Riduzione del capitale sociale e determinazione del danno da mala gestio

14 Febbraio 2022

Con l'ordinanza n. 4347 del 10 febbraio 2022, la I Sezione Civile della Cassazione, muovendo dall'analisi di una fattispecie regolata dalle disposizioni del codice civile vigenti prima della riforma del diritto societario, sviluppa una pregevole motivazione sui temi della riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale in conseguenza di perdite e della determinazione del danno derivante dalle nuove operazioni compiute dall'amministratore nonostante il verificarsi di tale causa di scioglimento della società.

Sono stati enunciati i seguenti principi di diritto:

«L'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. (nel testo anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), che prevede lo scioglimento della società di capitali "per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dall'art. 2447", si interpreta nel senso che tale evento: si verifica solo quando la perdita di esercizio di consistenza superiore al terzo del capitale determina la riduzione di questo al di sotto del minimo stabilito dalla legge (art. 2327 c.c., per la società per azioni; art. 2474 c.c. per la società a responsabilità limitata); non si verifica quando la perdita di capitale, pur determinando la riduzione di questo al di sotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo».

«Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi dell'art. 146, comma 2, l. fall. contro l'ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l'avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l'insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell'amministratore e, dall'altro, l'accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall'insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo».

La questione dibattuta. Il Tribunale di Salerno, una volta accertato che l'amministratore e socio unico di una s.r.l. aveva compiuto nuovi atti d'impresa dopo il verificarsi della causa legale di scioglimento (riduzione del capitale al di sotto della misura minima prevista dalla legge in conseguenza di perdite) della società (poi fallita) lo condannava a risarcire alla curatela il danno derivato da tale violazione. La Corte di Appello di Salerno confermava l'accertamento della violazione sia dell'obbligo di cui all'art. 2449 c.c. che dei doveri di corretta gestione della società, rideterminando però l'ammontare del danno. Specificava il secondo Giudice che nel caso di azione di responsabilità esercitata da curatore di fallimento costui è tenuto a dimostrare quanto meno il danno e il nesso di causalità con la mala gestio dell'amministratore; quando poi l'azione di responsabilità trova fondamento nel divieto di intraprendere nuove operazioni non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l'intero passivo come conseguenza delle nuove operazioni compiute dall'amministratore, potendosi ricondurre parte di tale passivo a perdite derivate da operazioni svolte in epoca anteriore a quella in cui si sarebbero dovute adottare le iniziative di cui agli artt. 2447 e 2448 c.c..

Il criterio dunque che permette di liquidare il danno si riferisce al passivo determinatosi nel periodo in cui l'amministratore avrebbe dovuto astenersi dal compiere nuove operazioni, dal momento che ove ciò si fosse verificato, il passivo già accumulato prima della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale non si sarebbe accresciuto.

Seguiva il ricorso per cassazione da parte dell'amministratore.

La riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale. Lamenta, anzitutto, il ricorrente l'assenza di responsabilità per la prosecuzione dell'attività d'impresa in quanto nella specie, regolata dalle disposizioni anteriori alla riforma del diritto societario, non si era verificata la causa legale di scioglimento della società. La sentenza impugnata sostiene, al riguardo, che la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell'applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. è solo quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli c.d. di periodo; ciò in aderenza all'interpretazione, adottata in sede di legittimità, del concetto di perdita rilevante per il compimento di una delle operazioni prescritte da tali disposizioni. La sentenza impugnata aderisce poi alla tesi secondo cui qualsivoglia riduzione del capitale sociale tale da portarlo al di sotto del minimo legale, a prescindere dalla sua misura, comporterebbe lo scioglimento della società.

Ricorda la Suprema Corte che la dottrina largamente maggioritaria e parte significativa della giurisprudenza di merito affermano, all'opposto, che il fatto determinante lo scioglimento della società non è la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale per effetto di una perdita di qualunque consistenza quantitativa, ma che l'evento dissolutivo in parola si verifica solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e lo riduce al di sotto di tale ammontare minimo. L'interpretazione dell'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. fondata sul solo suo dato letterale e adottata dalla sentenza impugnata determina, ad avviso dei Giudici di legittimità, una rilevante amputazione della parte descrittiva della fattispecie contenuta nell''art. 2447 c.c. costituente il presupposto dell'insorgere degli obblighi ivi previsti e cioè la diminuzione del capitale oltre il minimo legale causata dalla «perdita di oltre un terzo del capitale». Una siffatta amputazione provoca una rilevante distonia fra disposizioni di legge fra loro complementari, al punto che, come efficacemente osservato da autorevole dottrina condivisa in sentenza, la mera interpretazione letterale dell'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. finirebbe col sottoporre la conseguenza più grave, e cioè lo scioglimento, a presupposti obiettivi minori (qualunque perdita incidente sul minimo legale) di quelli (perdita di oltre un terzo del capitale che incida sul minimo legale) richiesti per la conseguenza meno grave, cioè l'obbligatoria (riduzione e) ricostituzione del capitale. Da qui la prospettata mutilazione logica dell'art. 2447 c.c., nella sua parte descrittiva di fattispecie, non avendo altrimenti ragion d'essere il rilievo del limite del terzo se la società fosse comunque costretta a provvedere di fronte a perdite di qualsiasi misura incidenti sul minimo legale di capitale.

La soluzione offerta dalla Suprema Corte. In considerazione di quanto sopra la Prima Sezione reputa che l'interpretazione dell'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. non può prescindere dall'intero contenuto del precedente art. 2447, indicando allora questa soluzione: fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l'assemblea per l'adozione di una delle decisioni indicate dall'art. 2447 c.c. e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta effetti negativi alla vita della società. All'opposto, è solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge lo scioglimento della società. Da qui il principio di diritto sopra riportato.

Cattiva gestione e danno risarcibile: i compiti del giudice e del curatore. Ad avviso della sentenza di secondo grado quando l'azione di responsabilità trova fondamento nel divieto di intraprendere nuove operazioni di cui all'art. 2449 c.c. non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l'intero passivo come conseguenza delle nuove operazioni compiute dall'amministratore, potendosi ricondurre parte di tale passivo a perdite derivate da operazioni compiute in epoca anteriore a quella in cui si sarebbero dovute adottare le iniziative di cui agli artt. 2447 e 2448 c.c. Questi concetti, ad avviso della Corte di Cassazione, non contrastano con i principi di diritto sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 9100/2015), secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni. Detti principi sono stati confermati anche in riferimento all'azione di responsabilità promossa dal curatore contro il cessato amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l'avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale.

Il giudice è tenuto, qualora si avvalga per la quantificazione del danno del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, a indicare le ragioni per le quali, da un lato, l'insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell'amministratore e, dall'altro, l'accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime ed il danno allegato sarebbe stato precluso dall'insufficienza delle scritture contabili sociali.

In tal caso incombe sul curatore (che abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato) indicare le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi riconducibili alla condotta dell'amministratore convenuto. Da qui il secondo principio di diritto sopra enunciato.

Qualche precedente in materia. In ordine alla seconda tematica trattata dall'ordinanza in commento, cfr. Cass. 2 ottobre 2015, n. 19733, secondo cui: “nell'azione di responsabilità promossa dal curatore, ex art. 146, comma 2, l.fall., contro l'ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l'avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale, il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l'insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell'amministratore e, dall'altro, l'accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime ed il danno allegato sarebbe stato precluso dall'insufficienza delle scritture contabili sociali, rivelandosi, invece, insufficiente il solo generico confronto tra la situazione patrimoniale della società all'inizio della gestione del suddetto amministratore e quella risultante al momento della dichiarazione di fallimento”. Conforme, Cass. 6 gennaio 2018, n. 832.

Per la giurisprudenza di merito, in argomento, cfr. Trib. Prato, 25 settembre 2012, nel quale è stabilito che: “nelle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori per atti di "mala gestio" promosse dalla curatela fallimentare, il mancato rinvenimento della contabilità d'impresa non determina in modo automatico che l'ex amministratore risponda della differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, potendo il giudice di merito applicare il criterio differenziale soltanto in funzione equitativa, attraverso l'indicazione delle ragioni che non hanno permesso di accertare gli specifici effetti pregiudizievoli della condotta e che rendono plausibile ascrivere all'ex amministratore l'intero sbilancio patrimoniale. Tale soluzione deve essere applicata anche in relazione al criterio dei c.d. netti patrimoniali, che costituisce pur sempre un criterio equitativo di liquidazione del danno, come tale applicabile, ex art. 1226 c.c., "se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare".

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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