Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 119

Francesco Caringella
Ilaria Vittoria Motta

1 [I] I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea 2.

[II] I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

[III] La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

[IV] Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

[V] Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

[VI] La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall'insularità.3

[VII] I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio 4. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

 

 

[1] Articolo così sostituito dall'art. 5 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, di cui alla nota al titolo V. Il testo precedente recitava: « Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni. - Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali. - Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.  -  La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

[2] L'art. 4, l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, ha aggiunto, in fine al comma, le parole: «nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». Ai sensi dell'art. 6 della legge n. 1 cit., le disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014.

[3] Comma inserito dall'art. 1 l. cost. 7 novembre 2022, n. 2

[4] L'art. 4, l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, ha aggiunto, in fine al periodo, le parole: «con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio». Ai sensi dell'art. 6 della legge n. 1 cit., le disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014.

Inquadramento

Il nuovo testo dell'art. 119 Cost., come novellato dalla l. cost. n. 3 del 2001, modifica il previgente sistema finanziario e tributario di Regioni ed enti locali, caratterizzato da una finanza regionale e locale prevalentemente «derivata», che comportava il trasferimento delle risorse di Regioni ed enti locali dal bilancio dello Stato, al fine di coniare una disciplina unitaria valevole per la generalità dei tributi (Musolino, 75 ss.).

Occorre in ogni caso rilevare come la previgente formulazione dell'art. 119 della Cost. prevedeva, al primo comma, un'autonomia finanziaria per le Regioni, sia pur «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni». Inoltre, al comma secondo contemplava le possibilità di istituire tributi propri delle Regioni, di determinare la compartecipazione a tributi erariali e di assegnarli a scopi determinati di contributi speciali.

Non esisteva, tuttavia, una garanzia costituzionale posta a presidio dell'autonomia finanziaria delle Regioni, inevitabilmente rimessa alle forme e ai limiti stabiliti dalla legge statale in un sistema di finanza derivata, fortemente caratterizzato dalla previsione di trasferimenti di risorse statali e dalla istituzione, da parte dello Stato, di fondi a destinazione libera o vincolata (Malfatti, 341 ss.).

Come è stato puntualmente sottolineato, la prassi di istituire fondi statali per il finanziamento di funzioni divenute di competenza regionale costituisce uno dei principali motivi di attrito (e di contenzioso) tra Stato e Regioni (Musolino) nonché oggetto di censura da parte della Corte costituzionale.

Il primo aspetto di novità del nuovo art. 119 risiede nel riconoscimento dell'autonomia finanziaria, sia di entrata, che di spesa, non solo alle Regioni, ma anche a Comuni, Province e Città metropolitane (De Siano, 296 ss.).

Come noto, l'art. 119 della Cost. attribuisceautonomia finanziaria, di entrata e di spesa, agli enti locali, nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, sicché spetta allo Stato fissare i principi fondamentali in materia ex art. 117, comma 3 della Cost. (Cons. st., Ad. p len., n. 3/2012).

Inoltre, a seguito della modifica dell'articolo 119 ad opera della l. cost. 20 aprile 2012 n. 1, gli enti territoriali concorrono «ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea», con l'estensione anche agli enti regionali dell'obbligo di rispetto del principio di pareggio di bilancio consacrato nell'art. 81 della Cost.

Il nuovo volto costituzionale dell'art. 119 della Cost. vede in una posizione di equipollenza Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane, affermando che tutti possiedono autonomia finanziaria di entrata e di spesa» (primo comma) e godono di «risorse autonome». Sono cioè in grado di stabilire e applicare tributi ed entrate proprie, purché in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, potendo disporre di «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio» (secondo comma).

Come noto, accanto ai «tributi propri» e alle «compartecipazioni ai tributi erariali», è prevista una terza fonte di finanziamento, costituita dai trasferimenti dal c.d. fondo perequativo, che, ai sensi del terzo comma dell'art. 119 della Cost., è istituito con legge statale, in favore di quelle Regioni caratterizzate da una minore capacità fiscale per abitante, senza vincolo di destinazione. A ben vedere, si tratta di un istituto già contemplato, a livello di legislazione ordinaria, nel d.lgs. n. 56/2000, sotto la vigenza del precedente art. 119 della Cost. Sicché, la disposizione di cui al quarto comma prevede che le risorse derivanti dalle suindicate fonti, oltre che dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, debbano consentire a tali enti di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite».

In definitiva, le tre tipologie di risorse dovranno consentire alle Regioni e agli enti locali di finanziare il normale esercizio delle proprie funzioni. Considerazione avallata dall'interpretazione sistematica del quarto e del quinto comma dell'art. 119 della Cost, che non a caso prevede, come misura extra ordinem, la possibile destinazione, da parte statale, di risorse aggiuntive e di interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, ma solo per promuovere specifici obiettivi di sviluppo o «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio» delle funzioni degli enti autonomi.

In chiusura di questa parte introduttiva occorre rilevare come la giurisprudenza costituzionale abbia ravvisato la natura programmatica dei principi contenuti nel «nuovo» art. 119 della Cost., fatta eccezione per la disciplina inerente la spesa e il trasferimento di risorse dal bilancio statale, che deve considerarsi auto-applicativa e immediatamente operativa anche nei confronti del legislatore statale (Corte cost. n. 37/2004). Si tratta di un'affermazione dal carattere dirompente, specie nella parte in cui la Corte rileva come l'attuazione del predetto disegno costituzionale richieda, come necessaria premessa, l'intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, «dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali». Ciò comporta, innanzitutto, il divieto, per le Regioni, di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali, in assenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal legislatore nazionale.

Nel sistema attuale, al legislatore statale è rimessa «la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti» mentre in riferimento alle Regioni, tale divieto assume natura eccezionale (al riguardo si rinvia al commento dell'art. 117 della Cost).

Altresì, la Consulta, sulla base della riserva di legge ex art. 23 della Cost., a norma del quale «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» ha evidenziato la necessità che anche in riferimento ai tributi locali preesista una disciplina «a livello legislativo», quanto meno in ordine agli «aspetti fondamentali dell'imposizione».

Pertanto, stante l'assenza di poteri legislativi in capo agli enti sub-regionali, la Corte ha ritenuto inevitabile che l'esercizio della potestà impositiva degli enti locali sia esercitata previa definizione da un lato, dell'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti medesimi e dall'altro lato, del «rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale, per quanto attiene alla disciplina di grado primario dei tributi locali: potendosi in astratto concepire situazioni di disciplina normativa sia a tre livelli (legislativa statale, legislativa regionale, e regolamentare locale), sia a due soli livelli (statale e locale, ovvero regionale e locale)».

Dunque, la disciplina primaria sui tributi locali potrà essere di rango primario o regionale: al riguardo, accorta dottrina ha evidenziato che nel nuovo sistema sussistono «due sistemi tributari primari», quello statale e quello regionale ed «un sistema tributario secondario» di natura locale (Bertolissi, 439 ss.). Sicché, risulta astrattamente ipotizzabile una situazione in cui la disciplina normativa primaria sia dettata dalla Regione.

Tuttavia, la fonte competente a definire l'assetto strutturale del nuovo sistema tributario degli enti locali non potrà che essere rappresentata dalla legge statale, alla quale compete «fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi» e «determinare le grandi linee del sistema tributario» oltre che «definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva di Stato, regioni ed enti locali» (Corte cost. n. 37/2004).

Emerge, in definitiva, il riconoscimento di una sorta di potestà di «coordinamento dell'imposizione locale» in capo al legislatore regionale, che sconta i vincoli derivanti dall'esercizio, da parte del legislatore statale, della potestà di coordinamento della finanza pubblica.

Da ciò discende che, allo Stato rimarrebbe la «competenza della competenza», atta a condizionare ed eventualmente a circoscrivere non soltanto l'ambito della potestà regolamentare spettante agli enti locali, bensì la perimetrazione della stessa potestà legislativa regionale di disciplina e coordinamento della finanza e della fiscalità regionale e locale (Barbero).

I tributi propri di Regioni ed enti locali alla luce del nuovo volto costituzionale dell'art. 119 Cost.

Nel sistema introdotto dal nuovo art. 119 della Cost.gli enti territoriali possono istituire tributi ed entrate proprie, nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, nel rispetto («armonia») della Costituzione.

Occorre sin da ora rilevare come la previsione del richiamo al «coordinamento» nel solo secondo comma dell'art. 119 della Cost. in relazione all'introduzione di tributi, sia stata ritenuta in dottrina indice del fatto secondo cui, l'oggetto del predetto «coordinamento» statale non sia l'autonomia finanziaria di per sé garantita, bensì l'istituzione di tributi ed entrate proprie degli enti territoriali (Fransoni - Della Cananea, 2362 ss.).

Volgendo lo sguardo alla giurisprudenza costituzionale, la nuova formulazione dell'art. 119 della Cost. ha indotto la Corte costituzionale a ritenere che i «tributi propri» di Regioni ed enti locali non possono più intendersi quelli il cui provento sia destinato in favore dei predetti enti territoriali, come accadeva in passato, ma solo quelli istituiti con legge regionale, nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, dettati dal legislatore statale. Ciò ha portato il giudice delle leggi a negare la qualità di «tributi propri» delle Regioni all'IRAP e alla tassa automobilistica regionale (Corte cost. n. 296/2003).

Si tratta, infatti, di tributi il cui gettito viene attribuito alle Regioni, le quali hanno la facoltà di incidere sugli aspetti inerenti la determinazione della base imponibile e dei soggetti dell'obbligo tributario, modulando anche le aliquote e di esercitare l'attività amministrativa concernente la riscossione, i rimborsi, il recupero delle tasse stesse e l'applicazione delle sanzioni.

Per le stesse ragioni, mutatis mutandis, la Consulta ha letto come tributi «statali» l'ICI, ossia l'imposta comunale sulla pubblicità nonché il tributo speciale per il deposito in discarica dei tributi solidi (Corte cost. n. 397/2005). In siffatte ipotesi, la tassa è stata soltanto «attribuita» alle Regioni, escludendo la relativa potestà impositiva nella competenza legislativa residuale regionale prevista dal quarto comma dell'art. 117 della Cost., quale espressione della competenza esclusiva statale in materia di tributi erariali.

Inoltre, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme regionali che disponevano esenzioni dalla tassa automobilistica o che modificavano la disciplina dei termini per l'accertamento del tributo, in quanto invasive della esclusiva competenza dello Stato (Corte cost. n. 296/2003, Corte cost. n. 297/2003 e Corte cost. n. 311/2003).

Ad avviso della Consulta, pertanto, oggi non si vedono ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo «propri» delle Regioni o degli enti locali, ossia frutto di una loro autonoma potestà impositiva e disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto del principio di coordinamento.

La ragione di tale assenza risiede nella loro incorporazione in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato (Corte cost. n. 37/2004). Sicché, anche i tributi di cui la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi e definiti talora come «tributi propri» delle Regioni, sono istituiti dalla legge statale e in essa trovano la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all'autonomia degli enti territoriali».

Nell'alveo dei pochi tributi riconosciuti come «propri delle Regioni», nel senso voluto dall'art. 119 Cost., vi è la tassa di concessione per la ricerca e la raccolta dei tartufi, istituita dalla regione Veneto (l. n. 30/1988, art. 12, comma 1) e successivamente abolita in considerazione dell'esiguità dell'introito derivante in rapporto ai costi di gestione amministrativa (Corte cost. n. 297/2003).

Analoghe considerazioni mutatis mutandis inducono ad affermare la titolarità statale anche dell'IRAP – Imposta regionale sulle attività produttive – i cui destinatari sono quelle Regioni nel cui territorio si sia realizzato il valore della produzione, ferma restando limitata facoltà di variazione dell'aliquota, oltre al potere di disciplinare con legge le procedure applicative dell'imposta.

Sul punto, la Consulta non ha dubbi circa la sua natura di imposta statale, in quanto istituita ed interamente disciplinata con legge dello Stato e in specie, con il d.lgs. n. 446/1997. In particolare, la Corte osserva che «la circostanza che l'imposta sia stata istituita con legge statale e che alle Regioni a statuto ordinario, destinatarie del tributo, siano espressamente attribuite competenze di carattere solo attuativo, rende palese che l'imposta stessa – nonostante la sua denominazione – non possa considerarsi «tributo proprio della regione», nel senso in cui oggi tale espressione è adoperata dall'art. 119, secondo comma, della Costituzione, essendo indubbio il riferimento della norma costituzionale ai soli tributi istituiti dalle regioni con propria legge, nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale» (Corte cost. n. 296/2003). Sicché, «si deve ritenere spettante al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina di tale tributo», quali, in ipotesi, la previsione e finanche la proroga di agevolazioni fiscali (Corte cost. n. 431/2004).

Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (comma secondo)

La determinazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario costituisce materia attribuita, ai sensi del comma terzo dell'art. 117 della Cost., alla competenza concorrente, che riserva allo Stato la legislazione «di principio» e la determinazione delle linee guida.

Come già anticipato, ad avviso della Corte costituzionale alle Regioni non è consentita la piena esplicazione delle proprie potestà in materia tributaria, «in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale» (Corte cost. n. 37/2004). Di conseguenza, «si deve tuttora ritenere preclusa alle Regioni (se non nei limiti ad esse già espressamente riconosciuti dalla legge statale) la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali».

Detta giurisprudenza rappresenta una deroga al consolidato indirizzo, che affermava, in linea generale, la mancanza di una legge-quadro statale non impedisce alle regioni l'esercizio della propria potestà concorrente, potendo i principi fondamentali essere desunti dalla legislazione statale vigente (Corte cost. n. 39/1971 e Corte cost. n. 282/2002).

La necessità del previo intervento del legislatore statale è giustificata dalla peculiarità dell'ordinamento tributario. Sicché, il legislatore, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui le Regioni dovranno attenersi, ma altresì determinare i macro principi dell'intero sistema tributario e, in ultimo, definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali» (Corte cost. n. 37/2004).

Dalla lettura fornita dalla Corte emerge la natura programmatica della disposizione in commento, il che ha contribuito a paralizzare ogni iniziativa normativa regionale in argomento, se non sorretta dall'individuazione dei principi da parte statale.

Non è infatti ammissibile in materia tributaria «una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale, si deve tuttora ritenere preclusa alle Regioni (se non nei limiti ad esse già espressamente riconosciuti dalla legge statale) la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali (...); e per converso si deve ritenere tuttora spettante al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti» (Corte cost. n. 37/2004; Corte cost. n. 296/2003 e Corte cost. n. 297/2003).

Infine, la giurisprudenza ha precisato che il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l'esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo: onde, attesa la specificità della materia, non può ritenersi preclusa alla legge statale la possibilità, nella materia medesima, di prevedere e disciplinare tali poteri, anche in forza dell'art. 118, primo comma, della Costituzione».

La finalità di coordinamento consente di collocare a livello centrale non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari affinché detta finalità possa concretamente realizzarsi (Corte cost. n. 376/2003).

Quanto al divieto per il legislatore statale di procedere in senso inverso all'art. 119 della Cost, esso è scolpito implicitamente nel nuovo art. 119 della Cost. detto il divieto.

Assunto avvallato dalla Consulta, la quale ha ribadito l'assenza in capo al legislatore statale di spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli Enti locali, volti a configurare un sistema finanziario complessivo distonico rispetto ai principi sanciti dall'art. 119 della Cost. (Corte cost. n. 37/2004; Corte cost. n. 241/2004; Corte cost. n. 320/2004 e Corte cost. n. 423/2004).

Principio tuttavia temperato dalla stessa Consulta, avendo limitato l'operatività del precetto alle sole ipotesi nelle quali «la misura dia luogo ad una complessiva insufficienza dei mezzi finanziari a disposizione delle Regioni per l'adempimento dei loro compiti», la cui dimostrazione grava sulle Regioni. La Corte ha però escluso che possa «essere effettuata una atomistica considerazione di isolate disposizioni modificative del tributo, senza considerare nel suo complesso la manovra fiscale entro la quale esse trovano collocazione, ben potendosi verificare che, per effetto di plurime disposizioni, contenute nella stessa legge finanziaria oggetto di impugnazione principale o in altre leggi, il gettito complessivo destinato alla finanza regionale non subisca riduzioni». (Corte cost. n. 431/2004 e Corte cost. n. 155/2006).

Venendo ora alla compartecipazione al gettito dei tributi erariali, la Corte costituzionale ha rilevato come il passaggio dal sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario in ordine ai trasferimenti a quello che prevede l'accesso diretto mediante le c.d. compartecipazioni ad alcuni tributi statali sia già iniziato ancora prima della riforma del Titolo V e in specie, dal d.lgs. n. 56/2000 (Corte cost. n. 17/2004). Sicché, il nuovo art. 119 della Cost. abbia quindi fornito al sistema un saldo riferimento costituzionale.

Il d.lgs. n. 56/2000 prevedeva, già a decorrere dall'anno 2001, la soppressione dei trasferimenti erariali, disponendo al contempo la compensazione del relativo gettito con la compartecipazione regionale all'IVA, oltre che con l'aumento dell'addizionale IRPEF e della compartecipazione regionale all'accisa sulle benzine.

Inoltre, la normativa in parola imponeva la determinazione delle somme da erogare a ciascuna Regione da parte del Ministero del tesoro, non sulla base della spesa storica, bensì dei criteri della capacità fiscale, del fabbisogno sanitario, della popolazione residente e della dimensione geografica.

Infine, la novella in esame prescriveva alla determinazione delle quote l'assicurazione della copertura del fabbisogno sanitario alle Regioni con insufficiente capacità fiscale, al fine, esplicitato dal legislatore, di «consentire alle regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni, di erogare servizi di loro competenza a livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale e per tener conto delle capacità fiscali insufficienti a far conseguire tali condizioni e dell'esigenza di superare gli squilibri socio-economici territoriali». Sulla scorta di tali premesse, in tema di vigenti forme di compartecipazione all'IRPEF rimane nella disponibilità del legislatore statale la disciplina delle modalità della attribuzione del gettito, sia per quanto attiene all'addizionale comunale che all'addizionale regionale (Corte cost. n. 381/2004 e Corte cost. n. 37/2000).

Pertanto, l'assunto secondo cui il gettito dei redditi prodotti nei rispettivi territori vada a favore di Regioni ed enti locali non incide sulla natura dell'imposizione, che inequivocabilmente è di entrata tributaria istituita e fondamentalmente disciplinata dalla legge statale.

In ordine all'addizione comunale, la Consulta ha rilevato come ai sensi delle disposizioni statali la relativa aliquota, definita «di compartecipazione dell'addizionale», venga stabilita con decreti del Ministro delle finanze, con conseguente determinazione della equivalente riduzione delle aliquote del tributo erariale, in guisa da compensare una corrispondente riduzione dei trasferimenti ordinari ai comuni, a meno che non concerna l'effettivo trasferimento di nuovi compiti e funzioni.

Emerge sul punto una sostanziale ambivalenza della istituzione dell'addizionale IRPEF, finalizzata per un verso, a fornire agli enti locali una risorsa aggiuntiva atta a finanziare nuovi compiti e funzioni trasferite e per altro verso, ad attribuire una forma di potestà impositiva autonoma, con una sia pure limitata possibilità di accrescere l'aliquota, volta a finanziare la generalità delle loro funzioni, in sostituzione di trasferimenti dal bilancio dello Stato.

In tal modo, «la logica di una compartecipazione degli enti locali al gettito (sia pure «riferibile al loro territorio» ...) di un tributo erariale viene a sovrapporsi e in parte a confondersi con quella di una forma di potestà impositiva autonoma, che per sua natura non può che esercitarsi sulla base imponibile esistente nel territorio di ciascun ente» (Corte cost. n. 37/2004). In ogni caso, rimane ferma in capo al legislatore statale la potestà dell'intera disciplina legislativa del tributo, compresa quella di regolare, anche in termini temporali più ampi, la fase di transizione al nuovo sistema.

Il fondo perequativo (terzo comma)

Anche la lettera della legge di cui al terzo comma dell'art. 119 della Cost., che prevede l'istituzione di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i «territori con minore capacità fiscale per abitante», ha costituzionalizzato un istituto già «anticipato» da una disposizione di legge ordinaria.

In particolare, il d.lgs. n. 56/2000 prevedeva l'istituzione, nello stato di previsione del Ministero del tesoro, bilancio e programmazione economica, del «Fondo perequativo nazionale, al fine di consentire che una parte del gettito della compartecipazione all'IVA venga destinata alla realizzazione degli obiettivi di solidarietà interregionale». Inoltre, la normativa in esame prevedeva che, con determinazione annuale, fossero determinate l'entità del Fondo, le quote di concorso alla solidarietà interregionale e quelle da assegnare a titolo di fondo perequativo nazionale.

In linea con la volontà del legislatore costituzionale, il Fondo in questione è volto alla redistribuzione delle risorse, in ragione di esigenze di solidarietà interregionale, tra territori con capacità fiscale elevata e ridotta, così da poter consentire alle Regioni meno abbienti di poter finanziare le proprie funzioni, quanto meno quelle inerenti le prestazioni essenziali garantite su tutto il territorio nazionale.

Come noto, il comma 3 dell'art. 119 della Cost. prevede che «per i territori con minore capacità fiscale per abitante» sia istituito, con legge dello Stato, un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per garantire in ogni Regione la qualità dei servizi ai sensi dell'art. 120, comma 2 della Cost.

I finanziamenti statali a destinazione vincolata, nelle materie di competenza legislativa concorrente od esclusiva delle Regioni, non dovrebbero più essere ammessi (Corte cost. n. 16/2004 e Corte cost. n. 243/2004), salva l'ipotesi di finanziamenti sollecitati dalle Regioni (Corte cost. n. 12/2004).

In definitiva, pur essendo dotata la Regione di un bilancio autonomo rispetto a quello statale, sono legittime le disposizioni che consentono al Ministro dell'Economia, ai sensi della l. n. 289/2002, di acquisire informazioni sui comportamenti degli enti pubblici, ai fini del rispetto degli obblighi comunitari (Corte cost. 376/2002 e Corte cost. n. 35/2005).

Tuttavia, in senso critico si è osservato come dal dato positivo dell'art. 119 della Cost.non sia possibile individuare né il modello di perequazione adottato né i relativi meccanismi di funzionamento, rimessi al legislatore statale ordinario, anche in considerazione della competenza esclusiva nella materia della «perequazione delle risorse finanziarie» ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. e), della Cost.

Le risorse aggiuntive: il divieto per lo Stato di istituire fondi a destinazione vincolata (quinto comma)

Ai sensi del quinto comma dell'art. 119 della Cost., lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni.

Sicché, le risorse aggiuntive destinate dallo Stato possono essere assegnate solo ad alcuni enti territoriali, selezionati in base ad indici di benessere socio-economico, come già avviene in relazione ai fondi strutturali europei, ossia quegli strumenti finanziari di promozione dello sviluppo e sostegno del lavoro (Caringella, 522 ss.).

Si tratta di interventi aggiuntivi rispetto al finanziamento integrale delle funzioni spettanti agli enti territoriali, che devono riferirsi «alle finalità di perequazione e di garanzia enunciate nella norma costituzionale, o comunque a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni» e attribuiti a determinati enti territoriali.

Con la conseguenza che quando tali finanziamenti riguardano ambiti di competenza delle regioni, queste – per l'esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle competenze fra Stato e regioni – siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto di fondi all'interno del proprio territorio (Corte cost. n. 16/2004 e Corte cost. n. 49/2004).

L'intervento statale al di fuori dei richiamati parametri è illegittimo: al riguardo la Corte ha precisato che non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale, siano esse rientranti nella competenza esclusiva delle regioni ovvero in quella concorrente, pur nel rispetto, per quest'ultima, dei principi fondamentali fissati con legge statale (Corte cost. n. 423/2004, Corte cost. n. 16/2004 e Corte cost. n. 370/2003).

Se così non fosse, la previsione di finanziamenti ad hoc da parte della legge statale rischierebbe di trasformarsi in uno strumento indiretto, ma non certo meno pervasivo, di ingerenza statale negli ambiti di competenza e nell'esercizio delle funzioni regionali, cui segue una sovrapposizione delle politiche e degli indirizzi decisi a livello centrale su quelli regionali (Corte cost. n. 16/2004).

Dalle considerazioni sin qui svolte è derivata l'inevitabile declaratoria di incostituzionalità ad opera della Consulta in ordine a una serie di norme statali volte ad istituire, dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, nuovi Fondi a destinazione vincolata (Corte cost. n. 37/2004). In particolare, si tratta di fondi: «per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle Regioni e degli enti locali, per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale; per la riqualificazione urbana dei Comuni e per gli asili nido» (Corte cost. n. 16/2004; Corte cost. n. 49/2004; Corte cost. n. 370/2003). Ancora, del Fondo «di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano servizi di asilo nido o micro-nidi nonché del Fondo finalizzato alla costituzione di garanzie sul rimborso di prestiti fiduciari in favore degli studenti capaci e meritevoli (Corte cost. n. 320/2004; Corte cost. n. 308/2004 e Corte cost. n. 423/2004).

Viceversa, la Corte ha ritenuto legittima la previsione dello Stato di stanziamento di somme per l'attuazione di programmi finalizzati alla costruzione e al recupero di unità immobiliari site nel territorio di comuni ad alta tensione abitativa. Al riguardo, la Consulta ha rilevato come in siffatte ipotesi, la finalità del finanziamento sia diversa dal normale esercizio delle funzioni dei comuni, consistendo «nel peculiare ampliamento della platea dei beneficiari di quella normativa in tema di abitazione che la vigente disciplina regionale non riuscirebbe a soddisfare».

Inoltre, la Corte ha osservato che la misura non è disposta a favore di tutti i Comuni, ma soltanto di quelli ad alta densità abitativa, contemplando un idoneo coinvolgimento regionale nell'attuazione delle politiche facenti capo al Fondo, mediante la definizione dell'elenco dei comuni ad alta tensione abitativa (Corte cost. n. 451/2006).

In definitiva, lo Stato potrà erogare solo fondi senza specifici vincoli di destinazione, volti a finanziare le normali funzioni di Regioni ed enti locali, mediante il fondo perequativo consacrato nel terzo comma della disposizione in commento.

Sicché, sono legittimi i fondi vincolati al finanziamento di opere o servizi di competenza statale e quelli rientranti in fattispecie di concorrenza tra competenze statali e regionali, purché non sia escluso il coinvolgimento delle regioni, in attuazione del principio di leale collaborazione (Corte cost. n. 231/2005 e Corte cost. n. 133/2006).

L'autonomia di spesa di regioni ed enti locali alla luce dei vincoli imposti dalla legislazione statale.

Anche l'autonomia di spesa di Regioni ed enti locali, sancita dall'art. 119 della Cost., soggiace ai principi di coordinamento della finanza pubblica dettati dal legislatore statale, che la Corte costituzionale ha ricavato dalle disposizioni finanziarie, volte a limitare l'autonomia di spesa degli enti territoriali.

La Consulta ha dichiarato la legittimità di numerose disposizioni statali, impugnate dalle Regioni, per asserita lesione della propria autonomia organizzativa e finanziaria, riconducendo le predette norme, impositive di vincoli alla finanza regionale e locale, ad un principio fondamentale nella materia, concorrente, ossia il coordinamento della finanza pubblica. Si pensi ad esempio, alla legittimità dell'obbligo imposto dallo Stato nei confronti delle Regioni ed enti locali di adottare, negli acquisti, i prezzi risultanti dalle convenzioni statali (CONSIP) (Corte cost. n. 345/2004).

In altre occasioni, la Consulta ha ammesso la compressione dell'autonomia organizzativa di Regioni ed enti locali, in ragione di esigenze di coordinamento finanziario connesse al raggiungimento di obiettivi nazionali, condizionati dagli obblighi comunitari.

In particolare, la Corte ha riconosciuto la vincolatività del c.d. patto di stabilità interno da parte di Regioni ed enti locali (Corte cost. n. 4/2004; Corte cost. n. 36/2004 e Corte cost. n. 390/2004 e Corte cost. n. 35/2005). Da ciò è derivata la legittimità di disposizioni statali volte a prescrivere la codificazione di dati contabili con criteri uniformi valevoli sul territorio nazionale, essendo vincoli funzionali all'obbligo di disavanzo del debito pubblico assunto dallo Stato nella normativa comunitaria (c.d. «Patto di stabilità europeo»).

Sul punto, la Corte ha salvato la disposizione statale che imponeva detto divieto a Province, Comuni, Comunità montane e Consorzi di enti locali «che non abbiano rispettato le disposizioni del patto di stabilità interno per l'anno 2001» di assumere, per l'anno 2002, personale a tempo indeterminato, imponendo, per la copertura dei posti disponibili, il ricorso alle procedure di mobilità (c.d. blocco delle assunzioni).

Tuttavia, la Corte ha dichiarato la illegittimità della previsione di precisi limiti a singole voci di spesa del bilancio di Regioni ed enti locali, in ragione dell'assunto secondo cui un simile «precetto specifico e puntuale» non possa costituire espressione di un principio fondamentale volto alla «armonizzazione dei bilanci pubblici» e al «coordinamento della finanza pubblica» (Corte cost. n. 417/2005). Al contrario, si risolve «in un'indebita invasione, da parte statale, dell'area riservata alle autonomie regionali e locali»: in siffatte ipotesi, la legge statale può imporre il rispetto di criteri ed obiettivi (quale ad esempio il contenimento della spesa pubblica), senza individuarne i mezzi.

In conclusione, ad avviso della Consulta «il legislatore statale, con una disciplina di principio, può legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti». Tuttavia, ai fini della compatibilità di detti vincoli con l'autonomia delle Regioni e degli enti locali, questi dovranno «riguardare l'entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. In altri termini, la legge statale può stabilire solo un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (Corte cost. n. 169/2007).

Vincoli di spesa ed autonomie speciali

La Consulta ha riconosciuto l'operatività dei vincoli di spesa imposti dal legislatore statale anche nei confronti delle autonomie speciali in quanto «la finanza delle Regioni a statuto speciale è infatti parte della ‘finanza pubblica allargata' nei cui riguardi lo Stato aveva e conserva poteri di disciplina generale e di coordinamento, nell'esercizio dei quali poteva e può chiamare pure le autonomie speciali a concorrere al conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi anche ai vincoli europei (...), come quelli relativi al cosiddetto patto di stabilità interno (...)».

Diversamente opinando, non si potrebbero rinvenire ragioni giustificatrici di una radicale differenziazione fra i due tipi di autonomia regionale, «in relazione ad un aspetto – quello della soggezione a vincoli generali di equilibrio finanziario e dei bilanci – che non può non accomunare tutti gli enti operanti nell'ambito del sistema della finanza pubblica allargata» (Corte cost. n. 425/2004 e Corte cost. n. 169/2007).

Il patrimonio di Regioni ed enti locali (sesto comma)

Come noto, il sesto comma dell'art. 119 della Cost. prevede che Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane possiedano un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali fissati con legge dello Stato.

Il fatto che, al sesto comma dell'art. 119, si ricolleghi alle Regioni solo un «patrimonio» e non anche (come in precedenza) «un proprio demanio» non significa che esse non abbiano più la disponibilità dei beni demaniali, ma è una mera lacuna (Caringella, 522 ss.).

La prima novità della disposizione, rispetto al testo previgente, risiede nell'estensione del novero degli enti ai quali è riconosciuta la legittimazione ad assumere la proprietà dei beni pubblici (Fransoni - Della Cananea, 2375 ss.). Mentre il vecchio art. 119 della Cost. attribuiva solo alle Regioni un proprio demanio e un patrimonio, tale legittimazione è oggi estesa anche agli enti locali.

Tuttavia, si è osservato come la disposizione in commento preveda un limite quanto all'oggetto. In particolare, i beni contemplati sono soltanto quelli patrimoniali, con esclusione del demanio.

Ciò non comporta il venir meno della categoria dei beni demaniali, ma, al contrario, suffragherebbe l'orientamento volto al superamento della distinzione tra demanio e patrimonio, cui si ispirava il codice civile del 1942 (Fransoni - Della Cananea).

La Corte costituzionale, dal canto suo, ha precisato che la norma in commento «non detta alcuna regola in ordine alla individuazione dei beni oggetto dell'attribuzione, né, tanto meno, vieta allo Stato la gestione e l'utilizzazione, medio tempore, di tali beni» (Corte cost. n. 427/2004). Ne consegue che «fino all'attuazione dell'ultimo comma dell'art. 119 della Costituzione e, pertanto, fino alla previsione da parte del legislatore statale dei principi per la attribuzione a regioni ed enti locali di beni demaniali o patrimoniali dello Stato, detti beni restano a tutti gli effetti nella piena proprietà e disponibilità dello Stato (...), il quale incontrerà, nella gestione degli stessi, il solo vincolo delle leggi di contabilità e delle altre leggi disciplinanti il patrimonio mobiliare ed immobiliare statale».

In definitiva, la Corte ha negato che vi sia un'invasione della sfera di competenza regionale laddove lo Stato, nell'esercizio del suo potere dominicale, disponga dei propri beni: in altri termini, la competenza della Regione in materia non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario, che ineriscono alla capacità giuridica dell'ente secondo i principi dell'ordinamento civile (Corte cost. n. 427/2004).

I limiti all'indebitamento (sesto comma)

Il secondo periodo dell'ultimo comma dell'art. 119 della Cost. prevede che gli enti territoriali possano ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento.

Emergono, sul punto, due regole generali.

La prima, permette il ricorso all'indebitamento a condizione che i proventi siano destinati a spese per investimenti, sul presupposto che tali spese generino, nel medio e lungo periodo, un incremento della ricchezza che compensi anche gli oneri per il servizio del debito, secondo quel principio che la scienza economica definisce «regola aurea».

La seconda regola, invece, vieta l'apposizione di una garanzia da parte dello Stato ai debiti contratti da Regioni ed enti locali.

se così non fosse si eluderebbe l'obbligo di prevedere i mezzi necessari per far fronte alle nuove o maggiori spese disposte dalle leggi statali (Fransoni - Della Cananea).

Come noto, la disposizione in commento è stata oggetto di censura da parte della Corte costituzionale, la quale ha rilevato come il contenuto delle nozioni di «indebitamento» e di «spese di investimento» sia indeterminabile a priori, in quanto si fonda su principi della scienza economica, che necessitano di una legge di intermediazione ai fini della loro attuazione (Corte cost. n. 425/2004).

Ciò premesso, stante l'assenza di un vincolo di carattere generale, la sua definizione è rimessa al legislatore statale. Al riguardo, la Consulta ha precisato che, in caso di adozione di scelte irragionevoli, non mancherebbero alle Regioni strumenti per contestarle nelle sedi appropriate.

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato come il legislatore statale si fosse ispirato a «scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovranazionale cui anche l'Italia è assoggettata in forza dei Trattati europei, e dei criteri politico-economici e tecnici adottati dagli organi dell'Unione europea nel controllare l'osservanza di tali vincoli. Inoltre, il vincolo opera anche nei confronti delle autonomie speciali, in attuazione del principio unitario sancito dall'art. 5 della Cost., dei poteri di coordinamento della finanza pubblica nonché del potere di dettare norme di riforma economico-sociale vincolanti anche nei confronti della potestà legislativa primaria delle Regioni ad autonomia differenziata.

Di contro, i giudici delle leggi hanno dichiarato l'illegittimità della previsione legislativa che attribuiva al Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT, il potere di disporre con proprio decreto modifiche alle tipologie di «indebitamento» e di «investimento» stabilite dal legislatore, in spregio al principio di legalità.

L'attuazione dell'art. 119 in tema di federalismo fiscale e la legge delega n. 42/2009

Ai fini dell'attuazione del federalismo fiscale di cui all'art. 119 Cost. è intervenuta la L. delega 5 maggio 2009, n. 42, i cui principi ispiratori sono:

a) autonomia impositiva, la quale comporta la fine del sistema di finanza derivata ed il passaggio dal criterio della spesa storica a quello del fabbisogno standard;

b) perequazione per gli enti con minore capacità fiscale per abitante (principio di solidarietà sociale);

c) meccanismi premiali e sanzionatori per gli enti in base alle capacità gestionali della spesa.

In attuazione della delega sono stati adottati i d.lgs. n. 68/2011, di soppressione dei trasferimenti statali alle Regioni, e 118/2011 sulla contabilità sanitaria e sulla c.d. «sperimentazione», portata a termine dal d.lgs. n. 126/2014.

In ogni caso, il finanziamento delle funzioni trasferite alle Regioni mediante l'attuazione del federalismo fiscale, comporterà la cancellazione dei relativi stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato.

Il finanziamento delle funzioni.

Il disegno del nuovo sistema di finanziamento delle Regioni, in attuazione dell'art. 119 della Cost., è atto a garantire la stabilità e l'autonomia e individua nei tributi regionali e nelle compartecipazioni ai tributi erariali le fonti primarie di finanziamento delle funzioni attribuite alle regioni.

In particolare, i tributi propri garantiscono la manovrabilità dei bilanci, l'adattamento dei livelli dell'intervento pubblico alle situazioni locali e la responsabilità delle amministrazioni locali.

Le compartecipazioni, dal canto loro, assicurano la stabilità, anche in senso dinamico, del volume delle risorse finanziarie.

Sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale, la nozione di tributo proprio individua quel tributo istituito dalla legge regionale, a differenza, dei tributi propri istituiti della legge statale e il cui gettito è assegnato alle Regioni.

In ogni caso, il sistema prevede l'intervento di trasferimenti perequativi – ad opera di vari fondi, non soggetti a vincolo di destinazione – al fine di assicurare il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni che concernono istruzione, sanità, assistenza, cui è assimilato il trasporto pubblico locale e – con riferimento agli enti locali – le funzioni fondamentali.

Il quadro sin qui descritto impone di selezionare le diverse tipologie di spesa: da un lato, quelle riferibili ai settori anzidetti annoverabili nell'alveo delle prestazioni essenziali, garantite, anche con ricorso alla perequazione; dall'altro lato, quelle relative alle residue funzioni, in cui l'uniformità nei livelli o nelle caratteristiche dell'offerta dei servizi sul territorio non è necessaria. Infatti, per questo tipo di funzioni sono ammissibili sistemi di finanziamento e di perequazione meno pervasivi.

La selezione delle diverse tipologie di spesa: il superamento del criterio della «spesa storica»

La principale distinzione di cui all'art. 8 della legge delega ha ad oggetto le spese riconducibili al vincolo dell'art. 117, comma 2, lett.mdella Cost. (spese per i L.e.p.) e le spese c.d. libere, ossia non riconducibili al vincolo suddetto (Bifulco, 7 ss.).

Tale discrimen rileva ai fini delle fonti di finanziamento. In particolare, le prime sono da finanziare integralmente e in specie, mediante il gettito di tributi propri derivati, dell'addizionale regionale all'imposta sull'Irpef, della compartecipazione regionale all'Iva, nonché con quote specifiche del fondo perequativo (art. 8, comma 1, lett. d). Le seconde, invece, sono sostenute attraverso il ricorso a entrate definite come tributi propri e quote del fondo perequativo ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. e).

Assunto confermato da coloro che ritengono che il finanziamento integrale non si riferisce alle spese, più o meno arbitrarie, più o meno efficienti della singola Regione, bensì a una media, ottenuta comparando le spese delle Regioni più efficienti con quelle di Regioni meno efficienti (Gallo, 179 ss.).

Inoltre, detta media guarda al valore medio dei costi standard: non all'arbitrio e all'inefficienza della spesa storica, può essere garantito il finanziamento integrale delle funzioni, in omaggio al principio di buon andamento scolpito nell'art. 97 della Cost. (Bifulco, 7 ss. e Zanardi, 30 ss.). Sicché, in assenza di un criterio oggettivo, il finanziamento integrale dei L.e.p. si trasformerebbe, come è stato fino ad oggi, in un meccanismo di de-responsabilizzazione della classe politica regionale e locale.

In senso critico, si è osservato che la Costituzione non prevede la distinzione tra spese per i L.e.p. e spese libere, deducendosi, dal quarto comma dell'art. 119, la necessità di operare il finanziamento integrale di tutte le funzioni attribuite agli enti territoriali, senza specificazioni e distinzioni (Bassanini, 92 ss.).

Il problema si sposta, allora, dalla legittimità del criterio alla concreta individuazione degli indici che contribuiranno a determinare i costi standard, che la legge non individua (Jorio): la questione è ancora aperta e di qui, assume importanza il coinvolgimento del Parlamento e delle autonomie, per il tramite della Commissione e degli altri organismi sopra richiamati.

Bibliografia

Barbero, Dalla Corte costituzionale un «vademecum» per l'attuazione dell'art. 119 della Costituzione (Nota a Corte cost. n. 37/2004), in federalismi.it, n. 5/2004; Bassanini, Autonomia e garanzie nel finanziamento delle Regioni e degli enti locali, in Zanardi (a cura di), Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale, Bologna, 2006; Bertolissi, L'autonomia finanziaria delle Regioni ordinarie, in Le Regioni, 2004, 429 ss.; Bifulco, Sulla legge 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, in astrid-online.it, 2009; Caringella, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Roma, 2020; De Siano, L'autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti territoriali, in Pioggia - Vandelli (a cura di), La Repubblica delle autonomia nella giurisprudenza costituzionale - Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V, Bologna, 2006, 296; Fransoni - Della Cananea, Art. 119 Cost., in Bifulco - Celotto - Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, III, Torino, 2007; Gallo, Il nuovo articolo 119 della costituzione e la sua attuazione, in L'attuazione del federalismo fiscale. Una proposta, a cura di Bassanini e Macciotta, Bologna, 2003; Jorio, La legge delega di attuazione del federalismo fiscale, in federalismi.it, 8/2009; Malfatti, Legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, in Leggi costituzionali e di revisione costituzionale 1994-2005, in Commentario alla Costituzione Branca, Bologna-Roma, 2006; Morrone, Verso il federalismo fiscale?, in Corr. giur., 11/2008, 1485 ss.; Musolino, I rapporti Stato-Regioni nel nuovo titolo V alla luce dell'interpretazione della Corte costituzionale, Milano, 2007; Zanardi, Federalismo fiscale tra autonomia e solidarietà, in Zanardi (a cura di), Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale, Bologna, 2006.

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