessa ma non elide il diritto di esercitare quell'azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale. I principi di diritto delineati possono essere sintetizzati come segue:
Normativa e giurisprudenza
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