Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 117(1) [I] La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (2). [II] Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; (3) perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull'istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (4); q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno; s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. [III] Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; (5) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato (2). [IV] Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. [V] Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza (6) (7). [VI] La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. [VII] Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. [VIII] La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. [IX] Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato (5). (1) Articolo così sostituito dall'art. 3 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, di cui alla nota al titolo V. Il testo precedente recitava: «[I]. La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni: - ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione; - circoscrizioni comunali; - polizia locale urbana e rurale; - fiere e mercati; - beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera; - istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica; - musei e biblioteche di enti locali; - urbanistica; - turismo ed industria alberghiera; - tranvie e linee automobilistiche d'interesse regionale; - viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale; - navigazione e porti lacuali; - acque minerali e termali; - cave e torbiere; - caccia; - pesca nelle acque interne; - agricoltura e foreste; - artigianato; - altre materie indicate da leggi costituzionali. [II]. Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione». (2) V. art. 1 l. 5 giugno 2003, n. 131, sub art. 114. (3) L'art. 3, l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, ha inserito le parole «armonizzazione dei bilanci pubblici;». Ai sensi dell'art. 6 della legge n. 1 cit., le disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014. (4) V. art. 2 l. n. 131, cit. (5) L'art. 3, l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, ha soppresso le parole «armonizzazione dei bilanci pubblici e». Ai sensi dell'art. 6 della legge n. 1 cit., le disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014. (6) V. art. 5 l. n. 131, cit. (7) V. art. 6 l. n. 131, cit.
InquadramentoL'articolo 117 è stato oggetto di una profonda modifica da parte della l. cost. n. 3 del 2001. Nel testo originario, l'art. 117 della Cost. si limitava a individuare e a delimitare le materie di potestà legislativa delle Regioni ordinarie. La disposizione in commento costituiva, pertanto, norma di tipo eccezionale: la regola era che la competenza legislativa spettava in via generale allo Stato. Nel nuovo assetto conseguito alla riforma del 2001, che ha visto un riequilibrio verso il «basso» delle competenze legislative tra Stato e Regioni, l'art. 117 della Cost. ha assunto il rango di norma generale regolatrice delle competenze legislative, ruolo che, prima della riforma del 2001, in mancanza di una analoga disposizione, si attribuiva agli articoli 70 e seguenti della Costituzione, che si riferiscono alla sola legge statale. Il nuovo art. 117 Cost. colma siffatta lacuna, specificando, già nel primo comma, che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni...» ed imponendo ad entrambi i legislatori, in egual misura, il «rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Venendo quindi ai nuovi criteri di ripartizione delle competenze tra i due enti ai quali nel nostro ordinamento è attribuita la potestà legislativa, deve rilevarsi che la riforma ha dato luogo ad una vera e propria «rivoluzione copernicana». A fronte di una mera elencazione delle sole materie nelle quali le Regioni ordinarie potevano esercitare la propria potestà legislativa, il nuovo art. 117 «rovescia» l'originaria impostazione, procedendo all'individuazione espressa delle competenze statali esclusive (elencate dal comma secondo) e concorrenti (elencate dal comma terzo). Di contro, alle Regioni è attribuita dal quarto comma una competenza legislativa residuale con «riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Quella di cui al quarto comma è, in linea di principio, una potestà legislativa «piena», non soggetta all'osservanza dei principi fondamentali determinati dal legislatore statale, speculare a quella «esclusiva» che il secondo comma attribuisce alla legge statale, anche se dalla giurisprudenza è emersa una certa permeabilità nei confronti della legislazione statale, in ragione della necessità di perseguire esigenze unitarie. La nuova impostazione dell'art. 117 della Cost.conferisce «copertura costituzionale» ai trasferimenti di competenze che la l. n. 59 del 1997 (c.d. legge Bassanini) e i relativi decreti attuativi, come il d.lgs. n. 112 del 1998. Detto riparto, come specificato dalla giurisprudenza costituzionale, deve rispondere al principio di sussidiarietà ex art. 118 della Cost. (Corte cost. n. 303/2003). In siffatto contesto si colloca il comma sesto dell'art. 117 della Cost., che costituzionalizza il divieto in capo al legislatore statale di emanare disposizioni di carattere regolamentare nelle materie che esulano dalla propria potestà legislativa esclusiva. Innovative sono altresì le disposizioni del quinto comma, che disciplina la partecipazione delle Regioni alla formazione e all'attuazione della normativa comunitaria e del nono comma, che costituzionalizza il c.d. «potere estero» delle Regioni. Valenza formale ha invece il settimo comma, che impone alle leggi regionali il rispetto dei principi di uguaglianza e parità di accesso alle cariche elettive, la cui osservanza è già prevista in via generale dai principi fondamentali e dalle disposizioni della Parte prima della Costituzione. Infine, l'ottavo comma prevede la ratifica, con legge regionale, delle intese stipulate tra Regioni. Il rispetto dei vincoli comunitari (primo comma)La disposizione del primo comma del nuovo art. 117 della Cost. è già indice dell'assetto compiuto con la riforma del 2001, laddove impone, in egual misura, a Stato e Regioni il rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Al di là delle specifiche vicende che hanno portato alla formulazione dell'attuale testo, la ragione immediata di questa disposizione risiede soprattutto nella esigenza di sottolineare il principio della pari dignità della produzione legislativa statale e regionale, cui corrisponde la sottoposizione ad un comune ordine di vincoli e di limiti (Serges, 2214 ss). La disposizione intende pertanto suggellare la formale equiparazione tra la potestà legislativa statale e quella regionale, secondo un criterio non già di gerarchia bensì di competenza, in linea con quanto disposto dall'art. 114 della Cost. La disposizione, tuttavia, per i richiami all'ordinamento comunitario e soprattutto agli obblighi internazionali, ha finito per implicare, sul piano dell'interpretazione, una serie di complessi problemi che esulano dal tema dei limiti comuni alle due forme di potestà legislativa, involgendo i principi fondamentali di cui agli articoli 10 e 11, concernenti il sistema dei rapporti con l'ordinamento internazionale e con quello comunitario. In questa parte della trattazione in tema di ripartizione di competenze, la disposizione viene in rilievo per la sua idoneità a costituire un diretto parametro ai fini del giudizio di legittimità, instaurato davanti alla Corte costituzionale, in ordine a una legge statale o regionale, nei cui confronti rileva come norma interposta la disciplina di rinvio internazionale o comunitaria (Corte cost. n. 129/2006). La formulazione della disposizione ha dato luogo ad un acceso dibattito dottrinale. Nel silenzio serbato, sul punto, dalla Corte costituzionale, per quasi quattro anni si erano contrapposte in dottrina due diverse interpretazioni della disposizione in commento. Una, minimalista, che, puntando soprattutto sulla terminologia usata (vincoli) e sull'accostamento agli obblighi internazionali, aveva letto il nuovo art. 117, primo comma, come una disposizione inutilmente ripetitiva dell'art. 11 (Pinelli, 194 ss e Palermo, 1539 ss). L'altra, invece, valorizzando il dato letterale aveva configurato il primo comma dell'art. 117 come una sorta di Europartikel, che «affiancando l'art. 11, ne precisa, limitatamente all'ordinamento comunitario, le conseguenze normative», configurandosi pertanto come una disposizione rilevante ai fini della teorica delle fonti (Sorrentino, 1355 ss. Sico, 1511 ss. e Ferrari, 1849 ss.). La Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità di una legge ordinaria per mancato rispetto dei «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», dopo che in precedenti circostanze aveva evitato di pronunciarsi sul punto, a volte per ragioni procedurali (Corte cost. n. 406/2005). Con la predetta declaratoria, la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità della norma regionale impugnata in relazione al primo comma dell'art. 117 e, distaccandosi dalla propria recente prassi, ha considerato autonomo motivo di censura l'allegazione della violazione del primo comma, dichiarando l'assorbimento delle ulteriori censure in ordine al secondo comma dello stesso articolo 117 della Cost. A ben vedere, un simile pronuncia non «consuma» la competenza della Regione, la quale conserva un margine di manovra, nel rispetto della normativa comunitaria di riferimento. Successivamente, con una pronuncia di carattere dirompente, la Corte costituzionale afferma la propria legittimazione a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE (Corte cost. n. 102/2008). Sicché, superando una costante giurisprudenza in senso contrario, la Corte si è autoproclamata a «giudice di unica istanza». L'ammissibilità del rinvio pregiudiziale è stata tuttavia limitata all'ambito del contenzioso Stato-Regioni, sulla base della peculiare struttura processuale del giudizio in via principale, che vede la stessa Corte quale «unico giudice» della conformità della norma interna al diritto comunitario, specie con riferimento ai controlimiti nazionali, ormai noti a partire dalla saga Taricco . Di contro, laddove l'antinomia fra norma interna e norma comunitaria si verifichi nel corso di un giudizio comune, spetta al giudice comune, nel caso in cui si ponga un problema interpretativo, adire la Corte di Giustizia tramite rinvio pregiudiziale ed eventualmente disapplicare la norma interna, in ragione del sindacato diffuso acclarato dalle storiche sentenze emesse dalla Corte di Giustizia Simmenthal e Granital. Sicché, laddove il conflitto dovesse permanere, il giudice nazionale sarà chiamato a disapplicare la norma nazionale in contrasto con il diritto comunitario mediante il meccanismo della disapplicazione diretta quale applicazione concreta dei principi del primato e di leale collaborazione, oggi costituzionalizzati nell'art. 117, comma 1 della Cost. L'osservanza degli obblighi internazionali e convenzionaliAnche l'osservanza degli obblighi internazionali presenta significativi effetti innovativi. La Corte costituzionale ha affrontato la problematica, muovendo dall'illegittimità delle disposizioni nazionali in tema di indennità di espropriazione e di occupazione illegittima (c.d. «occupazione appropriativa» o «accessione invertita»), ritenute in contrasto con i principi previsti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (stipulata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva nel nostro ordinamento con la legge 4 agosto 1955 n. 848, in breve CEDU) (Corte cost. n. 348/2007 e Corte cost. n. 349/2007). Al riguardo, la Consulta ha evidenziato la diversità degli effetti delle disposizioni comunitarie, direttamente vincolanti per le autorità interne degli Stati membri e quelle della CEDU, di origine pattizia e rilevanti nel diritto interno solo quali norme interposte, ossia come parametri di legittimità costituzionale delle disposizioni interne, statali o regionali ai sensi dell'art. 117 della Cost.. La Corte ha richiamato il proprio consolidato indirizzo, secondo cui solo le norme comunitarie devono avere «piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (Corte cost. n. 348/2007 e i precedenti: Corte cost. n. 183/1973 e Corte cost. n. 170/1984). Inizialmente e a partire dalla storica sentenza Frontini, il fondamento costituzionale dell'efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 della Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Con riferimento alle norme CEDU non è individuabile, secondo la Corte, alcuna limitazione della sovranità nazionale. Le norme CEDU «pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto». Sulla scorta di tali premesse, la Corte affronta la portata innovativa del nuovo art. 117 primo comma, che «ha colmato una lacuna» in tema di obblighi internazionali. Come noto, prima della sua introduzione, l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le norme in esame non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale: sicché, le norme interne, siano esse statali o regionali, in contrasto con il diritto internazionale pattizio erano sindacabili solo quando direttamente lesive (anche) di norme costituzionali (Corte cost. n. 223/1996). Sulla scorta del richiamo per relationem operato dal primo comma dell'art. 117 della Cost., il testo convenzionale costituisce norma interposta, che integra e rende operativo il parametro costituito dalla richiamata disposizione costituzionale. Il che non determina una costituzionalizzazione degli obblighi internazionali ma più semplicemente un rinvio mobile alle norme convenzionali vincolanti per il legislatore. Le norme CEDU e, in generale, le norme internazionali sono fonti «di rango subordinato alla Costituzione», sicché è necessario che siano conformi alla Costituzione nel giudizio di costituzionalità. Tale scrutinio deve avvenire alla luce non soltanto dei principi fondamentali, ma di ogni norma costituzionale: occorre infatti «evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione». La competenza esclusiva statale, le c.d. materie trasversali.Il nuovo criterio di ripartizione delle competenze legislative prevede, al secondo comma dell'art. 117 della Cost., l'elencazione delle materie attribuite alla competenza esclusiva statale, nelle quali è precluso, in linea generale, ogni intervento del legislatore regionale. Tra le materie enumerate dal secondo comma ve ne sono ricomprese alcune che non costituiscono «materie» nel senso tradizionale, dato che esprimono esigenze atte a soddisfare precipue finalità non in grado di investire una pluralità di materie. Tali «materie» sono state definite dalla dottrina – con una espressione adottata anche dalla Corte costituzionale – «competenze o materie trasversali» o anche «materie-non materie» (Falcon, 2001, 4 ss. e D'Atena, 2003, 21 ss.). La giurisprudenza, dal canto suo, una volta preso atto della peculiarità di dette materie, le ha indirizzate alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, alla tutela dell'ambiente, dell'ecosistema nonché della concorrenza. Con riguardo alla prima delle enumerate competenze, che la Corte ha enucleato una particolare competenza, idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore statale deve poter dettare le norme necessarie per assicurare alla generalità dei consociati il godimento di prestazioni garantite, senza alcuna interferenza della legge regionale (Corte cost. n. 281/2002). La previsione in questione «attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente stringente e cangiante (Corte cost. n. 88/2003). Anche la materia della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema di cui all'art. 117, comma secondo, lett. s) della Cost. presentano natura trasversale, essendo l'ambiente un «valore costituzionalmente protetto» rispetto ad ambiti di competenza regionale concorrente o residuale (quali la «tutela della salute», il «governo del territorio», la «protezione civile» e la «tutela e sicurezza del lavoro», la «caccia») (Corte cost. n. 407/2002). Le interferenze del legislatore statale devono limitarsi alla fissazione di standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, non potendo escludere la competenza regionale in materie di potestà concorrente o residuale, volte alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (Corte cost. n. 223/2003). Alle Regioni è consentito adottare anche una disciplina più rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, al fine di assicurare un maggior livello di garanzie per la popolazione residente, in ragione del principio del minimo standard di tutela (Corte cost. n. 182/2006). Natura di competenza trasversale ha ancora la «tutela della concorrenza», al fine di «unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese ... che, in definitiva, esprimono un carattere unitario» (Corte cost. n. 14/2004). In particolare, «l'intervento statale si giustifica per la sua rilevanza macroeconomica, mentre «appartengono... alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale». Da ciò discende che, la tutela della concorrenza «non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell'accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (Corte cost. n. 14/2004 e Corte cost. n. 272/2004). Il richiamo a siffatta competenza ha consentito alla Corte di ritenere legittimi gli interventi del legislatore statale nella disciplina, astrattamente di competenza regionale, dei «servizi pubblici locali» di rilevanza economica, in quanto disposizioni di carattere generale che disciplinano l'affidamento della gestione dei predetti servizi, «secondo un sistema teso a salvaguardare la concorrenzialità del mercato» (Corte cost. n. 272/2004 e Corte cost. n. 29/2006). In definitiva, la Corte ha individuato i seguenti limiti all'esercizio di siffatta competenza statale: a) lo Stato deve intervenire con legge (134/2006); b) non può attrarre l'intera disciplina delle materie intersecate da siffatta competenza, escludendo o riducendo radicalmente il ruolo delle Regioni; c) deve rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza; d) deve prevedere adeguate procedure collaborative, nel rispetto del principio di leale collaborazione. Quanto alle «funzioni fondamentali» contemplate nell'art. 117, comma 2 lett. p), della Cost., l'art. 1, comma 305, l. n. 228/2012 ha individuato le materie riconducibili alla disposizione costituzionali, che si affiancano alle funzioni proprie che identificano il Comune quale ente esponenziale della comunità ovvero a quelle conferite con leggi statali o regionali (Caringella, 527 ss.). Si rinvia per un ulteriore approfondimento al commento dell'art. 118 della Cost. Le materie di competenza concorrente alla luce dei principi fondamentali.A differenza del vecchio testo, il nuovo art. 117, al terzo comma, annovera, nell'ambito della competenza concorrente, numerose materie di particolare rilievo per gli interessi nazionali, fra cui «grandi reti di trasporto e di navigazione», «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia»,» ordinamento della comunicazione» e «tutela e sicurezza del lavoro» e delle «professioni». Nonostante apparenti profili di incompatibilità tra la previgente formulazione dell'art. 117 della Cost. e il terzo comma della nuova, in realtà non sussistono differenze in ordine alla disciplina dei principi fondamentali. Ad avviso della Corte costituzionale in entrambe le formulazioni le disposizioni statali di principio costituiscono «limite», in senso negativo, alla competenza regionale e al contempo «vincolo», in senso positivo, per il legislatore regionale, il quale deve conformarsi ai principi statali (Corte cost. n. 201/2003, Corte cost. n. 282/2004 e Corte cost. n. 200/2005). Sicché, i principi fondamentali, a differenza delle norme generali «non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose». Sicché, ove i principi fondamentali si possano desumere dalla legislazione statale vigente, l'esercizio del potere normativo concorrente da parte del legislatore regionale non implica la previa intermediazione di leggi-quadro (o leggi-cornice) (Corte cost. n. 39/1971). Assunto successivamente positivizzato dal legislatore statale con l'art. 17 della l. n. 281 del 1970, e ribadito dal legislatore nel nuovo Titolo V e in specie, nell'art. 1, comma 3, della l. n. 131 del 2003 e dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 282/2002). Tuttavia, nel caso in cui detti principi non siano rinvenibili nell'ordinamento statale non è consentito al legislatore regionale esercitare la propria competenza concorrente, essendo preclusa l'emanazione di principi fondamentali di natura cedevole (Corte cost. n. 359/2003). Come noto, ai sensi dell'art. 10 della l. n. 62/1953, la modifica, da parte del legislatore statale, dei principi fondamentali reca con sé l'abrogazione delle «norme regionali che siano in contrasto con esse». In tal caso, «i Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni». In ogni caso, i principi fondamentali possono essere oggetto sia di decreti legge sia di decreti legislativi (Corte cost. n. 6/2004; Corte cost. n. 303/2003 e Corte cost. n. 280/2004). Sicché, aderendo ad un approccio sostanziale, la natura «di principio» di una disposizione non dipende dalla mera auto-qualificazione fattane dallo stesso legislatore statale, dovendo sussistere obiettivi requisiti, quali l'universalità e la flessibilità della disposizione (Corte cost. n. 482/1995). Sicché, solo «i nuclei essenziali del contenuto normativo» delle disposizioni statali possono assurgere a principio fondamentale (Corte cost. n. 201/2003). In dottrina, la ratio della determinazione statale dei «principi fondamentali» nelle materie di legislazione concorrente rimane quella di «indirizzare» i legislatori regionali ad ottenere una disciplina quanto più possibile uniforme sull'intero territorio nazionale (Musolino, 2007, 62 ss.). La potestà legislativa residuale regionale (quarto comma)La disposizione del quarto comma presenta un duplice aspetto di novità: da un lato, attribuisce alle Regioni ordinarie una potestà legislativa di tipo «primario», ossia non vincolata alla stretta osservanza dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale; dall'altro, introduce alla competenza regionale i connotati di residualità e generalità (Musolino, 2007, 66 ss.). Nelle materie appartenenti alla competenza residuale, al legislatore regionale è espressamente imposto il solo limite del rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, previsto in via generale anche nei confronti del legislatore statale dal primo comma dell'art. 117 della Cost.. Nelle materie di competenza residuale è escluso, di norma, l'intervento del legislatore statale, il quale non può dettare principi fondamentali. Al riguardo, occorre precisare che un intervento statale può trovare spazi, come ammesso dalla giurisprudenza costituzionale, in presenza di sovrapposizioni e intrecci di competenze (Corte cost. n. 50/2005), nell'esercizio di quelle competenze statali definite «trasversali» e nelle ipotesi di attrazione in sussidiarietà per esigenze unitarie. Ciò ha comportato l'assoggettamento della legislazione residuale a limiti non molto dissimili, seppur meno incisivi, rispetto a quelli previsti nelle materie di competenza concorrente (Musolino, 2007, pag 67 ss.). Come precisato a più riprese dalla Consulta, le norme di dettaglio che lo Stato può emanare nelle materie c.d. «trasversali» possono assumere la forma di «norme di principio e di coordinamento», ma non implicano l'applicazione di puntuali modalità, come accade per i principi fondamentali nelle materie concorrenti (Corte cost. n. 245/2004). In siffatto contesto, accorta dottrina ha rilevato come le materie residuali regionali abbiano rappresentato in realtà una «barriera assai fragile nei confronti del legislatore statale», fino al punto di dover riconoscere che le incursioni di quest'ultimo nell'ambito delle «competenze trasversali» finiscano per «snaturare» la potestà residuale regionale, trasformandola in un'atipica potestà concorrente (Falcon, 5 ss. e Tosi, 1233 ss.). Nonostante queste «cessioni di sovranità» in favore del legislatore statale, è consentito al legislatore regionale continuare a disciplinare alcuni «segmenti» di materie di propria competenza, pur quando risultino «indissolubilmente connessi ed intrecciati» con materie di competenza esclusiva statale (Corte cost. n. 407/2002 e Corte cost. n. 222/2003). L'attrazione statale in sussidiarietà delle competenze regionali, in presenza di esigenze unitarieCon la riforma del Titolo V è stato espunto dal testo dell'art. 117 della Cost. il riferimento all'interesse nazionale, senza che da ciò derivasse una espressa clausola di supremazia, in grado di fondare la legittimità in capo allo Stato di avocare le attribuzioni regionali, in ragione di un acclarato interesse unitario (Musolino, 2007, 57 ss.). Peraltro, la riforma aveva attribuito alla competenza concorrente regionale alcune rilevanti materie, tradizionalmente attribuite alla competenza esclusiva dello Stato (come porti e aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione e trasporto nazionale dell'energia, ordinamento della comunicazione). In siffatto contesto, la Corte costituzionale, con una giurisprudenza «creativa», pur prendendo atto della mancata espressa previsione di una clausola di supremazia dello Stato, ha rinvenuto nel sistema specifici punti di riferimento idonei a consentire al legislatore statale di poter «attrarre» la disciplina di materie che, ai sensi della ripartizione prevista dall'art. 117 della Cost., appartengono alla competenza residuale o concorrente delle regioni (Corte cost. n. 303/2003). La dottrina, dal canto suo, ha destato più di una perplessità e numerose critiche. In particolare, secondo le forti espressioni adoperate dai numerosi commentatori della decisione, la Corte così facendo de qua, avrebbe «integrato» o addirittura «riscritto» il Titolo V. Si tratta di una manifestazione del creazionismo giudiziario operato dalla Consulta non sorretto da alcuna base legale (Morrone). Il fondamento costituzionale di questa necessaria flessibilità è stato dalla Corte individuato nel principio di sussidiarietà, previsto espressamente dal primo comma dell'art. 118 della Cost. in punto di allocazione delle funzioni amministrative. Il principio di legalità, tuttavia, impone che «anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge» e «conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto». Ad avviso della Corte, compete al legislatore statale la valutazione della sussistenza delle esigenze unitarie, che non può ridursi a «mere formule verbali, capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito», ma deve risultare proporzionata, non irragionevole ed essere «oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata» mediante provvedimento legislativo ordinario, in omaggio al principio di sussidiarietà (Corte cost. n. 6/2004 e Corte cost. n. 383/2005). Le competenze «comunitarie» delle Regioni (quinto comma)I precedenti a livello di legislazione ordinaria. La disposizione costituzionalizza le competenze delle Regioni, ordinarie e speciali, sia nella fase di formazione (c.d. ascendente) sia in quella di attuazione (c.d. discendente) della normativa comunitaria. Una disposizione analoga non era presente nel testo in vigore prima della riforma del 2001. Sotto tale aspetto la disposizione deve ritenersi indubbiamente innovativa, anche se il testo approvato risulta scarno, caratterizzato da una estrema genericità, limitandosi a codificare l'esistente (D'Atena, 2002). Ad avviso della giurisprudenza costituzionale, la norma in parola rimette la determinazione di molti aspetti della disciplina relativa alla fattispecie dei rapporti comunitari delle Regioni al legislatore ordinario, «la cui ampia discrezionalità gli consente di optare tra le svariate soluzioni astrattamente possibili e tra loro anche molto diversificate» (Corte cost. n. 239/2004). Una forma di partecipazione delle Regioni alla formazione ed attuazione del diritto comunitario era già contemplata, a livello di legislazione ordinaria, dalla l.n. 183/1987 – c.d. legge Fabbri – e, in maniera più organica, dalla l. n. 86/1989 (c.d. legge La Pergola) fino alla l. 128/1998 che aveva istituzionalizzato il confronto, preventivo, con il Governo introducendo la sessione comunitaria della Conferenza Stato-Regioni (Pitino, 2005). Per quanto riguarda la fase discendente, una competenza attuativa era riconosciuta alle regioni anche nel d.P.R. n. 616/1977 (che già prevedeva il potere sostitutivo statale), oltre che nella citata l. n. 86/1989. Ciò nonostante, la scelta di costituzionalizzare le competenze regionali ha avuto un duplice effetto positivo. Da un lato, ha reso obbligatoria una disciplina in specie, quella relativa alla fase ascendente che prima era oggetto della piena discrezionalità legislatore ordinario, il quale può ora incidere sulle modalità della partecipazione regionale al processo di elaborazione delle decisioni comunitarie, senza sindacare il principio alla base di tale intervento. Sul punto, in dottrina si è osservato come da ciò sia derivato un effetto-sanatoria del potere sostitutivo statale, ritenuto fino a quel momento di dubbia legittimità (D'Atena, 2002). Dall'altro, la previsione del quinto comma ha imposto al legislatore ordinario di procedere all'attuazione del disposto. In particolare, l'art. 5 della l. n. 131/2003, ha previsto la partecipazione diretta delle Regioni, sia pur nell'ambito delle delegazioni di Governo, alle attività del Consiglio e dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della Commissione europea, secondo modalità da concordare in sede di Conferenza Stato-Regioni, che tengano conto della particolarità delle autonomie speciali. Successivamente, la l. n. 11/2005 ha ridisegnato le competenze regionali in materia, prevedendo la trasmissione alle Regioni e ai loro organismi di tutti i progetti di atti dell'Unione che interessino materie di competenza regionale. La peculiare competenza di cui al quinto comma dell'art. 117 Ad avviso della Consulta, la previsione di cui al quinto comma dell'art. 117 della Cost. costituisce «una competenza statale ulteriore e speciale rispetto a quella di cui al terzo comma», che attribuisce, in linea generale, alla potestà concorrente regionale la materia dei rapporti internazionali e comunitari (Corte cost. n. 239/2004). La Corte, pertanto, investita della questione concernente la legittimità della disciplina attuativa dettata con l'art. 5 della l. n. 131/2003, ha negato la sussistenza di un limite per il legislatore statale costituito dall'individuazione dei soli principi fondamentali. Sicché, l'attribuzione della materia alla competenza concorrente in tema di rapporti internazionali e comunitari non è ostativa all'individuazione di uno specifico settore relativo alle norme procedurali. Sul punto, la Corte ha precisato che l'individuazione di tali norme concerne solo la fase ascendente dei processi decisionali comunitari. Tali norme procedurali nulla dovrebbero aggiungere in ordine alle valutazioni di merito su cui poggia la partecipazione delle Regioni al processo decisionale comunitario, a differenza di quanto accade nel settore dei rapporti internazionali in cui, sussistendo la competenza esclusiva in materia di politica estera, lo Stato centrale è legittimato, pur entro rigorosi limiti, a intervenire con proprie considerazioni di merito (Violini). Il potere sostitutivo statale. Il comma quinto contiene un'altra peculiare previsione che rimette alla legge statale la disciplina delle modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle Regioni nell'attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea. A differenza del potere sostitutivo previsto dall'art. 120, comma secondo, della Cost., esercitabile nei confronti degli organi di Regioni ed enti locali e implicante una sostituzione in via amministrativa, la disposizione del quinto comma dell'art. 117 della Cost. prevede una specifica disciplina per le inadempienze normative, legislative e regolamentari, sul piano dell'adeguamento del diritto comunitario, introducendo, sulla scia dell'esperienza maturata con la l. 86/1989 (Legge La Pergola), un potere-dovere dello Stato (non del Governo o di suoi organi) di intervento in via sostitutiva mediante lo strumento normativo (Serges, 2271 ss). Diversamente da quanto previsto dalla l. n. 86/1989 (poi abrogata dalla l. n. 11/2005), che consentiva un intervento statale di tipo anche preventivo, seppur sostitutivo in via preventiva, la nuova disciplina presuppone la constatazione dell'avvenuto inadempimento da parte della Regione (Rescigno, 733 ss). Il potere sostitutivo previsto dal quinto comma dell'articolo 117 della Costituzione risiede nella titolarità esclusiva dello Stato ed è esercitabile solo in via normativa, legislativa o regolamentare. A ben vedere con riferimento alla potestà regolamentare, la Corte costituzionale ha affermato che l'esecuzione di obblighi comunitari in via sostitutiva «non è un passe-partout che consente allo Stato di vincolare le autonomie regionali e provinciali senza rispettare i principi della propria attività normativa» (Corte cost. n. 425/1999). Sicché, anche nell'adozione della normativa di attuazione comunitaria, il regolamento statale incontra il limite del principio di legalità. Il potere in questione è configurabile solo ove manchi del tutto una disciplina regionale o provinciale di attuazione di norme comunitarie e per il solo periodo di tempo in cui permanga questa lacuna nell'area geografica di riferimento delle competenze di ciascun ente locale. Come osservato da accorta dottrina, detto potere ha carattere suppletivo e cedevole: laddove la competenza normativa della Regione è esercitata ed entrano in vigore i relativi atti normativi, l'efficacia della disciplina statale si risolve per effetto dell'attivazione della limitazione del potere normativo nelle materie di competenza esclusiva o concorrente delle Regioni espressamente qualificata dall'articolo 117 della Costituzione (Dickmann, 2004, 12 ss). Da ciò discende che, la caducazione della normativa statale sostitutiva è un effetto automatico della riappropriazione da parte di Regioni e Province autonome delle proprie competenze, con l'esercizio dei propri poteri normativi. In ogni caso l'esercizio dei poteri sostitutivi non può determinare alcuna stabile alterazione dell'assetto delle competenze costituzionalmente definite: anche sotto questo profilo il potere in esame si differenzia da quello sostitutivo di cui all'articolo 120 della Cost. (Corte cost. n. 371/2001). L'esistenza di una normativa comunitaria che comporti obblighi di attuazione nazionali non determina, di per sé, alcuna alterazione dell'ordine normale delle competenze statali, regionali o provinciali, sicché è tendenzialmente indifferente alle caratteristiche (accentrate, decentrate, regionali o federali) degli Stati membri, connesse ai processi nazionali di attuazione (Corte cost. n. 425/1999). Lo Stato, tuttavia, per effetto della responsabilità assunta sul piano comunitario sulla base dei Trattati è tenuto a mettere in campo tutti gli strumenti, compatibili con la garanzia delle competenze regionali e provinciali, idonei ad assicurare l'adempimento degli obblighi di natura comunitaria. Il riparto della potestà regolamentare tra Stato e Regioni (sesto comma)Il sesto comma dell'art. 117, nel testo novellato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede espressamente l'attribuzione allo Stato della potestà regolamentare nelle sole materie in cui allo stesso è attribuita competenza legislativa esclusiva, salva delega alle Regioni mentre in tutti gli altri casi la competenza è regionale (Caringella, 518 ss). La disposizione si ispira alla logica del parallelismo e dell'esclusività: da un lato, richiama la ripartizione delle competenze legislative, dall'altro mira ad evitare il concorso di norme secondarie adottate da soggetti diversi nella medesima materia (Falcon, 2004, 414 ss. e Caretti, 2003, 115 ss.). Come noto, il divieto di regolamenti statali nelle materie di competenza regionale era operativo nella prassi antecedente la riforma del 2001, in quanto i principi fondamentali delle materie concorrenti, vincolanti per le Regioni, già allora «potevano trarsi solo da leggi o atti aventi forza di legge dello Stato», sul presupposto che i regolamenti, per definizione contengono disposizioni attuative e di dettaglio (Corte cost. n. 376/2002). Ne consegue che, ogni qual volta non sia possibile individuare un ambito materiale di competenza esclusiva statale, il regolamento statale deve ritenersi illegittimo. Ciò nonostante, nell'ordinamento antecedente la l. cost. n. 3 del 2001, erano stati ammessi i regolamenti «cedevoli», destinati cioè a perdere efficacia con la sopravvenienza della disciplina regionale, nell'attuazione, mediante norme secondarie, di direttive comunitarie, sul presupposto della responsabilità esclusiva dello Stato per l'adempimento della disciplina comunitaria (Corte cost. n. 425/1999). La questione di maggior rilievo tra quelle suscitate dal nuovo art. 117, sesto comma, è senza dubbio quella inerente l'ammissibilità del ricorso, da parte del legislatore statale, allo strumento della delegificazione. La Consulta, circoscrivendo il problema nei regolamenti emanati nel nuovo assetto costituzionale, in quanto quelli emanati legittimamente nel passato quadro costituzionale rimangono in vigore fino a quando non vengano sostituiti da nuove norme dettate dall'autorità dotata di competenza nel nuovo sistema, in forza del principio di continuità. L'operazione di delegificazione, pertanto, non può riguardare le disposizioni da cui si desumano i principi fondamentali vincolanti per i legislatori regionali, poiché la sostituzione di norme legislative con norme regolamentari esclude di per sé che da queste ultime possano trarsi principi vincolanti per le Regioni. Sicché, la delegificazione può concernere – oltre naturalmente alle disposizioni operanti nell'ambito della competenza esclusiva statale – «solo disposizioni di leggi statali che, nelle materie regionali, già avessero carattere di norme di dettaglio cedevoli la cui efficacia si esplicava nell'assenza di legislazione regionale», ossia quelle disposizioni legislative statali recanti profili di dettaglio, immediatamente applicabili nei confronti delle regioni solo a titolo suppletivo, in mancanza di apposita legislazione regionale. L'entrata in vigore delle nuove norme regolamentari di delegificazione non può spiegare alcun effetto abrogativo sulle leggi regionali preesistenti. Al riguardo, la Corte ha escluso che lo Stato possa con un regolamento, sia pure adottato in delegificazione, disciplinare materie regionali, facendo leva su un consolidato orientamento per il quale lo strumento della delegificazione non può operare in presenza di fonti, tra le quali non vi siano rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenze (Corte cost. n. 303/2003). Pertanto, nel nuovo riparto previsto dall'art. 117, così rigidamente strutturato, «alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l'esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti». Quanto alla possibilità di una delega dello Stato alle Regioni, in dottrina è controversa la determinazione dell'oggetto. Secondo la tesi più convincente, la norma farebbe riferimento alla delega di funzioni amministrative, già consacrata del secondo comma del vecchio art. 118 della Cost. (Bin). La potestà regolamentare degli enti locali (sesto comma)La seconda parte della disposizione di cui al sesto comma dell'art. 117 della Cost. riconosce la potestà regolamentare degli enti locali, prevedendo che all'esercizio di funzioni amministrative corrisponda il potere di regolare tali funzioni sotto il profilo organizzativo ed esecutivo (Tosi, 964 ss.). Al riguardo, ci si è chiesti se gli ambiti competenziali dell'organizzazione e dello svolgimento debbano essere intesi entrambi con riferimento alle «funzioni attribuite» o se il termine «organizzazione» debba riferirsi solo all'ente. La prima soluzione, peraltro prevalente in dottrina ha trovato consacrazione nell'art. 4 della l. n. 131/2003, che rimette allo statuto i principi generali in materia di organizzazione e funzionamento dell'ente (Tarli Barbieri, 2295 ss.). Tuttavia, la costituzionalizzazione della potestà regolamentare degli enti locali impedisce al legislatore ordinario di sopprimerla o comunque di comprimerla in misura tale da svuotarla di contenuto (Corpaci). Sotto questo profilo la potestà regolamentare degli enti locali costituisce un «limite verso il basso» sia per la potestà legislativa che per quella regolamentare di Stato e Regioni (Tarli Barbieri). La Consulta, dal canto suo, ha affermato l'operatività di tale limite, ad eccezione delle ipotesi in cui sussistano esigenze unitarie atte ad attivare il meccanismo della sussidiarietà ascendente (Corte cost. n. 372/2004). La riserva di regolamento degli enti locali nell'organizzazione ed esercizio delle funzioni va inoltre conciliata con il principio di legalità e con la previsione che le funzioni da regolare siano attribuite da altri soggetti in virtù del testo dell'art. 117 della Cost. (Caretti, 2002, 954 ss.). Tuttavia, a detta di accorta dottrina, la disposizione va interpretata restrittivamente per non comprimere eccessivamente l'autonomia normativa locale (Tarli Barbieri). La Corte costituzionale ha censurato la legittimità di regolamenti regionali cedevoli, volti a disciplinare, seppur in via transitoria, le funzioni amministrative (diverse da quelle fondamentali) che la stessa Regione ha discrezionalmente delegato agli enti locali (Corte cost. n. 246/2006). Sul punto, non sono mancate dubbi e resistenze in dottrina, in quanto l'intervento in via transitoria non nega la riserva di competenza a favore del regolamento locale, che impedisce l'intervento di altre fonti, essendo l'intervento regionale limitato a supplire l'inerzia dell'ente locale e destinato a venir meno di fronte all'esercizio del potere regolamentare da parte dell'ente locale (Ruggeri). L'attività internazionale delle Regioni (nono comma)I rapporti internazionali delle Regioni nella disciplina antecedente la riforma del 2001 La disposizione di cui al nono comma, che attribuisce alle Regioni la potestà di concludere accordi e intese con Stati ed enti internazionali interni ad altri Stati, nei casi e con le forme disciplinate da leggi dello Stato, costituisce, unitamente alla previsione delle attribuzioni di competenza concorrente di cui al terzo comma in materia di rapporti internazionali delle Regioni e di commercio con l'estero, il fondamento giuridico del riconoscimento a livello costituzionale di un «potere estero» delle Regioni. La norma in parola ha indubbio carattere innovativo, anche se in buona parte si limita a dare rilievo e dignità costituzionale a competenze che già le Regioni esercitavano sin dagli anni ‘70, con il progressivo affermarsi di attività di cooperazione transfrontaliera, avallate da un atteggiamento favorevole della giurisprudenza costituzionale. Solo occasionalmente i principi giurisprudenziali sono stati formalizzati in atti di indirizzo e coordinamento dello Stato: in particolare, con il d.P.R. n. 616/1977, che all'art. 4 prevedeva le attività promozionali; il d.P.C.M. 11 marzo 1980, che definiva una procedura, prevedendo l'obbligo di comunicare i programmi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e il d.P.R. 31 marzo 1994, che coinvolgeva la Conferenza Stato-Regioni. Infine, un ulteriore impulso è dato dall'art. 48 del d.lgs. n. 112/1998, che stabiliva che le competenze conferite alle Regioni comprendono anche iniziative all'estero. Sotto versante giurisprudenziale, la Corte costituzionale si è pronunciata sull'ammissibilità e sui limiti di un'attività regionale avente rilievo internazionale (Corte cost. n. 179/1987). In particolare, la Consulta, pur ribadendo l'esclusiva competenza statale in ordine ai rapporti internazionali, ha ammesso le deroghe introdotte dal legislatore ordinario, fra cui quella derivante dalla previsione delle «attività promozionali» all'estero delle Regioni, legate da nesso strumentale con le materie di competenza regionale e precedute da un'intesa con lo Stato nonché quelle connesse alla previsione di accordi di cooperazione transfrontaliera. Inoltre, la Corte ha ritenuto legittime le c.d. «attività di mero rilievo internazionale delle Regioni», attraverso le quali esse non sottoscrivono veri e propri accordi, ma si limitano a prevedere scambi di informazioni, approfondimento di conoscenze in materie di comune interesse o l'enunciazione di analoghi intenti di armonizzazione unilaterale delle condotte rispettive di Regioni e di enti afferenti ad altri Stati, senza incidere sulla politica estera dello Stato. Infine, la Corte ha affermato la necessità, in ogni caso, del previo assenso del Governo in modo che lo Stato potesse controllare la conformità delle attività regionali agli indirizzi di politica internazionale. A ben vedere, la Corte aveva, già prima della legge cost. n. 3 del 2001, dichiarato applicabili detti principi alle Regioni a statuto speciale, in caso di mancata indicazione in tal senso da parte dei rispettivi statuti, affermando la sindacabilità degli atti statali di diniego dell'assenso ad attività regionali, in omaggio al principio di leale collaborazione (Corte cost. n. 179/1987, Corte cost. n. 564/1987, Corte cost. n. 204/1993 e Corte cost. n. 428/1997). In definitiva, si è al cospetto degli innumerevoli tentativi di costituzionalizzazione del «potere estero», che si sono susseguiti nelle varie Commissioni bicamerali, le quali che avevano visto la previsione di un previo assenso governativo, poi caduta nella versione del testo definitivo introdotto dalla Legge cost. n. 3 del 2001. La costituzionalizzazione del «potere estero» delle Regioni. La nuova disciplina delle attività internazionali delle Regioni si ricava da una serie di disposizioni, tutte contenute nell'art. 117 della Cost., il quale da un lato, riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» (secondo comma, lettera a) e attribuisce alla competenza concorrente quella dei «rapporti internazionali delle Regioni» (terzo comma); dall'altro lato, esplicitamente prevede che «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato» (nono comma) (per una ricostruzione generale si veda Palermo e Pinelli). Il quinto comma prevede inoltre che le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, «provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali..., nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza». La Corte costituzionale, nel giudizio concernente la legittimità dell'art. 6 della l. n. 131/2003, ha ricondotto l'intervento del legislatore statale alle peculiari «materie» di cui ai commi quinto e nono dell'articolo 117 della Costituzione, evidenziando l'autonomia di tale ambito di competenza statale rispetto alla più vasta area di legislazione concorrente relativa alle relazioni internazionali delle Regioni, in tal modo legittimandone anche gli aspetti di dettaglio. In particolare, ad avviso della Corte le nuove disposizioni costituzionali non si discostano dalle linee fondamentali già enunciate in passato: riserva allo Stato della competenza sulla politica estera; ammissione di un'attività internazionale delle Regioni; subordinazione di questa alla possibilità effettiva di un controllo statale sulle iniziative regionali, al fine di evitare contrasti con le linee della politica estera nazionale (Corte cost. n. 238/2004). La novità che discende dal mutato quadro normativo risiede nel riconoscimento a livello costituzionale di un «potere estero» delle Regioni, cioè della potestà, nell'ambito delle proprie competenze, di stipulare, oltre ad intese con enti omologhi di altri Stati, anche veri e propri accordi con altri Stati, sia pure nei casi e nelle forme determinati da leggi statali. Tale potere estero deve pertanto essere coordinato con l'esclusiva competenza statale in tema di politica estera, donde la competenza statale a determinare i «casi» e a disciplinare «le forme» di questa attività regionale, così da salvaguardare gli interessi unitari che trovano espressione nella politica estera nazionale. Le Regioni, tuttavia, nell'esercizio della potestà loro riconosciuta, non operano come «delegate» dello Stato, bensì come soggetti autonomi che interloquiscono direttamente con gli Stati esteri, sempre nel quadro di garanzia e di coordinamento apprestato dai poteri dello Stato. Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha dichiarato la legittimità dei vincoli apposti dalla normativa statale impugnata, attesa la loro strumentalità rispetto alle «esigenze di salvaguardia delle linee della politica estera nazionale e di corretta esecuzione degli obblighi di cui lo Stato è responsabile nell'ordinamento internazionale». Da ciò deriva l'esigenza di adottare formalità atte ad attribuire certezza, sul piano internazionale, circa la legittimazione di chi esprime la volontà di stipulare l'accordo e la sua esistenza, fermo restando che tali vincoli non possono «travalicare in strumenti di ingerenza immotivata nelle autonome scelte delle Regioni». I nodi problematici sorti dal nuovo art. 117La riforma costituzionale operata con la l. cost. n. 3 del 2001 si è rivelata lacunosa sotto il profilo sistematico, priva di raccordi tra le varie competenze. Come noto, il periodo immediatamente successivo all'entrata in vigore della l. n. 3/2001 è stato caratterizzato da un contenzioso, tra Stato e Regioni che ha «gravato» la Corte costituzionale dell'onere di risolvere le questioni sottoposte al suo giudizio e di dar luogo ad una eccezionale opera di ricostruzione del sistema, inevitabilmente caratterizzata da un metodo casistico. In dottrina, lo sforzo richiesto ai giudici della Consulta è stato opportunamente sintetizzato nell'estrema difficoltà di reperire un «bandolo capace di sbrogliare una matassa infinita» (Caringella, prefazione di Musolino, 2007). Uno dei principali nodi ha interessato l'individuazione dei contenuti delle materie elencate proprio dall'art. 117 Cost. e dei loro reciproci confini (Calzolaio, 205 ss.). Le materie sono risultate interconnesse tra loro, in contrasto con la rigida ripartizione evocata dalla struttura dello stesso art. 117 della Cost. In particolare, gli elenchi ivi contemplati si sono rivelati del tutto disorganici, con sovrapposizioni e interferenze: si pensi ad esempio alla materia statale esclusiva «norme generali sull'istruzione» in rapporto alla materia, di competenza concorrente. Ancora, l'omessa previsione del «contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni» che costituiva espresso, ulteriore, limite alla potestà legislativa regionale sotto il vecchio art. 117 della Cost., ha indotto la Corte costituzionale ad individuare principi e istituti ritenuti «impliciti» nel sistema, tali da consentire l'attrazione alla competenza statale, laddove essa sia necessaria per soddisfare esigenze unitarie, di funzioni e di potestà. A ciò si aggiunge che la mancata previsione di una clausola di supremazia in favore dello Stato ha indotto la Corte a rinvenire nel sistema istituti impliciti, ricorrendo ad interventi ortopedici marcatamente legislativi non sorretti da alcuna base legale. In sostanza, nella quasi totale inerzia del legislatore statale ordinario, il consolidamento dei principi posti a fondamento delle singole decisioni della Consulta ha fatto sì che si sia venuta ad affermare e a consolidare una nuova giurisprudenza costituzionale (a partire dalla storica sentenza Corte cost. n. 303/2003), spesso creativa, una sorta di diritto costituzionale vivente del Titolo V, che appare a volte anche «distaccato» dalla lettera delle disposizioni costituzionali. La necessità di una rivisitazione degli elenchi di cui all'art. 117La necessità di riformare il Titolo V e, in particolare, l'art. 117 della Cost. è emersa sin dall'entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001 ed è sfociata nella legge di revisione costituzionale approvata, già nel 2005, senza la maggioranza qualificata prevista dall'art. 138 Cost., che ha comportato l'assoggettamento a referendum confermativo, di esito sfavorevole. La riforma del 2005, «bocciata» dal referendum conteneva, oltre alle modifiche al Titolo V, rilevanti modifiche alla stessa Parte I della Costituzione, prevedeva alcuni aggiustamenti all'art. 117 della Cost. Ci si riferisce in particolare alla «rivisitazione» degli elenchi di materie di cui all'art. 117, con il «ritorno», nell'ambito della legislazione statale esclusiva, di materie, dalla portata manifestamente nazionale, che erano state ricondotte, dal legislatore del 2001, alla competenza concorrente, nel «tentativo generoso di un legislatore costituzionale, forse ingenuo, che riteneva di poter coinvolgere le regioni (tutte le regioni) nei processi di governo di settori cruciali della vita economica nazionale» (Caravita, 2004). Ancora diversa la posizione di chi ritiene «importante che si sia preso coscienza che la riforma «federalista» del 2001, privando il Parlamento di poteri per la tutela di «interessi nazionali», che poteva portare o al grave indebolimento delle istituzioni centrali di Governo o allo spostamento in capo alla Corte costituzionale, in funzione di supplenza, di poteri che spettano al Parlamento (Barbera). Nello specifico, si tratta delle seguenti materie: «reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza» (rimanendo concorrente solo la materia «reti di trasporto e navigazione»); «produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia» (rimanendo concorrente solo la materia «produzione, trasporto e distribuzione non nazionale»); «ordinamento della comunicazione» (rimanendo nella competenza concorrente le «comunicazioni di interesse regionale, compresa l'emittenza in ambito regionale e la promozione in detto ambito dello sviluppo delle comunicazioni elettroniche»); «ordinamento delle professioni intellettuali» (rimanendo concorrente la competenza in materia di professioni); «ordinamento sportivo nazionale» (rimanendo nella competenza concorrente la competenza in materia di ordinamento sportivo regionale). Condivisibile era anche la previsione, nell'ambito della competenza esclusiva statale, delle seguenti materie: promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale; politica monetaria; tutela del credito; tutela delle organizzazioni comuni di mercato: ciò nell'intento di venire incontro alle esigenze di funzionamento del sistema economico ed alle pressanti richieste in tal senso del mondo industriale e professionale, senza con ciò penalizzare le regioni, alle quali vengono attribuiti i rispettivi ambiti di interesse regionale. L'elenco si completava infine con le seguenti materie: norme generali sulla sicurezza e qualità alimentare (oltre alle norme generali sulla tutela della salute, a fronte però della competenza esclusiva regionale in materia di assistenza e organizzazione sanitaria); definizione dell'ordinamento della capitale (fatto salvo, però, il rinvio allo Statuto della Regione Lazio per la definizione dei limiti e delle modalità di esercizio delle forme particolari di autonomia); ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale; esercizio in forma associata delle funzioni dei piccoli comuni e di quelli montani (fatto salvo quanto previsto dagli Statuti regionali); sicurezza del lavoro. In siffatto contesto un nuovo disegno di riforma costituzionale dovrebbe comunque contemplare il riconoscimento delle «Conferenze», ignorate dal testo costituzionale vigente, ed il riferimento agli accordi e alle intese che esse sono deputate a promuovere. Non a caso, il richiamato disegno del 2005 prevedeva la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni, quale sede di raccordo tra il centro e la periferia, con la possibilità di istituire, con legge, altre Conferenze tra lo Stato, le Regioni e le Autonomie locali. In definitiva, il disegno dovrebbe essere completato con la istituzione della c.d. Camera delle Regioni (o «Senato federale»), che la stessa Corte costituzionale ha auspicato, quale organo in grado di coinvolgere «il sistema delle autonomie in una visione nazionale dei grandi temi di carattere economico e sociale». Art. 117 della Cost. nella legalità dell'emergenzaDel tutto innovativa, in tema di profilassi internazionale contenuta nell'art. 117, comma 2, lett. q) della Cost. è l'attribuzione alla competenza statale della legislazione emergenziale, che ha caratterizzato il panorama normativo negli ultimi due anni. È quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale al fine di scongiurare il rischio della supremazia dell'esecutivo sul Parlamento (Corte cost. n. 37/2021). L'art. 78 della Cost., infatti, legittima un'attenuazione dei controlli di legalità e scolpisce una procedura esecutiva in luogo di quella parlamentare nei limiti della legge delega, obbediente alla logica di un bilanciamento di interessi e della necessità di conferimento di poteri extra ordinem. Sicché, ad avviso della Consulta è possibile conservare gli atti emessi durante la legislazione d'urgenza, fermo restando il controllo centrale del Parlamento, in omaggio ai principi di sussidiarietà verticale, riserva di legge e di democraticità della scelta. Nella vicenda sottoposta all'attenzione della Corte, la stessa ha dichiarato l'inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate in ordine agli artt. 1,2 e 3 d.l. n. 19/2020 e l'assenza di una surrettizia delega di funzioni da parte del Parlamento all'esecutivo (Corte cost. n. 198/2021). La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ha affermato la possibilità in capo alle Regioni e ai Sindaci di adottare misure interinali distoniche a quelle statali, anche se ulteriormente restrittive, sul presupposto del sopravvenuto aggravamento del rischio emergenziale in un contesto localizzato, oggetto di una valutazione adeguata e proporzionata dei dati epidemiologici sul territorio interessato (T.A.R. Puglia n. 733/2020). Come noto, i presupposti per l'adozione di un'ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell'art. 50 d.lgs. n. 267/2000 sono: la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità non altrimenti fronteggiabile; la proporzionalità e l'adeguatezza del provvedimento; l'urgenza di provvedere nonché la provvisorietà e temporaneità degli effetti dell'emergenza che involve a una collettività sufficientemente ampia (Cons. St. n. 2847/2017). Si tratta infatti di una deroga alla regola generale di inefficacia delle ordinanze contingibili e urgenti in contrasto con la legge statale, contenuta nell'art. 1 d.l. n. 19/2020. Da ciò discende che, fuori da queste ipotesi, il potere del Sindaco sconta un limite invalicabile, la conformità alla legge statale a pena di inefficacia dell'ordinanza. Sul versante convenzionale, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto compatibili con la CEDU e in specie, con il principio di legalità della prevenzione ex art. 2 Prot. Add. 4 CEDU, i confinamenti quarantenari previsti nella legislazione d'emergenza nazionale volti a fronteggiare l'emergenza Covid (Corte Edu, caso Terhes c. Romania, 2021). Tuttavia, al fine di determinare se la misura restrittiva inerisca alla libertà personale di cui all'art. 13 della Cost. ovvero alla libertà di circolazione delle persone ex art. 16 della Cost., ad avviso della Corte occorre avere riguardo ai criteri stabiliti dalla giurisprudenza nel noto caso De Tommaso c. Italia , fra cui la situazione concreta, la durata e gli effetti. 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