Obiettivi dell'allerta secondo la Direttiva 1023/2019, il CCI e il D.L. 118/2021: similitudini e divergenze

26 Ottobre 2021

L'articolo si propone di stimolare alcune riflessioni che scaturiscono dall' analisi comparata delle previsioni contenute nella Direttiva 1023/2019, nel Codice della crisi d'impresa, e nel D.L. 118/2021, le cui ricadute applicative sono state specificate nel decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021.

Il presente contributo si propone di stimolare alcune riflessioni che scaturiscono dalla analisi comparata delle previsioni contenute nella Direttiva 1023/2019, nel CCII, e nel D.L. 118/2021 (le cui ricadute applicative sono state specificate nel decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021). In particolare, il profilo di interesse concerne la rispondenza degli strumenti attuali e prospettici previsti dal legislatore italiano rispetto agli obiettivi che la Direttiva assegna alle procedure di allerta. Non sono invece oggetto di trattazione le questioni relative al funzionamento ed alle prerogative del professionista e degli organismi preposti alla gestione del procedimento di composizione della crisi nella fase successiva alla allerta.

Uno degli obiettivi dichiarati della Direttiva 1023/2019 (il cui recepimento in Italia dovrà avvenire entro il 17.7.2022) è quello di favorire l'emersione tempestiva della crisi attraverso strumenti di allerta precoce (richiamati in particolare nel “considerando” 22 e nell'art. 3 della Direttiva) e di agevolare la soluzione della crisi mediante quadri di ristrutturazione preventiva che consentano di prevenire l'insolvenza e di rilanciare le attività ancora sostenibili dal punto di vista economico (considerando 1 e 3 della Direttiva).

In particolare, i quadri di ristrutturazione preventiva ai quali dovrebbero accedere le imprese (ancora sane) in difficoltà finanziaria, si caratterizzano per la continuità gestionale in capo al debitore e per la modularità dei livelli di intervento da parte della autorità giurisdizionale (considerando 30 della Direttiva).

Per le imprese in difficoltà finanziaria senza prospettive di sostenibilità economica (considerando 3), la Direttiva sollecita interventi normativi a livello nazionale che privilegino la rapidità del processo liquidatorio (quindi, l'impresa in difficoltà o viene salvata se ci sono prospettive di risanamento oppure va liquidata rapidamente minimizzando l'impatto delle perdite per il sistema consentendo eventualmente all'imprenditore una seconda chance).

Va notato che, al fine di evitare abusi, la Direttiva da un lato raccomanda (considerando 24) di avviare il percorso di ristrutturazione solo se l'impresa realmente prefigura la probabilità di insolvenza (il percorso in esame non deve cioè dissimulare intenti di altra natura) e, dall'altro lato, impone la seria valutazione dell'attitudine del piano a prevenire l'insolvenza ed a consentire la sostenibilità economica.

Il comportamento pregresso del debitore (impresa) non pare escludere la possibilità di accedere ai quadri di ristrutturazione preventiva, ma piuttosto riverbera nella limitazione del controllo degli attivi e della gestione corrente. A mente del considerando 30 della Direttiva, gli stati membri sono facoltizzati a prevedere che la vigilanza del debitore sia affidata ad un professionista nel campo della ristrutturazione quando “il debitore o la sua dirigenza hanno agito in modo criminale, fraudolento, o pregiudizievole nelle relazioni d'affari”.

La Direttiva si focalizza quindi sulle difficoltà di carattere finanziario con prognosi negativa sulla possibilità di estinguere i debiti e rimborsare i prestiti. Essa prevede per gli ordinamenti nazionali la possibilità di ampliare l'ambito di applicazione dei quadri di ristrutturazione preventiva ai casi di difficoltà di natura non finanziaria (considerando 28), purché “tali difficoltà comportino una reale e grave minaccia per la capacità effettiva o futura del debitore di pagare i suoi debiti in scadenza”. In ogni caso, il presupposto della ristrutturazione è costituito dalle prospettive di sopravvivenza dell'impresa, al punto che il considerando 26 prevede che gli stati membri “dovrebbero poter introdurre una verifica della sostenibilità economica come condizione di accesso alla procedura di ristrutturazione preventiva”.

Da un punto di vista sistematico, alcune essenziali classificazioni utilizzate dalla Direttiva possono essere schematizzate nei termini seguenti.

La Direttiva distingue le imprese sane e in difficoltà finanziaria, da quelle in difficoltà finanziaria e “non sane” (considerando 1 e 3).

Le prime devono poter accedere ai quadri di ristrutturazione preventiva con l'obiettivo di continuare ad operare; le seconde devono essere sottoposte ad un rapido processo liquidatorio

Il concetto di impresa “sana” pare richiedere due condizioni: sostenibilità economica di tutta o parte dell'impresa (considerando 3, 22 e 26) e condizioni di difficoltà finanziarie non ancora sfociate nell'insolvenza (considerando 2)

Impresa “non sana” significa impresa senza sostenibilità economica e/o insolvente (quest'ultima intesa come situazione di illiquidità irreversibile)

In questo quadro, la Direttiva assegna alle procedure di allerta il finalismo espresso nel considerando 22: “quanto prima un debitore è in grado di individuare le proprie difficoltà finanziarie, tanto maggiore è la probabilità che eviti un'insolvenza imminente o nel caso di un'impresa la cui sostenibilità economica è definitivamente compromessa, tanto più ordinato ed efficace sarà il processo di liquidazione”.

Esse si concretizzano in un mix di strumenti (art. 3 della Direttiva) tra i quali

- strumenti di allerta precoci chiari e trasparenti che consentano al debitore di intercettare la probabilità di insolvenza (allerta interna)

- meccanismi di allerta se il debitore non effettua determinati pagamenti (allerta esterna)

- servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche e private

- incentivi concessi a categorie di soggetti (contabili) in possesso di informazioni rilevanti sul debitore

- sostegno ai rappresentanti dei lavoratori nella valutazione della situazione economica del debitore

Le istanze della Direttiva trovano la seguente declinazione nella attuale impostazione del CCI (l'entrata in vigore del titolo II è rinviata al 31 dicembre 2023).

Da un punto di vista generale, gli strumenti di allerta appaiono rivolti ad intercettare tempestivamente la crisi, definita secondo l'art. 2 come squilibrio di carattere patrimoniale ed economico- finanziario tale da rendere probabile l'insolvenza.

Il concetto viene ribadito nell'art. 13 CCI collegando però la crisi alla evidenza, tra l'altro, della insostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi ed ai ritardi significativi e reiterati nel pagamento di determinate tipologie di debiti (art. 24 CCI).

Il monitoraggio di questi indicatori sintomatici di condizioni di illiquidità nel breve termine (più vicina al concetto di insolvenza) allontana la possibilità di intercettare i germi della crisi dell'impresa nella c.d. twilight zone. Al contrario, l'indagine (affidata alla elaborazione di appropriati piani aziendali) sul persistere delle condizioni di solvibilità dell'imprese nel medio termine al fine di cogliere per tempo i segnali di crisi risulta più appropriata rispetto al monitoraggio concentrato su orizzonti temporali più limitati (tipicamente riflesso nelle risultanze del budget di tesoreria a sei mesi).

In questa prospettiva, gli stessi indici dell'allerta elaborati dal Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili e riflessi nel documento (in bozza) pubblicati il 20 ottobre 2019 non appaiono del tutto funzionali ad un obiettivo di allerta precoce. In particolare, l'indicatore DSCR (espressivo del rapporto tra i flussi di cassa liberi ed il debito non operativo), misurato secondo un orizzonte temporale di sei mesi, risulta efficace per cogliere potenziali situazioni prospettiche di illiquidità ma non per svolgere considerazioni sulla sostenibilità del debito oltre l'orizzonte temporale di riferimento.

Quindi, secondo il “modello” prefigurato dal CCI, la possibilità di attivarsi in situazioni di “pre-crisi” dipende dalla articolazione organizzativa e dai sistemi di programmazione e controllo istituiti dall'impresa in ottemperanza alle prescrizioni dell'art. 2086 c.c.

Corrisponde invece pienamente al dettato della Direttiva l'introduzione di un sistema di allerta articolato nella iniziativa interna (ad opera del debitore o degli organi di controllo societari/revisore/società di revisione – art. 14 CCI) od esterna (da parte di creditori qualificati – art. 15 CCI)

Complessivamente, si può ritenere che l'impianto disegnato dal CCII consente idealmente di intercettare precocemente la crisi – essenzialmente su base volontaristica -, e in ogni caso obbliga i destinatari delle norme ad attivarsi in base alle risultanze di determinati indicatori ed indici (art. 13 CCI) od al superamento di soglie critiche nel mancato pagamento di determinati debiti (art. 14 comma 4, 15 e 24 CCI).

Risultano così perseguibili entrambi gli obiettivi delineati dalla Direttiva (considerando 3), di ottenere la sopravvivenza delle imprese “sane” (la possibilità di centrare l'obiettivo è strettamente connessa alla tempestività dell'intervento), e di scongiurare il tardivo ed inefficiente processo liquidatorio delle imprese “non sane” con aggravio di perdite per il sistema economico-finanziario.

Venendo ora all'esame del D.L. 118/2021, per gli aspetti che qui interessano si possono svolgere le seguenti considerazioni.

Secondo l'art. 2 del decreto, al procedimento di composizione negoziata per la soluzione della crisi possono accedere gli imprenditori (commerciali od agricoli) che presentino condizioni di squilibrio patrimoniale od economico-finanziario e che possano ragionevolmente perseguire il risanamento dell'impresa.

Il decreto pone quindi l'accento sulla concreta probabilità di risanamento (il concetto riecheggia il presupposto della sostenibilità economica enunciato più volte dalla Direttiva) che rappresenta il vero presupposto del procedimento. In ordine alla situazione di crisi, invece, il legislatore si focalizza sulle caratteristiche di durata – temporanea e non irreversibile – a prescindere dalla relativa eziologia (di carattere patrimoniale, economico o finanziario). In questa prospettiva, l'ambito di intervento può spaziare dalle situazioni di pre-crisi, a quelle più acute nelle quali l'impresa manifesta condizioni di illiquidità (non vi sarebbe altrimenti la necessità di adire le misure protettive) o di incapienza patrimoniale (l'art. 8 del D.L. prevede la sospensione su istanza dell'imprenditore e sino alla conclusione delle trattative degli obblighi di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c.).

L'estensore del decreto, quindi, sposa la logica condivisibile, fatta propria della Direttiva, secondo la quale non può esservi risanamento se risultano definitivamente compromesse le prospettive reddituali di un'impresa. Ed infatti, la crisi economica, se strutturale ed irreversibile, ovvero tale da rendere i margini reddituali a regime incompatibili con il regolare servizio del debito, deve tendenzialmente condurre alla cessione dell'azienda o di rami d'azienda, oppure alla cessazione dell'attività da gestire secondo opportuni processi liquidatori, tipicamente configurati secondo la liquidazione ordinaria o la liquidazione concorsuale.

Viceversa, in presenza di equilibrio economico, il decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021 stabilisce le soglie del rapporto tra i flussi di cassa annui al servizio del debito e l'entità del debito oggetto di ristrutturazione che definiscono il grado di difficoltà del risanamento (e la conseguente tipologia delle iniziative di ristrutturazione da attuare).

L'individuazione dei segnali che rendono probabile la crisi è rimessa all'iniziativa del debitore (e dei suoi organi di controllo societario ex art. 15 D.L.) il quale sarà agevolato (art. 3 D.L.) dalla disponibilità di un apposito tool costruito secondo i criteri contenuti nel decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021, funzionale a consentire il controllo particolareggiato delle condizioni in cui versa l'impresa, redigere il piano di risanamento, nonché verificare la ragionevole perseguibilità del risanamento stesso.

Sotto questo profilo, il D.L. realizza l'obiettivo di trasparenza degli strumenti di allerta, ma la precoce applicazione degli stessi dipenderà esclusivamente dal comportamento dell'impresa e dei suoi organi di controllo societario.

Come si è detto, anche le condizioni di illiquidità (insolvenza) reversibile non escludono l'avvio del procedimento di composizione, come precisato al punto 2.4 Sezione 3 decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021. In tal caso, però, l'indagine preventiva dell'esperto sulle prospettive di risanamento sarà più pregnante. Qualora poi l'esperto ravvisasse l'assenza di prospettive di risanamento non si darà neppure corso alla apertura delle trattative, ma solo alla sollecita archiviazione del procedimento (con esclusione della possibilità di fruire del concordato semplificato di cui all'art. 18 D.L. 118).

In questo quadro, il vero rischio connesso alle previsioni del D.L. 118 non risiede tanto nell'abuso dei nuovi istituti da parte di imprese insolventi, quanto piuttosto nel fatto che l'iniziativa tardiva da parte del debitore, in assenza di meccanismi di allerta esterna, possa peggiorare la crisi delle imprese “sane” in difficoltà finanziaria e di ritardare l'avvio della liquidazione di imprese in difficoltà finanziaria e “non sane”. Su questo piano sorgono interrogativi sulla piena corrispondenza dei contenuti del D.L. 118/2021 rispetto agli obiettivi sanciti dalla Direttiva 1023/2019.

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