Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 120 - Disposizioni specifiche ai giudizi di cui all' articolo 119, comma 1, lettera a) 1Disposizioni specifiche ai giudizi di cui all'articolo 119, comma 1, lettera a) 1 1. Gli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinate dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge 21 giugno 2022, n. 78, comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative a esse connesse, i quali siano relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione in materia di contratti pubblici, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente. In tutti gli atti di parte e in tutti i provvedimenti del giudice è indicato il codice identificativo di gara (CIG); nel caso di mancata indicazione il giudice procede in ogni caso e anche d'ufficio, su segnalazione della segreteria, ai sensi dell'articolo 86, comma 1. 2. Per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale, e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, sono proposti nel termine di trenta giorni. Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 90 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell'articolo 36, commi 1 e 2, del medesimo codice. Per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara che siano autonomamente lesivi, il termine decorre dalla pubblicazione di cui agli articoli 84 e 85 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022. Il ricorso incidentale è disciplinato dall'articolo 42. 3. Nel caso in cui sia mancata la pubblicità del bando, il ricorso è comunque proposto entro trenta giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione o della determinazione di procedere all'affidamento in house al soggetto partecipato o controllato. Per la decorrenza del termine l'avviso deve contenere la motivazione dell'atto di aggiudicazione e della scelta di affidare il contratto senza pubblicazione del bando e l'indicazione del sito dove sono visionabili gli atti e i documenti presupposti. Se sono omessi gli avvisi o le informazioni di cui al presente comma oppure se essi non sono conformi alle prescrizioni ivi indicate, il ricorso può essere proposto non oltre sei mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto comunicata ai sensi del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022. 4. Se la stazione appaltante o l'ente concedente è rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, il ricorso è notificato anche presso la sede dell'Amministrazione, ai soli fini della operatività della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto. 5. Se le parti richiedono congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, il giudizio è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo, dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, è comunque definito con sentenza in forma semplificata a una udienza fissata d'ufficio, da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente e nel rispetto dei termini per il deposito dei documenti e delle memorie. Della data di udienza è dato immediato avviso alle parti a cura della segreteria, a mezzo posta elettronica certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito è rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, a una udienza da tenersi non oltre trenta giorni. 6. In caso di istanza cautelare, all'esito dell'udienza in camera di consiglio e anche in caso di rigetto dell'istanza, il giudice provvede ai necessari approfondimenti istruttori. 7. I nuovi atti attinenti alla medesima procedura di gara sono impugnati con ricorso per motivi aggiunti, senza pagamento del contributo unificato. 8. Salvo quanto previsto dal presente articolo e dagli articoli da 121 a 125, si applica l'articolo 119. 9. Anche se dalla decisione sulla domanda cautelare non derivino effetti irreversibili, il collegio può subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento di tale valore. La durata della misura subordinata alla cauzione è indicata nell'ordinanza. Resta fermo quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119. 10. Nella decisione cautelare il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione. 11. Il giudice deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro quindici giorni dall'udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall'udienza. 12. Le disposizioni dei commi 1, secondo periodo, 5, 6, 8, 9, 10 e 11 si applicano anche innanzi al Consiglio di Stato nel giudizio di appello proposto avverso la sentenza o avverso l'ordinanza cautelare, e nei giudizi di revocazione o opposizione di terzo. La parte può proporre appello avverso il dispositivo per ottenerne la sospensione prima della pubblicazione della sentenza. 13. Nel caso di presentazione di offerte per più lotti l'impugnazione si propone con ricorso cumulativo solo se sono dedotti identici motivi di ricorso avverso lo stesso atto. [1] Articolo modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera hh), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195, dall' articolo 40, comma 1, lettera a) del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, dall'articolo 204, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, dall'articolo 7 bis, comma 2, lettera a), del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, dall'articolo 1, comma 22, lettera a), del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55, dall'articolo 4, comma 4, lettera b), del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120e da ultimo sostituito dall'articolo 209, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36 con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2023, come stabilito dall'articolo 229, comma 2. Per le disposizioni transitorie vedi l'articolo 225 D.Lgs. 36/2023 medesimo. InquadramentoIl rito accelerato speciale (rectius ‘super-speciale') relativo alle controversie in materia di contratti pubblici trova oggi la sua compiuta disciplina negli artt. 119, 120, 121, 122, 123, 124 del Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Quello che oggi appare come un processo giunto – quantomeno apparentemente – al suo ultimo stadio di evoluzione costituisce l'esito di un travagliato processo evolutivo. Si consideri, sul punto, la successione di riti processuali – e delle conseguenti riforme – di seguito elencata per ragioni di completezza: i) le prime norme acceleratorie sui contenziosi in materia di opere pubbliche risalenti all'art. 31-bis della l. 11 febbraio 1994, n. 109; ii) il rito speciale introdotto dall'art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67; iii) l'ulteriore rito speciale (di impostazione però più generale) previsto dall'art. 23-bis della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come introdotto dall'art. 4 della l. 21 luglio 2000, n. 205, che trovava la propria ratio ispiratrice nell'esigenza di evitare che l'azione amministrativa, in taluni settori particolarmente sensibili, rimanesse a lungo sub iudice, in guisa che la durata dei processi non potesse arrecare pregiudizio agli interessi pubblici perseguiti dai provvedimenti gravati da impugnazione in sede giurisdizionale; iv) il rito di cui al d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53 (di recepimento della direttiva ricorsi n. 2007/66/CE), che ha vissuto di vita breve restando in vigore solo dal 27 aprile 2010 al 15 settembre dello stesso anno, ma che ha segnato profondamente il processo appalti (intervenendo sul testo del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, innestando anche una specifica fase pre-contenziosa) con un salto in avanti in parte confermato dal Codice del processo amministrativo, e che in parte si ritrova nell'ultima riforma del d.l. n. 90/2014; v) le specifiche norme processuali contenute agli artt. 119 e 120 ss. c.p.a. come modificato dai due correttivi di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, e al d.lgs. 14 settembre 2012 n. 160; vi) le sostanziose novità introdotte dall'art. 40 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (come modificato dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114), intervenuto in modo sostanziale sulle richiamate disposizioni di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a.; vii) l'ultima riforma operata con l'art. 204 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (nuovo Codice dei contratti pubblici) che ha – inter alia – introdotto un nuovo sub-rito per le impugnazioni delle ammissioni e delle esclusioni dalle gare; viii) la ‘riforma della riforma' operata con il d.l. 18 aprile 2019, n. 32 (c.d. ‘decreto Sblocca-cantieri'), convertito con la l. 14 giugno 2019, n. 55, che ha abrogato il rito super-accelerato introdotto soltanto tre anni prima; ix) l'ulteriore ‘riforma della riforma' recata dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), così come convertito dalla l. n. 120/2020, che ha innovato il diritto dei contratti pubblici anche sotto il profilo processuale, sia con novelle ‘temporanee' sia con modifiche permanenti al codice processuale. La continua spinta riformistica degli ultimi venti anni, che ha reso il settore una sorta di unicum nel panorama processuale italiano, è invero in buona parte dovuta allo stretto condizionamento discendente dal diritto dell'Unione Europea. Si pensi alle tre successive c.d. ‘direttive ricorsi che si sono susseguite a partire dal 1989, al fine di garantire – mediante l'introduzione di norme a valenza processuale – una tutela effettiva contro le violazioni inerenti le procedure di affidamento di appalti pubblici di rilevanza comunitaria, nella direzione di un mercato comune delle commesse pubbliche. Il diritto processuale degli appalti pubblici finisce dunque per rappresentare – un po' per ragioni lato sensu emergenziali, un po' per l'elevato numero di giudizi che si registrano – un banco di prova per il legislatore, anche al fine di ‘esplorare' nuove soluzioni: una sorta di testa di ponte o avamposto di sperimentazione per nuove tecniche di tutela processuale che sovente vengono poi estese all'intero processo amministrativo. La linea di tendenza che deve registrarsi è quella di voler creare una duplice versione del medesimo giudice amministrativo a seconda delle cause sulle quali sia chiamato a pronunciarsi: un giudice amministrativo ‘ordinario' e un giudice amministrativo in funzione di giudice degli appalti, che giudica secondo regole peculiari. In questo senso, si è parlato anche di una disciplina c.d. ‘a doppia specialità', per cui al rito in esame si applicano – per tutto quanto non espressamente previsto in funzione derogatoria dagli artt. 120 e ss. c.p.a. – le regole dettate dall'art. 119 c.p.a. nonché, in via residuale, la disciplina vigente in materia di rito ordinario (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Il massimo distacco tra i due giudici amministrativi è stato segnato dal d.l. n. 90/2014 e successivamente rimarcato dal d.lgs. n. 50/2016, con i quali sono state introdotti: i) un ulteriore sub-rito processuale da applicarsi ai giudizi di impugnazione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione dalle gare, ora tuttavia abrogato ad opera del d.l. n. 32/2019, convertito con la l. n. 55/2019; ii) una serie di disposizioni finalizzate ad accelerare la celebrazione dell'udienza di merito e la conseguente definizione del giudizio; iii) disposizioni che intervengono sulla fase cautelare dei giudizi; iv) disposizioni inerenti tipologia e termini di formazione e pubblicazione delle sentenze. A titolo di considerazione generale è possibile, sin d'ora, affermare che ogni soluzione che sia diretta a velocizzare la conclusione dei processi (anche passando attraverso una progressiva separazione dei riti) deve sicuramente essere accolta in modo positivo. Ciò con l'ovvio limite – tuttavia – che non si alteri quello spesso instabile equilibrio che si crea tra una sentenza veloce e una sentenza giusta. Infatti, se per un verso è vero che una decisione tardiva è di per sé stessa ingiusta (in quanto rischia di essere inutiliter data), per altro verso è altrettanto vero che una corsa processuale spinta dalla sola esigenza di rendere una decisione in tempi ristretti potrebbe non garantire quell'approfondimento necessario della questione che sta alla base, appunto, di una sentenza giusta (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Ambito di applicazione del processo sui contratti pubbliciL'applicabilità alle «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» Con riferimento all'ambito applicativo del c.d. rito appalti, occorre considerare che l'art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie «relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione ed alle sanzioni alternative». Sul piano soggettivo, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prescinde dalla natura pubblica o privata della stazione appaltante, operando quindi anche nei casi in cui le procedure ad evidenza pubblica siano poste in essere da soggetti privati, purché questi ultimi siano comunque tenuti (per legge e non già per auto-vincolo) all'applicazione della disciplina sull'evidenza pubblica. Ai fini del riparto di giurisdizione, pertanto, è irrilevante la questione della natura giuridica del soggetto che pone in essere la procedura di gara, in quanto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene condizionata alla sola sottoposizione del medesimo soggetto all'osservanza del Codice dei contratti pubblici. Si opta, dunque, anche in questo campo, per una nozione allargata di P.A., idonea a comprendere, con riferimento ad attività soggette a regime pubblicistico, anche soggetti formalmente privati: questi ultimi, laddove operanti ex lege alla stregua di P.A. aggiudicatrici, vengono qualificati quali pubbliche amministrazioni in senso soggettivo (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Sul piano oggettivo, l'art. 133, comma 1, lett. a), c.p.a., si riferisce a tutte le procedure di affidamento di contratti pubblici. A parere di chi scrive, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie relative alla mancata stipula del contratto – da parte dell'amministrazione – con il soggetto individuato quale aggiudicatario. L'espressione «procedure di affidamento», infatti, evoca un concetto più ampio della semplice procedura di aggiudicazione, atteso che il vero e proprio affidamento al contraente privato del lavoro, della fornitura o del servizio messo a gara si realizza nel momento in cui il contratto viene effettivamente stipulato. Soltanto con la stipula del contratto sorge in capo all'operatore economico l'obbligo privatistico di procedere all'esecuzione delle prestazioni dedotte in obbligazione. In tale contesto, la fase successiva alla stipula del contratto rientra quindi nella giurisdizione del giudice ordinario, in base all'ordinario criterio di riparto fondato sulla consistenza della posizione soggettiva. Devono altresì essere ricomprese nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie risarcitorie sorte nell'ambito di procedure di affidamento di contratti pubblici, nonché le controversie relative all'inefficacia del contratto eventualmente consequenziale all'annullamento dell'aggiudicazione. L'art. 119 c.p.a., lett. a), c.p.a., prevede che il “rito abbreviato comune a determinate materie” si applichi anche ai giudizi relativi a “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, salvo quanto previsto dagli artt. 120 e ss.”. Il successivo art. 120, comma 1, c.p.a., precisa ulteriormente che sono assoggettate al rito speciale in materia di contratti pubblici le controversie inerenti «gli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione ad essi riferiti». In passato si discuteva se tale formula – utilizzata dal legislatore per perimetrare l'ambito di applicazione del rito-appalti – dovesse ritenersi comprensiva unicamente delle procedure finalizzate all'aggiudicazione di pubblici appalti ovvero, al contrario, anche alle gare per l'affidamento di concessioni. Sul punto si è dovuta pronunciare l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha chiarito come il rito speciale in esame debba trovare applicazione anche con riferimento alle concessioni (Cons. St. Ad. plen., n. 22/2016). Con la pronuncia in questione è stato definitivamente riconosciuto che “il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 cod. proc. amm. trova applicazione anche nelle controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di servizi in concessione”. L'Adunanza Plenaria ha così chiarito che il termine “affidamento” deve ritenersi comprensivo “di tutte le tipologie contrattuali in relazione alle quali resta logicamente concepibile un affidamento e, quindi, sia degli appalti che delle concessioni. La definizione del contenuto semantico del lemma ‘affidamento' non può essere, in altri termini, ridotta o circoscritta in relazione ad alcuni solo dei diversi schemi formali nei quali si articola l'attività contrattuale pubblica e che, al contrario, esigono, tutti, appunto, un affidamento». Ciò in quanto il carattere derogatorio (con finalità acceleratorie) della disciplina di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a. impone all'interprete l'utilizzo del criterio ermeneutico letterale, dovendosi evitare interpretazioni di tipo estensivo, analogico e teleologico. Una volta chiarita la doverosità di un'interpretazione letterale, l'Adunanza Plenaria ha rilevato come l'espressione “procedure di affidamento” sia stata oggetto di una definizione puntuale da parte del legislatore all'art. 3, lett. rrr), d.lgs. n. 50/2016, secondo cui sono “procedure di affidamento” ai sensi e per gli effetti della disciplina sui contratti pubblici quelle inerenti “l'affidamento di lavori, servizi o forniture o incarichi di progettazione mediante appalto; l'affidamento di lavori o servizi mediante concessione; l'affidamento di concorsi di progettazione e di concorsi di idee”. Ciò posto, ragioni di coerenza sistematica impongono di considerare le nozioni di “procedura di affidamento” contenute nel Codice dei contratti pubblici e nel Codice del processo amministrativo come aventi il medesimo significato, benché siano formalmente contenute in due corpi normativi differenti. La giurisprudenza più recente ha ribadito che il rito processuale accelerato degli appalti pubblici si applica anche alle controversie aventi ad oggetto provvedimenti di revoca e/o annullamento d'ufficio di provvedimenti concernenti gare pubbliche. È stato infatti chiarito che «l'atto di annullamento – in ragione di asseriti vizi di legittimità, ed in presenza di ragioni di interesse pubblico attuali e concrete – costituisce espressione di un potere di riesame avente valenza ‘uguale e contrarià rispetto a quello di ‘amministrazione attivà che si è concretato con l'aggiudicazione definitiva», con conseguente pacifica applicabilità della dimidiazione dei termini processuali di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., e 120, comma 1, c.p.a., che si riferiscono rispettivamente ai «provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e agli «atti delle procedure di affidamento (...) relativi a pubblici lavori, servizi o forniture» (T.A.R. Lombardia Milano I, n. 1637/2018). Il provvedimento di auto-annullamento dell'aggiudicazione, invero, è senz'altro «concernente» la procedura di gara, inserendosi indubitabilmente ‒ sia pure in guisa caducatoria, con efficacia ex tunc ‒ in una «procedura di affidamento», quale ‘contrarius actus' rispetto al provvedimento di aggiudicazione. Anche dal punto di vista funzionale, la potestà di riesame in autotutela ha ad oggetto fatti, atti e vizi che affliggono la procedura, ossia le medesime questioni che, nel caso di ricorso avverso gli atti di gara, sarebbero rimesse al giudice amministrativo in un processo governato dal rito accelerato ex artt. 119 e 120 c.p.a. A fronte della omogeneità delle questioni sollevabili dinanzi al giudice – direttamente ovvero attraverso il ‘filtrò del provvedimento in autotutela dalla P.A. ‒ appare ragionevole assicurare altresì l'uniformità delle relative regole processuali. Diversamente opinando, «si condizionerebbe la applicazione dello speciale rito in materia di appalti al mero ‘accidente' costituito dalla esistenza di un procedimento di riesame, e si determinerebbe altresì – a fronte di atti e situazioni giuridiche affatto omogenee – una irragionevole disparità di trattamento tra: – la posizione dei soggetti ab origine e direttamente lesi dagli atti della procedura e dal provvedimento di aggiudicazione, in quanto non collocati utilmente in graduatoria, tutelabile nelle forme e nei modi di cui all'art. 120 c.p.a.; – la posizione dei soggetti che, inizialmente aggiudicatari, risultino lesi dai successivi atti di ritiro e di riesame incidenti sulla medesima procedura, esaminabile di contro in un giudizio governato dal ‘rito ordinario' (per quel che qui interessa, non assoggettato alla dimidiazione dei termini processuali, ivi compresi quelli per il deposito delle memorie conclusionali e delle repliche)» (T.A.R. Lombardia Milano I, n. 1637/2018). Tale ricostruzione è ampiamente condivisa dalla giurisprudenza, che già in precedenza aveva avuto modo di precisare che «il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 cod. proc. amm. si applica anche allorché oggetto di gravame sia la revoca dell'aggiudicazione, atteso che anche in tale fattispecie emergono le esigenze di celerità connesse al rito, il quale, peraltro, se comprende le procedure di affidamento dei contratti pubblici, deve logicamente essere applicato anche al contrarius actus che ne dispone la revoca o l'annullamento» (ex multis: Cons. St. V, n. 3025/2018; T.A.R. Lazio Roma II-bis, n. 5273/2015). In estrema sintesi, sono soggetti al rito in questione tutti gli atti e provvedimenti assunti dalle stazioni appaltanti nel corso di procedure di affidamento di commesse pubbliche, siano esse qualificabili in termini di appalto o di concessione, ivi compresi eventuali provvedimenti emessi all'esito di procedimenti di secondo grado e aventi ad oggetto la revoca e/o l'annullamento d'ufficio di provvedimenti emessi nel contesto di procedure ad evidenza pubblica. L'applicabilità agli affidamenti ‘in house' Anche i processi relativi agli affidamenti diretti di pubblici lavori, servizi e forniture effettuati in favore di enti in house sono soggetti al rito abbreviato speciale previsto in materia di appalti, con conseguente dimezzamento dei termini per proporre impugnazione (ex multis: T.A.R. Lombardia Brescia I, n. 117/2019; Cons. St. III, n. 326/2018; Cons. St. V, n. 2533/2017). Sebbene l'in house providing sia un fenomeno antitetico all'evidenza pubblica ‒ che si traduce nell'affidamento di un servizio nell'ambito di una relazione qualificabile alla stregua di un rapporto interorganico, per il quale non vi è il ricorso alla gara ‒ a ben vedere ciò non può comportare, sul piano processuale, l'inapplicabilità a tale modulo organizzativo del rito appalti e dei suoi termini dimidiati (Dagradi). L'ampiezza delle formule utilizzate dal legislatore (“procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture” e “atti delle procedure di affidamento”) conduce inevitabilmente a questa conclusione. Tali formule, infatti, si incentrano sul concetto di “procedure” che, nella sua latitudine semantica, è idoneo “a racchiudere tutta l'attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo». Sulla scorta della riportata considerazione, anche l'affidamento diretto di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house deve ritenersi riconducibile al concetto di “procedure” utilizzato dagli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120, comma 1, c.p.a. Ciò in quanto l'affidamento in questione, anche qualora si estrinsechi uno actu, è pur sempre espressione della potestà autoritativa della pubblica amministrazione, per quanto esercitata con modalità estremamente semplificate (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Del resto, al rito ex artt. 120 e ss. c.p.a. sono pacificamente assoggettabili gli affidamenti diretti dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 40.000 Euro. Qualora si negasse l'applicabilità di tale rito agli affidamenti diretti in house si introdurrebbe una pericolosa distinzione incentrata non sul profilo qualitativo legato al settore di attività della pubblica amministrazione, ma sulle concrete modalità con cui quest'ultima sia addivenuta all'affidamento, con il rischio di rendere eccessivamente sfumati e confusi i confini tra il rito ordinario e quello speciale (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Le esigenze sottese al rito speciale – ossia la spiccata celerità e l'ampiezza della tutela assicurata dai provvedimenti adottabili dal giudice amministrativo ai sensi degli artt. 120-124 c.p.a. – sono riferibili agli affidamenti in house nella medesima misura in cui sono riferibili ai contratti stipulati all'esito di procedure ad evidenza pubblica. Si pensi, per esempio, alla possibilità per il giudice di dichiarare l'inefficacia del contratto stipulato sulla base del provvedimento autoritativo di affidamento, incidendo sul rapporto negoziale già instaurato ‘a valle' di quest'ultimo. Da tale ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la necessità – sul piano logico oltreché su quello sistematico – di considerare anche gli affidamenti in house come assoggettati al rito predisposto ad hoc per le controversie attinenti alle procedure di affidamento di contratti di lavori, servizi e forniture. Ove si ammettesse la validità della tesi contraria, «rimarrebbero immuni dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia dei contratti già stipulati proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione del principio generale, di matrice anche Europea, dell'evidenza pubblica» (Cons. St. III, n. 326/2018). A conclusioni non diverse si giunge anche volendo richiamare l'argomentazione teleologica che muove dalla ratio della istituzione di un rito accelerato e speciale per le controversie concernenti gli affidamenti di contratti pubblici; le medesime necessità di speditezza processuale, infatti, si ravvisano anche nelle ipotesi in cui l'affidatario del contratto sia un ente in house. In estrema sintesi, ogni qualvolta si supponga esservi stata una violazione delle norme sull'evidenza pubblica, non può che applicarsi lo specifico rito processuale previsto per questo settore di attività della pubblica amministrazione (cfr. Cons. St. III, n. 326/2018). In definitiva, anche le delibere di affidamento di contratti in house devono essere impugnate nel termine dimidiato di 30 giorni di cui all'art. 120, c.p.a. L'applicabilità ai provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Ai sensi dell'art. 120 c.p.a. allo speciale rito processuale ivi previsto sono soggetti anche i provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) “riferiti” alle procedure di affidamento. Il tema del rapporto di connessione tra gli atti di gara e i provvedimenti dell'ANAC rappresenta uno dei profili più delicati in relazione all'ambito di applicazione della norma in esame. In proposito, devono ritenersi riferiti alle procedure di affidamento – e quindi soggetti al rito processuale accelerato ‒ anche i provvedimenti dell'Autorità (quali, a titolo esemplificativo, l'iscrizione nel casellario informatico o l'applicazione di sanzioni) conseguenti a provvedimenti di esclusione dalle gare adottati dalle singole stazioni appaltanti, in ragione dell'evidente connessione esistente tra tali atti e quelli di gara (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Inoltre, al medesimo rito accelerato sono soggetti – per espressa previsione legislativa – anche i pareri di precontenzioso che l'ANAC rilascia ai sensi dell'art. 211, comma 1, d.lgs. n. 50/2016. Viceversa, non soggiacciono alle regole processuali sancite dall'art. 120 c.p.a. (ma al rito di cui all'art. 119 c.p.a.) i provvedimenti non connessi a procedure di gara ma adottati autonomamente dall'Autorità (si pensi al provvedimento che dichiara la decadenza della SOA). L'improponibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica Sotto altro profilo, l'art. 120, comma 1, c.p.a., stabilisce che «gli atti» in materia di contratti pubblici, come sopra individuati, sono impugnabili «unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente». Tale previsione deve essere intesa nel senso che avverso gli atti delle procedure di affidamento non è proponibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (Salomone). Si tratta di una soluzione interpretativa rigorosamente fedele alla lettera della norma e rispondente all'esigenza di risolvere con (estrema) rapidità le controversie che riguardano le procedure di affidamento dei contratti pubblici. È del resto notorio che il ricorso straordinario, nella pratica, si rivela un rimedio adottabile nei casi in cui siano decorsi i termini per la contestazione dei provvedimenti amministrativi dinanzi all'autorità giurisdizionale. In definitiva, quindi, la proposizione del ricorso straordinario allungherebbe notevolmente i tempi per la soluzione delle controversie, tradendo in tal modo le esigenze di celerità che contraddistinguono le controversie in materia di affidamento dei contratti pubblici (Sandulli, Rito speciale in materia di contratti pubblici). Nel caso in cui venisse proposto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso un atto riferito a una procedura di gara, il ricorso sarebbe senz'altro inammissibile. La relativa inammissibilità, tuttavia, non potrebbe più essere eccepita dalla controparte dopo la trasposizione del giudizio dinanzi al giudice amministrativo. L'eccezione di inammissibilità della controparte può quindi avere ad oggetto unicamente il ricorso straordinario al Capo dello Stato e soltanto in tale sede può essere proposta. Una volta che il ricorso straordinario sia stato trasposto in sede giurisdizionale, pertanto, l'improponibilità del ricorso straordinario non può più essere fatta valere dalla parte interessata (T.A.R. Lazio Roma II, n. 3540/2017). Fase introduttiva dei giudizi: dimidiazione dei termini per proporre impugnazione e decorrenzaLa fase introduttiva dell'azione processuale in materia di contratti pubblici (e dei relativi termini) deve essere letta nell'ottica della ratio acceleratoria che caratterizza l'intero rito, volto a configurare un processo lampo, la cui durata ne esce concentrata sia rispetto al rito codicistico ordinario, sia rispetto a quello (già) speciale disciplinato dall'art. 119 c.p.a. Sotto questo profilo, ciò che appare come l'eccezione più evidente è la dimidiazione (anche) del termine per la proposizione del ricorso introduttivo: da sessanta a 30 giorni. Secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza, non trova poi applicazione l'aumento del termine di impugnazione previsto dall'art. 41, comma 5, c.p.a. (secondo cui «Il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di 30 giorni, se le parti o alcune di esse risiedono in altro Stato d'Europa, o di 90 giorni se risiedono fuori d'Europa»), atteso che il termine legale accelerato per l'impugnazione degli atti di gara non tollera deroghe ed è destinato a prevalere sulla disciplina generale dei termini processuali (cfr. Cons. St. IV, n. 1896/2015). La legge fissa il medesimo termine di 30 giorni anche per l'introduzione del ricorso per motivi aggiunti, nonché per la proposizione del ricorso incidentale. Sempre in punto di decorrenza del termine di impugnazione, l'art. 120, comma 5, c.p.a., prevede testualmente che il termine dimezzato per la proposizione del ricorso introduttivo decorra “dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 del d.lgs. n. 163/2006» (ossia, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Codice, dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50/2016) oppure, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara e che siano autonomamente lesivi, «dalla pubblicazione di cui all'art. 66, comma 8, dello stesso decreto» (ossia, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Codice, dalla pubblicazione di cui all'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, oppure da quella di cui agli artt. 73, comma 4, e 98, d.lgs. n. 50/2016) ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto comunque acquisita. In buona sostanza, la legge prevede un principio generale per cui il termine per impugnare un atto inerente a una procedura di affidamento decorre dal momento in cui tale atto venga comunicato al soggetto leso nelle forme prescritte dalla legge, ovvero dal momento in cui quest'ultimo ne venga comunque a conoscenza. Ciò posto in termini generali, la decorrenza del termine di impugnazione degli atti inerenti a gare pubbliche presenta peculiarità differenti a seconda del tipo di atto che si prenda in considerazione, come vedremo nei paragrafi che seguono. La decorrenza del termine per impugnare il bando di gara e il relativo regime impugnatorioI bandi di gara, di norma, sono impugnabili soltanto unitamente all'atto applicativo conclusivo della procedura, in quanto solo quest'ultimo atto – generalmente – è idoneo a produrre una lesione concreta e attuale di situazioni giuridiche soggettive. Pertanto, di norma, la decorrenza del termine per l'impugnazione del bando di gara si ricollega alla decorrenza del termine per l'impugnazione del relativo atto applicativo, i.e. il provvedimento di aggiudicazione. Talvolta, tuttavia, i bandi di gara contengono clausole tali da produrre una lesione immediata di situazioni giuridiche soggettive. In casi simili il bando deve essere impugnato immediatamente, senza attendere l'esito finale della procedura e senza che vi siano controinteressati a cui dover notificare il ricorso (cfr. Cons. St. V, n. 5926/2019; T.A.R. Campania Napoli V, n. 1133/2020). L'art. 120, comma 5, c.p.a., contempla espressamente l'ipotesi in cui il bando di gara possa configurarsi quale atto autonomamente lesivo, prevedendo – per tali casi – la sua immediata impugnabilità nel termine decadenziale di 30 giorni dalla pubblicazione. In particolare, tale disposizione prevede testualmente che il termine decadenziale per l'impugnazione dei bandi di gara autonomamente lesivi decorra dalla pubblicazione nella G.U. della Repubblica italiana, ai sensi dell'art. 66, comma 8, d.lgs. n. 163/2006 (art. 120, comma 5, c.p.a.): anche in questo caso il legislatore ha – in modo impreciso – mantenuto il riferimento al d.lgs. n. 163/2006 nonostante la sua abrogazione operata con il d.lgs. n. 50/2016. In buona sostanza, l'art. 120, comma 5, c.p.a., riconnette il decorso del termine di impugnazione dei bandi alla pubblicazione realizzata a livello nazionale. Il rinvio alla disciplina delle modalità di pubblicazione dei bandi di gara è mosso con riferimento alla normativa previgente di cui al vecchio Codice e, pertanto, deve essere ‘attualizzato' con riferimento alla nuova disciplina, contenuta negli artt. 72 e 73 del d.lgs. n. 50/2016. Con riferimento alla pubblicità ‘nazionale' dei bandi di gara (che secondo il nuovo Codice non può, di norma, precedere quella Europea), l'art. 73 del d.lgs. n. 50/2016 elabora un regime di pubblicazione profondamente rinnovato. In particolare, si prevede che la pubblicità nazionale dei bandi venga realizzata in una duplice forma: in primo luogo, si richiede che il bando venga pubblicato sulla piattaforma digitale dei bandi di gara istituita presso l'ANAC; in secondo luogo, si prevede che – non oltre 2 giorni lavorativi successivi alla pubblicazione sulla piattaforma digitale ANAC – il bando sia pubblicato anche sul profilo di committente. Tale regime di pubblicazione, tuttavia, non è ancora operativo in quanto la piattaforma digitale dei bandi di gara dell'ANAC non è ancora stata attivata. Dovrà essere l'Autorità medesima, con proprio atto pubblicato in Gazzetta ufficiale, a individuare la data di partenza per il funzionamento della piattaforma. Fino a tale data, si prevede che i bandi continuino ad essere pubblicati nella G.U. della Repubblica italiana, e sembra pertanto logico che a tale pubblicazione debba essere ricondotto il decorso del termine per la relativa impugnazione giurisdizionale. In merito al regime di impugnabilità dei bandi di gara, si rilevano due questioni problematiche. Il primo tema riguarda l'esatta individuazione dei casi in cui il bando di gara deve essere considerato autonomamente lesivo e, pertanto, direttamente impugnabile senza attendere la conclusione della procedura. Il secondo tema riguarda la precisa identificazione dei soggetti legittimati a impugnare i bandi di gara nonché, più in generale, dei soggetti legittimati a impugnare gli atti relativi a procedure ad evidenza pubblica, con particolare riferimento ai soggetti che non abbiano presentato domanda di partecipazione. In merito all'esatta perimetrazione dell'onere di immediata impugnazione dei bandi, nonché in merito alla legittimazione al ricorso nel rito appalti, nel corso degli anni si è consolidato un orientamento giurisprudenziale che ha preso le mosse dall'insegnamento impartito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le pronunce n. 1/2003, n. 4/2011 e n. 9/2014. In primo luogo, tale orientamento pone una regola generale secondo cui soltanto i soggetti che abbiano partecipato alla gara sono legittimati ad impugnarne l'esito, in quanto solo in capo a questi ultimi è riscontrabile una posizione giuridica differenziata. Infatti, in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto, il tema della legittimazione al ricorso deve essere declinato nel senso di correlare tale legittimazione «ad una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione» (Cons. St., Ad. plen., n. 9/2014). Pertanto, «chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione non è dunque legittimato a chiederne l'annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione – per lui res inter alios acta – venga nuovamente bandita» (Cons. St. Ad. plen., n. 9/2014, recentemente richiamata da Cons. St. V, n. 2276/2021 e da T.A.R. Lazio Roma II-bis, n. 3858/2021). Al tempo stesso, il medesimo orientamento tradizionale precisa che a tale regola si può derogare – per esigenze di tutela della concorrenza – qualora: i) si contesti in radice l'indizione della gara; ii) all'inverso, si contesti l'assenza di gara, avendo l'amministrazione proceduto all'affidamento diretto del contratto; iii) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano autonomamente lesive. Ai fini della proposizione del ricorso avverso il bando di gara, inoltre, non è necessario aver presentato domanda di partecipazione anche nel caso in cui la stazione appaltante abbia posto a base d'asta un prezzo meramente ‘simbolicò, sganciato dai valori di mercato, che obblighi chiunque voglia partecipare alla gara a presentare un'offerta al rialzo. Non avrebbe, infatti, alcun senso imporre all'operatore economico di presentare un'offerta destinata ineludibilmente ad essere esclusa in quanto caratterizzata da un prezzo superiore all'importo determinato dalla pubblica amministrazione; in tale fattispecie, si ritiene che «l'ostacolo alla partecipazione alla gara abbia natura obiettiva e non meramente soggettiva (o di mera opportunità)», così da integrare senz'altro un'ipotesi di immediata impugnabilità della clausola senza bisogno di presentare previamente domanda di partecipazione alla gara (cfr., ex multis, T.A.R. Calabria Reggio Calabria I, n. 418/2018). In secondo luogo, l'orientamento in parola chiarisce che i bandi vanno normalmente impugnati unitamente ai relativi atti applicativi, in quanto solo questi ultimi identificano in concreto il soggetto leso e rendono attuale e concreta la lesione della sfera giuridica dell'interessato. Al tempo stesso, il medesimo orientamento precisa che i bandi di gara devono considerarsi autonomamente lesivi – e pertanto direttamente impugnabili – qualora contengano clausole ‘escludenti' (cfr. T.A.R. Sicilia Palermo III, n. 1551/2018), ossia aventi l'effetto di impedire la partecipazione alla procedura di gara a determinati soggetti. Hanno quindi valenza immediatamente lesiva le clausole c.d. ‘espulsive', che individuano requisiti di partecipazione non posseduti dall'interessato, tali da precludergli con certezza e con immediatezza la possibilità di partecipare alla procedura nonché, in ultima analisi, di conseguire l'aggiudicazione. Vanno ricomprese nel genus delle clausole immediatamente escludenti (e quindi immediatamente impugnabili) le clausole che risultino manifestamente incomprensibili o che implichino oneri del tutto sproporzionati, «che comportino sostanzialmente l'impossibilità per l'interessato di accedere alla gara ed il conseguente arresto procedimentale. Fra le ipotesi sopra richiamate può, sul piano esemplificativo, essere ricompresa quella di un bando che, discostandosi macroscopicamente dall'onere di clare loqui, al quale, per i suoi intrinseci caratteri, ogni bando deve conformarsi, risulti indecifrabile nei suoi contenuti, così impedendo all'interessato di percepire le condizioni alle quali deve sottostare precludendogli, di conseguenza, direttamente ed immediatamente la partecipazione» (T.A.R. Lazio Roma III, n. 7661/2020). Secondo la medesima giurisprudenza, è necessario procedere all'impugnativa immediata del bando di gara anche qualora si ritenga che le clausole dello stesso impediscano, indistintamente a tutti i concorrenti, una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica. In tali casi, infatti, risulta pregiudicato il corretto esercizio della gara, in violazione dei princìpi di libera concorrenza e di par condicio tra i partecipanti. Ciò – oltre che di fronte a clausole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile, o impongano obblighi contrari alla legge, o prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta – avviene in presenza di disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, a condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente, oppure a gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (cfr., ex multis, Cons. St. III, n. 2238/2021; T.A.R. Lazio Roma II-bis, n. 3858; T.A.R. Lazio Roma II-bis, n. 2986/2021). Di converso, tutte le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al relativo atto applicativo, e soltanto dall'operatore economico che abbia partecipato alla gara o che abbia comunque manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. Il tradizionale regime di impugnabilità dei bandi di gara, come sopra enucleato, è stato messo in discussione dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato, con l'ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria n. 5138 del 7 novembre 2017, la quale ha auspicato un ripensamento della tradizionale perimetrazione dell'onere di immediata impugnazione dei bandi «alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici e dell'evoluzione della giurisprudenza della CGUE», sollecitando l'Adunanza Plenaria ad affermare la sussistenza di tale onere anche per il caso di erronea adozione del criterio del prezzo più basso in luogo dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nonché – più in generale – per tutte le clausole «attinenti le regole formali e sostanziali di svolgimento della procedura di gara, nonché con riferimento agli altri atti concernenti le fasi della procedura precedenti l'aggiudicazione, con la sola eccezione delle prescrizioni generiche ed incerte, il cui tenore eventualmente lesivo è destinato a disvelarsi solo con i provvedimenti attuativi» (Cons. St. III, n. 5138/2017). L'ordinanza in parola ha preso atto che una recente sentenza del Consiglio di Stato si discostava dall'indirizzo tradizionalmente fatto proprio dall'Adunanza Plenaria, affermando l'ammissibilità di un ricorso proposto immediatamente contro il bando, anche in assenza di atti applicativi della lex specialis, tutte le volte in cui essa individui un criterio di aggiudicazione ritenuto illegittimo (cfr. Cons. St. III, n. 2014/2017). L'Adunanza Plenaria, disattendendo i rilievi della Sezione rimettente, ha tuttavia ribadito la perdurante validità dell'orientamento giurisprudenziale tradizionale, affermando che la normativa vigente non consente di «rinvenire elementi per pervenire all'affermazione che debba imporsi all'offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata: versandosi nello stato iniziale ed embrionale della procedura, non vi sarebbe infatti né prova né indizio della circostanza che l'impugnante certamente non sarebbe prescelto quale aggiudicatario; per tal via, si imporrebbe all'offerente di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica lesione, al fine di tutelare un interesse (quello strumentale alla riedizione della gara) certamente subordinato rispetto all'interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non realizzabilità» (Cons. St. Ad. plen., n. 4/2018). Ciò, innanzitutto, in ragione del tenore testuale dell'art. 120, comma 5, c.p.a., che ha previsto l'onere di impugnare direttamente non già tutti i bandi di gara, ma unicamente quelli «autonomamente lesivi». Secondo l'Adunanza Plenaria, tale inciso può essere interpretato «in un unico senso: e cioè che tale eventualità sia ravvisabile soltanto nell'ipotesi in cui il bando presenti clausole escludenti», pur nell'accezione ampliativa fatta propria dalle Adunanze Plenarie n. 1/2003 e n. 4/2011 (Cons. St. Ad. plen., n. 4/2018). La mancata impugnazione immediata del criterio di aggiudicazione non può pertanto essere assimilata ad una tacita acquiescenza rispetto al criterio medesimo, in quanto ciò si risolverebbe in una «implausibile compressione del diritto di difesa» (Cons. St. V, n. 5202/2018). Tale conclusione è conforme al principio per cui «nelle gare pubbliche l'accettazione delle regole di partecipazione non comporta l'inoppugnabilità delle clausole del bando regolanti la procedura che fossero, in ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non può mai opporre ad un concorrente un'acquiescenza implicita alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione dei princìpi fissati dagli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale» (T.A.R. Lombardia Milano II, n. 710/2020; Cons. St. III, n. 1491/2019; Cons. St. III, n. 1350/2019). L'Adunanza Plenaria ha altresì confermato – sulla scia del proprio precedente n. 4/2011 – che la legittimazione a ricorrere avverso gli atti di una procedura di gara spetta, di regola, a coloro che abbiano presentato domanda di partecipazione. La legittimazione al ricorso, in sostanza, deve essere «correlata ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione» (Cons. St. Ad. plen., n. 4/2011), Rispetto a tale regola possono essere individuate soltanto tre eccezioni. La prima deroga riguarda la legittimazione dell'operatore che intenda impugnare una clausola del bando che prescriva determinati requisiti palesemente non posseduti dall'operatore stesso e che sia, pertanto, direttamente escludente. In siffatte circostanze, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la presentazione di una domanda di partecipazione così come l'adozione di un atto esplicito di esclusione. Tale deroga mira a evitare che un soggetto palesemente non in possesso dei requisiti richiesti, per poter impugnare la lex specialis, sia costretto a presentare una domanda di partecipazione inutile, che si tradurrebbe in un onere del tutto formalistico e pleonastico. La seconda deroga riguarda la legittimazione del soggetto che voglia contrastare in radice la scelta della stazione appaltante di indire la procedura. Tale soggetto, pur senza partecipare alla gara, è legittimato ad impugnarne il bando nei soli casi in cui dimostri «una adeguata posizione differenziata, costituita, per esempio, dalla titolarità di un rapporto incompatibile con il nuovo affidamento contestato» (Cons. St. III, n. 2535/2019). La terza e ultima deroga attiene alla legittimazione dell'operatore economico che intenda contestare un affidamento diretto. La legittimazione si spiega alla luce del giudizio di assoluto disvalore manifestato dal diritto dell'Unione Europea nei confronti di atti contrastanti con il principio di concorrenza. Del resto, la mancanza di una procedura selettiva impedisce di collegare la legittimazione al ricorso alla partecipazione ad un procedimento che – in radice – è del tutto mancato. Al di fuori di queste ipotesi, l'Adunanza Plenaria ha stabilito che deve restare fermo il principio per cui «la legittimazione al ricorso nelle controversie riguardanti l'affidamento di contratti pubblici spetta esclusivamente ai partecipanti alla gara, poiché solo da tale qualità deriva il riconoscimento di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela» (Cons. giust. amm. sic., Sez. giur., n. 444/2014). Secondo l'Adunanza Plenaria, non vi sarebbe ragione di discostarsi da tali princìpi in quanto «l'operatore del settore che non ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di un interesse di mero fatto alla ceduazione dell'intera selezione (ciò, in tesi), al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara), ma tale preteso interesse ‘strumentale' avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto, infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell'interesse differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione, essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non trovandosi al cospetto di alcuna clausola ‘escludente' (...); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta dall'operatore del settore, in quanto questi, pur potendo presentare l'offerta si è astenuto dal farlo» (Cons. St. Ad. plen., n. 4/2018). Nelle ipotesi di mancata pubblicità del bando, l'art. 120, comma 2, c.p.a., stabilisce che «il ricorso non può comunque essere più proposto decorsi 30 giorni dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione definitiva (...), a condizione che tale avviso contenga la motivazione dell'atto con cui la stazione appaltante ha deciso di affidare il contratto senza previa pubblicazione del bando. Se sono omessi gli avvisi o le informazioni (...), il ricorso non può comunque essere proposto decorsi sei mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto». La ratio della norma in esame è stata individuata nell'intento di sollecitare la stazione appaltante a espletare gli adempimenti notiziali prescritti dalla legge. Il Consiglio di Stato, con il parere sullo schema di codice processuale, ha messo puntualmente in evidenza gli aspetti negativi di tale previsione. In particolare, i giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato che la citata norma introduce una vistosa deroga ai principi giuridici consolidati in materia di impugnazione degli atti amministrativi, paventando il rischio che tale previsione possa rendere inattaccabili contratti stipulati senza alcuna gara. In senso adesivo ai rilievi del Consiglio di Stato, è il caso di evidenziare come il peculiare regime di pubblicità al quale è assoggettata la stipula del contratto non sia tale da consentire l'agevole conoscibilità del negozio ai soggetti potenzialmente interessati alla proposizione dell'impugnativa. La decorrenza del termine per impugnare l'aggiudicazione della proceduraPer quanto concerne l'impugnabilità dei provvedimenti di aggiudicazione di gare pubbliche, occorre in primo luogo sottolineare che l'art. 204, d.lgs. n. 50/2016 aveva inserito nell'abrogato comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a. una disposizione che sanciva espressamente – a pena di inammissibilità del ricorso – la non impugnabilità della proposta di aggiudicazione (ossia di quella che nel regime previgente era denominata «aggiudicazione provvisoria») e di tutti gli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività. Sennonché, abrogando interamente il comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., il legislatore del c.d. decreto 'Sblocca-cantieri' ha finito (non si sa quanto volontariamente) per abrogare anche tale disposizione; con specifico riferimento alla proposta di aggiudicazione (ex aggiudicazione provvisoria), non è quindi chiaro se dopo l'abrogazione della disposizione che ne specificava la ‘non impugnabilità' essa debba comunque continuare a essere considerata quale atto non direttamente impugnabile in quanto meramente endoprocedimentale, oppure se debba considerarsi ‘facoltativamente impugnabile' al pari della vecchia aggiudicazione provvisoria, della quale era possibile (ma non obbligatorio) dolersi già prima dell'aggiudicazione definitiva, con l'onere di proporre poi motivi aggiunti nei confronti di quest'ultima. Sul punto, in assenza di interventi chiarificatori da parte del legislatore, a parere di chi scrive sembra preferibile l'opzione più conservativa, che depone in favore della perdurante non immediata impugnabilità della proposta di aggiudicazione (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). In relazione all'aggiudicazione (definitiva), è stato previsto che il relativo termine di impugnazione inizi a decorrere dal momento in cui l'impresa non aggiudicataria riceva la comunicazione di cui all'art. 76, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 50/2016 e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante concluda con esito positivo la verifica della sussistenza dei requisiti di gara in capo all'aggiudicatario, ai sensi dell'art. 32, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016. Ciò in quanto l'esito positivo della verifica di cui all'art. 32, comma 7, del Codice, integra una mera condizione di efficacia dell'aggiudicazione (per tale intendendosi quella che nel regime previgente era denominata “aggiudicazione definitiva”), la quale è “suscettibile di produrre effetti giuridici rilevanti già prima di detta verifica e indipendentemente da essa” (Cons. St. V, n. 726/2018) e va pertanto impugnata a prescindere dall'esito della successiva verifica dei requisiti. Dopo aver chiarito che il termine di impugnazione dell'aggiudicazione (definitiva) decorre di norma dalla relativa comunicazione, occorre interrogarsi se tale principio operi anche in presenza di una comunicazione irregolare e/o comunque incompleta. Sono prospettabili diverse teorie circa l'idoneità di una comunicazione non completa a provocare il decorso dei termini di impugnazione. Secondo un primo indirizzo ipotizzabile, il termine dovrebbe sempre decorrere dal momento della comunicazione dell'aggiudicazione definitiva, ancorché tale comunicazione non possa considerarsi completa e quindi satisfattiva, fermo restando il diritto del ricorrente di proporre motivi aggiunti nel momento in cui, realizzato l'accesso agli atti, egli venga a conoscenza di altre ragioni di illegittimità. Tale conclusione sarebbe confermata dallo stesso art. 120, comma 5, c.p.a., nella parte in cui la decorrenza del termine di impugnazione viene ricondotta, «in ogni altro caso», alla conoscenza dell'atto. Secondo un diverso orientamento, il termine di 30 giorni decorrerebbe solo dal momento in cui la parte abbia piena contezza di tutti gli eventuali profili di legittimità del provvedimento, anche mediante l'esercizio del diritto di accesso agli atti del procedimento. Tale orientamento, fondato sull'assunto di un ineludibile coordinamento logico-sistematico fra le regole generali in materia di termine per proporre ricorso e la ‘conoscenzà cui si riferisce il citato art. 120, comma 5, c.p.a., valorizza la circostanza per cui – qualora la stazione appaltante trasmetta una comunicazione incompleta ovvero, pur in presenza di una comunicazione esaustiva e completa, sia indispensabile conoscere gli elementi tecnici dell'offerta dell'aggiudicatario per aver chiare le ragioni che hanno spinto la P.A. a preferirla – il potenziale ricorrente non può avere piena contezza dei profili di illegittimità dell'atto senza prima accedere agli atti (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Qualora l'impresa possa avere piena cognizione dei potenziali vizi del provvedimento di aggiudicazione solo tramite l'accesso agli atti, il termine decadenziale per l'impugnazione subirebbe quindi uno slittamento in avanti di un numero di giorni pari a quello necessario per acquisire la piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto e dei suoi profili di illegittimità (cfr. T.A.R. Calabria Reggio Calabria I, n. 366/2017). L'orientamento in esame è meritevole di apprezzamento nelle sue linee generali ed è ormai significativamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, sebbene alcune recenti pronunce ne abbiano parzialmente ridimensionato la portata. Da un lato, infatti, è stata ribadita la perdurante validità del principio generale di estrazione pretoria secondo cui, in caso di comunicazione incompleta, il termine d'impugnazione non può decorrere, dovendosi in tal caso aver riguardo, ai fini della decorrenza del citato termine, alla conoscenza comunque acquisita (anche in sede di accesso agli atti) di tutti gli elementi necessari per il potenziale ricorrente a verificare non solo la lesività dell'atto impugnando, ma anche dei suoi profili di illegittimità. Dall'altro lato, è stato tuttavia chiarito che – per considerare il provvedimento di aggiudicazione talmente ‘incompletò da evitare il decorso del termine per l'impugnazione – è necessario che al candidato non aggiudicatario (e quindi potenziale ricorrente) sia stato comunicato unicamente il ‘dispositivo' del provvedimento medesimo (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Soltanto in tal caso – oltreché, ovviamente, nel caso in cui la comunicazione dell'aggiudicazione sia stata omessa tout court ‒ il termine decadenziale di 30 giorni può essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso dall'aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell'atto e dei relativi profili di illegittimità. Tale incremento del termine decadenziale (‘slittamento in avantì) non può tuttavia ritenersi potenzialmente infinito. Esso deve infatti contenersi in una misura non superiore ai 15 giorni necessari per esercitare l'accesso c.d. ‘semplificatò e ‘accelerato' di cui all'art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50/2016. Infatti, qualora la mancata tempestiva conoscenza dei profili di illegittimità dell'aggiudicazione sia dovuta (non solo all'incompletezza della comunicazione della stazione appaltante, ma anche) all'inerte contegno dell'operatore economico ricorrente, il quale non abbia diligentemente e tempestivamente esercitato le facoltà ad esso attribuite dall'ordinamento per acquisire con prontezza la documentazione di gara (i.e. la richiesta di accesso ‘semplificatò e ‘acceleratò ex art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50/2016), tale circostanza non può ridondare a danno del principio di certezza dei rapporti giuridici, presidiato dall'inoppugnabilità degli atti amministrativi una volta che sia inutilmente decorso il relativo termine di impugnazione. In buona sostanza, si ritiene che il termine per impugnare l'aggiudicazione possa subire uno ‘slittamento in avantì i) soltanto nel caso in cui la stazione appaltante si sia limitata a comunicare il solo ‘dispositivo' del provvedimento, e ii) comunque per un periodo massimo di 15 giorni (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). In tutti gli altri casi, la conoscenza legale del provvedimento di aggiudicazione (ossia la conoscenza maturata a seguito di rituale comunicazione della stazione appaltante) deve ritenersi sufficiente a inverare e cristallizzare la lesione della sfera giuridica del concorrente non aggiudicatario, ormai irrimediabilmente pretermesso; da quel momento sorge l'interesse attuale e concreto all'impugnazione dell'aggiudicazione e dal medesimo momento, pertanto, non può che iniziare a decorrere il termine decadenziale di 30 giorni, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio del ricorrente, garantito in ogni caso dalla possibilità di proporre motivi aggiunti qualora la (successiva) compiuta conoscenza degli atti procedimentali valga a «disvelare e lumeggiare la effettiva latitudine della ‘ingiustizià dell'agere amministrativo e dei vizi che eventualmente la affliggono» (ex multis, T.A.R. Lombardia Milano I, n. 71/2019). Diversamente, qualora si affermasse tout court il principio per cui il dies a quo per impugnare l'aggiudicazione andrebbe sempre individuato nel momento in cui l'interessato assuma piena cognizione del vizio del provvedimento, si «renderebbe mutevole e in definitiva incerto il momento in cui gli atti di gara siano divenuti inoppugnabili, e dunque il momento in cui l'esito di questa possa ritenersi consolidato. Da questa notazione emerge come una simile ricostruzione non possa essere accettata, per via dell'elevato tasso di incertezza sulle procedure di affidamento di contratti pubbliche che essa produrrebbe, ed a tutela del quale è posto il termine a pena di decadenza per proporre il ricorso giurisdizionale (che è addirittura dimezzato, ex art. 120, comma 2, cod. proc. amm., a conferma delle esigenze di celerità che permeano il settore dei contratti pubblici, pur nel rispetto del diritto di difesa dell'operatore economico)» (Cons. St. V, n. 2015/2020). Si è anticipato come l'art. 120, comma 5, c.p.a., ricolleghi il decorso del termine di impugnazione dell'aggiudicazione all'avvenuto espletamento degli obblighi di comunicazione gravanti sulle stazioni appaltanti ai sensi dell'art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50/2016. In giurisprudenza è sorta tuttavia la necessità di chiarire i rapporti tra il quinto comma dell'art. 120 c.p.a. e il primo comma dell'art. 29, d.lgs. n. 50/2016, il quale, dopo aver posto in capo alle stazioni appaltanti l'obbligo di pubblicazione generalizzata sul profilo di committente di tutti gli atti delle procedure di affidamento, precisa in maniera sibillina che “i termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione decorrono dalla pubblicazione sul profilo del committente”. Si è posto, proprio con specifico riguardo ai provvedimenti di aggiudicazione, il problema di capire se la pubblicazione generalizzata degli atti di gara realizzata dalle stazioni appaltanti ai sensi dell'art. 29 del d.lgs. n. 50/2016 possa, usualmente, ritenersi idonea a far decorrere il relativo termine di impugnazione al pari della comunicazione individuale di cui all'art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50/2016. La questione è stata recentemente risolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 12 del 2 luglio 2020. Tale pronuncia, dopo aver ricostruito i vari passaggi dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale sul punto, ha chiarito in via generale che la pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione su profilo di committente ai sensi dell'art. 29, d.lgs. n. 50/2016, può senz'altro ritenersi idonea a far decorrere il relativo termine di impugnazione, essendo anch'essa una data ‘oggettivamente riscontrabile' e non potendosi obliterare il dato testuale dell'ultimo periodo del primo comma del citato art. 29. Secondo l'Adunanza Plenaria, l'individuazione della data da cui far decorrere il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione deve dipendere dal rispetto delle disposizioni sulla formalità inerenti tanto alla informazione degli offerenti, quanto alla pubblicazione degli atti, in via (tendenzialmente) paritaria. Ciò posto, resta ferma la necessità – imposta dal diritto Eurounitario ‒ di non costringere gli offerenti alla proposizione di un ricorso ‘al buio': qualora la pubblicazione dell'aggiudicazione sul profilo di committente sia tale da non consentire l'apprezzamento dei profili di illegittimità dell'atto (ad esempio perché priva dei necessari allegati e/o delle eventuali giustificazioni rese nell'ambito del sub-procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta) il decorso del termine di impugnazione deve essere differito per il tempo necessario a consentire il tempestivo accesso agli atti di gara da parte del soggetto interessato. L'Adunanza Plenaria ha poi ulteriormente precisato che, al pari della pubblicazione generalizzata degli atti di gara ai sensi dell'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, sono altresì idonee a far decorrere termine di impugnazione tutte le “forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara e accettate dai partecipanti alla gara”, ma a condizione che “gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati» (Cons. St. Ad. plen., n. 12/2020). Infine, a conclusione della disamina sul regime di impugnabilità del provvedimento di aggiudicazione della procedura, è appena il caso di ricordare che «costituisce principio assolutamente consolidato quello per cui il concorrente che abbia impugnato gli atti della procedura di gara precedenti l'aggiudicazione – tipicamente, il provvedimento che ne abbia disposto l'esclusione ovvero quello che abbia reciprocamente disposto l'ammissione di un controinteressato – è tenuto ad impugnare anche il provvedimento di aggiudicazione (...), a pena di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, l'utilità finale che l'operatore economico intende conseguire attraverso il giudizio avverso gli atti della procedura di aggiudicazione è l'affidamento dell'appalto, quale che sia il provvedimento impugnato e, nel caso di atto diverso dall'aggiudicazione, quale che sia l'utilità strumentale immediatamente perseguita (nel caso, ad esempio, dell'impugnazione dell'esclusione, la riammissione alla procedura); passaggio necessario, a tal fine, è comunque l'eliminazione dell'aggiudicazione ad altro concorrente» (T.A.R. Lazio Roma III, n. 7557/2019; Cons. St. V, n. 5179/2018). Decorrenza del termine per impugnare gli esiti della verifica dei requisiti dopo l'aggiudicazioneSi è visto che l'aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti (art. 32, comma 7, del Codice). Tale adempimento si inserisce nella fase conclusiva della procedura e incide in modo diretto sull'esito operativo della procedura medesima, condizionando l'efficacia dell'aggiudicazione al positivo controllo dell'affidabilità dell'aggiudicatario e accertando, di conseguenza, la possibilità di stipulare o meno il contratto. Ciò comporta che il concorrente utilmente collocato in graduatoria abbia interesse a sindacare immediatamente la regolarità dello svolgimento del procedimento di verifica. Non può quindi essere condiviso l'orientamento giurisprudenziale (minoritario) secondo cui gli esiti di tale verifica sarebbero impugnabili solo a seguito della comunicazione della data di avvenuta stipulazione del contratto (in tal senso, T.A.R. Abruzzo Pescara I, n. 373/2016). Tale affermazione, infatti, “sovrappone due piani, che invece vanno tenuti distinti, relativi, l'uno, all'individuazione del provvedimento impugnabile, l'altro, all'individuazione del termine di decorrenza per la relativa impugnazione” (Cons. St. V, n. 726/2018). D'altro canto, è altrettanto vero che è l'aggiudicazione (definitiva) “l'unico atto conclusivo della procedura selettiva in relazione al quale sorge un immediato onere di impugnazione da parte dei concorrenti non aggiudicatari” (Cons. St. V, n. 726/2018). In tale contesto, per poter impugnare gli esiti del controllo di cui all'art. 32, comma 7, del Codice, il concorrente non aggiudicatario deve pertanto avere già proposto impugnazione avverso il provvedimento di aggiudicazione. Tale provvedimento produce, nei confronti dei concorrenti non aggiudicatari, un effetto immediato consistente nella privazione definitiva del 'bene della vita' rappresentato dall'aggiudicazione della gara medesima. Qualora il concorrente non aggiudicatario abbia fatto acquiescenza all'atto di aggiudicazione, l'impugnazione contro l'esito del controllo “non può costituire una rimessione in termini per la tutela dell'interesse all'aggiudicazione non tempestivamente fatto valere contro l'atto conclusivo della procedura. Se invece impugnativa vi sia stata, ancorché con esito negativo in relazione ai motivi dedotti, permane l'interesse al corretto svolgimento della fase di controllo il cui esito negativo potrebbe dar luogo allo scorrimento della graduatoria» (Cons. St. V, n. 726/2018). Sennonché, in dottrina si registra anche un orientamento che sembra aprire le porte alla possibilità per gli operatori economici interessati di far valere la carenza dei requisiti in capo all'aggiudicatario emersa solamente nella successiva fase di comprova anche qualora l'aggiudicazione non sia già sub iudice per altri e distinti motivi. Tale orientamento si basa sull'assunto per cui nelle gare pubbliche la fase relativa all'ammissione dei concorrenti è solitamente caratterizzata da un riscontro meramente estrinseco della documentazione allegata dagli operatori economici, normalmente consistente in mere autodichiarazioni, e pertanto è assai probabile che l'eventuale sussistenza di motivi di esclusione possa emergere solo nella successiva fase di verifica e di comprova effettuata dalla stazione appaltante nei confronti dell'aggiudicatario ai sensi dell'art. 32, d.lgs. n. 50/2016. Secondo la tesi in esame, «in tali eventualità, sarebbe del tutto irragionevole e limitativo del diritto di difesa precludere al concorrente interessato la facoltà di proporre un ricorso contro l'aggiudicazione, diretto a far valere la carenza dei requisiti di ammissione dell'aggiudicatario emersi dopo l'effettuazione di una nuova e più completa istruttoria, conclusa con un nuovo provvedimento» (Lipari, La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale). In ogni caso, chi scrive di aderire alla tesi secondo cui l'esito positivo della verifica di cui all'art. 32, comma 7, del Codice, sarebbe autonomamente impugnabile anche prima della comunicazione di avvenuta stipulazione del contratto, purché l'aggiudicazione sia essa stessa già sub iudice. Più precisamente, si ritiene che l'asserita illegittimità del controllo dei requisiti possa costituire oggetto di motivi aggiunti al ricorso che sia stato tempestivamente proposto avverso l'aggiudicazione definitiva (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Al tempo stesso, qualora l'esito di tale verifica sia negativo, esso porterà all'esclusione dell'originario aggiudicatario e potrà quindi essere autonomamente impugnato da quest'ultimo. Sebbene una siffatta impugnazione abbia ad oggetto un provvedimento di esclusione disposto all'esito della valutazione sulla sussistenza dei requisiti, anche nel periodo di vigenza dell'art. 120, comma 2-bis, c.p.a., si riteneva che essa fosse soggetta al rito appalti comune, e non già a quello super-accelerato. Ciò in quanto l'applicazione del nuovo sub-rito aveva senso nella misura in cui fosse ancora realizzabile lo scopo ad esso sotteso: ossia la celere perimetrazione della platea dei concorrenti prima dell'adozione del provvedimento di aggiudicazione. Una volta che fosse sopraggiunta (l'aggiudicazione e con essa) l'impossibilità di realizzare tale scopo, non vi sarebbe più stata alcuna ragione per fare applicazione del nuovo rito super-accelerato (Bertonazzi). Così chiarito questo profilo, occorre affrontare la tematica della decorrenza del termine per impugnare gli esiti della verifica dei requisiti successiva all'aggiudicazione. La giurisprudenza, sul punto, ha chiarito che il termine per dedurre vizi attinenti al sub-procedimento di verifica decorre dalla conoscenza – comunque acquisita – del relativo esito (cfr. Cons. St. V, n. 726/2018). Tale conoscenza non deve necessariamente coincidere, dal punto di vista temporale, con le comunicazioni di cui all'art. 76, comma 5, lettere c) e d) del d.lgs. n. 50/2016, le quali non hanno specificamente ad oggetto gli esiti della verifica del possesso dei requisiti successiva all'aggiudicazione, bensì l'eventuale decisione della stazione appaltante di non aggiudicare l'appalto e la data di avvenuta stipulazione dell'appalto medesimo. Tuttavia, poiché le sopra menzionate comunicazioni – cronologicamente successive all'attività di verifica – necessariamente presuppongono quest'ultima e ne forniscono la conoscenza legale, la loro ricezione da parte dell'impresa concorrente costituisce il termine ultimo possibile di decorrenza per la presentazione dei motivi aggiunti sugli esiti del controllo. Ciò non impedisce, chiaramente, che l'impugnazione sia proposta anche prima delle predette comunicazioni, qualora gli esiti della verifica siano conosciuti per altra via. Il ricorso cumulativo nel caso di gare suddivise in lottiIl d.lgs. n. 50/2016 ha introdotto nel corpo del testo dell'art. 120 c.p.a. una ulteriore previsione, relativa alle impugnazioni cumulative delle gare a più lotti. Il nuovo comma 11-bis dell'art. 120 c.p.a. prevede infatti che – nelle ipotesi di presentazione di offerte per più lotti – l'impugnazione si possa proporre con ricorso cumulativo (e, quindi, con un conseguente risparmio in termini di contribuzione unificata) solo se siano dedotti identici motivi di gravame avverso lo stesso atto. Tale innovazione legislativa ha recepito un indirizzo giurisprudenziale consolidatosi già prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, che ammetteva in via eccezionale il gravame di più atti con un solo ricorso, solo quando tra di essi fosse ravvisabile una connessione procedimentale o funzionale (da accertarsi in modo rigoroso al fine di evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato), tale da giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (cfr. T.A.R. Emilia Romagna Bologna I, n. 452/2017). Il deposito del ricorsoIl deposito del ricorso principale (così come quello del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, nonché dell'appello avverso l'ordinanza cautelare) deve avvenire – al pari del rito di cui all'art. 119 c.p.a. – nel termine di 15 giorni che decorre dall'ultima notificazione degli atti, in via telematica. Per l'intervento volontario, viceversa, non è previsto un termine per la notifica; il suo deposito, in ogni caso, deve avvenire entro 15 giorni dall'ultima notifica dell'atto stesso e fino a 15 giorni prima dell'udienza. La decorrenza del termine per impugnare le sentenze e le ordinanze cautelari di primo gradoPer quanto concerne i giudizi di secondo grado: i) l'appello avverso l'ordinanza cautelare collegiale deve essere notificato nel termine di 60 giorni dalla pubblicazione del provvedimento, se esso non è stato notificato, ovvero nel termine di 30 giorni dalla sua notificazione; l'appello dovrà poi essere depositato nel termine di 15 giorni dalla notifica. L'abbreviazione riguarda soltanto i termini di deposito, dato che la tutela cautelare nel giudizio amministrativo è ‘generale', e si estende anche al rito speciale in materia di contratti pubblici; ii) il termine per appellare le sentenze o il dispositivo è stabilito in 30 giorni dalla notifica; in difetto, entro tre mesi dalla pubblicazione. Il termine di deposito, inoltre, è determinato in 15 giorni. La notifica alla stazione appaltante (oltreché all'Avvocatura dello Stato)Sempre in relazione alla fase introduttiva del giudizio, l'art. 120, comma 4, c.p.a., stabilisce innovativamente che – in caso di impugnazione dell'aggiudicazione (definitiva) – se la stazione appaltante fruisce del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, il ricorso debba essere notificato, oltre che presso l'Avvocatura, anche alla stazione appaltante nella sua sede reale, in data non anteriore alla notifica presso l'Avvocatura. Ciò al solo fine di consentire l'operatività della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto. Tale precisazione legislativa, meramente riproduttiva di quanto già previsto dal d.lgs. n. 163/2006 in sede di recepimento della c.d. Direttiva Ricorsi, è finalizzata a consentire all'amministrazione procedente di adottare tutti i provvedimenti necessari e connessi al giudizio sull'aggiudicazione. Come appena accennato, tale previsione è resa necessaria dalla disposizione contenuta all'art. 32, comma 9, d.lgs. n. 50/2016 (in precedenza art. 11, comma 10-ter, d.lgs. n. 163/2006), in quanto prevede l'effetto sospensivo derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale contro l'aggiudicazione definitiva. La notifica del ricorso con riferimento alle procedure di gara svolte in forma aggregataQualora si intenda impugnare una procedura di gara svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell'interesse anche di altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato e non anche agli altri enti. Lo ha recentemente chiarito l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, così interpretando il dettato dell'art. 41, comma 2, c.p.a. (Cons. St. Ad. Plen, n. 8/2018). I motivi aggiuntiPer quanto riguarda il rito processuale ordinario, l'istituto dei motivi aggiunti è previsto dall'art. 43 c.p.a. secondo cui «i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte». La medesima norma prevede che: i) ai motivi aggiunti si applichi la medesima disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini; ii) le notifiche alle controparti costituite avvengano ai sensi dell'art. 170 c.p.c.; iii) se la nuova (e connessa) domanda è stata proposta con ricorso separato dinanzi allo stesso tribunale, il giudice provveda alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 70 c.p.a. In buona sostanza, mediante l'istituto dei motivi aggiunti si vuole consentire alla parte ricorrente – in determinate ipotesi – di ampliare il thema decidendum del giudizio. Sussistono differenti tipologie di motivi aggiunti. In particolare, i motivi aggiunti possono essere ‘propri' o ‘impropri». I motivi aggiunti c.d. ‘propri' sono quelli mediante i quali il ricorrente, con riferimento a fatti già conosciuti, avanza nuove censure avverso il provvedimento già impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio. In altri termini, il potere di impugnazione del ricorrente non si ‘consuma' a seguito della proposizione del ricorso originario; anche in relazione a fatti già conosciuti, è comunque possibile per il ricorrente proporre nuovi motivi di ricorso avverso l'atto impugnato, purché – ovviamente – i motivi aggiunti siano notificati entro l'originario termine decadenziale di 60 giorni dalla piena conoscenza del provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio. La possibilità di avanzare nuove censure avverso un provvedimento già impugnato in relazione a fatti già conosciuti, infatti, non consente al ricorrente di beneficiare di un ampliamento del termine decadenziale. I motivi aggiunti c.d. ‘impropri' si dividono invece in due tipologie. Da un lato, vi è una prima tipologia di motivi aggiunti ‘impropri' che consente al ricorrente di ampliare il thema decidendum del giudizio – mediante nuove censure nei confronti del provvedimento originariamente impugnato – in relazione a circostanze da lui incolpevolmente ignorate al momento della proposizione del ricorso introduttivo. Questo primo tipo di motivi aggiunti ‘impropri' consente di «compensare il carattere fittizio della piena conoscenza. Invero, se da un lato la legge obbliga il privato leso (o ritenuto tale) dall'agere amministrativo ad impugnare con ricorso ‘al buio' quando ancora non ha accortezza piena del provvedimento impugnato, dall'altro si consente allo stesso ricorrente di ampliare le proprie censure entro 60 giorni dalla conoscenza effettiva (e non più ‘piena', cioè – come visto – fittizia) del provvedimento impugnato» (Caringella, Giustiniani). Dall'altro lato, la seconda tipologia di motivi aggiunti ‘improprì consente al ricorrente – quando in pendenza di un giudizio amministrativo sopravvenga un nuovo provvedimento sfavorevole connesso a quello già impugnato – di impugnare il nuovo atto nel contesto del medesimo giudizio. È stato chiarito, per quanto attiene al rito ordinario, come l'utilizzo da parte del ricorrente di quest'ultima tipologia di motivi aggiunti (in luogo della proposizione di un ricorso autonomo) sia una mera facoltà e non già un obbligo previsto a pena di inammissibilità dell'impugnativa, fermo restando l'obbligo imposto al giudice dal terzo comma dell'art. 43 c.p.a. di disporre la riunione dei ricorsi proposti dinanzi al medesimo tribunale contro atti connessi che avrebbero potuto essere impugnati con motivi aggiunti (Pittoni). Per quanto concerne l'applicazione dell'istituto dei motivi aggiunti al rito speciale in materia di contratti pubblici, l'art. 120 c.p.a. contiene una disciplina sostanzialmente nuova, che si compendia in due disposizioni. Innanzitutto, l'art. 120, comma 5, c.p.a., unifica il termine per la proposizione dei motivi aggiunti: a differenza di quanto previsto dalla disciplina di recepimento della Direttiva Ricorsi (d.lgs. n. 53/2010), l'attuale normativa prevede che il termine per la proposizione dei motivi aggiunti – avverso gli atti impugnati o avverso atti diversi da quelli già impugnati – sia pari a 30 giorni. Ulteriore profilo di novità recato dalla disciplina codicistica riguarda l'impugnativa avverso i nuovi atti che riguardano la medesima procedura di gara. Ai sensi dell'art. 120, comma 7, c.p.a., essi devono necessariamente essere impugnati a mezzo di ricorso per motivi aggiunti, a differenza di quanto previsto con riferimento al rito ordinario (in cui, come si è visto nel paragrafo precedente, la proposizione dei motivi aggiunti è meramente facoltativa, fermo restando l'obbligo del giudice di disporre la riunione ai sensi dell'art. 43, comma 3, c.p.a.). Tale previsione risponde all'esigenza di concentrazione nel medesimo giudizio di tutte le censure che attengono alla stessa operazione di gara. Stante il tenore letterale della norma, dalla quale trapela un principio di doverosità nell'adozione dell'istituto dei motivi aggiunti per la contestazione dei nuovi atti attinenti alla medesima procedura, tale regola deve essere intesa come preclusiva di altri mezzi di tutela (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). L'applicazione giurisprudenziale dell'istituto dei motivi aggiunti nel rito appalti conosce diverse questioni problematiche. Una di queste è quella concernente l'eventuale possibilità, per un operatore economico la cui esclusione da una gara sia ritenuta legittima, di vedersi scrutinati nel merito i motivi aggiunti eventualmente proposti contro la mancata esclusione dell'aggiudicatario nel contesto del medesimo giudizio. Sul punto, paiono meritevoli di pregio le argomentazioni sviluppate da una recente sentenza (cfr. T.A.R. Lazio Roma II-ter, n. 4517/2019) che, pur ponendosi in controtendenza rispetto a un orientamento giurisprudenziale consolidato (cfr. Cass. S.U., n. 31226/2017), ha ritenuto sussistente la legittimazione ad agire di una impresa che, con il ricorso originario, aveva impugnato la propria esclusione dalla gara, ad impugnare con motivi aggiunti la mancata esclusione della aggiudicataria, al fine di ottenere la rinnovazione della gara, nonostante il ricorso avverso l'esclusione fosse stato ritenuto infondato. Ciò anche sulla base dell'evoluzione giurisprudenziale formatasi sulla base dei noti pronunciamenti della Corte di giustizia UE in materia di rapporti tra ricorso incidentale escludente e ricorso principale, con particolare riferimento alle sentenze Fastweb (Corte di giustizia UE, Sez. X, 4 luglio 2013, C-100/12) e Puligenica (Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016 in causa C-689/13. Non rilevando che si tratti di due ricorsi incrociati o di un unico ricorso corredato da motivi aggiunti, il punto nodale della questione riguarda «il carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara». In tale contesto il T.A.R. Lazio ha ritenuto che, nonostante non si ravvisassero nel caso di specie due ricorsi incrociati, si vertesse comunque in un caso di «carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara», trattandosi di una fattispecie speculare ma sostanzialmente identica a quella relativa al ricorso incidentale escludente. Per tale ragione i giudici amministrativi capitolini hanno riconosciuto sussistenti, nel caso di specie, tanto l'interesse che la legittimazione ad agire in relazione all'interesse strumentale alla ripetizione della gara. In buona sostanza, il T.A.R. Lazio ha affermato che – nel caso in cui un operatore economico impugni con il ricorso principale la propria esclusione e con motivi aggiunti la mancata esclusione dell'aggiudicataria – i motivi aggiunti dovrebbero comunque essere scrutinati nel merito anche in caso di ritenuta infondatezza del ricorso principale, posto che il ricorrente conserva comunque un interesse giuridicamente rilevante alla riedizione della gara (cfr. T.A.R. Lazio Roma II-ter, n. 4517/2019). Ancorché entro limiti ben precisi, nel processo amministrativo è riconosciuta la possibilità di proporre motivi aggiunti direttamente in sede di appello. L'art. 104, comma 3, c.p.a., prevede infatti che in appello «possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati». In particolare, non è possibile impugnare con motivi aggiunti in sede di appello atti sopravvenuti in corso di giudizio. È invece possibile proporre motivi aggiunti direttamente in appello allorché si tratti di censurare vizi già insiti nei provvedimenti originariamente impugnati, purché – ovviamente – tali vizi non fossero conosciuti (né conoscibili) in primo grado, essendo affiorati soltanto dopo la conoscenza di nuovi documenti. Tale regola generale è applicabile anche con riferimento al rito appalti, «ove l'art. 120, comma 7, c.p.a. – nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 50/2016 – prevede che «i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti» solo con riferimento al primo grado di giudizio, ma non già per il grado di appello, per il cui svolgimento l'art. 120, comma 11, c.p.a. non richiama la regola del comma 7 – ma solo quelle dei commi 3, 6, 8 e 10 e, dopo la novella del 2016, anche dei commi 2-bis, 6-bis, 8-bis e 9 – per l'ovvia ragione che, in virtù del generale principio di cui all'art. 104, comma 3, c.p.a., non è possibile impugnare, con motivi aggiunti, un atto sopravvenuto alla sentenza già gravata né, a fortiori, è possibile impugnare la sentenza di prime cure che si sia pronunciata sulla legittimità dell'atto di gara sopravvenuto alla prima sentenza» (Cons. St. III, n. 1633/2017). In buona sostanza, anche nel rito appalti è possibile proporre motivi aggiunti in grado di appello, ma al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado. In tali casi, infatti, non ci si trova tanto in presenza di una nuova domanda, quanto di una mera articolazione della domanda già proposta dinanzi al giudice di primo grado. Viceversa, i motivi aggiunti non sono ammessi qualora si intenda impugnare nuovi atti, sopravvenuti rispetto alla sentenza di prime cure (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Il ricorso incidentalePer quanto riguarda il rito processuale ordinario, l'istituto del ricorso incidentale è previsto dall'art. 42 c.p.a. secondo cui “le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale”. Il ricorso incidentale “è l'atto con il quale, a seguito della proposizione di un ricorso principale, il soggetto controinteressato nell'ambito di un processo amministrativo (...) propone una propria impugnazione (derivata dalla proposizione del ricorso principale e, per tale ragione, denominata ‘incidentale') avverso il medesimo atto oggetto di impugnazione principale (...) censurandolo sotto profili diametralmente opposti rispetto a quelli denunciati con il ricorso principale» (Lubrano). L'interesse del controinteressato alla proposizione del ricorso incidentale sorge unicamente nel momento in cui viene proposto il ricorso principale. Il termine per la proposizione del ricorso incidentale è pari a 60 giorni, decorrenti dall'avvenuto ricevimento della notifica del ricorso principale. Per i soggetti intervenuti il termine decorre dall'effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale. Il ricorso incidentale – che deve avere gli stessi contenuti richiesti dalla legge per il ricorso principale – deve essere depositato in via telematica nel termine perentorio di 30 giorni, decorrenti dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto si è perfezionata anche per il destinatario (art. 45, comma 1, c.p.a.). Nel rito appalti, il ricorso incidentale è soggetto alla dimidiazione dei termini previsti per la relativa notifica e per il relativo deposito. Ciò comporta che il ricorso incidentale, in materia di appalti, debba essere: i) notificato alle controparti nel termine di 30 giorni dal ricevimento della notifica del ricorso principale; ii) depositato telematicamente nel termine di 15 giorni dal perfezionamento dell'ultima notifica dell'atto medesimo. L'ordine di esame tra il ricorso principale e il ricorso incidentale. Il ricorso incidentale escludenteSi è visto che l'interesse del controinteressato a proporre il ricorso incidentale sorge proprio a causa della presentazione del ricorso principale. Ciò vale anche per il rito appalti. Si pensi ad esempio all'aggiudicatario di una gara pubblica: egli non ha, in origine, alcun interesse ad impugnare un provvedimento a lui favorevole, anche qualora ritenga che il punteggio attribuitogli sia stato inferiore al dovuto. Qualora il secondo classificato contesti in sede giurisdizionale l'ammissibilità dell'offerta dell'aggiudicatario, quest'ultimo maturerà tuttavia un interesse a contestare anch'egli il provvedimento impugnato con il ricorso principale, deducendo a propria volta l'inammissibilità dell'offerta del ricorrente principale. In tali situazioni, si pone il problema di determinare l'ordine in cui il giudice amministrativo è tenuto ad esaminare le questioni sottoposte alla sua attenzione. Fin da epoca risalente, la giurisprudenza amministrativa si è posta il problema di definire i rapporti intercorrenti – nel rito appalti – tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. ‘escludente'. Sul punto si è sviluppato un vivacissimo dibattito giurisprudenziale, in cui hanno recitato un ruolo di primo piano l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di giustizia dell'Unione Europea. In un primo momento, l'Adunanza Plenaria era giunta alla conclusione secondo cui il giudice avrebbe dovuto in ogni caso pronunciarsi sia sul ricorso principale che su quello incidentale, nel rispetto dei princìpi processuali sull'interesse e sulla legittimazione a ricorrere, al fine di garantire la tutela dell'interesse strumentale di ciascuna impresa alla ripetizione della gara (cfr. Cons. St., Ad. plen., n. 9/2008). A seguito di alcune criticità emerse nella prassi operativa, l'Adunanza Plenaria aveva poi ritenuto di tornare sui propri passi, attribuendo all'esame del ricorso incidentale c.d. ‘escludente' un carattere necessariamente preliminare rispetto all'esame del ricorso principale, e stabilendo che la fondatezza del ricorso incidentale – implicando l'assenza di una posizione legittimante in capo al ricorrente principale – dovesse determinare l'improcedibilità del ricorso principale, anche laddove il ricorrente principale medesimo avesse allegato la sussistenza di un interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura (cfr. Cons. St. Ad. plen., n. 4/2011). Dopo qualche tempo si è inserita nel dibattito la Corte di giustizia dell'Unione Europea, con la nota sentenza Fastweb, la quale ha affermato che «qualora per mezzo di un ricorso incidentale l'aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un appalto deduca che l'offerta del ricorrente principale sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione appaltante, sì da rendere inammissibile l'impugnazione (a sua volta incentrata sulla non conformità dell'offerta dell'aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche) proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una gara a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel merito da parte del giudice investito della controversia» (Corte giust. UE, Sez. X, 4 luglio 2013, C-100/12). Sollecitata dunque ad un nuovo intervento che tenesse conto delle conclusioni a cui era pervenuta la Corte di giustizia, l'Adunanza Plenaria è ritornata sulla questione, riconoscendo l'obbligo dell'esame (anche) del ricorso principale, pur successivamente alla riconosciuta fondatezza del ricorso incidentale, ma soltanto a condizione che i) si versasse all'interno del medesimo procedimento, che ii) gli operatori rimasti in gara fossero soltanto due e che iii) il vizio rilevato fosse il medesimo per entrambe le offerte (c.d. ‘simmetria invalidante') (cfr. Cons. St. Ad. plen., n. 9/2014). La Corte di giustizia dell'Unione Europea, tuttavia, chiamata anch'essa a pronunciarsi nuovamente sulla medesima questione, con la celebre sentenza Puligienica ha precisato i) come i princìpi affermati nella sentenza Fastweb dovessero considerarsi applicabili anche nel caso di gare con più di due concorrenti, e ii) come l'interesse del ricorrente principale non dovesse essere ricollegato all'iniziativa giurisdizionale, ma all'operato dell'amministrazione, la quale avrebbe comunque potuto agire in autotutela e annullare l'intera procedura, con conseguente eventuale riedizione della gara medesima (Corte giust. UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016, C-869/13). A seguito della sentenza Puligienica, nessuno dubita più che – nel caso in cui siano rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi reciprocamente escludenti – si imponga la disamina di entrambi i ricorsi, quali che siano i motivi di censura ivi contenuti. Allo stesso modo, nessuno dubita più che alle medesime conclusioni debba pervenirsi – anche in presenza di una pluralità di contendenti rimasti in gara – qualora il ricorso principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo della procedura in quanto: «I) si censuri la regolarità della posizione – non soltanto dell'aggiudicatario e di tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore della propria ma, anche – dei rimanenti concorrenti collocati in posizione deteriore; II) ovvero perché siano proposte censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad invalidare l'intera selezione» (Cons. St. Ad. plen., ord. n. 6/2018). Non vi è, invece, unanimità di vedute circa l'ipotesi in cui, essendo rimasti in gara una pluralità di concorrenti, «a) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero purtuttavia alcune offerte non «attinte» dai vizi riscontrati; b) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso la lex specialis tese ad invalidare l'intera gara e determinanti – ove accolte – la certa ripetizione della procedura» (Cons. St., Ad. plen., ord. n. 6/2018). Secondo un primo orientamento, la sentenza Puligienica imporrebbe anche in tali casi «la disamina del ricorso principale, pur dopo l'avvenuto accoglimento del ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di ricorso principale poiché la domanda di tutela può essere evasa soltanto con l'esame di tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria l'aggiudicazione del contratto all'impresa successivamente classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre ritenere opportuno, dinanzi all'esclusione delle prime classificate, riesaminare in autotutela gli atti di ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti spazio effettivo per aggiudicare a un'offerta regolare e si addivenga alla ripetizione della procedura» (Cons. St. Ad. plen., ord. n. 6/2018). Vi è poi un differente orientamento, secondo cui «l'esame del ricorso principale si imporrebbe soltanto laddove l'accoglimento dello stesso produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura dell'offerente parte della controversia» (Cons. St. Ad. plen., ord. n. 6/2018). Nuovamente investita della questione, l'Adunanza Plenaria ha ritenuto di chiamare in causa (ancora una volta) la Corte di giustizia dell'Unione Europea, chiedendo se il diritto Eurounitario «possa essere interpretato nel senso che esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell'autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell'interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell'ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell'interesse affermato (art. 2697 c.c.), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 c.c.)» (Cons. St. Ad. plen., ord. n. 6/2018). Così sollecitata sul tema, la Corte di giustizia si è pronunciata mettendo (forse) la parola fine alla questione, statuendo che il diritto Eurounitario «deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un ricorso principale, proposto da un offerente che abbia interesse ad ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono quest'ultimo, ed inteso ad ottenere l'esclusione di un altro offerente, venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell'appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorsi» (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18). In buona sostanza, i giudici Eurounitari hanno puntualizzato come il principio che impone di esaminare il ricorso principale anche in caso di fondatezza del ricorso incidentale debba essere applicato anche quando abbiano presentato offerta anche soggetti ulteriori rispetto alle parti del giudizio e anche se le offerte di questi ultimi non siano state attinte da alcuna censura. Ciò in quanto «qualora il ricorso dell'offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l'amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell'amministrazione stessa» (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18). In buona sostanza, anche se in caso di accoglimento di tutte le censure proposte dal ricorrente principale e dai ricorrenti incidentali sopravvivessero alcune offerte perfettamente regolari e non attinte da censura alcuna, il giudice conserverebbe la facoltà di non aggiudicare la gara qualora nessuna delle offerte rimaste sia giudicata soddisfacente: ciò basta perché il ricorrente principale mantenga sempre un interesse giuridicamente rilevante a che il suo ricorso venga scrutinato, potendo comunque sperare nella riedizione della gara da parte della stazione appaltante. Alla luce di tali circostanze, la Corte ha chiarito che «la ricevibilità del ricorso principale non può – a pena di pregiudicare l'effetto utile della direttiva 89/665 – essere subordinata alla previa constatazione che tutte le offerte classificate alle spalle di quella dell'offerente autore di detto ricorso sono anch'esse irregolari. Tale ricevibilità non può neppure essere subordinata alla condizione che il suddetto offerente fornisca la prova del fatto che l'amministrazione aggiudicatrice sarà indotta a ripetere la procedura di affidamento di appalto pubblico. L'esistenza di una possibilità siffatta deve essere considerata in proposito sufficiente» (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18). La tutela cautelareLa fase cautelare nel processo in materia di contratti pubblici ha sempre rivestito, e riveste tuttora, un ruolo molto significativo nello sviluppo dell'intero rito processuale. Nel giudizio cautelare, infatti, si concentrano le maggiori aspettative delle parti, emergendo in tale sede valutazioni che inevitabilmente finiscono con il condizionare il giudizio di merito. Analogamente, è nel contesto della fase cautelare che finisce per concretizzarsi il c.d. effetto bloccante del contenzioso amministrativo sulle commesse pubbliche (in verità limitato a meno dell'1% del totale delle procedure bandite e a poco più di un quarto dei ricorsi proposti). Al fine di contemperare i confliggenti interessi della fase cautelare, il legislatore è intervenuto più volte a disciplinare e a re-disciplinare tale momento processuale, sino alle profonde innovazioni operate con il d.l. n. 90/2014, con la successiva legge di conversione n. 114/2014, con il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) ed infine, da ultimo, con il d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni) convertito dalla l. n. 120/2020. Ad oggi, dunque, la disciplina relativa alla tutela cautelare è rinvenibile nel combinato disposto degli artt. 120 e 55 ss. c.p.a., nonché nell'art. 32 del d.lgs. n. 50/2016. La tutela cautelare ante causam e il periodo di sospensione automatica (c.d. stand still) L'art. 61 c.p.a. generalizza la tutela presidenziale monocratica ante causam, prima di allora prevista solo dall'art. 245 del d.lgs. n. 163/2006. In definitiva, quindi, la tutela cautelare ante causam è attualmente ammessa in tutti i giudizi riservati alla cognizione del giudice amministrativo, ad eccezione di taluni riti speciali, ontologicamente incompatibili con lo strumento cautelare (si pensi, ad esempio, al giudizio elettorale disciplinato dall'art. 129 c.p.a.). Vengono in tal modo superati i numerosi dubbi di costituzionalità del previgente art. 245 del d.lgs. n. 163/2006, tacciato di disparità di trattamento «allorché si (fosse evidenziato) anche in altre materie (che si era) in presenza della medesima situazione giuridica soggettiva tutelata nella materia degli appalti» (cfr. Cons. St., parere n. 355/2010). Peraltro, l'ambito della delega conferita per il recepimento della Direttiva Ricorsi non aveva consentito al legislatore delegato di operare diversamente e, pertanto, l'organo consultivo suggeriva di dare corso ad «una urgente e specifica iniziativa legislativa diretta a prevedere la tutela cautelare (ante causam) per la generalità dei casi di giurisdizione amministrativa». La delega al Governo per la formulazione del codice del processo amministrativo ha accolto detti rilievi. In particolare, l'art. 44, comma 2, lett. f), della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha indicato, tra i criteri direttivi della codificazione, anche la necessità di generalizzare la tutela cautelare ante causam. In attuazione della legge delega, l'art. 61 c.p.a. ha introdotto in via ordinaria e generale la tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo. La norma in commento, in particolare, dispone che il provvedimento che accoglie l'istanza cautelare ante causam perda effetto se entro 15 giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare, ed esso non venga depositato nei successivi 5 giorni corredato da istanza di fissazione di udienza. Una tutela analoga a quella testé descritta è prevista dall'art. 56 c.p.a.: ossia la tutela cautelare monocratica in corso di causa. La disciplina sin qui tratteggiata, tuttavia, trova oramai poco spazio di utilizzo pratico nella materia dei contratti pubblici; infatti, salvo casi di natura eccezionale, nelle ipotesi di contestazioni giudiziali contro l'aggiudicazione è sufficiente la proposizione del ricorso a produrre de facto la sospensione dell'efficacia del provvedimento gravato, con la conseguenza che la proposizione dell'istanza cautelare ante causam appare superflua. Il riferimento è all'art. 32, comma 11, d.lgs. n. 50/2016, il quale dispone che «se è proposto ricorso avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi 20 giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L'effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell'art. 15, comma 4, del codice del processo amministrativo di cui all'Allegato 1 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l'esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare». Tale periodo si somma a quello precedente di 35 giorni di cui al comma 9 della medesima disposizione, che impone lo stand-still per la stipula del contratto a decorrere dall'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione. La sospensione ex lege ha una durata temporale pari a 20 giorni, decorrenti dalla notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante. Secondo il tenore letterale della norma, la sospensione automatica per l'arco temporale anzidetto è condizionata all'intervento entro tale termine almeno del provvedimento cautelare di primo grado, ovvero della pubblicazione del dispositivo della sentenza di merito di primo grado resa in sede cautelare. Può essere opportuno ricordare che il legislatore del decreto Semplificazioni, al fine di evitare applicazioni eccessivamente ‘estensive' del termine di stand still e quindi di incentivare la stipula dei contratti pubblici entro il termine di 60 giorni, si è premurato di intervenire sul testo dell'art. 32, comma 8, d.lgs. n. 50/2016, per specificare che “non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”. In ogni caso, la cessazione dell'effetto sospensivo ex lege – e quindi, la reviviscenza della potestà di addivenire alla stipula dello strumento negoziale – coincide: i) con la declaratoria di incompetenza, resa dall'adito organo di giustizia in sede di esame della domanda cautelare; ii) con la fissazione, con ordinanza, della data di discussione del merito senza che vengano concesse misure cautelari; iii) con il rinvio al merito dell'esame della domanda cautelare, previo assenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare. Le ragioni della sospensione automatica sono da ricondurre all'esigenza di evitare il reciproco condizionamento tra il giudizio sull'aggiudicazione e la stipulazione del contratto in sede amministrativa, al fine di garantire la tutela effettiva degli interessi delle parti in campo (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Si è già anticipato che l'effetto sospensivo automatico rende sostanzialmente superflua, per il ricorrente, la tutela cautelare ante causam e quella con decreto presidenziale. Tuttavia, sul punto è stato opportunamente evidenziato che la perdurante rilevanza di tale istituto potrebbe venire in considerazione nelle seguenti ipotesi: i) nei casi in cui non si applica il termine dilatorio previsto dalla legge (art. 32, comma 10, lett. a) e b), del d.lgs. 50/2016); ii) nei casi in cui, anche qualora venga impugnata l'aggiudicazione, il ricorrente voglia utilizzare una tutela d'urgenza in quanto si siano verificate circostanze eccezionali di mancato rispetto del termine dilatorio. Tali casi sono stati enucleati nei primi commenti alla nuova disciplina e consistono essenzialmente: i) nell'avvio dell'esecuzione d'urgenza dell'appalto, da parte della stazione appaltante, pur in assenza di un contratto formalmente stipulato (art. 32, commi 13 e 8, d.lgs. 50/2016); ii) nella violazione dell'effetto sospensivo automatico da parte della stazione appaltante; iii) qualora dette forme di tutela vengano richieste direttamente dalla stazione appaltante resistente o dai controinteressati, per ottenere il prima possibile una pronuncia cautelare ad essi favorevole, che renda possibile la stipulazione del contratto (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). I termini della tutela cautelare collegiale Per quanto riguarda la domanda cautelare collegiale, in applicazione dell'art. 119, comma 2, c.p.a., i termini – ordinatori – stabiliti dall'art. 55, comma 5, c.p.a. sono dimezzati. Il collegio, pertanto, si pronuncia sulla domanda cautelare nella prima camera di consiglio successiva al decimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell'ultima notificazione, nonché al quinto giorno dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a un giorno libero prima della camera di consiglio. La ‘sospensiva dietro cauzione' e la ‘sospensiva temporizzata' Uno step importante nell'evoluzione della disciplina della fase cautelare del rito-appalti è stato rappresentato dal d.l. n. 90/2014. Nella versione originaria del decreto, precedente alle modifiche apportate in sede di conversione, le innovazioni recate alla disciplina de qua erano due: i) l'imposizione di un obbligo generalizzato, sebbene non del tutto inderogabile, di subordinazione della concessione della misura cautelare collegiale alla prestazione di una apposita cauzione; ii) la previsione di una ‘temporalizzazione' (ossia una durata massima) della misura cautelare, da concedersi per un periodo non superiore a 60 giorni. Per quanto riguarda l'introduzione di una forma di cauzione obbligatoria (peraltro, senza nemmeno fissare un parametro per il suo calcolo) per la concessione della tutela interinale, il predetto decreto aveva previsto che il giudice avrebbe dovuto sempre accompagnare la concessione della misura cautelare richiesta con la prestazione di una adeguata cauzione, salvo che ricorressero eccezionali ragioni. Si andava così a snaturare il sistema previgente, posto che la cauzione, da tutela della parte processuale suscettibile di essere danneggiata dall'applicazione della misura interinale, diveniva un disincentivo per la parte potenzialmente ‘nel giusto' a domandare anche la tutela cautelare. Ciò comportava inoltre un ulteriore innalzamento degli oneri che un operatore avrebbe dovuto sostenere per poter accedere alla giustizia nel settore degli appalti, aggiungendosi a quelli già imposti i) dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in ordine agli speciali (per valore) contributi unificati dovuti per la presentazione di ricorsi e motivi aggiunti ex art. 120 c.p.a., e ii) dall'art. 41 dello stesso d.l. n. 90/2014, in ordine alla condanna aggravata per lite temeraria che può arrivare sino all'1% del valore del contratto, così superando i tetti previsti per i restanti contenziosi. Le suddette considerazioni rendevano evidente la duplice illegittimità della previsione, al contempo contrastante con la Costituzione e con il diritto Eurounitario, nella misura in cui obbligava in via indefettibile la parte ricorrente a sostenere un esborso pecuniario per vedere tutelato il proprio diritto e soprattutto nella misura in cui limitava fortemente il diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo dei contratti pubblici). Sulla scorta delle argomentazioni svolte, il nuovo regime è stato immediatamente cassato sin dalla primissima giurisprudenza applicativa del d.l. n. 90/2014, che ha proceduto alla sua disapplicazione diretta per contrarietà al diritto Eurounitario senza previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea. In particolare, il T.A.R. Milano, esprimendosi in sede cautelare sulla richiesta di sospensione del provvedimento con il quale una stazione appaltante aveva esercitato il diritto di recesso da un contratto stipulato con un R.T.I. a seguito della trasmissione di un'informativa antimafia a carico della mandataria, ritenne di concedere la sospensiva, non subordinandola tuttavia ad alcuna forma di cauzione (cfr. T.A.R. Lombardia Milano IV, n. 1044/2014). I giudici milanesi ritennero infatti «l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione di una cauzione, in quanto l'art. 40, comma 1 lett. b), del d.l. n. 90/2014, deve essere disapplicato per incompatibilità comunitaria, nella parte in cui stabilisce l'obbligo di subordinare necessariamente l'efficacia della misura cautelare alla prestazione di una cauzione, atteso che tale previsione risulta contrastante con gli artt. 1 e 2 della direttiva comunitaria 2007, n. 66, che impongono agli Stati membri l'adozione di misure idonee a garantire, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalle direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE, procedure di ricorso accessibili ed efficaci, senza alcuna discriminazione tra i vari operatori in dipendenza della loro diversa capacità finanziaria». Una analoga sterilizzazione della neo-introdotta disciplina in materia di tutela cautelare si registrò anche ad opera del T.A.R. Napoli (cfr. T.A.R. Campania Napoli IV, n. 1199/2014). I giudici partenopei, pur seguendo una diversa via rispetto ai giudici milanesi, arrivarono comunque a una disapplicazione de facto dell'art. 40, comma 1, lett. b), d.l. n. 90/2014. Il T.A.R. infatti, pur accogliendo l'istanza cautelare e pur subordinando effettivamente la sospensiva alla prestazione di una cauzione da parte del ricorrente, per un verso fissò a carico di quest'ultimo un importo di cauzione sostanzialmente irrisorio (500 Euro), e per un altro verso condannò l'amministrazione soccombente nella fase cautelare a rifondere le spese legali sostenute dal ricorrente medesimo per l'esatto ammontare della cauzione versata (ossia sempre 500 Euro). Anche a seguito di tali sollecitazioni giurisprudenziali, in sede di conversione in legge alcune delle problematiche descritte sono state affrontate e risolte. Il Parlamento ha infatti separato l'originario binomio imposto dal d.l. (cautela-cauzione), sostituendo l'obbligatorietà della sospensiva con cauzione con una sospensiva con facoltà di cauzione, nonché stabilendo un parametro per il suo calcolo (valore del contratto) e un tetto oltre il quale il giudice non possa comunque spingersi (0,5% del valore del contratto medesimo). Sotto altro quanto connesso profilo, come si vedrà meglio più avanti, va altresì osservato che le criticità esposte risultano oggi ammortizzate anche in ragione della previsione i) della definizione del merito del giudizio in sede cautelare come regola generale ‒ seppur non incondizionata ‒ e non più come eccezione, nonché ii) di un meccanismo marcatamente acceleratorio per la fissazione dell'udienza di merito, da attivarsi ove non vi siano i presupposti per la definizione del giudizio già all'esito dell'udienza fissata per la discussione dell'istanza cautelare. Tali novelle vanno infatti a restringere notevolmente gli spazi della tutela cautelare nel rito-appalti, de facto ormai limitata ai soli casi in cui i) non siano trascorsi almeno 20 giorni dalla notificazione dell'istanza cautelare, ovvero ii) l'istruttoria e il contraddittorio siano incompleti, oppure iii) una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione, ovvero iv) la complessità della causa sia tale da non consentirne una definizione ‘eccessivamente anticipata'. Come anticipato, la seconda rilevante novità introdotta al rito cautelare dal d.l. n. 90/2014 è rappresentata dalla temporizzazione della sospensiva a 60 giorni. In altri termini, il legislatore ha stabilito che il giudice possa concedere misure cautelari che coprano un arco temporale predeterminato ex lege in misura non superiore ai richiamati 60 giorni. Anche tale imposizione, tuttavia, si espone ad analoghe eccezioni di potenziale non conformità con il diritto dell'Unione Europea e con quello costituzionale. Del resto, immaginando un ordinario ricorso avverso l'aggiudicazione di un appalto, la peculiare funzione della sospensiva è quella di evitare che, prima della definizione del giudizio, la stazione appaltante possa stipulare il contratto con la parte processuale controinteressata a danno del ricorrente. Se così è, il regime della cautela temporizzata è in grado di ‘reggere' all'impatto con i principi comunitari e costituzionali solo se entro i 60 giorni previsti dal nuovo comma 8-bis dell'art. 120 c.p.a. sia pubblicata la decisione di primo grado (o quantomeno il suo dispositivo). Tuttavia, considerato che, ai sensi dell'art. 120, comma 6, c.p.a., il termine entro cui fissare l'udienza di discussione è pari a 45 giorni dalla scadenza di quello per la costituzione delle parti, nonché la prevista possibilità di slittamento di quest'ultima di ulteriori 30 giorni per esigenze istruttorie o di integrazione del contradditorio, il rischio che il periodo di sospensione non coincida (per difetto) con quello di completamento del processo di primo grado è assai elevato. In queste ipotesi, la parte che abbia ottenuto la prima sospensiva sarebbe costretta a riattivarsi per domandare la concessione di una nuova misura cautelare, incorrendo così in ulteriori costi e costringendo ad un'ulteriore (quanto superflua) attività anche gli uffici giudiziari. Di conseguenza, si ritiene che questo specifico aspetto debba essere oggetto di un nuovo approfondimento a livello legislativo, attraverso due pronosticabili tipologie di azioni: i) o l'eliminazione tout court della temporizzazione, ii) o l'estensione del termine di durata (magari considerando la somma dei quattro possibili termini in cui sarebbe scandito il processo: 30 giorni per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente; 45 giorni per la fissazione dell'udienza di merito; 30 giorni per l'adempimento di eventuali esigenze istruttorie; 15 giorni per la pubblicazione della sentenza o quantomeno del relativo dispositivo) temporizzando il periodo di sospensione massimo in 120 giorni (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Le novità introdotte in tema di tutela cautelare dal d.lgs. n. 50/2016 La tutela cautelare nel rito speciale degli appalti pubblici è stata incisa anche dal nuovo Codice dei contratti pubblici, che ha portato con sé due novità sostanziali. In primo luogo, la previsione di un sub-rito (ancora più) speciale (ed oggi abrogato) relativo ai provvedimenti di ammissione e di esclusione dei concorrenti, caratterizzato da termini processuali estremamente ristretti e da decidersi direttamente in camera di consiglio, aveva di fatto escluso la necessità di una tutela di tipo cautelare. In secondo luogo, l'introduzione del nuovo comma 8-ter nel corpo dell'art. 120 c.p.a. secondo cui “nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli artt. 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione” si pone l'evidente finalità di collegare in modo diretto la decisione assunta in sede cautelare alle medesime valutazioni che devono orientare le scelte – in sede di merito – in ordine alla pronuncia di inefficacia del contratto eventualmente stipulato. Al tempo stesso, quanto al profilo procedurale, il legislatore ha introdotto un nuovo onere motivazionale dei provvedimenti cautelari specifico per la materia degli appalti. In dottrina, la disposizione ha ricevuto numerose critiche. In particolare, vi è chi, per un verso, ritiene che «l'effettiva utilità della norma, che recepisce in modo pressoché letterale un puntuale criterio di delega, è assai discutibile, poiché, in linea generale, il nesso con gli esiti possibili del merito è sempre presente nella motivazione cautelare» (Lipari, La tutela giurisdizionale e precontenziosa); e chi, per un altro, ritiene tale norma addirittura dannosa se sommata al ristrettissimo termine per proporre ricorso e ai tempi – forse troppo rapidi – per concludere i giudizi (Lipari, Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici). In senso favorevole all'introduzione è stato, invece, notato che “quando il legislatore dice che già nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli artt. 121, comma 1, e 122, significa che se il contratto è stato già stipulato in violazione dello stand still o con violazione degli obblighi di evidenza pubblica, il giudice amministrativo non deve limitarsi a sospendere l'aggiudicazione, o addirittura giungere a ritenere insussistente il periculum essendosi ormai verificato l'evento della stipulazione, ma piuttosto deve sospendere il contratto, a meno che esigenze imperative lo sconsiglino» (Veltri). Le novità introdotte in tema di tutela cautelare dal d.l. n. 76/2020 Se già prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, il comma 8-ter dell'art. 120 c.p.a. ‘indirizzava' in un certo modo la decisione cautelare del giudice, prevedendo che quest'ultimo tenesse conto “di quanto previsto dagli artt. 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione”, il decreto Semplificazioni ha introdotto, seppur in via temporanea, un ulteriore criterio a cui il giudice amministrativo è tenuto ad ispirarsi nella propria decisione cautelare. Il d.l. n. 76/2020 prevede infatti che ‒ in tutti i giudizi relativi alle procedure di gara (rectius: a tutte le procedure di gara, indipendentemente dal loro oggetto e dal loro importo) avviate in vigenza del decreto Semplificazioni e prima del 31 luglio 2021 ‒ debba trovare applicazione il secondo comma dell'art. 125 c.p.a. Più precisamente, con riferimento a tutti i giudizi che abbiano ad oggetto l'impugnazione di provvedimenti adottati nel contesto di procedure avviate nel periodo sopra indicato, l'art. 4, comma 2, d.l. n. 76/2020 dispone i) che in sede di pronuncia del provvedimento cautelare si debba tenere conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi suscettibili di essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e ii) che, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si debba valutare anche l'irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse deve essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione della procedura. In buona sostanza, con la novella in parola il legislatore ha inteso circoscrivere le ipotesi di accoglimento delle istanze cautelari, mostrando un deciso favor per il loro rigetto ed un manifesto sfavore per tutte le misure potenzialmente idonee a bloccare l'esecuzione di contratti pubblici, in ragione della dichiarata ‘preminenza' dell'interesse nazionale alla sollecita esecuzione dei contratti pubblici medesimi. Sul punto, si rileva che un'applicazione generalizzata dell'art. 125, comma 2, c.p.a., non limitata ai provvedimenti inerenti a procedure di affidamento di infrastrutture strategiche, è suscettibile di mettere a rischio il principio di effettività della tutela giurisdizionale ed è potenzialmente esposta ad un sindacato di ragionevolezza, nella misura in cui differenzia il grado di pienezza della tutela offerta agli operatori economici sulla base della data di avvio della procedura nel cui contesto siano stati adottati gli atti impugnati (Fontana, Madeo). Vi è poi chi ha ridimensionato la portata pratica della novella in parola, relativizzando la differenza tra il 125 c.p.a. ed il disposto del comma 8-ter dell'art. 120 c.p.a, che avrebbe il suo tratto peculiare, «oltre che nella valutazione più vigorosa dell'interesse pubblico sotteso all'esecuzione del contratto, nell'essere la tutela cautelare anticipatoria di una sentenza che pur a fronte del riscontro del vizio procedurale non conduce sempre all'accoglimento della domanda di inefficacia del contratto» (Goggiamani). Un'ulteriore e ben più incisiva novità apportata dal d.l. n. 76/2020 in tema di tutela cautelare nel rito-appalti è rappresentata dall'elevazione a regola generale (seppur non incondizionata) della definizione del merito del giudizio già in esito all'udienza cautelare. Nella sua formulazione precedente alle modifiche apportate dal Parlamento in sede di conversione, il decreto Semplificazioni aveva ritenuto di 'unificare' il giudizio cautelare e quello di merito, con la sola condizione della ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a., ossia a condizione i) che fossero trascorsi almeno 20 giorni dall'ultima notificazione del ricorso, ii) che fosse stata accertata la completezza di istruttoria e contraddittorio, iii) che fossero state sentite sul punto le parti costituite e iv) che nessuna parte avesse dichiarato l'intenzione di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione. In tutte le predette ipotesi, la novella in esame integrava una sostanziale eliminazione della tutela cautelare, de facto sostituita dall'anticipazione della definizione del merito dei giudizi. La legge di conversione del decreto (l. n. 120/2020) ha parzialmente ‘depotenziatò la novella in esame, condizionando la definizione del merito del giudizio in sede cautelare alla sussistenza di presupposti ulteriori, richiedendo i) che le parti abbiano fatto richiesta congiunta di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, ovvero, in mancanza di tale richiesta congiunta, ii) che tale definizione anticipata del merito del giudizio sia compatibile con le esigenze di difesa di tutte le parti, in relazione alla complessità della causa. Sul punto, si rileva quanto segue: posto che il giudizio di merito sarebbe funzionalmente preordinato a garantire una tutela piena ed effettiva a fronte di un giudizio cautelare idoneo a tutelare le ragioni del ricorrente solamente in via provvisoria ed interinale, la sua sostanziale ‘incorporazione' nelle ristrette tempistiche del giudizio cautelare (seppur limitatamente alle ipotesi in cui sussistano i presupposti indicati dal nuovo art. 120, comma 6, c.p.a.) rischia di pregiudicare la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale. Infatti, delle due l'una: i) o le tempistiche previste per il giudizio cautelare sono effettivamente idonee ad assicurare una tutela piena ed effettiva (e ciò equivarrebbe ad ammettere la sostanziale inutilità del giudizio cautelare, in guisa da far sorgere spontanea una domanda: perché il legislatore non ha pensato prima ad eliminare la tutela cautelare, prevedendo sin da subito per il giudizio di merito le ristrette tempistiche previste – invece – per il giudizio cautelare medesimo?), ii) oppure, con il pretesto di comprimere ulteriormente le tempistiche del rito-appalti, il legislatore ha posto in essere un'illegittima compressione delle garanzie costituzionali dei cittadini ed in particolar modo del diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, garantito tanto dalla Costituzione quanto dal diritto Eurounitario (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). La fase di merito del giudizio alla luce delle novità apportate dal d.l. n. 76/2020La prospettiva acceleratoria dell'intero rito super-speciale è confermata anche nella fase finale del giudizio, relativa alla definizione della causa nel merito. Ciò è ancor più vero sol che si considerino le modifiche apportate al comma 6 dell'art. 120 c.p.a. dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), il quale, come è noto, ha recato importanti novelle nella disciplina della contrattualistica pubblica anche sotto il profilo processuale. In modo particolare, il legislatore del d.l. n. 76/2020, prima che il Parlamento modificasse il testo del decreto in sede di conversione in legge, aveva elevato a regola generale la definizione del merito del giudizio già in sede di definizione dell'istanza cautelare, anche qualora non si versasse in una delle ipotesi di cui all'art. 74 c.p.a. (manifesta fondatezza ovvero manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso), a condizione i) che fossero trascorsi almeno 20 giorni dall'ultima notificazione del ricorso, ii) che fosse stata accertata la completezza di istruttoria e contraddittorio, iii) che fossero state sentite sul punto le parti costituite e iv) che nessuna parte avesse dichiarato l'intenzione di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione. La primissima giurisprudenza applicativa della norma in esame ne aveva già evidenziato l'applicabilità – secondo il principio tempus regit actum – alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva all'entrata in vigore del decreto Semplificazioni (T.A.R. Lazio (Roma), II, n. 9044/2020). Si trattava di una modifica normativa estremamente incisiva, potenzialmente idonea a impattare pesantemente sulla quotidianità del contenzioso amministrativo, per quanto non si ignori certamente che, nel contesto del rito-appalti, siano tutt'altro che infrequenti i casi in cui le parti abbiano necessità di proporre motivi aggiunti o ricorso incidentale, con conseguente inapplicabilità in concreto della novella in parola, già nella sua formulazione primigenia (Fontana, Madeo). Su tale impianto si è innestata la legge di conversione n. 120/2020, che ha parzialmente ‘ridimensionato' la novella in parola, circoscrivendone l'applicabilità ai casi in cui “le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa”. In buona sostanza, a seguito delle modifiche apportate dal Parlamento in sede di conversione in legge del d.l. n. 76/2020, affinché possa operare la definizione anticipata del merito del giudizio in sede cautelare, non è più sufficiente la ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a., occorrendo altresì i) che le parti abbiano richiesto congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione ovvero, in assenza di tale richiesta congiunta delle parti, ii) che tale anticipazione della definizione del giudizio sia compatibile con le esigenze difensive delle parti medesime, tenendo conto della complessità della causa. La ratio perseguita dal legislatore della legge di conversione n. 120/2020 è quella di evitare che, nei giudizi in cui il thema decidendum sia particolarmente complesso e problematico, una definizione del merito eccessivamente accelerata finisca per pregiudicare il diritto delle parti ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva. In linea di principio, non pare inappropriato che il legislatore si sia preoccupato di circoscrivere con più puntualità ed attenzione i casi in cui la sostanziale unificazione della discussione cautelare con la discussione di merito possa consentire alle parti di concludere il processo in tempi oggettivamente molto rapidi, in maniera tale da evitare che la velocità nella definizione del giudizio possa pregiudicare il buon funzionamento della giustizia amministrativa: ‘fare in frettà non necessariamente significa ‘fare bene'. Sennonché, posto che il tenore letterale della novella (“(...) compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa (...)”) sembra rimettere al giudice l'onere di decidere se la complessità di una causa sia tale da consentirne una definizione anticipata, si ritiene che tale soluzione non sia scevra da possibili criticità. Se da un lato non è chiaro su quali parametri il giudice debba basarsi per ‘misurare' la complessità della causa, dall'altro lato non è chiaro nemmeno se la scelta del giudice di definire in sede cautelare il merito del giudizio possa essere sindacata dalle parti in sede di appello (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). In sede di prima applicazione della novella, l'atteggiamento del giudice amministrativo è stato di sostanziale conservazione dello status quo ante, con lievissimo incremento della definizione immediata e, piuttosto, con mera limitazione nella motivazione delle ordinanze cautelari della dicitura di stile indicante l'incompatibilità del tipo del giudizio alla definizione immediata. Del resto, la durata di un giudizio può considerarsi ragionevole solo qualora consenta un corretto spiegamento del contradditorio e del diritto di difesa. Un giudizio eccessivamente rapido rischia, nel lungo periodo, di essere un fattore di rallentamento e non già di accelerazione, nella misura in cui potrebbe provocare ulteriore contenzioso in appello (Goggiamani). Ciò premesso, si evidenzia che per le ipotesi di impossibilità di definire il merito del giudizio già in sede di definizione dell'istanza cautelare, resta valido quanto stabilito dal legislatore del d.l. n. 90/2014, che ritenne di stabilire un termine massimo per lo svolgimento dell'udienza di merito. Tale termine, che il predetto decreto aveva originariamente indicato in 30 giorni, è stato elevato a 45 giorni in sede di conversione. Il dies a quo è stato, invece, individuato nella scadenza del termine di costituzione in giudizio delle parti diverse dal ricorrente: ossia 30 giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso introduttivo. Il termine complessivo è dunque di 75 giorni dal perfezionamento della notificazione del ricorso. Uniche eccezioni al novellato meccanismo di fissazione delle udienze di discussione sono rappresentate da: i) eventuali esigenze istruttorie; ii) la necessità di integrare il contraddittorio; iii) la necessità di rispetto dei termini a difesa. In queste ipotesi la data d'udienza può essere differita di non oltre 30 giorni. Il sistema che discende da quanto sin qui illustrato, dunque, delinea un processo lampo che dovrebbe concludersi i) di norma già in esito all'udienza cautelare ii) ovvero, in assenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. e al nuovo comma 6 dell'art. 120 c.p.a., con la celebrazione dell'udienza finale di discussione in un arco temporale variabile tra i 75 e i 105 giorni dal perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo per l'ultima delle parti intimate. A tale periodo – come si avrà modo di vedere nel paragrafo successivo – deve essere esclusivamente aggiunto il termine di 15 giorni dall'udienza entro cui deve intervenire i) la pubblicazione della sentenza ovvero, qualora la stesura delle motivazioni sia particolarmente complessa, quantomeno ii) la pubblicazione del relativo dispositivo con l'indicazione delle domande eventualmente accolte e delle misure disposte per garantirne l'attuazione. L'opzione acceleratoria seguita dal legislatore con riferimento alla calendarizzazione delle udienze di merito è condivisibile. Infatti, nonostante il meccanismo ‘acceleratò di fissazione delle udienze rischi di non tenere conto delle peculiarità dei singoli casi concreti (ad esempio obbligando ad una rapida definizione giudizi in cui né l'interesse delle parti, né l'interesse pubblico sarebbero tali da giustificare in senso assoluto un processo lampo), si ritiene che l'innalzamento sproporzionato del costo della giustizia in questo specifico settore debba avere come controprestazione un servizio di giustizia in grado di fornire risposte sempre più in linea con le celeri tempistiche dettate dal mercato (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). In chiave critica, al netto delle scelte lessicali del decreto Semplificazioni ‒ secondo cui, nell'ambito del rito-appalti, in presenza dei relativi presupposti il giudizio è “di norma” definito già in sede di udienza cautelare – non è chiaro se e in che misura ‒ in tali ipotesi – residuino in capo al giudice margini di discrezionalità circa l'eventuale scelta di mantenere la separazione tra il giudizio cautelare e quello di merito, e di riservarsi quindi la definizione di quest'ultimo all'esito di una successiva udienza all'uopo fissata nel rispetto dei termini di cui al comma 6 dell'art. 120. In altre parole, i quesiti che si pongono sono i seguenti: i) qualora in sede di udienza cautelare ravvisi la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. e al nuovo comma 6 dell'art. 120 c.p.a., il giudice è sempre tenuto a definire il merito del giudizio? ii) in caso di risposta negativa alla precedente domanda, quali sono le ragioni che legittimano l'eventuale scelta di fissare comunque un'apposita udienza per il giudizio di merito? iii) l'eventuale scelta del giudice di mantenere la separazione del giudizio cautelare da quello di merito pur in presenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. deve ritenersi soggetta a qualche forma di sindacato? iv) al contrario, qualora il giudice definisca il merito del giudizio già in sede cautelare pur in assenza dei presupposti di legge, tale circostanza può costituire un vizio di legittimità della sentenza? In assenza di chiari indirizzi da parte del legislatore, sarà la giurisprudenza a doversi fare carico delle questioni in parola. La definizione del giudizio: tipologia delle sentenze e termini di pubblicazioneIl comma 6 dell'art. 120 c.p.a. fissa la regola generale secondo cui la definizione del giudizio in materia di contrattualistica pubblica deve avvenire «comunque [...] con sentenza in forma semplificata». Dall'utilizzo dell'avverbio «comunque» si desume che la scelta di tale forma di redazione della sentenza debba oramai essere considerata obbligata; la norma sconta comunque un difetto di coordinamento con il comma 10 del medesimo articolo, secondo cui «la sentenza è redatta, ordinariamente [e, quindi, non necessariamente, ndA], nelle forme di cui all'art. 74». Si segnala, inoltre, che il nuovo comma 6 dell'art. 120 c.p.a. non rinvia espressamente al citato art. 74 c.p.a. (che si occupa precipuamente delle forme delle sentenze redatte in forma semplificata); l'omesso rinvio diretto consente all'interprete di ritenere che la disciplina ivi riportata possa non applicarsi in toto. Pertanto, mentre si ritengono applicabili le prescrizioni su come debba essere redatta la sentenza (motivazione consistente in un sintetico riferimento ad un punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero ad un precedente giurisprudenziale conforme – art. 74, primo inciso, c.p.a.), parrebbe di poter escludere – vista l'obbligatorietà dell'utilizzo di questa tipologia di forma della decisione finale e considerata la prevalenza della norma speciale rispetto alla regola generale anche alla luce del canone teleologico – che la stessa sia utilizzabile solo nelle ipotesi in cui sia ravvisata la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso (art. 74, secondo inciso, c.p.a.) (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo). Ad ogni buon conto, la (ragionevole) assenza di sanzioni a carico del giudice che dovesse optare per la redazione di una sentenza in forma estesa-classica, fa di questa norma una sorta di norma manifesto, con la quale il legislatore ha voluto ribadire la ratio di snellimento delle procedure processuali al fine di una celere definizione dei giudizi in materia di contrattualistica pubblica (Pesce). Tali principi devono tuttora ritenersi validi, anche al netto delle modifiche recate alla predetta norma ad opera del decreto Semplificazioni. Se infatti il tenore testuale dell'art. 120, comma 6, c.p.a., nella sua formulazione attuale sembri riferire l'obbligo (come si è visto, non sanzionato) di adottare sentenze in forma semplificata ai soli casi di mancata definizione del merito del giudizio all'esito dell'udienza cautelare, da un punto di vista sistematico non vi è dubbio che tale obbligo sia a maggior ragione giustificato laddove il giudizio cautelare e quello di merito siano ‘concentrati' in un medesimo segmento temporale. Per quanto concerne le tempistiche di redazione e pubblicazione delle sentenze, la relativa disciplina è contenuta nel comma 9 dell'art. 120 c.p.a., la cui attuale formulazione costituisce il portato di una serie di modifiche normative stratificate nel tempo, a partire dal d.l. n. 90/2014 per arrivare fino al d.l. n. 76/2020. In origine, con il d.l. n. 90/2014 il Governo aveva stabilito che il T.A.R. dovesse depositare “la sentenza con la quale definisce il giudizio entro 20 giorni dall'udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo entro 2 giorni». Con la legge di conversione n. 114/2014, il Parlamento ritenne di correggere al rialzo il termine di pubblicazione delle sentenze, estendendolo sino a 30 giorni. Al lordo della legge di conversione n. 114/2014, in punto di tempistiche delle decisioni, le innovazioni al testo originario dell'art. 120 c.p.a. rispetto alla previgente disciplina risultavano essere le seguenti: i) eliminazione dell'obbligo di previa pubblicazione del dispositivo, divenuto a richiesta di parte al pari degli altri giudizi ex art. 119 c.p.a.; ii) riduzione del termine di pubblicazione del dispositivo (sempre ove richiesto) sceso da 7 a 2 giorni, almeno per i giudizi dinanzi ai T.A.R.; iii) aumento – almeno per i giudizi di primo grado – del termine di ‘pubblicazione' della sentenza, passato da 23 a 30 giorni; iv) mutamento del dies a quo dei termini di ‘pubblicazione' del dispositivo e della sentenza, sempre fissato alla data dell'udienza di merito, anziché a quella – potenzialmente diversa – di decisione della causa; v) mutamento dell'attività riservata al T.A.R. nel termine esteso di 30 giorni dalla celebrazione dell'udienza di merito: non più solo la redazione, ma il deposito in cancelleria (ossia la pubblicazione tout court) della sentenza. Aseguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, le tempistiche di pubblicazione delle sentenze sono nuovamente mutate. Il decreto Semplificazioni ha infatti previsto che “il giudice” (e non più “il tribunale amministrativo regionale”, ndr) debba: i) in via ordinaria, depositare la sentenza entro 15 giorni dall'udienza di discussione; ii) quando la stesura della motivazione sia particolarmente complessa, depositare la sentenza entro 30 giorni dall'udienza di discussione, ma garantendo nel minor termine di 15 giorni quantomeno la pubblicazione del dispositivo, in cui devono essere indicate le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione. In buona sostanza, se nella disciplina antecedente al d.l. n. 76/2020, il giudice amministrativo era tenuto a depositare la sentenza entro 30 giorni dall'udienza di discussione, ma con l'obbligo ‒ ove richiesto dalle parti ‒ di provvedere alla pubblicazione anticipata del dispositivo entro il minor termine di 2 giorni, l'intervento del decreto Semplificazioni avrà il duplice effetto i) di ridurre il termine ordinario di deposito della sentenza e, al contempo, ii) di prevedere un termine più lungo per la pubblicazione anticipata del dispositivo (che, a questi punti, così anticipata non sembra.....). La modifica in esame sembra cervellotica e contraddittoria (Fontana, Madeo). Nella disciplina previgente, a fronte di un termine di 30 giorni dall'udienza di discussione per il deposito integrale della sentenza, il diritto di chiedere la pubblicazione del dispositivo nel brevissimo termine di 2 giorni garantiva, a giudizio di chi scrive, una tutela più che adeguata alle parti del processo eventualmente interessate a conoscere in tempi brevi l'esito del giudizio. A seguito dell'interpolazione operata dal legislatore del d.l. n. 76/2020, le parti del giudizio si trovano in una posizione sicuramente deteriore rispetto a quella in cui versavano precedentemente, posto che dovranno attendere ben 15 giorni per conseguire ciò che prima avrebbero avuto diritto di ottenere in soli 2 giorni, ossia la pubblicazione anticipata del dispositivo. Sul punto, se per un soggetto che sia parte di un giudizio disporre del testo integrale della sentenza in 15 o 30 giorni fa poca differenza, si ritiene al contrario che possa fare molta differenza poter accedere al dispositivo in 2 o 15 giorni. In ragione di quanto precede, il giudizio sulla novella in parola deve essere negativo (Fontana, Madeo). Peraltro, secondo autorevoli commentatori, tale novella sarebbe destinata a restare ‘lettera morta', posto che il giudice amministrativo, in controversie in cui la decisione appaia complessa tanto da non aver consentito la chiusura del giudizio in via immediata nella fase cautelare, difficilmente si limiterà a rendere un dispositivo privo di quella riflessione che solamente la redazione delle motivazioni può assicurare, specialmente a fronte dell'obbligo di redigere non già un dispositivo ‘secco', ma un dispositivo che precisi le misure per dare attuazione alle domande accolte (Goggiamani). Sotto il profilo della tecnica normativa, si segnala che nel comma 9 dell'art. 120 c.p.a. il decreto Semplificazioni ha provveduto a sostituire le parole “il Tribunale amministrativo regionale” con la più generica dicitura “il giudice”. Sul punto, il legislatore ha inteso ribadire ulteriormente l'applicabilità della disciplina del deposito delle sentenze anche ai giudizi di secondo grado, originariamente revocata in dubbio in ragione della scelta lessicale di prevedere quale destinatario della norma il solo tribunale amministrativo di prima istanza, ma poi chiarita già ad opera del decreto Sblocca-cantieri, che aveva esplicitato l'applicabilità dell'art. 120, comma 9, c.p.a., anche ai giudizi di secondo grado. L'introduzione e la repentina abrogazione del c.d. rito super-acceleratoLa più rilevante novità processuale introdotta dal legislatore con il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) fu senz'altro l'ideazione di un sub-rito speciale all'interno del rito già accelerato speciale rappresentato dal processo sugli appalti pubblici. La ratio del nuovo sub-rito era triplice. In primo luogo, mediante tale rito ‘super-acceleratò si era inteso determinare in maniera definitiva e non più contestabile l'ambito dei partecipanti ad una procedura ad evidenza pubblica. Ciò al fine di assicurare la massima certezza in ordine alla perimetrazione dei soggetti ammessi alla partecipazione prima dello svolgimento della fase specificamente riferita alla valutazione delle offerte. In secondo luogo, si era inteso delimitare l'eventuale contenzioso ‘successivo' alle sole controversie sul merito dell'aggiudicazione, rendendo inoppugnabili tutte le determinazioni riferite all'individuazione dei soggetti ammessi al confronto concorrenziale. In terzo e ultimo luogo, si era inteso neutralizzare i potenziali effetti perversi del ricorso incidentale, prevedendo una fase processuale ad hoc suscettibile di blindare definitivamente la questione dei requisiti di ammissione alla procedura (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici). Il sub-rito in questione trovava la propria disciplina ai commi 2-bis e 6-bis dell'art. 120 c.p.a., che tuttavia sono stati abrogati ad opera del d.l. n. 32/2019 (c.d. decreto ‘Sblocca-cantierì). La genesi dell'abrogazione del rito super-accelerato è riconducibile a vari fattori (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato). In primo luogo, tale abrogazione affonda le sue radici nelle pesanti critiche di cui è stato fatto oggetto da più parti già all'indomani della sua introduzione. In secondo luogo, la scelta del legislatore ha tratto origine anche dalle ordinanze dei giudici amministrativi che avevano ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le censure di incostituzionalità sollevate contro il nuovo rito, rimettendo la questione al vaglio della Corte costituzionale (simili argomentazioni erano state poste alla base di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, da cui tuttavia il rito super-accelerato è uscito indenne). In terzo luogo, l'abrogazione del nuovo rito processuale super-speciale ha tratto origine dalle numerose proposte in tal senso pervenute al Governo nel corso della consultazione pubblica online promossa dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in vista di una più ampia riforma della contrattualistica pubblica. Nello specifico, il legislatore è intervenuto sull'art. 120 c.p.a. i) abrogando i commi 2-bis e 6-bis e ii) modificando i commi 5, 7, 9 e 11. Con l'abrogazione del comma 2-bis, il decreto ‘Sblocca-cantierì ha eliminato le disposizioni che i) costringevano a impugnare immediatamente le ammissioni/esclusioni disposte all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, nel termine di 30 giorni dalla loro pubblicazione sul profilo di committente della stazione appaltante, e che ii) precludevano, in caso di omessa impugnazione, la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale. Mediante l'abrogazione del comma 2-bis il legislatore ha finito per abrogare anche la disposizione che esplicitava l'inammissibilità di eventuali impugnative dirette contro la proposta di aggiudicazione e gli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività. Con l'abrogazione del comma 6-bis, il legislatore con un tratto di penna ha cancellato la disciplina processuale super-speciale a cui erano state assoggettate le impugnative proposte ai sensi del comma 2-bis. Le modifiche ai commi 5, 7, e 9 hanno integrato meri interventi di coordinamento, in quanto si sono limitati a eliminare dal corpo dell'art. 120 c.p.a. ogni riferimento al rito super-accelerato. La modifica al comma 11, oltre ad eliminare il riferimento alle abrogate disposizioni relative al rito super-accelerato, ha sancito l'applicabilità ai giudizi di impugnazione dell'intero comma 9, recante la disciplina del termine di deposito della sentenza e di eventuale pubblicazione anticipata del dispositivo. L'art. 1, comma 5, d.l. n. 32/2019 ha previsto che le presenti modifiche trovassero applicazione solamente «ai processi iniziati dopo l'entrata in vigore» del decreto medesimo. Nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 32/2019, si legge chiaramente che la novella in esame «è volta a sopprimere il cosiddetto rito super accelerato che attualmente pende in Corte costituzionale e che è risultata, anche a seguito della consultazione pubblica effettuata dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, una norma che rischia di comprimere il diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione, prevedendo ulteriori oneri in capo alle imprese». A fronte di un giudizio di legittimità costituzionale ancora pendente, il legislatore ha preferito non aspettare il pronunciamento della Corte costituzionale e ‘cassare' direttamente il nuovo rito, accogliendo la tesi – prospettata da una parte della dottrina e della giurisprudenza – secondo cui esso sarebbe costituzionalmente illegittimo in quanto: i) la fictio iuris con cui il d.lgs. n. 50/2016 aveva posto ex lege una presunzione di lesività in capo alle esclusioni/ammissioni disposte all'esito della valutazione dei requisiti di partecipazione, obbligando i partecipanti alle gare pubbliche a impugnare immediatamente le ammissioni degli altri concorrenti ancora prima di sapere chi sarebbe stato l'aggiudicatario, avrebbe delineato una sorta di giudizio ‘di diritto oggettivo' incompatibile con gli artt. 24, 103 e 133 Cost., i quali configurerebbero il diritto di azione quale diritto azionabile unicamente dal titolare di un interesse personale, attuale e concreto alla tutela giurisdizionale richiesta; ii) la necessità di proporre plurimi ricorsi avverso le singole ammissioni contrasterebbe con il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 1, Cost.), con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24, commi 1 e 2, art. 103, comma 1, art. 111, commi 1 e 2, art. 113, commi 1 e 2, Cost.), con il principio del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) ed infine con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), posto che un siffatto meccanismo processuale sarebbe tale da determinare la proliferazione di azioni giurisdizionali, in contrasto con i princìpi di concentrazione e di economia processuale. Quella di rimediare all'asserita illegittimità costituzionale del rito super-accelerato non è stata l'unica ratio che ha mosso il legislatore, il quale ha anche preso atto (sempre secondo quanto si legge nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto) che l'abrogato rito non «sembra(va) aver raggiunto il risultato di accelerare le procedure di affidamento dei contratti pubblici», quantomeno con riferimento alle gare di importo più elevato. Infatti, mentre nelle procedure minori l'elevato livello ormai raggiunto dalla contribuzione unificata e l'elevato numero di partecipanti scoraggiavano invero il ricorso al giudice amministrativo e quindi indirettamente acceleravano la definizione delle gare, con riferimento ai maxi-appalti il proliferare di ricorsi tutti contro tutti finiva effettivamente per rallentare (ancora di più) la realizzazione delle grandi opere pubbliche. In tale contesto, il legislatore del decreto ‘Sblocca-cantierì ha scelto di non attendere il responso della Corte costituzionale e di prendere su di sé la responsabilità dell'abrogazione del rito super-accelerato, accogliendo le numerose richieste in tal senso provenienti dalla giurisprudenza, dalla dottrina e (soprattutto) degli ‘addetti ai lavorì (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato). Infine, con specifico riferimento all'intervento realizzato sul comma 11 dell'art. 120 c.p.a., il legislatore ha inteso recepire le (condivisibili) critiche avanzate dalla dottrina in ordine al mantenimento di diverse tempistiche tra il primo e il secondo grado di giudizio per la pubblicazione del dispositivo e della sentenza. L'abrogazione del rito super-accelerato è stata accolta con giubilo da coloro che ne sostenevano l'incostituzionalità; le argomentazioni di costoro sono già state anticipate e non sono di poco momento, sebbene non si ignori l'orientamento giurisprudenziale che ha sin da subito ritenuto il rito super-accelerato perfettamente compatibile con i princìpi costituzionali. Probabilmente sarebbe stato più opportuno attendere che fosse la Corte costituzionale ad occuparsi del difficile bilanciamento tra la pluralità di argomentazioni e di interessi tra loro confliggenti. In favore della scelta di introdurre il rito super-accelerato deponeva l'innegabile necessità di una deflazione del contenzioso e di una maggiore certezza in ordine alla definizione del perimetro di coloro che potessero ritenersi legittimamente ammessi al confronto concorrenziale. D'altro canto, è pur vero che – all'atto pratico – lo strumento del nuovo rito ‘super-accelerato' si era rivelato inidoneo al conseguimento di tali finalità, non essendosi registrata alcuna significativa diminuzione dei ricorsi proposti dinanzi al giudice amministrativo, né alcun aumento del livello percepito di certezza giuridica in ordine alla definizione tempestiva della platea dei partecipanti alle gare pubbliche (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato). Di qui, un ulteriore profilo di criticità dell'abrogato rito in ordine all'adeguatezza dei mezzi predisposti per il conseguimento del fine perseguito. In tale contesto era difficile ignorare la compressione delle garanzie costituzionali che – quantomeno astrattamente – il rito super-accelerato era idoneo a provocare, nella misura in cui costringeva gli operatori economici a proporre ricorsi senza lasciare alcun margine di scelta circa la valutazione della sussistenza di un effettivo interesse a ricorrere, introducendo in tal modo una nuova forma di giurisdizione di diritto oggettivo. Ciò nondimeno, è altrettanto vero che il nostro ordinamento non è totalmente estraneo a forme di giurisdizione oggettiva, in cui ad essere valorizzata è la natura ‘strumentale' e non già personale e attuale dell'interesse perseguito; si pensi alla recente introduzione della possibilità – per l'Autorità Nazionale Anticorruzione – di impugnare i bandi di gara e ogni altro provvedimento amministrativo che si assuma viziato da gravi violazioni del d.lgs. n. 50/2016. Non può poi tacersi che il rito super-speciale era uscito indenne da un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, la quale ne aveva sancito la compatibilità con il diritto Eurounitario; in estrema sintesi, la Corte di giustizia UE aveva affermato che un onere di immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione/esclusione sarebbe conforme alle direttive Eurounitarie nella misura in cui tali provvedimenti siano stati ritualmente comunicati insieme ad una relazione dei motivi pertinenti, tale da garantire che gli interessati siano messi in condizione di poter venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione. Tutto ciò premesso e considerato, anche volendo aderire alla tesi che sostiene l'incostituzionalità del rito super-accelerato e ammettendo quindi la bontà della decisione di abrogarlo, è senz'altro da censurare la disposizione con cui il legislatore ha stabilito che le nuove (vecchie) regole processuali si applicassero «ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore» del decreto ‘Sblocca-cantieri'. A parere di chi scrive, sarebbe stato più opportuno prevedere che l'abrogazione del rito super-accelerato producesse i suoi effetti con esclusivo riferimento (non già ai «processi iniziati», bensì) alle «procedure bandite» dopo l'entrata in vigore del decreto, configurando quindi una sorta di ‘ultrattività' del rito super-accelerato con esclusivo riferimento alle procedure bandite prima del d.l. n. 32/2019. L'infelice riferimento ai processi «iniziati» dopo l'entrata in vigore del decreto si è prestato a interpretazioni molto diverse fra loro e ha lasciato quindi aperte svariate questioni problematiche di diritto intertemporale. Sin da subito si è palesato come non fosse del tutto pacifica, ad esempio, l'esatta portata pratica della novella con riferimento ai ricorsi notificati prima dell'entrata vigore del decreto ma depositati in un momento successivo. Posto che nel giudizio amministrativo l'inizio del processo coincide (non con la notifica, ma) con il deposito del ricorso, sembrerebbe doversi ritenere che un'eventuale impugnativa notificata prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 32/2019 ma depositata in un momento successivo a tale data dovesse seguire il rito speciale ‘ordinario'; tuttavia, secondo le regole del rito speciale ‘ordinario', il ricorso in parola avrebbe dovuto essere ritenuto inammissibile in quanto proposto avverso un atto che non poteva ancora essere considerato lesivo alla luce dell'art. 120 c.p.a. come risultante dal decreto ‘Sblocca-cantierì. Il pasticcio è evidente: avremmo avuto un ricorso perfettamente ammissibile nel momento della notifica, ma ‘diventato' inammissibile nelle more del suo deposito presso il T.A.R. (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato). Sennonché, la prima giurisprudenza applicativa della novella si è orientata nel senso di considerare “iniziati dopo l'entrata in vigore del presente decreto”, nell'ottica di chi agisce in giudizio, i processi in cui il ricorso introduttivo venisse notificato (e non già depositato) dopo il 19 aprile 2019; aderendo a tale orientamento, un eventuale ricorso notificato prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 32/2019 ma depositato in un momento successivo i) avrebbe dovuto restare fuori dall'ambito applicativo della novella, ii) sarebbe stato quindi ammissibile e iii) avrebbe dovuto seguire la disciplina del rito super-accelerato ‘in via di estinzione'. Ciò in quanto “a prescindere dal momento in cui nel processo amministrativo si determina la litispendenza (notificazione del ricorso o il suo deposito), rilevano, ai limitati fini della norma transitoria e nell'ambito della disciplina speciale del rito appalti, gli effetti sostanziali e processuali scaturenti dalla notifica del ricorso introduttivo”, quali ad esempio “la definitività della scelta del rito, la cui disciplina è, al momento della notifica del ricorso, nota al ricorrente che non può poi trovarsi incolpevolmente esposto a irrimediabili conseguenze pregiudizievoli sull'immediatezza dell'accesso alla tutela giurisdizionale (id est, inammissibilità del ricorso, nel caso, ad esempio, di impugnazione dell'altrui ammissione) solo per effetto dell'entrata in vigore (in forza di un decreto legge non ancora convertito) di nuove disposizioni processuali intervenute tra la notifica e il deposito dell'atto introduttivo e modificative del regime legittimamente osservato – in conformità al tradizionale canone del tempus regit actum – quando il processo ha avuto ‘inizio' con la vocatio in ius della parte intimata. In questo senso, si deve ammettere che la notifica del ricorso, in quanto atto iniziale perfezionatosi in epoca antecedente alla novella e regolato dalla norma in vigore al tempo del suo compimento, possa ultrattivamente propagare i suoi effetti oltre il termine della sua efficacia, condizionando il successivo sviluppo del processo” (T.A.R. Calabria (Reggio Calabria), I, n. 324/2019). Quale che sia l'interpretazione a cui si sia deciso di aderire, si pensi poi al caso di un ricorso ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., depositato prima dell'entrata in vigore del decreto ‘Sblocca-cantieri'; in tale ipotesi l'impugnativa sarebbe stata pacificamente ammissibile e avrebbe seguito il rito super-accelerato ‘in via di estinzione'. Ciò premesso, pur nel contesto della stessa gara avrebbe dovuto parimenti ritenersi ammissibile un eventuale ricorso proposto dopo l'entrata in vigore del decreto dal concorrente (nel frattempo divenuto) secondo classificato contro l'ammissione dell'operatore economico (nel frattempo divenuto) aggiudicatario; anche qui il pasticcio è evidente: in relazione alla medesima gara si sarebbero potuti incardinare due distinti giudizi ipoteticamente fondati sui medesimi motivi di ricorso ma assoggettati i) l'uno al rito super-accelerato e ii) l'altro al rito speciale ‘ordinario'. Ancora: si pensi a un giudizio ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., incardinato secondo le previgenti regole ma in un momento antecedente al decorso del termine di impugnazione, e si immagini che quest'ultimo termine non fosse interamente decorso al momento dell'entrata in vigore del d.l. n. 32/2019. Si ipotizzi ora che una società Alfa e una società Beta avessero entrambe intenzione di impugnare l'ammissione alla gara di una società Gamma, ma che i) Alfa abbia depositato il ricorso prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 32/2019 e che ii) invece Beta abbia deciso di attendere l'ultimo giorno utile per incardinare la propria impugnativa, senza sapere che nelle more del decorso del termine il rito super-accelerato sarebbe stato abrogato; in siffatta ipotesi si sarebbe prodotta una paradossale disparità di trattamento tra Alfa e Beta in quanto per la seconda sarebbe stata preclusa una possibilità (quella di impugnare l'ammissione di Gamma) concessa invece ad Alfa. Si consideri poi il caso di una procedura di gara nella quale al momento di entrata in vigore del d.l. n. 32/2019 fossero già decorsi i termini per impugnare le ammissioni con il rito ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., senza che nessuno dei concorrenti avesse proposto ricorso: per effetto dell'abrogazione del rito super-accelerato', dopo l'aggiudicazione per tutti i partecipanti alla gara si sarebbe prodotta de facto una sorta di ‘rimessione in termini' per impugnare l'ammissione dell'operatore (nel frattempo divenuto) aggiudicatario. Proprio per l'evitare che l'abrogazione del rito super-accelerato, per come formulata dal legislatore, sortisse “il singolare effetto di costituire una sanatoria delle decadenze e delle preclusioni già maturate in forza del principio tempus regit actum» – il quale si sarebbe posto “in frontale contrasto col principio di stabilità e certezza dell'agire amministrativo, del quale corollario essenziale è quello dell'inoppugnabilità provvedimentale, una volta che sia decorso il termine di impugnazione, nonché con quello della generale irretroattività dello ius superveniens, posto a presidio dell'affidamento dei consociati nella stabilità dei rapporti giuridici, fondato sulla disciplina vigente al momento della loro costituzione», una parte della giurisprudenza di primo grado ha maturato un orientamento secondo cui l'esclusivo riferimento ai “processi iniziati” dopo l'entrata in vigore della novella (e quindi non anche alle “procedure bandite” dopo tale data) non comporterebbe affatto di dover estendere gli effetti dell'abrogazione anche alle procedure ancora in corso, le quali pertanto continuerebbero a dover essere soggette al rito allora vigente in ordine agli effetti sostanziali e processuali già consolidatisi: “alcun cenno, infatti, è desumibile in ordine alla sorte dei agli effetti già verificatisi anteriormente all'entrata in vigore del ripetuto decreto legge, la quale non può, dunque, che essere disciplinata dal quadro normativo applicabile ratione temporis» (T.A.R. Basilicata I, n. 197/2020). Tale orientamento, avallato anche da una parte della giurisprudenza di secondo grado (si vedano: Cons. St., III, n. 4824/2020; Cons. St., VI, n. 2020), non trova tuttavia la condivisione degli arresti più recenti del Consiglio di Stato, secondo cui l'abrogazione del rito super-accelerato deve ritenersi perfettamente applicabile anche ai processi iniziati dopo la relativa entrata in vigore ma relativi a procedure di gara ancora in corso, a prescindere dalle decadenze eventualmente maturate sulla base della previgente disciplina processuale (si vedano: Cons. St. V, n. 7669/2020; Cons. St. V, n. 5782/2020; Cons. St. V, ord. n. 148/2020; Cons. St. V, n. 1604/2020). Ciò in quanto la novella abrogatrice del rito super-accelerato avrebbe appositamente inteso “rimuovere la qualificazione di atto immediatamente lesivo a quelli adottati dall'amministrazione nella fase di ammissione degli operatori economici alla gara, con conseguente ripristino per le procedure di gara concluse dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 32/2019 (ma per la verità sin da quest'ultimo) della regola generale secondo cui l'interesse ad ottenere un appalto pubblico all'esito della relativa procedura di gara è leso solo con l'altrui aggiudicazione, quale atto conclusivo dell'unitario procedimento amministrativo contraddistinto da atti nel loro complessi preordinati al risultato finale di selezionare il contraente privato della pubblica amministrazione. Eliminato dunque l'onere anticipato di impugnazione ha ripreso vigore la regola generale – su cui si fonda l'intero sistema di giustizia amministrativa quale giurisdizione di diritto soggettivo che «assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo» (art. 1 cod. proc. amm.) – per cui è con la definitiva manifestazione di volontà dell'amministrazione nelle forme tipiche degli atti autoritativi previsti dalla legge che è data, in concreto, azione in giudizio a tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi dell'interessato e in vista di un risultato utile correlato ad un bene della vita”. Un ulteriore profilo di criticità della novella in parola è rappresentato dall'abrogazione (non si sa quanto consapevole) della disposizione che sanciva l'inammissibilità di eventuali impugnative dirette contro la proposta di aggiudicazione. Non è infatti chiaro i) se tale provvedimento debba continuare a essere considerato non direttamente impugnabile in quanto atto meramente endoprocedimentale oppure ii) se la proposta di aggiudicazione debba ora essere considerata ‘facoltativamente impugnabile' come la vecchia aggiudicazione provvisoria, contro la quale era possibile proporre ricorso anche senza attendere l'aggiudicazione definitiva purché poi contro quest'ultima si proponessero motivi aggiunti (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato). I giudizi di appelloNei paragrafi precedenti si sono – incidentalmente – operati riferimenti al processo di secondo grado in materia di contratti pubblici e alla totale (o meno) applicabilità del rito accelerato speciale anche ai giudizi dinanzi al Consiglio di Stato. In merito, occorre notare come gli ultimi interventi di modifica operati sul testo dell'art. 120 c.p.a. prima del d.l. n. 32/2019 (i citati d.l. n. 90/2014 e d.lgs. n. 50/2016), abbiano sempre preso in considerazione principalmente i processi dinanzi ai T.A.R.. Per quanto concerne l'art. 40 del d.l. n. 40/2014, questo ha modificato esclusivamente i commi 6 e 9 dell'art. 120 c.p.a. introducendo un nuovo comma 8-bis. Tuttavia, il legislatore non è intervenuto sul comma 11 dell'art. 120 c.p.a., che già elencava puntualmente le disposizioni speciali – dettate per i processi di primo grado – che si estendevano anche ai giudizi dinanzi al Consiglio di Stato: segnatamente quelle contenute ai commi 3, 6, 8 e 10 dell'art. 120 c.p.a. Per quanto concerne l'art. 204 del d.lgs. n. 50/2016, il legislatore ha invece ‘corretto' in parte il proprio approccio, intervenendo – sì – sul processo di primo grado, ma – poi – modificando anche il richiamato comma 11 dell'art. 120 c.p.a.; peraltro, in tale sede il legislatore ha emendato anche una ‘dimenticanza' del d.l. n. 90/2014, che aveva omesso di estendere ai giudizi di appello le neo-introdotte novità in materia di tutela cautelare. In modo particolare, il legislatore del d.lgs. n. 50/2016 aveva previsto l'estensione ai giudizi di appello delle neo-introdotte disposizioni relative al nuovo sub-rito per l'impugnazione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione dalle gare, di cui ai commi 2-bis e 6-bis c.p.a.; è noto però che tali disposizioni sono state abrogate ad opera del d.l. n. 32/2019 (c.d. decreto ‘Sblocca-cantieri'). Ad oggi, quindi, l'art. 120, comma 11, c.p.a., prevede che ai giudizi di appello (sia avverso sentenze che avverso ordinanze, nonché a quelli di revocazione e di opposizione di terzo) si applichino le seguenti disposizioni del rito speciale: i) comma 3: rinvio aperto alle disposizioni dettanti il rito di cui all'art. 119 c.p.a., per quanto non derogate dallo stesso art. 120 c.p.a.; ii) comma 6: modalità e tempistiche di definizione del giudizio nel me-rito ed eventuali accertamenti istruttori; iii) commi 8, 8-bis e 8-ter: fase cautelare del giudizio; iv) comma 9: disposizioni applicabili anche ai giudizi di appello; v) comma 10: principio di sinteticità degli atti di causa. Il comma 11 conclude confermando la facoltà della parte soccombente dinanzi al T.A.R. di impugnare in Consiglio di Stato, anche e direttamente, il dispositivo di sentenza al fine di ottenerne la sospensione. Il cherry picking operato dal legislatore – dopo l'ultima correzione ascrivibile al d.lgs. n. 50/2016 – delinea due processi di primo e secondo grado sostanzialmente conformi, fatte salve quelle disposizioni che non possono non applicarsi ai soli giudizi di prime cure (ad esempio i termini per proporre il ricorso introduttivo, l'obbligo di notifica an-che alla stazione appaltante statale per garantire l'operatività del c.d. stand still, ecc.). Prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 32/2019, non si applicava ai giudizi di appello il comma 9 dell'art. 120 c.p.a., che disciplina le tempistiche di pubblicazione delle sentenze e che oggi – nella formulazione risultante dalle ultimissime modifiche apportate dal d.l. n. 76/2020 – ha sostituito il fuorviante riferimento al “tribunale amministrativo regionale” con un più appropriato riferimento al “giudice”. In ordine ai giudizi di appello, merita infine ricordare che l'Adunanza Plenaria ha recentemente ribadito il principio di diritto per cui «sussiste il potere del giudice di appello di rilevare ex officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione» (Cons. St., Ad. plen., n. 4/2018). Problemi attuali
La morte (apparente) del ricorso incidentale escludente in tema di contatti pubblici Le peculiarità delle procedure di affidamento degli appalti pubblici – correlate alla speciale incidenza, sul piano sostanziale e, per plurimi rispetti, sul piano processuale, delle direttive normative di fonte Europea e dalla pedissequa elaborazione prescrittiva operata dal giudice comunitario – rappresentano la causa delle non sopite perplessità in ordine ai rapporti, nel complessivo quadro dei rimedi giurisdizionali, tra ricorso principale e ricorso incidentale: perplessità che hanno finito per lambire istituti e principi fondanti del processo amministrativo (quali i presupposti per il riconoscimento della legittimazione a ricorrere e la consistenza e i limiti dell'interesse ad agire). In una sintetica rappresentazione dello «stato dell'arte» (quale da ultimo conformato dalla Corte di giustizia con la decisione del 2019, all'esito della ennesima rimessione interpretativa), potrà muoversi dal rilievo che, in termini generali, in un sistema processuale di matrice soggettiva (come tale preordinato alla tutela dei «propri» interessi legittimi oltreché, nei casi previsti, dei diritti, appunto, «soggettivi»: cfr. art. 24 Cost.), l'interesse ad agire costituisce condizione necessaria ed indefettibile per l'attivazione degli strumenti remediali (arg. ex art. 35, comma 1, lettere b) e c) c.p.a., che considerano la relativa iniziale carenza quale ragione ostativa «ad una pronunzia sul merito», facendone positiva ragione di inammissibilità del proposto ricorso, e il sopravvenuto difetto quale corrispondente ragione di improcedibilità; nonché, si paret, ex art. 100 c.p.c., che codifica il relativo «principio generale», operante per relationem in base all'art. 39, 1° comma c.p.a.). Il principio vale, naturalmente, anche per il ricorso incidentale, la cui peculiarità – che ne giustifica l'innesto all'interno di lite già pendente, autorizzando l'ampliamento del relativo thema decidendum mercé la proposizione, altrimenti preclusa, di nuove domande – è data dalla sua dipendenza genetica con la proposizione del ricorso principale (cfr. art. 42 c.p.a.). Della quale costituiscono immediati corollari, come è noto: a) l'inammissibilità del ricorso incidentale (per iniziale carenza di interesse), correlata all'inammissibilità del ricorso principale (ancorché si ragioni per solito – ma, vien fatto di soggiungere, con minor rigore – in termini di improcedibilità); b) l'improcedibilità dello stesso, conseguente alla reiezione nel merito, per ritenuta infondatezza, del principale. Più incerta una diversa implicazione, legata al rilievo che – in quanto, per definizione, preordinato (beninteso in un contesto di matrice impugnatoria, a struttura costitutiva: altra essendo la sua attitudine a veicolare le «domande riconvenzionali» laddove si faccia questione di diritti soggettivi: cfr. art. 42, ult. cpv. c.p.a.), a una «difesa attiva» nei confronti del ricorso principale, strutturata sulla dedotta illegittimità, sotto distinto e divergente profilo, dei medesimi atti impugnati in principalità o, al più, di altri atti relativi alla medesima vicenda amministrativa – l'esito prospettico della fondatezza del ricorso incidentale, in quanto prioritariamente esaminato, sortisce caratteristico effetto «paralizzante» sul ricorso principale, la cui (eventuale) fondatezza non apporterebbe (comunque) le sperate utilità. In tale situazione, la «priorità logica» del ricorso incidentale rispetto al principale trae alimento dal rilievo che – impingendo nella sussistenza e consistenza dell'»interesse ad agire in principalità», la relativa questione (in quanto veicolata da apposita «domanda», idonea come tale ad integrare il thema decidendum) assume carattere tecnicamente «pregiudiziale», che ne legittima – laddove non ne imponga – la previa disamina, nella graduazione prefigurata all'art. 276, comma 2 c.p.c., espressamente richiamato, quanto all'ordo decidendi, dall'art. 76, comma 4 c.p.a.). Importa osservare che – le quante volte si tratti di lite insorta nel contesto di una procedura evidenziale, nella quale il concorrente non utilmente graduato miri all'annullamento della lesiva aggiudicazione a favore altrui – si spiega che siffatta, tipica attitudine «paralizzante» sia stata acquisita, con efficace formula linguistica, in termini di effetto più propriamente «escludente»: di tal che, una volta collocatisi sulle riassunte coordinate concettuali, il controinteressato (attore principale) che (in forza della ritenuta fondatezza del ricorso incidentale) non potesse utilmente concorrere non avrebbe alcun concreto interesse a dolersi di una aggiudicazione alla quale, in definitiva, non potrebbe comechessia aspirare. E ciò proprio in quanto la giurisdizione amministrativa, innervata sul principio dispositivo e sull'interesse ad agire, è una giurisdizione soggettiva e non oggettiva. In definitiva, nei termini della decisione assunta dall'adunanza plenaria del 7 novembre 2011, n. 4, a composizione risalente contrasto: a) l'esame delle questioni preliminari deve sempre precedere la trattazione nel merito della domanda formulata dal ricorrente principale; b) il vaglio delle condizioni e dei presupposti dell'azione, comprensivo dell'accertamento della legittimazione ad agire e dell'interesse al ricorso, deve essere inquadrato nell'ambito delle questioni pregiudiziali; c) il ricorso incidentale costituisce strumento idoneo ad introdurre una questione di carattere pregiudiziale rispetto alla domanda; d) nell'art. 42 c.p.a. risulta fortemente attenuata la connotazione accesso-ria del ricorso incidentale e la sua subordinazione all'esame del ricorso principale; e) il rapporto di priorità logica richiede di dare precedenza alle questioni sollevate con ricorso incidentale dalla parte controinteressata ove dal loro esame discendano soluzioni ostative o preclusive all'esame delle ragioni dedotte con il ricorso principale; f) l'esame prioritario del ricorso principale è, al più, ammesso – ragioni di ordine economico potendo far premio, se del caso nella prospettiva di una più liquida soluzione, sui profili di priorità logica – solo qualora appaia evidente la sua infondatezza, inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità. La decisione ribadisce la soluzione tradizionale e consolidata. La quale, nondimeno, aveva già sollevato perplessità, fonte del contrasto temporaneamente composto, in relazione alla vicenda che avesse visto contrapposte, nel contesto della gara, due soli concorrenti, che avessero formalizzato – il controinteressato in via principale e l'aggiudicatario in via incidentale – ragioni di doglianza ad attitudine simmetricamente (o anche solo reciprocamente) escludente. In questo caso, con ogni evidenza, la valorizzazione, sul piano formale, del mero «ordine logico» delle questioni, di per sé in grado di condizionare la priorità della disamina dei ricorsi incrociati, finisce per sortire un effetto indubbiamente indesiderato ed implausibile: quello di favorire, in certo senso nella logica di una mera «casualità» correlata alle modalità della scelta amministrativa in ogni caso illegittima, l'uno o l'altro operatore che, benché (per ragioni convergenti o concorrenti) immeritevole, fosse stato, di fatto, avvantaggiato dalla (comunque abusiva) opzione aggiudicativa. In buona sostanza, salvo un (peraltro non coercibile) ricorso ai poteri di autotutela, la pratica impossibilità di sindacare l'aggiudicazione (correlata alla inammissibilità del ricorso incidentale in quanto proposto da impresa in ogni caso meritevole di estromissione) finisce per rendere ingiustiziabile una aggiudicazione in tesi illegittima. Si tratta, all'evidenza, di soluzione non compatibile: a) con il principio per cui l'ordinamento può ritenere meritevole una posizione preferenziale soltanto se acquisita legittimamente; b) con il canone di parità che regola i rapporti tra i concorrenti. Sul piano tecnico, le basi per un possibile ripensamento hanno preso abbrivio dal rilievo che, in questa come in consimili situazioni, l'interesse del ricorrente principale non si appunta (esclusivamente) sull'interesse a rimuovere il vantaggio abusivamente conseguito dall'aggiudicatario, ma in certo senso veicola e ingloba un interesse (minore) all'accertamento della complessiva illegittimità della procedura, quale presupposto per la sua prospettica rinnovazione. Interesse, quindi, propriamente strumentale (e non finale, essendo per definizione esclusa la possibilità di conseguire l'aggiudicazione, in forza della ritenuta fondatezza del gravame incidentale) e mediato (in quanto prefigurativamente riferito, appunto, alla rinnovazione della procedura e non recta via al suo favorevole esito attributivo), ma – non per questo – privo di rilievo. In definitiva (con le parole di Cons. St. Ad. plen., n. 11/2008), qualunque sia il ricorso prioritariamente esaminato (a tal fine potendo giocare anche le consuete ragioni di economia processuale), al giudice si impone di tenere conto dell'interesse strumentale di ciascuna impresa alla ripetizione della gara, con obbligo di esame anche dell''altro, quando la fondatezza di entrambi comporti l'annullamento di tutti gli atti di ammissione alla gara e, per illegittimità derivata, anche dell'aggiudicazione, con conseguente obbligo della stazione appaltante di nuova indizione, in (utile) prospettiva conformativa. Il complessivo ripensamento ha, quindi, preso le mosse dalla decisione di Corte giust. 4 luglio 2013, causa C-100/12, Soc. Fastweb, che – proprio in relazione alla descritta ipotesi di ricorsi simmetricamente escludenti (in cui, cioè, la legittimità dell'offerta formalizzata da entrambi gli operatori rimasti in gara sia contestata nell'ambito del medesimo procedimento e per motivi identici), ha ritenuto che l'accoglimento del ricorso incidentale non potrebbe comportare il pregiudiziale rigetto dell'altro, avendo ciascuno dei concorrenti un interesse (legittimo) alla esclusione del concorrente, nella prospettiva della riedizione della gara da parte della stazione appaltante. La soluzione si è, naturalmente, imposta – anche in considerazione della attitudine precettiva delle sentenze della Corte di giustizia – al giudice amministrativo che, con la sentenza dell'adunanza plenaria del 24 febbraio 2014, n. 9, vi si è pienamente conformato. Restavano, nondimeno, due limitazioni alla generalizzazione della conclusione: a) anzitutto, la necessaria identità del vizio dedotto con i gravami incrociati (che vale a circoscrivere la vicenda alla fattispecie dei ricorsi «simmetricamente» escludenti e non, più in generale, «reciprocamente» escludenti); b) inoltre, l'indifferenza all'esistenza di altre offerte. Sotto il primo profilo, il percorso argomentativo della adunanza plenaria (peraltro, conforme alle direttive ermeneutiche della sentenza Fastweb), si snoda, in effetti, dall'assunto, operante nella ribadita logica formale dell'ordo quaestionum, che la rimarcata attitudine escludente sia predicato dei vizi denunziati e non dei ricorsi in quanto tali). Per tal via, l'identità del vizio (idonea ad attivare la necessità di congiunta disamina dei ricorsi incrociati, indipendentemente dalla priorità temporale) è ancorata al criterio del «tempo logico della pretesa», in quanto, volta a volta, riferita: a) alla fase di apertura dei plichi (quanto alla tempestività ed integrità della formalizzazione dell'offerta); b) al riscontro dei requisiti soggettivi (generali e speciali) di partecipazione alla procedura; c) alla verifica degli elementi essenziali dell'offerta. Ne dovrebbe, in astratto, discendere: a) che, laddove il ricorso incidentale veicoli una censura escludente afferente ad una subfase del procedimento di ammissione alla gara (distinta e) antecedente rispetto a quella investita dal ricorso principale, la fondatezza del primo (che andrà, perciò, esaminato con priorità) ridondi senz'altro in inammissibilità del secondo, per carenza di posizione legittimante (ovvero di interesse concreto); b) che laddove, all'incontro, il ricorso incidentale riguardi una subfase (distinta e) successiva rispetto a quella coinvolta dal ricorso principale, sarà la fondatezza del secondo (da esaminare, reciprocamente, con priorità) ad imporre l'inammissibilità dell'incidentale; c) che – per l'appunto – solo quando i vizi dedotti siano, nei chiariti sensi, identici (id est, riferiti, nella strutturata accezione, alla medesima subfase e, perciò, simmetricamente escludenti) i ricorsi andranno esaminati entrambi, senza vincolante ordine di priorità, nella ribadita logica della possibilità che la comune fondatezza induca la prospettica riedizione integrale della gara, nell'interesse di entrambi i contendenti (cfr. Cons. St. Ad. plen., n. 7/2014). Sotto il secondo profilo, appare evidente che l'interesse strumentale alla ripetizione della procedura trova ancoraggio nel presupposto che per tutte le imprese presenti in gara sia accertata (nel gioco dei gravami incrociati) la (coocorrente e concorrente) carenza dei requisiti di partecipazione e la sussistenza di ragioni di esclusione: ché, per contro, la presenza di altre offerte in graduatoria varrebbe a rendere meramente eventuale, con la (non necessaria né automatica) attivazione dei poteri di autotutela, l'opzione rimotiva della stazione appaltante, trasformando, contro il consueto intendimento delle condizioni dell'azione, l'interesse strumentale in interesse (puramente) potenziale (e, in diversa prospettiva, legittimando l'opinione che, in materia di appalti, la legittimazione del ricorrente cessi di essere presupposto necessario per l'attivazione delle tutele giurisdizionali). Sarà, in effetti, la successiva sentenza Puligienica (Corte di giustizia UE, Grande sezione, 5 aprile 2016, C-689/13) – sollecitata dal dubbio interpretativo valorizzato dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia – ad aprire questa nuova e più problematica prospettiva, escludendo, in termini generali, che l'accoglimento del ricorso incidentale possa precludere l'esame del principale indipendentemente dal numero di imprese partecipanti alla gara. Passaggio decisivo della decisione è quello per cui «non è escluso che una delle irregolarità che giustificano l'esclusione tanto dell'offerta dell'aggiudicatario quanto di quella dell'offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell'amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell'ambito della gara d'appalto, circostanza che potrebbe comportare la necessità per tale amministrazione di avviare una nuova procedura». In questa prospettiva – che, non è disagevole intenderne le ragioni, si pone in termini conflittuali, comunque problematici e, in ogni caso, innovativi rispetto a principi consolidati in punto di condizioni per l'accesso alla tutela giurisdizionale – deve, in sostanza, osservarsi: a) che non pare prefigurabile un ordine di priorità non solo nella disamina dei ricorsi incrociati, ma anche della tipologia dei vizi reciprocamente dedotti, le quante volte – indipendentemente dalla loro coincidenza o dalla fase procedimentale attinta – siano (comechessia) idonei a legittimare l'estromissione dalla gara; b) che l'utilità (succedanea e strumentale) del complessivo azzeramento degli esiti della procedura evidenziale si manifesta non solo nel caso di gravami simmetricamente (o anche solo reciprocamente) escludenti, nella residuale presenza di due soli competitori in gara e in lite, ma anche quando la presenza di altre offerte ammesse solleciti la (pur potenziale) attivazione dei poteri di autotutela della stazione appaltante (laddove, beninteso, anche tali offerte – non coinvolte dal giudizio per ragioni di ordine meramente processuale, attesa la, quanto meno incipitaria, carenza di interesse a contestare intermedie posizioni in graduatoria – si presentino prospetticamente inficiate dai medesimi vizi hic vel inde evidenziati in sede litigiosa). La sentenza ha da subito posto numerose questioni. a) Innanzitutto, in una lettura «radicale», si è messo in evidenza come essa sembri, di fatto, sterilizzare lo stesso requisito della legittimazione e dell'interesse ad agire, posto che non possa (più) essere dichiarata inammissibile la contestazione rinveniente da concorrente comunque privo dei requisiti per aspirare all'aggiudicazione. In verità, su questo punto, i successivi sviluppi della stessa giurisprudenza Europea hanno consentito di distinguere due eventualità: a1) quella della offerta definitivamente esclusa (per inoppugnabilità della determinazione estromissiva o per effetto di giudicato): cfr. Corte giust. 21 dicembre 2016, causa C-355/15 e a2) quello della offerta non definitivamente esclusa: ciò che finisce per strutturare, comunque, un criterio di legittimazione alla tutela giurisdizionale, che, in sostanza, postula la perdurante sussistenza di una chance effettiva di riapertura dei giochi concorrenziali (cfr. Corte giust. 11 maggio 2017, causa C-131/16, Archus, che, appunto, afferma la necessità di esaminare comunque il ricorso proposto dall'impresa esclusa la cui esclusione, tuttavia, non sia divenuta definitiva. b) In secondo luogo, la considerazione che l'utilità del processo fondi sulla mera eventualità della attivazione, da parte della stazione appaltante, dei poteri di autotutela, sembra imporre una acquisizione (già di per sé non certo priva di problemi) dell'interesse strumentale in termini non già concreti (vale a dire circostanziati, alla luce delle evidenze ed emergenze processuali), ma astratti (quali sono, per l'appunto, quelli correlati a sviluppi meramente potenziali della decisione giudiziale): e ciò contro il canone che vuole il bisogno di tutela pur sempre individualizzato, specifico ed attuale. Proprio la difficoltà di conciliare la prospettiva comunitaria con i principi processuali interni è all'origine di un nuovo contrasto di orientamenti. Infatti, nel tentativo di conferire in certo senso concretezza all'interesse strumentale alla prospettica riedizione della gara, una parte della giurisprudenza (cfr. per es. Cons. St. III, n. 3708/2016) ha ritenuto di dover subordinare la possibilità di valutare (accolto il ricorso incidentale) anche il ricorso principale (non immediatamente ma prospetticamente) escludente alla dimostrazione, già in jure, che anche le altre offerte siano interessate dai medesimi vizi. Per contro, altro orientamento – pur consapevole della considerazione seriamente anomalistica dell'interesse ad agire – ha ritenuto (in termini, per esempio, Cons. St. V, n. 3593/2017; e cfr. ancora Id. sez. III 13 aprile 2018, n. 2232) che la mera possibilità dell'autotutela (come tale rimessa una scelta amministrativa insuscettibile di vaglio prospettico ed anticipato, trattandosi, in sostanza, di potere non ancora esercitato: cfr. art. 34 c.p.a.) sia di per sé sufficiente a conservare al ricorrente principale (pur impossibilitato ad aspirare all'aggiudicazione in quanto soccombente nel ricorso incidentale) una chance di riapertura della gara, meritevole in quanto tale (e, cioè, non in quanto qualificata dal previo vaglio positivo della ricorrenza dei relativi presupposti) di essere tutelata. Il contrasto ha dato origine ad una ennesima rimessione alla adunanza plenaria, ad opera di Cons. St., V, [ord.] n. 5103/2017, e, di conserva, ad una nuova investitura della Corte di giustizia: cfr. Cons. St. Ad. plen., ord. n. 6/2018) risolto da Corte giustizia 5 settembre 2019, C-333/18, che ha sostanzialmente affermato la necessità di valorizzare in ogni caso l'interesse strumentale (che diventa, a questo punto, non solo meramente potenziale, ma anche propriamente eventuale). In effetti, in un tentativo di sintesi, si potrebbe osservare che – una volta che si sia disposti ad allargare, sino al massimo di tolleranza concepibile, la nozione di interesse ad agire – la soluzione che propugna, nella pedissequa recezione della sentenza Puligienica, l'obbligo di esaminare sempre e comunque il ricorso principale, anche in presenza di altre offerte rimaste estranee al giudizio appare, in termini in certo senso paradossali, meno problematica sul piano operativo. Essa è costretta ad ammettere, tuttavia, che la decisione possa, in concreto, non apportare alcuna utilità alle parti in causa: e ciò in quanto la stazione appaltante resterebbe in ogni caso libera di apprezzare discrezionalmente la possibilità di estendere alle offerte terze, attivando i propri poteri di autotutela, gli esiti della decisione (e la relativa scelta non sarebbe suscettibile di impugnazione, per difetto di interesse). Per contro, la soluzione restrittiva (ispirata, come vale ribadire, ad un tentativo di non diluire, fino a farlo evaporare, l'interesse concreto e personale alla decisione di merito), scontava anzitutto la difficoltà di strutturare una necessaria cognizione incidentale in ordine alla sussistenza di ragioni estromissive a carico di concorrenti rimasti estranei al giudizio. In effetti, in tesi, il ricorrente principale avrebbe dovuto, in tale prospettiva (per aspirare alla disamina del ricorso anche le quante volte risultasse fondato il gravame incidentale dell'aggiudicatario), ritenersi onerato alla concorrente dimostrazione: a) sia, ovviamente, della illegittimità dell'aggiudicazione; b) sia, pacificamente, della sussistenza di ragioni espulsive a carico delle imprese collocate in graduatoria in posizione mediana (da evocare senz'altro in giudizio in quanto, per comune intendimento, formalmente e sostanzialmente controinteressate); c) sia anche della sussistenza di analoghi vizi a carico delle offerte formalizzate da (tutti) gli altri concorrenti, collocati in posizione meno favorevole (senza di che – restando rimesso alla eventualità della attivazione di un complessivo procedimento revisionale della stazione appaltante – sarebbe appunto mancato l'interesse concreto, ancorato alla ineludibilità della autotutela). Il dubbio era anche, per giunta, se, in relazione a quest'ultimo profilo, si prospettasse la necessità di una integrazione del contraddittorio, in considerazione della posizione di controinteresse. Era lecito, verisimilmente, escluderlo: in quanto finalizzata all'accertamento della sussistenza di una condizione dell'azione in concreto, la relativa questione rientrava tra le questioni incidentali decise senza efficacia di giudicato (cfr. art. 34 c.p.c., per il tramite dell'art. 39, comma 1 c.p.a.): del resto, sarebbe stato, semmai, contro il (pedissequo) provvedimento di autotutela, assunto all'esito di un (discrezionale) apprezzamento conformativo della stazione appaltante, che avrebbero potuto essere esperiti gli eventuali rimedi giurisdizionali, con salvezza del diritto di difesa. A voler diversamente opinare, infatti, l'accertamento dei vizi a carico delle offerte «terze» avrebbe finito per rendere l'autotutela non già, come d'ordinario, discrezionale, ma doverosa, in quanto frutto di una vera e propria conformazione ad un «giudicato»: il che, però, avrebbe reso circolarmente necessario, per l'appunto, il coinvolgimento delle parti interessate. In ogni caso, la decisione della Corte di giustizia finisce, in buona sostanza, per segnare la ‘morte' del ricorso incidentale escludente: annettendo al ricorso principale un interesse strumentale (indebolito fino al segno di veicolare non solo una concreta potenzialità di conseguire prospettiche utilità dalla riedizione dell'azione amministrativa, ma di sorreggere la mera eventualità che questo possa accedere), si impone in ogni caso la disamina nel merito del ricorso principale (perché la fondatezza dell'incidentale non cancellerebbe in ogni caso quell'interesse): naturalmente, se il principale si rivelasse infondato, l'incidentale (non più escludente) diventerebbe improcedibile, perché non sarebbe di alcuna utilità all'aggiudicatario vittorioso nel merito, che avesse consolidato la propria posizione di vantaggio (cfr. Cons. St. IV, n. 4431/2020). Per ora, la storia finisce qui.... Questioni applicative1) Rito appalti e individuazione dei controinteressati: il bene della vita da difendere è solo la formale aggiudicazione? Prima della formale aggiudicazione della gara ex art. 32 codice contratti pubblici, il primo graduato all'esito della procedura non riveste la qualifica di controinteressato, destinatario a pena di inammissibilità della notificazione del ricorso di annullamento ex art. 41 c.p.a. (Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, 31 marzo 2021, n. 276) L'individuazione del potenziale aggiudicatario in sede di graduatoria stilata dalla commissione e la proposta di aggiudicazione in suo favore sono, infatti, atti prodromici dal carattere schiettamente endoprocedimentale, che non assegnano un'utilità attuale, effettiva e immediata. «A fortiori», la mera partecipazione integra una mera «chance» di vittoria che non implica la notificazione ai concorrenti delle impugnative del bando. Del pari, l'attribuzione della posizione di secondo graduato all'esito della definizione della procedura implica solo l'aspettativa dello scorrimento, vale a dire un'utilità di carattere prettamente potenziale e ipotetico (id). Sulla scorta di detti principi, estensibili anche ai concorsi pubblici, non deve essere notificato all'aggiudicatario solo «in pectore» il ricorso avverso il bando, la vecchia aggiudicazione provvisoria, l'esclusione e gli altri atti della procedura. Siccome il tempo ci sorprende sempre con eventi e mutamenti, resta inteso che la sopravvenuta aggiudicazione in corso di giudizio impone l'integrazione del contraddittorio, pena l'integrazione di un vizio procedurale denunciabile con l'opposizione di terzo. 2) In caso di procedura aggregata a quale amministrazione va notificato il ricorso? Concentriamoci sulla pubblica amministrazione alla quale va, a pena di inammissibilità, notificato il ricorso introduttivo. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 18.05.2018 n. 8 chiarisce che, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.a., in caso di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell'interesse anche di altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato. Il Consiglio di Stato ha aderito all'orientamento (Cons. St.. III, n. 4541/2013, Cons. St..V, n. 3966/2012; Cons. St..V, n. 1500/2010) che esclude la necessità di notificare il ricorso anche a tutti i soggetti che aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma aggregato o beneficiano a vario titolo degli effetti dell'aggiudicazione. A tale esito appare, infatti, necessario pervenire considerando il rilievo decisivo, ai fini della soluzione del quesito, dell'art. 41 c.p.a., che identifica l'amministrazione cui deve essere notificato il ricorso introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha emesso l'atto impugnato. In virtù della disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio appare necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato. In altri termini, la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., nell'enunciare la regola generale sopra ricordata, positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al procedimento. Corollario di tale regola – come è stato affermato (Cons. St. V, n. 3966/2012) – è che solo quando l'atto finale sia imputabile a più amministrazioni, come accade per gli atti di concerto o come può verificarsi per gli accordi di programma, la legittimazione passiva riguarda tutte le amministrazioni interessate. Per converso, le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il potere di iniziativa o di proposta, la partecipazione all'intesa che abbia preceduto l'adozione del provvedimento finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi dall'autorità emanante. A tal fine, infatti, sarebbe necessaria una formale imputazione del provvedimento finale ad una pluralità di amministrazioni (Cons. St. V, n. 3966/2012). Una diversa soluzione, volta ad estendere la legittimazione processuale a soggetti diversi dall'autorità che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una oggettiva violazione della norma che presidia la legittima costituzione del rapporto giuridico processuale. Nei casi sopra ricordati, d'altra parte, si è di fronte ad una unica amministrazione (capofila) che gestisce la procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto a essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio (Cons. St. V, n. 1500/2010); tutto ciò mentre le altre amministrazioni, eventualmente interessate alla procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum sulle vicende della gara. Deve, infine, essere rilevato che alla prospettazione sopra esposta non può essere opposta la disciplina di cui all'art. 81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui. Nelle fattispecie sopra ricordate, infatti, l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in essere il procedimento ed emanato il provvedimento di aggiudicazione). Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione processuale, con la legittimazione straordinaria che a questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per le ragioni già esposte, di rilevanza processuale. Insomma, il bene prezioso della certezza del diritto impone una lettura formale che limita la legittimazione passiva ai soli enti ai quali sono formalmente imputati gli atti da impugnare, senza annettere rilevo al profilo procedimentale dell'apporto alla procedura e a quello sostanziale del beneficio tratto dagli atti. 3) La legittimazione a impugnare gli atti di gara spetta solo al concorrente che abbia presentato una valida domanda di partecipazione? La risposta è positiva ma soffre di quattro eccezioni Secondo la Corte di Giustizia Europea (sent. 28 novembre 2018, C. 328/2017) è conforme alla diritto UE la normativa nazionale che impedisce agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell'amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d'appalto alla quale essi abbiano deciso di non partecipare a causa delle ridotte possibilità di successo provocate dalla disciplina di gara restrittiva della concorrenza. Il giudice del rinvio (il T.A.R. Liguria) aveva rilevato che, secondo l'interpretazione dei requisiti procedurali della legittimazione e dell'interesse ad agire accolta anche dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 245/2016), sarebbe inammissibile il ricorso proposto dall'impresa che non abbia partecipato alla gara quando non fosse assolutamente certo, ma soltanto altamente probabile l'esito negativo della procedura per effetto della strutturazione della gara, La possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale sarebbe, a questa stregua, sistematicamente subordinata alle forche caudine della partecipazione alla gara che comporta di per sé rilevanti oneri, e ciò persino nel caso in cui l'impresa intendesse contestarne la legittimità per essere la gara stessa eccessivamente restrittiva della concorrenza. La Corte di Giustizia spegne gli entusiasmi garantistici del giudice ligure, pervenendo alla conclusione che la normativa nazionale, nell'esplicazione dell'autonomia che spetta agli Stati membri nel campo schiettamente processuale, può legittimamente subordinare il diritto di impugnare gli atti di gara all'onere della rituale partecipazione alla procedura. I giudici della Corte richiamano, a suffragio dell'assunto, la direttiva 89/665, per cui gli Stati membri sono tenuti a garantire che le procedure di ricorso siano accessibili «per lo meno» a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto pubblico e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici o delle disposizioni nazionali che attuano tale diritto (in tal senso, sentenze del 12 febbraio 2004, Grossmann Air Service, C230/02, EU:C:2004:93, punto 25, e del 5 aprile 2016, PFE, C689/13, EU:C:2016:199, punto 23). Secondo la giurisprudenza della Corte, quindi, gli Stati membri non sono tenuti a rendere dette procedure di ricorso accessibili a chiunque voglia ottenere l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ma hanno facoltà di esigere che la persona interessata sia stata o rischi di essere lesa dalla violazione da essa denunciata. Agli stessi principi si richiamano le decisioni di Corte Costituzionale e Consiglio di Stato (Cons. St. Ad. plen. 4/2018). La sentenza rimarca, tuttavia, che sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, sia dalla sentenza n. 245/2016 della Corte costituzionale si ricavano temperamenti al rigore di siffatto sbarramento aprioristico. È infatti ius receptum la regola pretoria per cui l'interesse e la legittimazione ad agire possono essere eccezionalmente riconosciuti a un operatore economico che non abbia presentato alcuna offerta, in quattro casi in cui la condizione della presentazione di una domanda di partecipazione si atteggerebbe a onere manifestamente eccessivo, ossia nelle «ipotesi in cui si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell'offerta». Si tratta di casi in cui, come di recente ribadito dà Cons. St. V, n. 441/2020, la lesione lamentata consegue – in via immediata e diretta, e non soltanto potenziale e meramente eventuale –, alle determinazioni dell'amministrazione e all'assetto di interessi delineato dagli atti di gara, in relazione a profili del tutto indipendenti dalle vicende successive della procedura e dai correlati adempimenti. Inoltre, i motivi immediatamente escludenti devono avere natura oggettiva e non inerire meramente a pretese situazioni soggettive, ascrivibili aun giudizio meramente individuale di non convenienza della commessa. È corretto, allora, che solo in tali evenienze peculiari il diritto di proporre ricorso sia riconosciuto a un operatore che non ha presentato alcuna offerta, in quanto, al di fuori di situazioni esorbitanti in cui l'onere si appalesa irragionevole e sproporzionato alla contestazione che si vuole muovere e al risultato in astratto conseguibile, non si può considerare eccessiva la richiesta che quest'ultimo dimostri che le clausole del bando rendevano impossibile la formulazione stessa di un'offerta. Alla luce delle suesposte considerazioni, la CGE risponde che «sia l'art. 1, par. 3, della direttiva 89/665 sia l'art. 1, par. 3, della direttiva 92/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell'amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d'appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l'appalto in questione». Tuttavia, rimane il principio secondo cui la decisione va presa caso per caso da parte del giudice amministrativo, sulla base dell'effettiva impossibilità di partecipazione ad una procedura. Si legge così, a conclusione della sentenza, che «spetta al giudice nazionale competente valutare in modo circostanziato, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti che caratterizzano il contesto della controversia di cui è investito, se l'applicazione concreta di tale normativa non sia tale da poter ledere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva degli operatori economici interessati.» L'assunto dei giudici di Lussemburgo, confermato dalla Plenaria n. 4/2018, conferma il modello soggettivo della nostra giurisdizione in cui l'accesso al giudice non è strumento per invocare la legalità oggettiva da parte del «quinque de populo» secondo la logica dell'azione popolare, ma mezzo di tutela di posizioni soggettive differenziate e qualificate azionabile dal soggetto che dimostri di versare in una condizione di specialità rispetto all'agognato bene della vita. 4) «I motivi aggiunti nel rito appalti: facoltà, onere o forca caudina? La parola alla Consulta» Il T.A.R. Puglia Lecce, con Ordinanza 297/2000, ha investito il Giudice delle leggi della «questione di legittimità costituzionale proprio dell'art. 120, comma 5, c.p.a., per contrasto, «in parte qua», con il diritto di difesa e con il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all'art. 24 della Costituzione». In punto di non manifesta infondatezza, il T.A.R. salentino, dopo aver richiamato la distinzione tra motivi aggiunti c.d. propri e c.d. impropri, ha ritenuto che il comma 5 dell'art. 120, nella parte in cui assegna il termine di 30 giorni decorrente dalla comunicazione relativa all'aggiudicazione di cui all'art. 79 d.lgs. 163/2006 anche alla proposizione di motivi aggiunti, si pone in contrasto con i principi processuali di rango costituzionale. Più precisamente, in tale ottica, verrebbe irragionevolmente compresso il diritto di difesa sancito, a livello costituzionale, dall'art. 24, il quale, «inteso nella sua piena effettività, impone di collegare la decorrenza del termine di decadenza per adire il Giudice alla concreta possibilità di esercitare consapevolmente il diritto di azione», ovvero «alla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza degli atti e dei vizi ulteriori, non conosciuti al momento della proposizione del ricorso». Nonostante gli sforzi profusi dalla giurisprudenza nel tentativo di dare una lettura costituzionalmente orientata del termine in esame, i giudici amministrativi pugliesi ritengono che la modalità di computo del dies a quo per la proposizione dei motivi aggiunti, «a causa del proprio univoco tenore letterale (che non ammette eccezioni) e dei correlati e definitivi effetti preclusivi/decadenziali», non possa ritenersi ossequiosa dei principi scanditi dall'art. 24 Cost. Il rimettente sottolinea che l'obbligo per il Giudice di prediligere un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme non può tradursi in un travisamento della «littera legis, laddove la disposizione codicistica non lo permetta. Nel caso del comma 5 dell'art. 120, il riferimento alla «ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 de d.lgs. 163/2006» richiede di essere inteso «sic et simpliciter quale rinvio mobile al comma 2 dell'art. 76 d.lgs. n. 50/2016 e ss.mm., che prevede la comunicazione delle ragioni dell'aggiudicazione su istanza dell'interessato». Far decorrere, dunque, il termine di proposizione del ricorso e dei motivi aggiunti dal momento in cui l'interessato abbia avuto integrale cognizione degli atti della procedura a seguito dell'istanza di accesso, e non dalla comunicazione d'ufficio dell'aggiudicazione, renderebbe «del tutto superfluo lo stesso strumento dei motivi aggiunti». In conclusione, il Collegio pugliese ha ritenuto «necessario sollevare d'ufficio una questione di legittimità costituzionale con precipuo riferimento all'art. 120, comma 5, c.p.a. [...] nella parte in cui fa decorrere il termine di 30 giorni per la proposizione dei motivi aggiunti dalla ricezione della comunicazione dell'aggiudicazione di cui all'art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, per contrasto con il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all'art. 24 della Costituzione («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»), in quanto, equiparando il termine per la proposizione dei motivi aggiunti a quello per la proposizione del ricorso, impedisce di fatto la tutela giurisdizionale della parte ricorrente avverso i vizi di legittimità del provvedimento di aggiudicazione rivelati dagli atti e dai documenti successivamente conosciuti». Prossimamente ci occuperemo della risposta della Consulta. È ragionevole prevedere l'utilizzo della tecnica dell'interpretazione conforme. Utili indicazioni posso essere tratte, al riguardo, da Ad. plen. n. 12/2020, che, nell'abbracciare una soluzione che esclude l'onere di medievali ricorsi al buio, ha affermato i seguenti principi di diritto: «a) il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell'art. 29 del d.lgs. n. 50/2016; b) le informazioni previste, d'ufficio o a richiesta, dall'art. 76 del d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale; c) la proposizione dell'istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale' quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l'offerta dell'aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell'ambito del procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta; d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del d.lgs. n. 50/2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione; e) sono idonee a far decorrere il termine per l'impugnazione dell'atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati». Nell'attesa di ulteriori sviluppi, segnaliamo, sempre sui motivi aggiunti nel rito appalti, T.A.R. Lazio, sez. II, 15 gennaio 2021, n. 610, che ha dichiarato inammissibile, ai sensi e per gli effetti dell'art. 35, comma 1, lett. b) c.p.a., l'impugnazione, promossa con autonomo e separato ricorso, di «nuovi» atti o provvedimenti di una procedura di gara, già interessata da un contenzioso medio tempore instaurato, poiché l'art. 120, comma 7 c.p.a. configura come doveroso l'utilizzo dello strumento dei motivi aggiunti«, laddove stabilisce che nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti». Insomma, i motivi aggiunti, un po' come il matrimonio, non sono solo una straordinaria opportunità, ma anche un meraviglioso cappio al collo. 5) Decreto Semplificazione e rito appalti: un amore difficile? Ecco la massima bruciante di C.G.A., decreto presidenziale 14 novembre 2020, n. 795: «La norma processuale recata dall'art. 5, comma 6, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cd. decreto semplificazioni), conv., con modif., dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, non si applica al caso di una controversia sull'aggiudicazione di una gara». Ha chiarito il decreto che l'art. 5, comma 6, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cd. decreto semplificazioni: vedi il relativo commento), conv., con modif., dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, non si applica al caso di una controversia sull'aggiudicazione di una gara. Trattasi di una disposizione processuale extravagante, secondo cui «In sede giudiziale, sia in fase cautelare che di merito, il giudice tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale o locale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, il giudice valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per l'operatore economico, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto pubblico alla celere realizzazione dell'opera. In ogni caso, l'interesse economico dell'appaltatore o la sua eventuale sottoposizione a procedura concorsuale o di crisi non può essere ritenuto prevalente rispetto all'interesse alla realizzazione dell'opera pubblica». Secondo il dictum in esame il perimetro applicativo della disposizione deve essere riferito all'ambito sostanziale del medesimo comma 6 («Salva l'esistenza di uno dei casi di sospensione di cui al comma 1, le parti non possono invocare l'inadempimento della controparte o di altri soggetti per sospendere l'esecuzione dei lavori di realizzazione dell'opera ovvero le prestazioni connesse alla tempestiva realizzazione dell'opera»), ovvero all'ambito sostanziale del comma 1 dell'art. 5, ossia: a) i casi in cui vi sia tra le parti una controversia sull'inadempimento contrattuale ai sensi dell'art. 5, comma 6, primo periodo; b) o una controversia su un provvedimento amministrativo di sospensione dei lavori disposto dal RUP ai sensi dell'art. 5, commi 1 e 2. è altresì da stabilire se, in siffatte due evenienze, la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario ovvero al giudice amministrativo. In ogni caso, la citata previsione processuale non incide sulle regole processuali contenute negli art. 120 e ss. c.p.a. in ordine alle sentenze di merito del giudice amministrativo sull'aggiudicazione degli appalti e sulla sorte del contratto. Insomma, il rito degli appalti è, almeno in questo caso, al riparo dalla cieca furia semplificatrice della legge. 6) Da quando si applicano le modifiche all'art. 120 ex art. 4, d.l. n. 76/2020? Le modifiche introdotte dall'art. 4, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (vedi il relativo commento), all'art. 120 c.p.a., hanno natura processuale e sono applicabili, secondo il generale principio del tempus regit actum, alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva alla loro entrata in vigore (T.A.R. Lazio Roma II, n. 9044/2020). Ha chiarito la Sezione che la disposizione dell'art. 120, commi 6 e 9,c.p.a., è stata di recente modificata dall'art. 4 del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, rubricato «Misureurgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale» (pubblicato sulla GURI n. 178 del 16luglio 2020–SerieGenerale ed entrato in vigore il giorno 17 luglio 2020) cheha introdotto nuove regole processuali nel c.d. rito appalti,alcune delle quali hanno come destinatari tutti gli operatori del diritto e dal tre invece in particolare il giudice. Sotto il primo profilo viene in rilievo il nuovo comma 6 dell'art. 120 del c.p.a. secondo cui «Il giudizio è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell'art. 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'art. 60, ove ne ricorrano i presupposti e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro 45 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente». Sotto il secondo profilo viene in rilievo il nuovo comma 9 del medesimo articolo ai sensi del quale «Il giudice deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro 15 giorni dall'udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro 30 giorni dall'udienza». La riforma legislativa ha carattere ordinamentale e è ispirata dalla finalità di ottenere il rilancio dell'economia attraverso l'ulteriore contrazione dei tempi di definizione dei contenziosi amministrativi indicati nell'art. 120, comma 1, c.p.a., (riguardanti le «procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione ad essi riferiti, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente») per i quali era (ed è) già prevista una disciplina processuale ispirata alla medesima ratio e che si pone parzialmente in deroga alle ordinarie regole del codice del processo amministrativo. Le previsioni normative introdotte dall'art. 4, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, hanno dunque natura processuale e sono applicabili, secondo il generale principio del tempus regit actum, alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva alla loro entrata in vigore. In applicazione delle coordinate ermeneutiche sopra tracciate, il giudizio viene quindi «di norma definito», ai sensi dell'art. 120 c.p.a., ratione termporis vigente, in esito all'odierna udienza cautelare, ricorrendo nella specie i presupposti di legge previsti dall'art. 60 c.p.a.. 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