Legge - 4/08/1955 - n. 848 art. 6 - Diritto ad un processo equo 1 .Diritto ad un processo equo 1. 1. Ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti in causa, nella misura ritenuta strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia. 2. Ogni persona accusata di un reato si presume innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. Ogni accusato ha diritto soprattutto a: a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; b) disporre del tempo e dei mezzi necessari per preparare la sua difesa; c) difendersi personalmente o con l'assistenza di un difensore di propria scelta e, se non ha i mezzi per pagare un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; d) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico; e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata nell'udienza. [1] Rubrica aggiunta dal Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994 e ratificato con legge 28 agosto 1997, n. 296. InquadramentoCon la norma in esame, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (in prosieguo CEDU) impone agli Stati che ne fanno parte l'obbligo di conformare le proprie legislazioni interne in vista dell'obiettivo di assicurare a tutti gli individui un processo equo, a tal fine predisponendo una serie di garanzie che costituiscono uno standard minimo inderogabile affinché l'esercizio della funzione giurisdizionale possa dirsi rispettoso della Convenzione. L'articolo si compone di tre paragrafi i quali, pur essendo applicabili indistintamente a tutte le tipologie di controversie, presentano un grado di incisività differente a seconda della materia oggetto di contenzioso. Infatti, le garanzie predisposte risultano estremamente più penetranti in relazione a quei giudizi che hanno ad oggetto la materia penale (matière pénale). L'importanza dell'articolo in commento è evidenziata dalla circostanza che il sistema stesso di tutela dei diritti umani approntato dalla CEDU è reso operativo e può trovare effettiva implementazione solo attraverso un corretto esercizio della giurisdizione in ambito nazionale. È per questo che le garanzie del giusto processo sono, in qualche modo, connaturate allo spirito stesso della Convenzione (cfr. Bartole, De Sena, Zagrebelsky, 173). L'art. 6 definisce, innanzitutto, un diritto «al processo», inteso come un insieme di misure minime che definiscono un processo equo e che le istituzioni delle Parti contraenti sono tenute a predisporre affinché sia garantita una tutela giurisdizionale come tale definibile. Si tratta, in sostanza, del diritto ad avere accesso a un tribunale, all'indipendenza e all'imparzialità dello stesso, al carattere pubblico del processo e alla sua ragionevole durata. Allo stesso tempo, l'articolo in questione contiene una serie di garanzie volte ad assicurare che l'equità del processo si mantenga anche nel corso del suo svolgimento, come l'eguaglianza delle parti, il diritto ad essere informato dell'accusa, il diritto all'assistenza legale, ecc. Il campo di applicazione: i diritti e i doveri di carattere civile. Mentre risulta apparentemente agevole definire l'ambito di applicazione dell'art. 6 con riferimento ai processi concernenti la fondatezza di un'accusa penale, non così è a dirsi delle controversie in cui vengono in rilievo «diritti e doveri di carattere civile» in relazione alle quali, comunque, la Convenzione impone agli Stati l'obbligo di predisporre misure normative ed organizzative idonee ad assicurare un «giusto processo». In proposito (e ciò costituisce una costante nell'opera definitoria degli istituti della Convenzione compiuta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo) è stata elaborata in via pretoria una nozione di diritti e doveri di carattere civile autonoma rispetto alla qualificazione delle situazioni giuridiche soggettive data dagli ordinamenti interni, ritenendo che la circostanza che un diritto possa essere considerato «di carattere civile» per l'applicazione della CEDU deve essere valutata con riferimento al suo contenuto sostanziale. Una diversa conclusione, oltre a dar vita a disparità di trattamento, potrebbe compromettere l'obiettivo della Convenzione di predisporre in tutti gli Stati aderenti un meccanismo di tutela giurisdizionale che presenti garanzie minime ed inderogabili di equità. Quanto al carattere pubblicistico delle controversie, sin dalle sentenze Konig c Repubblica Federale Tedesca, 1968, e Benthem c. Paesi Bassi, 1985 la Corte ha escluso che la circostanza che la lite riguardasse un soggetto pubblico ed uno privato potesse costituire un ostacolo all'applicazione dell'art. 6 ponendo in risalto, invece, la necessità di verificare se il procedimento amministrativo sia comunque idoneo ad incidere su un rapporto di natura privatistica, al di là dell'eventuale qualificazione operata dall'ordinamento interno. In tal senso, per ricondurre le controversie tra privati e pubbliche amministrazioni nell'alveo delle garanzie del «giusto processo», la Corte ha fatto leva sul carattere patrimoniale della pretesa fatta valere dal ricorrente, prescindendo dalla qualificazione della situazione giuridica soggettiva in questione e dalla natura pubblica o meno del potere esercitato con l'atto oggetto di impugnazione. A tal riguardo, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto ininfluente, ai fini dell'applicazione delle garanzie del «giusto processo» la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi fatta propria dall'ordinamento italiano, assoggettando all'art. 6 tutte le controversie riguardanti tanto l'una quanto l'altra categoria di situazioni giuridiche soggettive (Corte EDU, GC, Mennitto c. Italia, 2000). Restano escluse dal perimetro delle garanzie individuate dall'art. 6 le controversie in cui il singolo agisce nei confronti della p.a. uti civis e non a tutela di un proprio interesse differenziato e qualificato, come nel caso dei contenziosi elettorali, considerati dalla Corte controversie di tipo politico e non «civile» quand'anche in essi vengano in rilievo, in qualche modo, interessi di tipo economico come nel caso di sanzioni emesse per la violazione di norme in materia elettorale (Corte EDU, Pierre Bloch c. Francia, 1997). Ma il settore di contenziosi che più di ogni altro costituisce il campo di applicazione elettivo delle garanzie definite dall'art. 6 CEDU. sulla matière pénale è quello dei processi riguardanti la «fondatezza delle accuse penali» formulate nei confronti di una persona. Affinché una controversia concernente un'accusa sia riconducibile alla categoria di processi ai quali si applica la disposizione in parola, occorre verificare che la stessa rientri nella « materia penale », nell'accezione che tale formula assume nell'ambito della giurisprudenza della Corte EDU. La giurisprudenza di Strasburgo, infatti, ha definito una propria concezione di materia penale autonoma dalle qualificazioni compiute dai legislatori e dagli interpreti nazionali; ciò al dichiarato scopo di impedire che, sfruttando la libertà che ciascun Stato membro possiede di definire la natura di una misura sanzionatoria, il plafond di tutele minime ed inderogabili contenute nell'art. 6 potesse essere «svuotato» dalle legislazioni dei singoli paesi. Posto che la Convenzione e i relativi protocolli non offrono una definizione esplicita del concetto di «materia penale», il progressivo chiarimento della nozione è frutto di una copiosa elaborazione giurisprudenziale che ha via via ampliato il campo di applicazione ed i margini di operatività delle garanzie riconnesse alla nozione stessa, consentendo al contempo di smascherare vere e proprie ipotesi di «truffa delle etichette» (Bartole, De Sena, Zagrebelsky, 298). Al fine di ricercare il carattere intrinsecamente punitivo di una sanzione, al di là delle apparenze, la Corte di Strasburgo ha fatto affidamento su tre autonomi criteri applicati alternativamente, in modo tale che la riconducibilità di una sanzione alla «matière pénale» – ai sensi della Convenzione – può essere predicata anche solamente in presenza di uno di essi (Corte EDU, Lutz c. Germania, 1987) benché, il più delle volte, tale valutazione sia stata effettuata all'esito di un'applicazione congiunta e complessiva (Corte EDU Garyfallou Aebe c. Grecia, 1997). Il primo criterio consiste nella qualificazione della violazione nel diritto interno; esso, come intuibile, è un criterio di carattere residuale, poiché formale e condizionato dalle definizioni attribuite dai legislatori nazionali. Il secondo è dato dalla natura della norma trasgredita; al riguardo vengono in rilievo soprattutto la generalità o meno del precetto e dei destinatari. Il terzo è rappresentato dalla natura e gravità della sanzion e, dove la natura è desunta da una serie di indici quali: la pertinenzialità ad un fatto di reato; lo scopo preventivo e repressivo della sanzione; le proCEDUre seguite per la sua irrogazione. L'elaborazione dei criteri in parola viene fatta risalire, tradizionalmente, alla pronuncia resa dalla Corte di Strasburgo nel caso Engel c. Paesi Bassi del 1976. In quell'occasione la Corte EDU stabilì che, ad onta del carattere disciplinare attribuito nel diritto interno all'infrazione commessa dai ricorrenti, la trasgressione da essi compiuta aveva carattere penale, e ciò sulla scorta del carattere afflittivo della sanzione incidente, nel caso concreto, sulla libertà personale dei condannati. Successivamente, nel caso Ozturk c. Germania del 1984, la Corte ha applicato i c.d. Engel criteria anche al caso delle sanzioni amministrative comminate per illeciti depenalizzati commessi nel settore della circolazione stradale, rilevando come il precetto, pur all'esito della depenalizzazione, non avesse subito alcuna modifica rispetto alla versione precedente, avendo ancora come destinatario la generalità dei cittadini nella loro qualità di utenti della strada e un gruppo di individui determinato in relazione al proprio status professionale (come nel caso di sanzioni disciplinari). Dirimente nell'attribuire carattere penale ad una violazione depenalizzata è stata, inoltre, la natura della sanzione comminata osservata sotto il punto di vista dello scopo perseguito (ravvisato nella prevenzione generale oltre che nella repressione) piuttosto che alla luce del grado di severità della stessa, così giungendo ad affermare che «il carattere generale della norma e lo scopo della sanzione, alla volta preventivo e repressivo, sono sufficienti a stabilire, nell'ottica dell'art. 6 della Convenzione, la natura penale dell'infrazione» (Corte EDU, Ozturk c. Germania, 1984, § 53). Analizzando più nel dettaglio i tre criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte a partire dal «caso» Engel , va premesso che il criterio della qualificazione della trasgressione nel diritto interno ha via via confermato il proprio valore relativo e meramente indicativo, e posto che la natura dell'infrazione viene dedotta, in linea di massima, dalla generalità dei destinatari del precetto, è il criterio della natura e gravità della sanzione quello che ha conosciuto nella giurisprudenza di Strasburgo il massimo livello di elaborazione, assumendo un rilievo dirimente nella valutazione compiuta dalla Corte. Così, mentre in un primo momento la natura della sanzione veniva desunta soprattutto dalla pertinenzialità rispetto ad un fatto di reato (es. Corte EDU, Malige c. Francia, 1998, relativa alla decurtazione dei punti della patente di guida a seguito della condanna per un reato in materia di circolazione stradale), successivamente ha acquisito un maggior peso il sotto-criterio dello scopo della sanzione, talvolta interagendo con il criterio della gravità della stessa (come nel caso Campbel e Fell c. Regno Unito, 1984, nel quale a due detenuti, già condannati per gravi reati di terrorismo, venne applicata un'ulteriore sanzione disciplinare per un incidente commesso nel penitenziario in cui venivano reclusi. In quell'occasione la Corte statuì che «prolungando la detenzione ben al di là di ciò che sarebbe stata senza di essa, la sanzione si è apparentata ad una privazione della libertà anche se giuridicamente essa non ne costituiva una (...);» §72), altre volte acquisendo valore autonomo, apparendo come il principale elemento di apprezzamento per stabilire il carattere intrinsecamente punitivo della sanzione (emblematico di questo secondo indirizzo è il caso Welch c. Regno Unito, 1995, in cui la Corte ha riconosciuto il carattere afflittivo di una confisca disposta retroattivamente a soggetti condannati per il reato di traffico di stupefacenti sulla scorta del suo carattere repressivo). L'accentuazione del criterio dello scopo della sanzione – che via via ha acquisito una posizione di primo piano nello scrutinio della Corte – si è accompagnata ad una più puntuale precisazione del peso delle sue diverse componenti, attribuendo un ruolo primario alla finalità repressiva della sanzione oggetto di esame, benché la Corte abbia ascritto carattere penale anche a sanzioni in cui, insieme allo scopo repressivo, era presente anche una finalità preventiva. Emblematico, a tal riguardo, è il caso della «confisca urbanistica» prevista, nell'ordinamento italiano, dall'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001. In quell'occasione la Corte desunse il carattere penale della relativa sanzione dal contenuto spiccatamente punitivo della misura pur nella compresenza di scopi preventivi consistenti nell'esigenza di conservazione del territorio, ritenendo in particolare che la speciale ipotesi di confisca «non tende alla riparazione pecuniaria di un pregiudizio, ma tende essenzialmente a punire per impedire la reiterazione delle mancanze alle condizioni fissate dalla legge» (Corte EDU, Sud Fondi c. Italia, 2009). Concludendo l'excursus avente ad oggetto l'analisi dei criteri impiegati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per qualificare il carattere penale di una sanzione è opportuno soffermarsi sul carattere della gravità della sanzione. Essa è declinata in ragione del contenuto – detentivo o patrimoniale – della sanzione stessa ma non si esaurisce in questa dicotomia e, soprattutto, è apprezzata all'esito di un esame multifattoriale (Bartole, De Sena, Zagrebelsky, 265). Infatti, se nel caso di sanzione custodiale la privazione della libertà personale lascia presumere la gravità della sanzione, nel caso di sanzione pecuniaria, gli indici di gravità sono molteplici: oltre all'ammontare della sanzione stessa (sia con riguardo alla misura massima della cornice edittale prevista, sia con riferimento alla sanzione concretamente irrogata) rilevano anche la menzione nel casellario giudiziale e soprattutto la possibilità di conversione in sanzione privativa della libertà o comunque restrittiva in caso di inadempimento. Anche in questo caso, però, la valutazione complessiva e grandangolare seguita dalla Corte non può condurre, di per sé, ad enfatizzare uno soltanto degli indici sopra indicati. Infatti, né la mancata incidenza sulla libertà personale, né l'assenza di contenuto economico immediato e diretto nella sanzione sono determinanti, rilevando piuttosto il complessivo effetto limitativo per la sfera personale dell'autore innescato dalla sanzione comminata. Le garanzie del «giusto processo» e le sanzioni amministrative nell'ordinamento italiano.La sopra descritta concezione autonomistica di «materia penale» elaborata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo ha condotto, nella sostanza, a slegare l'applicabilità delle garanzie di matrice penalistica previste dalla Convenzione dal criterio della qualificazione formale rivestita da un determinato illecito nell'ordinamento nazionale, allo scopo di evitare che, attraverso l'opzione per la forma della sanzione amministrativa, andasse disperso il fascio delle tutele che aveva storicamente accompagnato lo sviluppo del diritto penale, e alla cui difesa la CEDU è preposta (Allena, 4 e ss.). Da quanto anzidetto discende che le garanzie che l'articolo in esame appronta in favore di coloro i quali sono fatti oggetto di accuse penali vanno osservate anche nei confronti dei trasgressori di precetti sanzionati, nell'ordinamento interno, con misure afflittive irrogate dall'autorità amministrativa. In materia di sanzioni amministrative nell'ordinamento italiano occorre rammentare come, secondo un risalente insegnamento della dottrina, si deve distinguere tra sanzioni amministrative in senso proprio e altre misure, prevalentemente di carattere interdittivo o ablatorio-ripristinatorio, che non sono considerate sanzioni. Le prime, definite da autorevole dottrina «pene in senso tecnico» (Zanobini, 38), si caratterizzerebbero per il carattere afflittivo/punitivo e per le finalità di prevenzione generale e speciale. Le seconde, costituirebbero strumenti di reazione a disposizione dell'amministrazione che, pur tutelando direttamente un determinato interesse pubblico, non avrebbero l'intento di punire l'autore dell'illecito avendo come scopo, piuttosto, inibire l'avvio o la prosecuzione di un'attività da parte di soggetti risultati, a seguito di accertamento, inidonei allo svolgimento di una certa attività – come nel caso delle misure interdittive – oppure ripristinare la legalità violata – come nel caso delle misure ripristinatorie e ablatorie. Secondo l'approccio tradizionale, da questa bipartizione conseguirebbe che solo alla prima tipologia di sanzioni, chiaramente contrassegnate da una finalità punitiva/afflittiva, sono applicabili i principi di garanzia contenuti nella l. n. 689/198, mentre alla seconda categoria, volta dalla cura in concreto di interessi pubblici ma alla quale sarebbe estraneo lo scopo punitivo/afflittivo, tali principi non si applicherebbero. Di contrario avviso una dottrina, a lungo minoritaria (M.A. Sandulli, cit.) ha ritenuto, facendo leva su una lettura «sostanzialistica» degli interessi tutelati dalle misure che, a vario titolo, l'ordinamento prevede come reazione alla commissione di un illecito, che le garanzie procedimentali e giurisdizionali che la l. n. 689/1981 limita alle sanzioni amministrative pecuniarie fossero applicabili a tutte le misure sanzionatorie «in senso lato». Per quanto osservato innanzi, è evidente che l'elaborazione pretoria condotta dalla Corte di Strasburgo in ordine all'art. 6 della Convenzione e, più precisamente, con riguardo alla nozione convenzionale di «materia penale» non poteva che scuotere dalle fondamenta anche il sistema delle sanzioni amministrative italiane in cui, come detto, secondo una consolidata impostazione, le garanzie (peraltro, piuttosto limitate) dettate dalla l. n. 689/1981 risultavano applicabili solo alle sanzioni pecuniarie, le uniche sicuramente connotate dal carattere afflittivo/sanzionatorio. I principi fatti propri dalla Corte EDU nelle sentenze Engel e Ozturk hanno fatto irruzione nell'ordinamento interno ribaltando nettamente gli orientamenti «formalistici» sino a quel momento prevalenti. È con la decisione assunta nel 2009 nel caso Sud Fondi c. Italia che, per la prima volta, una misura ablatoria quale quella contenuta nell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 – la c.d. « confisca urbanistica » – cessa di essere considerata come una misura ripristinatoria e, principalmente in ragione della pertinenzialità con l'accertamento di una fatto costituente reato, ne emerge la natura punitivo/afflittiva, con conseguente sottoposizione allo statuto delle sanzioni penali previsto dalla CEDU, a partire dall'applicazione dei principi del «giusto processo» contenuti nell'articolo in commento. Il sindacato giurisdizionale sulle sanzioni delle autorità amministrative indipendenti Il problema della natura delle autorità amministrative indipendenti e delle caratteristiche delle relative funzioni è un tema che agita da lungo tempo gli interpreti. È noto che, a fronte di chi, temendo l'attribuzione di rilevanti funzioni a istituzioni estranee al circuito di legittimazione democratica elettivo-parlamentare, riconduce le stesse al paradigma costituzionale di amministrazione tratteggiato dagli artt. 95 e 97 Cost., vi è, per converso, chi rinviene nell'alta competenza e nell'elevata specializzazione delle authorities argomenti sufficienti a fornire loro una piena legittimazione istituzionale che renderebbe tali autorità degne delle garanzie di indipendenza che la Costituzione riserva alla Magistratura (Cassese-Franchini, cit.; D'Alberti-Pajno, cit.). Tra i due orientamenti sopra illustrati, la posizione che ha riscosso, col tempo, maggior seguito è quella di chi – non essendo consentito ipotizzare un tertium genus tra amministrazione e giurisdizione (Cass. civ., n. 7341/2002) – ritiene che le autorità amministrative indipendenti siano in posizione non già di indipendenza, quanto di terzietà tra gli interessi che si agitano in rilevanti ambiti economici, e che la caratteristica principale delle loro funzioni sia, non dissimilmente da quanto previsto per tutte le amministrazioni pubbliche, la cura in concreto dell'interesse pubblico al regolare funzionamento dei mercati, di talché non vi sarebbero dubbi sulla loro natura di amministrazioni, ancorché sui generis poiché, come detto, contraddistinte da terzietà rispetto agli interessi in gioco e da una legittimazione proveniente più dalla competenza e dall'equidistanza che dal conferimento di un mandato politico-rappresentativo. Le sopra esposte oscillazioni hanno influito anche sulla ricostruzione della natura delle sanzioni irrogate dalle authorities. A fronte di chi ha ritenuto che le stesse, promanando da un organo giurisdizionale, fossero naturaliter delle pene irrogate da un giudice all'esito di un procedimento giudiziario, l'orientamento prevalente ha ricondotto le stesse al genus delle sanzioni amministrative innescando, sin da subito, un acceso dibattito in ordine alla profondità, e ai limiti, del sindacato giurisdizionale sulle medesime. In considerazione della circostanza che la maggior parte del contenzioso avverso le sanzioni emesse dalle autorità amministrative indipendenti è rimesso al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 104/2010), l'attenzione degli interpreti si è appuntata sulla possibilità, per quest'ultimo, di valutare l'operato dell'autorità di settore, oltre che ab extrinseco e secondo parametri di logicità e non contraddittorietà, anche intrinsecamente, ripercorrendo tutte le «tappe» dell'esercizio del potere sanzionatorio e, persino, sostituendo la propria valutazione a quella compiuta dall'amministrazione. Il problema dell'intensità del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti delle authorities si pone al crocevia tra due esigenze contrapposte che, da sempre, si confrontano in ordine alla relazione potere amministrativo-giudice: da una parte vi è la necessità che il giudizio sull'esercizio del potere non sia solamente formale ma assicuri la tutela effettiva dei diritti e degli interessi dell'individuo; dall'altro lato, è opportuno evitare l'eccessiva espansione dell'intervento giurisdizionale che si avrebbe qualora il giudice, indossati i panni dello specialista, sostituisse le proprie valutazioni tecniche a quelle dell'organo appositamente istituito dalla legge per svolgere quel compito. I possibili modelli di scrutinio sulle valutazioni tecniche dell'amministrazione sono, allora, due: il c.d. sindacato « estrinseco », effettuato applicando massime di esperienza appartenenti al comune sapere, e il c.d. sindacato « intrinseco », svolto mediante le cognizioni proprie degli specialisti del settore. Su questi due modelli si innesta poi un'ulteriore bipartizione concernente l'intensità del potere valutativo del giudice. Si allude alla distinzione tra controllo « debole », nel quale il giudice può solamente verificare la logicità e la coerenza del provvedimento impugnato, e controllo « forte », nel quale il giudice può sostituire la propria valutazione a quella dell'organo tecnico (Caranta, 245 e ss.). Chi ritiene che il sindacato del giudice dinanzi ai provvedimenti delle autorità amministrative indipendenti non possa che essere di tipo «debole» ed «estrinseco» spesso ritiene che il medesimo debba prestare una particolare «deferenza» nei confronti dell'autorità, giustificata dal rispetto della scelta legislativa di affidarle compiti che richiedono un'elevata specializzazione e una forte autonomia: è stato detto che se le decisioni delle authorities venissero sindacate come quelle delle amministrazioni tradizionali, ne risulterebbero sminuite l'autorevolezza e la stessa indipendenza; inoltre, affidare ad un soggetto non esperto in materia – come il giudice – un controllo di tipo sostitutivo, rischierebbe di condurre ad esiti fuorvianti (Midena, 113 e ss.). Come modello viene, allora, proposto il sindacato adottato dalle corti statunitensi sugli atti delle agenzie, che possono essere annullati solo quando siano illegittimi o irragionevoli, mentre il giudice deve mostrare «deferenza» qualora il significato tecnico della norma invocata come parametro non sia univoco. A questa ricostruzione del sindacato giurisdizionale sugli atti delle autorità indipendenti si obietta che, se anche l'autorità si limitasse ad applicare le norme giuridiche senza esercitare poteri discrezionali, sarebbe comunque opportuno che ci fosse un giudice a verificare la correttezza dell'interpretazione svolta, senza considerare che, in uno Stato di diritto, ogni potere ha un suo giudice e a tale non possono certo sfuggire le autorità indipendenti. In realtà, il modello di controllo sugli atti delle autorità indipendenti non può essere unico, ma dev'essere differentemente articolato a seconda delle caratteristiche dell'attività svolta da queste ultime, distinguendo tra il sindacato avente ad oggetto, in generale, l'attività provvedimentale delle autorità e quello avente ad oggetto le sanzioni. Nel primo caso il controllo è « intrinseco » perché il giudice può accedere direttamente al fatto avvalendosi delle stesse conoscenze tecniche applicate dall'autorità per valutare le prove raccolte da questa e quelle presentate dai ricorrenti a loro difesa. Si tratta, però, di un sindacato «debole», nel quale l'organo giurisdizionale deve limitarsi a verificare se il provvedimento appaia logico, congruo, ragionevole e correttamente motivato, nel rispetto della scelta del legislatore di affidare la tutela di determinati mercati a un'autorità specializzata. Per esempio, al giudice è consentito censurare la delimitazione del mercato rilevante effettuata dall'A.g.c.m. qualora appaia inattendibile, ma non individuarlo direttamente. Nel caso delle sanzioni, invece, il sindacato dovrebbe spingersi fino alla sostituzione della misura inflitta ove questa sia fondata su presupposti di fatto errati, sia illogica o illegittima rispetto ai parametri descritti dall'art. 15 della l. n. 287/1990 e dell'art. 11 della l. n. 689/1981, oppure sia semplicemente iniqua. Le sanzioni irrogate dalle autorità amministrative indipendenti al vaglio della Corte EDU: il caso Menarini Il sistema di controllo elaborato dalla giurisprudenza amministrativa italiana sulle sanzioni delle autorità amministrative indipendenti e, in particolare, sulle sanzioni emesse dall'AGCM è stato sottoposto al vaglio della Corte di Strasburgo nel noto caso « Menarini ». L'omonima azienda farmaceutica, soccombente sia in primo grado che in appello dinanzi al Consiglio di Stato nel ricorso presentato avverso la sanzione irrogata a suo carico dall'AGCM, ricorreva alla Corte EDU lamentando la violazione delle garanzie del «giusto processo» previste dall'articolo in commento nel corso del procedimento giudiziario sviluppato davanti agli organi della giustizia amministrativa italiana. In via preliminare, la Corte di Strasburgo ha dovuto stabilire, al fine di accertare la ricevibilità stessa del ricorso, se le sanzioni pecuniarie irrogate dall'AGCM fossero riconducibili alla «matière pénale» ai sensi dell'art. 6 della CEDU (Corte EDU, Menarini c. Italia, 2011). La Corte ha risolto agilmente la questione proprio facendo applicazione della nozione «sostanzialistica» di «materia penale» elaborata a partire dai casi Engel ed Ozturk, e rilevando che, pur se nell'ordinamento italiano gli illeciti anticoncorrenziali non possiedono formalmente natura penale, nondimeno, le sanzioni irrogate dall'AGCM possiedono sostanzialmente carattere penale, secondo la Corte, in quanto perseguono il duplice obiettivo di prevenire e reprimere le condotte anticoncorrenziali realizzate dalle imprese, come emerge dalla particolare gravità della sanzione inflitta (oltre 6 milioni di Euro), di cui è evidente l'aspetto punitivo/afflittivo. Quanto alla natura dell'AGCM, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che essa non sia un «giudice», né che il procedimento sanzionatorio che si svolge dinanzi ad essa abbia carattere giurisdizionale, aderendo così all'orientamento secondo il quale le autorità indipendenti vanno considerate come amministrazioni pubbliche, seppur peculiari. Tale carattere non le preclude comunque, secondo l'insegnamento della Corte EDU, l'irrogazione di sanzioni qualificate come penali ai sensi della Convenzione, posto che esse possono essere applicate anche da un'autorità amministrativa che non offre le garanzie strutturali e di procedura richieste dall'articolo in esame, purché il deficit di legalità riscontrato nel procedimento sanzionatorio dinanzi all'autorità sia «recuperato» assicurando all'interessato la possibilità di attivare, mediante ricorso, un controllo pieno e di « full jurisdiction » da parte di un organo giurisdizionale dotato di indipendenza ed in possesso di poteri volti alla completa «rinnovazione» dell'esame del fatto compiuto dall'autorità. A questo punto, i giudici di Strasburgo non hanno potuto fare a meno, allora, di verificare la conformità del modello di sindacato esercitato dagli organi della giustizia amministrativa italiana sulle sanzioni pecuniarie emesse dalle authorities. Nel caso di specie, secondo la Corte EDU, il sistema interno di tutela giurisdizionale risulta rispettoso delle garanzie convenzionali: infatti, l'impresa sanzionata ha potuto ricorrere dinanzi ad organi giudiziari indipendenti sia dal potere esecutivo che dalle parti. Inoltre, i giudici amministrativi hanno esercitato un controllo pieno sulla vicenda, prendendo in considerazione tutti i motivi di ricorso, riesaminando gli elementi di prova raccolti dall'AGCM e ribadendo che, nonostante al giudice non fosse consentito sostituire le proprie valutazioni tecniche opinabili a quelle dell'autorità, potevano comunque censurarle all'esito di un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza tecnica. Per vero, la decisione della Corte di Strasburgo non è stata unitaria. Uno dei giudici, infatti, ha espresso una dissenting opinion, ritenendo che, nella loro motivazione, i giudici italiani si fossero limitati a ripercorrere la motivazione dell'autorità, vagliando solo formalmente gli argomenti della ricorrente, senza operare quella valutazione autonoma, concreta e dettagliata che la Convenzione avrebbe imposto. Tuttavia, al netto dell'opinione dissenziente sopra riportata, i giudici europei hanno riconosciuto che il controllo effettuato sulla sanzione è stato di «full jurisdiction», avendo sia il T.A.R. che il Consiglio di Stato potuto verificare l'adeguatezza della pena all'infrazione commessa e potendo essi, in astratto, anche sostituire la sanzione in concreto irrogata. I principi giurisprudenziali esposti sono stati ribaditi da ultimo, con particolare riferimento alla proporzionalità delle sanzioni da Cons. Stato, sez. VI, 1159/2023. La sentenza in esame ha affermato che il principio di proporzionalità, che investe lo stesso fondamento dei provvedimenti limitativi delle sfere giuridiche del cittadino (in specie quelle di ordine fondamentale) e non solo la graduazione della sanzione, assume nell'ordinamento interno lo stesso significato che ha nell'ordinamento comunitario. di sussidiarietà. Esso, dunque, si articola in tre distinti profili: - idoneità, quale rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo perseguito. In virtù di tale parametro l'esercizio del potere è legittimo solo se la soluzione adottata consenta di raggiungere l'obiettivo; - necessarietà, quale assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo In virtù di tale parametro la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei deve cadere su quella che comporti il minor sacrificio; - adeguatezza, quale tollerabilità della restrizione che comporta per il privato. In virtù di tale parametro l'esercizio del potere, pur idoneo e necessario, è legittimo solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, in caso contrario la scelta va rimessa in discussione” (così Cons. Stato, Sez. VI, 17 aprile 2007, n.1736; per l'affermazione del principio di proporzionalità come criterio guida in materia di sanzioni antitrust, si vedano anche Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4085; 12/7/2011, n. 4202; 29 dicembre 2010, n. 9575; Corte giust. UE, sez. IV, 16/6/2022, in C-697/19). Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi che il criterio di calcolo della sanzione basato sul c.d. cumulo materiale, connotato da un certo automatismo, se generalmente adottabile, non risulti conforme al principio di proporzionalità, quantomeno nei casi, come quello di specie, nei quali la condotta addebitata, incidente su mercati tra loro interconnessi, sia riguardabile come continuata (a parte subiecti), e la configurazione di un duplice illecito sia dipesa solo dalla circostanza, del tutto estrinseca rispetto all'impresa sanzionata, della mancata prova che tutti gli altri operatori economici coinvolti condividessero l'obiettivo comune. In tali casi, l'istituto penalistico della continuazione, pur non direttamente applicabile alle sanzioni antitrust, debba, comunque orientare l'azione dell'Autorità nel determinare in concreto la pena pecuniaria applicabile (restando il cumulo materiale il limite massimo – fra l'altro più favorevole del limite penalistico – ma operando un aumento proporzionato sul richiamato massimo del 10%). I principi giurisprudenziali esposti sono stati ribaditi da ultimo, con particolare riferimento alla proporzionalità delle sanzioni da Cons. Stato, sez. VI, 1159/2023. La sentenza in esame ha affermato che il principio di proporzionalità, che investe lo stesso fondamento dei provvedimenti limitativi delle sfere giuridiche del cittadino (in specie quelle di ordine fondamentale) e non solo la graduazione della sanzione, assume nell'ordinamento interno lo stesso significato che ha nell'ordinamento comunitario. di sussidiarietà. Esso, dunque, si articola in tre distinti profili: - idoneità, quale rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo perseguito. In virtù di tale parametro l'esercizio del potere è legittimo solo se la soluzione adottata consenta di raggiungere l'obiettivo; - necessarietà, quale assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo In virtù di tale parametro la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei deve cadere su quella che comporti il minor sacrificio; - adeguatezza, quale tollerabilità della restrizione che comporta per il privato. In virtù di tale parametro l'esercizio del potere, pur idoneo e necessario, è legittimo solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, in caso contrario la scelta va rimessa in discussione” (così Cons. Stato, Sez. VI, 17 aprile 2007, n.1736; per l’affermazione del principio di proporzionalità come criterio guida in materia di sanzioni antitrust, si vedano anche Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4085; 12 luglio 2011, n. 4202; 29 dicembre 2010, n. 9575; Corte giust. UE, sez. IV, 16/6/2022, in C-697/19). Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi che il criterio di calcolo della sanzione basato sul c.d. cumulo materiale, connotato da un certo automatismo, se generalmente adottabile, non risulti conforme al principio di proporzionalità, quantomeno nei casi, come quello di specie, nei quali la condotta addebitata, incidente su mercati tra loro interconnessi, sia riguardabile come continuata (a parte subiecti), e la configurazione di un duplice illecito sia dipesa solo dalla circostanza, del tutto estrinseca rispetto all’impresa sanzionata, della mancata prova che tutti gli altri operatori economici coinvolti condividessero l’obiettivo comune. In tali casi, l’istituto penalistico della continuazione, pur non direttamente applicabile alle sanzioni antitrust, debba, comunque orientare l’azione dell’Autorità nel determinare in concreto la pena pecuniaria applicabile (restando il cumulo materiale il limite massimo – fra l’altro più favorevole del limite penalistico – ma operando un aumento proporzionato sul richiamato massimo del 10%).
Considerazioni conclusive.Ad avviso di chi scrive, il concetto di « full jurisdiction » svolge una funzione decisiva affinché possa essere predicata la piena compatibilità con i precetti della Convenzione del sindacato svolto dal giudice amministrativo italiano sulle sanzioni emanate dalle autorità indipendenti. Come osservato dal Consiglio di Stato, il sindacato di «full jurisdiction» realizza (e logicamente presuppone) «un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale», in cui il giudice è chiamato a «sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell'amministrazione». In altri termini, «quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco» (Cons. St. VI, n. 1595 e Cons. St. VI, 1596/2016). Occorre però chiedersi se l'attuale assetto del processo dinanzi agli organi della giustizia amministrativa soddisfi questi requisiti. Secondo una nota pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'AGCM. sarebbe conforme ai canoni del sindacato di «piena giurisdizione» poiché dotato del potere di verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato, estendendosi anche ai profili tecnici il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento. Nondimeno, quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità – come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza – detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'autorità garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini (Cass. S.U., n. 1013/2014). In definitiva, secondo la Corte di Cassazione, il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti sanzionatori delle authorities è sì di tipo «intrinseco», ma deve arrestarsi dinanzi all'insostituibilità delle valutazioni tecniche opinabili compiute dall'autorità. La solidità delle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte va adesso vagliata alla luce dell'introduzione dell'art. 7 del d.lgs. n. 3/2017, il quale prevede che «ai fini dell'azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell'autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell'AGCM di cui all'art. 10 della l. n. 287/90, non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato». Infatti, una volta che il provvedimento dell'AGCM sia capace non solo di infliggere sanzioni, ma altresì di determinare uno dei presupposti del diritto al risarcimento del danno, si apre allora la strada, in mancanza di un'effettiva «full jurisdiction», per il riconoscimento di una violazione dell'art. 6 CEDU non solo con riguardo al giusto processo penale, ma anche al giusto processo civile. Difatti, il giudice civile risulterebbe vincolato da un accertamento amministrativo, il quale, tuttavia, è stato realizzato nel contesto di un procedimento non conforme al principio della parità delle parti senza che tale deficit sia stato compensato da un procedimento dinanzi alla giustizia amministrativa pienamente ossequioso del «giusto processo». Di tale problematica pare essersi fatto consapevolmente carico il Consiglio di Stato in una pronuncia del 2019 resa nell'ambito del caso « Avastin e Lucentis c. AGCM ». In essa, il giudice amministrativo si pone appieno il problema della centralità, nelle controversie sull'esercizio del potere sanzionatorio, del concetto di « full jurisdiction », ben sapendo che «la decisione amministrativa incidente su civil rights and obligations, per quanto adottata senza il rispetto di tutti i requisiti prescritti dal principio del fair trial, può nondimeno essere considerata adottata conformemente alla Convenzione, laddove le garanzie procedurali ivi previste siano comunque riscontrabili nella sede di controllo della decisione stessa» (Cons. St. VI, n. 4990/2019 , confermata da Cass. S.U., 5 ottobre 2021, n. 26920). Pertanto, proprio in relazione ai problemi posti dall'art. 7 del d.lgs. n. 3/2017 alla luce dei principi convenzionali, e quindi nel rispondere al quesito se «anche alla luce del nuovo assetto del public and private enforcement, in cui la violazione del diritto antitrust constatata da una decisione amministrativa rimasta inoppugnata o confermata dal giudice amministrativo, è divenuta incontestabile nel giudizio per il risarcimento del danno dinanzi al giudice civile – il sindacato «non sostitutivo» di ragionevolezza e proporzionalità sull'illecito antitrust sia ancora coerente con la fisionomia che il processo amministrativo ha nel frattempo assunto informandosi all'anzidetto principio di effettività», i giudici di Palazzo Spada propongono «il superamento del tradizionale limite del divieto di sostituzione delle valutazioni tecniche: rispetto alle sanzioni AGCM non devono operare i limiti cognitivi insiti nella tecnica del sindacato sull'esercizio del potere, essendo viceversa il giudice amministrativo pienamente abilitato a pervenire all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata» (Cons. St., cit., che postula un pieno e autonomo accertamento giudiziale dell'esistenza dell'illecito e della verità intrinseca dei fatti, a prescindere dall'intermediazione amministrativa). La tesi giurisprudenziale secondo cui la vincolatività, in sede di “ private enforcement ”, dell'accertamento giurisdizionale amministrativo imporrebbe il carattere sostitutivo di maggiore attendibilità del sindacato fonda sull'assunto che il giudice amministrativo, adottando una pronuncia che pregiudica i diritti soggettivi, dovrebbe essere egli stessi giudice del diritto soggettivo, abilitato come tale a scrutinare in modo isolato e immediato il rapporto amministrativo e, quindi, ad accertare direttamente i presupposti e la portata dell'illecito. In conclusione, pare a una buona parte della dottrina che nulla più si opponga al superamento del tradizionale self-restrain esercitato dal giudice amministrativo in sede di sindacato sui provvedimenti sanzionatori delle autorità indipendenti in favore della piena affermazione di un modello di sindacato insieme « intrinseco » e « forte», capace anche di sostituirsi alle valutazioni opinabili compiute dall'amministrazione, avviandosi verso un significativo rafforzamento degli spazi di effettiva tutela giurisdizionale nei confronti dell'autorità amministrativa, rendendo pieno, e non meramente formale, ossequio, all'indirizzo impartito dalla Corte di Strasburgo in materia di «giusto processo» avverso sanzioni di carattere sostanzialmente penale. A tale costruzione si oppone, da parte di altra linea interpretativa, il rilievo che, in questa materia, la concretizzazione e la contestualizzione della norma incompleta e del precetto indeterminato sono riservate, in ambito nazionale ed europeo, all'autorità amministrativa, in guisa da impedire una sostituzione integrale che trasformerebbe il giudice in amministrazione, il processo in procedimento e la giurisdizione esclusiva in giurisdizione di merito, per non dire della contraddittorietà intrinseca del concetto di opinione più attendibile di altra comunque attendibile e del rischio di annullamento in Cassazione per esorbitanza dai limiti della giurisdizione. Nella vicenda in esame si segnala l'ulteriore rinvio pregiudiziale ai giudici di Lussemburgo finalizzato a ottenere una sponda europea alla dilatazione degli spazi per la riapertura del processo in caso di sentenza anti-comunitaria (Cons. St. VI, 18 marzo 2021, n. 2327). Corte Giust 7 luglio 2022, in C-251/21 , riprendendo Corte Giust. 21 dicembre 2021, 497/20 (in tema di ricorso in cassazione per questioni di giurisdizione), ha, tuttavia, escluso che il diritto europeo imponga un rimedio revocatorio “ad hoc” per eliminare una sentenza definitiva violativa del diritto unionale) resta da valutare se a diversa conclusione debba pervenirsi (specie dopo Corte cost. n. 149/2022 sul doppio binario sanzionatorio nel ne bis in idem eterogeneo) in caso di giudicato violativo della legalità convenzionale penale in tema di diritto amministrativo punitivo. BibliografiaAllena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; Bartole, De Sena, Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Padova, 2012; Caranta, Il sindacato giurisdizionale sugli atti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Ferrari, Ramajoli, Sica, Il ruolo del giudice di fronte alle decisioni amministrative per il funzionamento dei mercati, Torino, 2006; Cassese, Franchini (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, 1996; D'Alberti, Pajno (a cura di), Arbitri dei mercati, Bologna, 2010; Midena, Autorità indipendenti e sindacato giurisdizionale, in Vesperini, Napolitano (a cura di), Le autorità indipendenti: norme procedimento e giudice, Viterbo, 1998; M.A. Sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie. Principi sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924. |