Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 38 - Accesso dei cittadini degli Stati membri della Unione europea ( Art. 37 d.lgs n. 29 del 1993 , come modificato dall' art. 24 del d.lgs n. 80 del 1998 )Accesso dei cittadini degli Stati membri della Unione europea (Art. 37 d.lgs n. 29 del 1993, come modificato dall'art. 24 del d.lgs n. 80 del 1998) 1. I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale1. 2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni ed integrazioni, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini di cui al comma 1. 3. Sino all'adozione di una regolamentazione della materia da parte dell'Unione europea, al riconoscimento dei titoli di studio esteri, aventi valore ufficiale nello Stato in cui sono stati conseguiti, ai fini della partecipazione ai concorsi pubblici destinati al reclutamento di personale dipendente, con esclusione dei concorsi per il personale docente delle scuole di ogni ordine e grado, provvede il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, previo parere conforme del Ministero dell'istruzione e del merito ovvero del Ministero dell'università e della ricerca. I candidati che sono in possesso del titolo di ammissione conseguito all'estero sono ammessi con riserva a partecipare ai concorsi di cui al primo periodo. Il Dipartimento della funzione pubblica conclude il procedimento di riconoscimento di cui al presente comma solo nei confronti dei vincitori del concorso, che hanno l'onere, a pena di decadenza, di presentare istanza di riconoscimento, entro quindici giorni dalla pubblicazione della graduatoria finale, al Ministero dell'università e della ricerca ovvero al Ministero dell'istruzione e del merito2. 3.1. Per i fini previsti dagli articoli 3 e 4 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 luglio 2009, n. 189, e per le selezioni pubbliche di personale non dipendente, al riconoscimento del titolo di studio provvede, con le medesime modalità di cui al comma 3 del presente articolo, il Ministero dell'università e della ricerca, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta, anche per i titoli conseguiti in Paesi diversi da quelli firmatari della Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all'insegnamento superiore nella Regione europea, fatta a Lisbona l'11 aprile 1997, ratificata ai sensi della legge 11 luglio 2002, n. 148 3. 3.2. Al riconoscimento accademico e al conferimento del valore legale ai titoli di formazione superiore esteri, ai dottorati di ricerca esteri e ai titoli accademici esteri conseguiti nel settore artistico, musicale e coreutico, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta, provvedono le istituzioni di formazione superiore italiane ai sensi dell'articolo 2 della legge 11 luglio 2002, n. 148, anche per i titoli conseguiti in Paesi diversi da quelli firmatari della Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all'insegnamento superiore nella Regione europea, fatta a Lisbona l'11 aprile 1997, ratificata ai sensi della citata legge n. 148 del 2002. Il riconoscimento accademico produce gli effetti legali del corrispondente titolo italiano, anche ai fini dei concorsi pubblici per l'accesso al pubblico impiego 4. 3-bis. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria5. 3-ter. Sono fatte salve, in ogni caso, le disposizioni di cui all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1976, n. 752, in materia di conoscenza della lingua italiana e di quella tedesca per le assunzioni al pubblico impiego nella provincia autonoma di Bolzano6. [1] Comma modificato dall'articolo 7, comma 1, lettera a), della Legge 6 agosto 2013, n. 97. [2] Comma sostituito dall’articolo 8, comma 3, del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, modificato dall'articolo 19, comma 6-bis, del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120, successivamente sostituito dall'articolo 1, comma 28-quinques, del D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla Legge 25 febbraio 2022, n. 15 e da ultimo dall'articolo 3, comma 1, lettera f), del D.L. 14 marzo 2025, n. 25, convertito con modificazioni dalla Legge 9 maggio 2025, n. 69. [3] Comma inserito dall'articolo 1, comma 28-quinques, del D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla Legge 25 febbraio 2022, n. 15. [4] Comma inserito dall'articolo 1, comma 28-quinques, del D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla Legge 25 febbraio 2022, n. 15. [5] Comma aggiunto all'articolo 7, comma 1, lettera b), della Legge 6 agosto 2013, n. 97. [6] Comma aggiunto all'articolo 7, comma 1, lettera b), della Legge 6 agosto 2013, n. 97. InquadramentoIl quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini degli Stati membri della Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche è stato attraversato da una serie di modifiche apportate ai fini del suo adeguamento al diritto euro-unitario. Ancora in tempi relativamente recenti, sono stati oggetto di letture contrastanti tanto la portata e i vincoli derivanti dalle norme costituzionali – ed in specie dall'art. 51 Cost., la cui formulazione riferisce l'accesso agli uffici pubblici ai cittadini – quanto l'ampiezza e la legittimità delle previsioni sull'indefettibilità del requisito della cittadinanza italiana consentite alla disciplina interna. Il tema è oggetto dell'art. 38 del d.lgs. n. 165/2001. L'attuale formulazione della norma, tributaria delle modifiche estensive apportate dalla l. n. 97/2013, prevede che: «i cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale» (comma 1). Le medesime disposizioni relative a tali soggetti si applicano anche «ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria» (comma 3-bis). La legge rinvia, altresì, ad un d.P.C.M., adottato ai sensi dell'art. 17 della l. n. 400/1988, per individuare i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini comunitari (comma 2 dell'art. 38). Il comma 3 dell'art. 38 è stato, da ultimo, modificato dal d.l. n. 228/2021, che ha anche aggiunto i commi 3.1 e 3.2.. Viene disposto che sino all'adozione di una regolamentazione della materia da parte dell'Unione europea, al riconoscimento dei titoli di studio esteri, aventi valore ufficiale nello Stato in cui sono stati conseguiti, ai fini della partecipazione ai concorsi pubblici destinati al reclutamento di personale dipendente, con esclusione dei concorsi per il personale docente delle scuole di ogni ordine e grado, provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, previo parere conforme del Ministero dell'istruzione ovvero del Ministero dell'università e della ricerca. I candidati che presentano domanda di riconoscimento di tali titoli sono ammessi con riserva e, se vincitori, hanno l'onere, a pena di decadenza, di dare comunicazione dell'avvenuta pubblicazione della graduatoria, entro quindici giorni, al Ministero dell'università e della ricerca ovvero al Ministero dell'istruzione. Solo nei confronti dei vincitori, il Dipartimento della funzione pubblica conclude il procedimento di riconoscimento. Il comma 3.1. integra la normativa sul riconoscimento dei titoli di studio: Per i fini previsti dagli articoli 3 e 4 del regolamento di cui al d.P.R. n. 189/2009, e per le selezioni pubbliche di personale non dipendente, al riconoscimento provvede, con le medesime modalità di cui al comma 3, «il Ministero dell'università e della ricerca, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta, anche per i titoli conseguiti in Paesi diversi da quelli firmatari della Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all'insegnamento superiore nella Regione europea, fatta a Lisbona l'11 aprile 1997, ratificata ai sensi della legge 11 luglio 2002, n. 148». Segue la disciplina relativa al riconoscimento accademico e al conferimento del valore legale ai titoli di formazione superiore esteri, ai dottorati di ricerca esteri e ai titoli accademici esteri conseguiti nel settore artistico, musicale e coreutico, cui provvedono le istituzioni di formazione superiore italiane. Il riconoscimento accademico produce gli effetti legali del corrispondente titolo italiano, anche ai fini dei concorsi pubblici per l'accesso al pubblico impiego. Il comma 3-ter reca, invece, la salvezza delle speciali disposizioni in tema di conoscenza della lingua italiana e di quella tedesca (il bilinguismo di cui all'art. 1 del d.P.R. 26 luglio 1976, n. 752), prescritta per le assunzioni al pubblico impiego nella provincia autonoma di Bolzano. L'esposta disciplina legislativa ha rappresentato una importante soluzione di continuità rispetto al passato. Sin dal testo unico sugli impiegati civili dello Stato del 1908 (r.d. 28.11.1908, n. 693) la cittadinanza italiana è stata richiesta quale requisito necessario per l'assunzione in servizio e per la partecipazione ai pubblici concorsi. Analoga previsione è stata dettata dal successivo d.P.R. n. 3/1957, ai sensi degli artt. 2 e 70. Alla base di tale pressoché inderogabile necessità (non intaccata nella sua valenza di regola di principio da sporadiche eccezioni – ad esempio, a proposito di reclutamento di professori universitari – considerate, tuttavia, deroghe) v'era il convincimento della compartecipazione inevitabile all'esercizio della funzione pubblica da parte di coloro che, attraverso la propria attività di servizio, ne supportassero, sul piano organizzativo e strumentale, l'attuazione. La correlazione necessaria tra cittadinanza e rapporto di servizio professionale finiva per essere espressione di una concezione nazionalista della stessa funzione pubblica e dei suoi obiettivi, all'interno esclusivamente di una dimensione statuale. Il d.P.C.M. n. 174/1994Il d.P.C.M. n. 174/1994 ha rappresentato la base per la individuazione dei concorsi per l'assunzione di dipendenti delle pubbliche amministrazioni per i quali è necessario il requisito della cittadinanza italiana. Il decreto indica, all'art. 1, i posti per l'accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana. La disposizione, in realtà, più che definire i criteri che consentano di individuare tipologie di «posti» che implicano tale requisito, reca: 1) un elenco, in realtà, di intere categorie di dipendenti escluse, fra i quali: i dirigenti pubblici; coloro che ricoprono posti con funzioni di vertice amministrativo «delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia»; i magistrati e gli avvocati e procuratori dello Stato; 2) l'indicazione di una serie di apparati pubblici, per accedere alle cui posizioni lavorative è richiesta la cittadinanza italiana. In base a tale ultima disposizione, la riserva di posti ai cittadini italiani riguarda tutti i ruoli della Presidenza del Consiglio, nonché quelli di vari dicasteri, ossia quello della Giustizia, degli Affari Esteri, dell'Interno, della Difesa, delle Finanze e del Corpo forestale dello Stato (ora soppresso), «eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell'art. 16 della l. 28 febbraio 1987, n. 56 [ex disciplina dell'avviamento dei lavoratori per i quali non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell'obbligo]». Il medesimo decreto, all'art. 2, indica anche alcune tipologie di funzioni per le quali è possibile escludere, caso per caso, ulteriori posizioni lavorative dall'accesso dei soggetti privi della cittadinanza italiana, oltre quelle previste «in blocco» in base al comma 1. Tali tipologie di funzioni comprendono: a) le funzioni che comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; b) le funzioni di controllo di legittimità e di merito. Il comma 2 prosegue disponendo che «il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, sentita l'amministrazione competente, esprime, entro sessanta giorni dalla ricezione della domanda dell'interessato, diniego motivato all'accesso a specifici impieghi o all'affidamento di incarichi che comportino esercizio di taluna delle funzioni indicate al comma 1. Tale decreto è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ed ha efficacia preclusiva sino a che non intervengano modifiche della situazione di fatto o di diritto che facciano venir meno l'impedimento all'accesso». Da rilevare che anche l'art. 2, comma 1, del d.P.R. 4 maggio 1994, n. 487 («Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi») richiama e conferma le previsioni di cui al d.P.C.M. 174/1994. Il percorso della giurisprudenzaL'accesso al lavoro pubblico italiano dei cittadini comunitari (e degli equiparati) ha formato oggetto di un serrato dibattito giurisprudenziale, tra Corti nazionali e istanze europee (Quatraro, Albanese). Un primo contributo sui profili costituzionali è stato fornito da Cons. St. II, parere n. 234/1990. I magistrati di Palazzo Spada hanno rimarcato che «l'art. 51 Cost. non mira a riservare ai cittadini italiani l'accesso ai pubblici uffici, ma mira a garantire l'uguaglianza dei cittadini senza discriminazioni o limiti, e nel prevedere la possibilità di parificare – con legge nazionale – ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica, si caratterizza come una norma «aperturista» e non come «preclusiva». Fondamentale importanza ha assunto l'interpretazione dell'art. 45 del TFUE, laddove è sancito – riprendendo il contenuto dell'art. 39 del Trattato CE – il principio della libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione. Tale norma consente due ordini di deroghe. La prima deroga è giustificata da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. La seconda deroga autorizza la non applicazione della disposizione in esame agli impieghi nella pubblica amministrazione. La Corte di Giustizia, a partire dal 1980, ha fornito una interpretazione restrittiva della suddetta deroga muovendo da una specifica ricostruzione della nozione di «pubblica amministrazione» nella sua veste di datore di lavoro pubblico. In particolare, si è affermato che la regola generale è quella – in assenza di una specifica norma attributiva di competenze all'Unione europea – di riservare alla sovranità degli Stati membri l'individuazione della nozione di «pubblica amministrazione», in ossequio al principio della cd. «autonomia organizzativa» nazionale, che ricomprende anche i rapporti di lavoro pubblico. Nondimeno, tale autonomia incontra i limiti conseguenti all'esigenza di evitare la violazione del principio fondamentale di libera circolazione dei lavoratori. Sotto altro aspetto, la Corte di Giustizia ha messo in rilievo come i pubblici poteri hanno assunto anche delle «responsabilità di carattere economico e sociale», partecipando «ad attività che non si possono equiparare alle funzioni tipiche della pubblica amministrazione» ma che «rientrano, data la loro natura, nel campo d'applicazione del Trattato» (Corte Giust. CE, 17 dicembre 1980, causa 149/79). Alla luce di queste premesse, i giudici europei hanno prospettato una nozione restrittiva di pubblica amministrazione-datore di lavoro, ritenendo che il requisito della nazionalità può essere imposto esclusivamente per l'accesso a quei posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all'esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche e presuppongono pertanto, da parte dei loro titolari, l'esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità dei diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza (Corte Giust. CE, n. 149 /19 80, cit.; Corte Giust. UE, 2 luglio 2006, cause 473/93, 173/94, 290/94, 10; Corte Giust. UE, 10 settembre 2014, causa 270/13). Il divieto di accesso dei cittadini europei ai posti di impiego presso le pubbliche amministrazioni deve, pertanto, ricevere un'interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario» per salvaguardare gli interessi tutelati dal divieto stesso (Corte Giust. UE, n. 270 del 2014, cit.). Pertanto, nell'ottica europea non rileva il profilo «strutturale-statico» di «pubblica amministrazione» ma quello «funzionale-dinamico» che valorizza la natura specifica dell'attività posta in essere, la quale deve partecipare, per essere sottratta al rispetto del principio di libera circolazione, delle caratteristiche intrinseche individuate dalla giurisprudenza europea. Da ciò deriva che è necessario rifuggire da generalizzazioni escludenti e guardare allo specifico caso concreto. La Corte di giustizia ha ritenuto che, in tale analisi, il criterio da utilizzare per delimitare le attività che non possono considerarsi espressione di pubblico potere è rappresentato dal carattere tecnico e di gestione economica di tale attività analizzata secondo un giudizio di prevalenza, che esclude la rilevanza di eventuali compiti autoritativi esercitati in modo sporadico e dunque marginale nell'ambito della complessiva attività svolta. Allo scopo di fornire un ausilio interpretativo, la Commissione europea ha proceduto ad individuare, in una prima comunicazione del 1988 (n. 88/C 72/02), come rientranti nella deroga «le funzioni specifiche dello Stato e delle collettività ad esso assimilabili, quali le forze armate, la polizia e le altre forze dell'ordine pubblico, la magistratura, l'amministrazione fiscale e la diplomazia. Inoltre, si considerano compresi in tale eccezione gli impieghi dipendenti dai ministeri statali, dai governi regionali, dalle collettività territoriali e da altri enti assimilati e infine dalle banche centrali, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato o di un'altra persona morale di diritto pubblico, come l'elaborazione degli atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione e la tutela degli organi dipendenti». I settori invece esclusi, ferme sempre le specificità della singola attività, sono essenzialmente riconducibili a quelli in cui si esplica attività economica e che ricomprendono, in particolare, l'ambito dei servizi di interesse economico generale ovvero l'attività di utilizzazione dei beni pubblici. Su tali coordinate è intervenuta Cons. St. VI, n. 3666/2017, evidenziando l'incongruità della disciplina regolamentare, costituita dal citato d.P.C.M. n. 174/1994, nella parte in cui prevede che i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni sono riservati ai soli cittadini italiani. «La figura del dirigente si pone in una posizione peculiare: da un lato, è lavoratore alle dipendenze della pubblica amministrazione; dall'altro lato, è l'organo di rilevanza esterna mediante il quale la pubblica amministrazione stessa, attraverso il sistema delle imputazioni giuridiche, pone in essere l'attività di propria competenza per perseguire, in modo autonomo, gli obbiettivi indicati dagli organi politici. Tale attività è ampia e diversificata, potendo ricomprendere tutta la tipologia di atti che una pubblica amministrazione, nell'ordinamento attuale, può porre in essere. In questa ottica, possono venire in rilievo attività che si esplicano mediante provvedimenti amministrativi, contratti, accordi, comportamenti espressione di poteri pubblici, meri comportamenti materiali. Ne consegue che sono gli specifici compiti che il dirigente compie quale organo della «pubblica amministrazione» a definire la stessa nozione di pubblica amministrazione quale «datore di lavoro» ai fini della definizione dell'ambito applicativo della deroga al principio di libera circolazione dei lavoratori. È bene, inoltre, precisare che non è sufficiente affermare l'esistenza di un atto amministrativo perché si possa ritenere che il lavoratore ponga in essere una funzione sottratta al principio di libera circolazione, ma occorre guardare sempre al regime e alla natura dell'attività conseguente all'adozione di quell'atto. In definitiva, se una pubblica amministrazione deve «selezionare» un dirigente per attribuirgli determinati incarichi per l'espletamento, per conto della stessa autorità, di attività amministrativa, è necessario valutare quale sia l'effettiva valenza di tale attività al fine di accertare se la scelta debba o meno ricomprendere solo cittadini italiani. [..] Affermare che i dirigenti statali devono essere tutti italiani significa di fatto ritenere che ciò che rileva è l'esistenza di una «pubblica amministrazione» che conferisce l'incarico e non l'esistenza di un incarico espressione, diretta o indiretta, di un pubblico potere». La decisione dell'Adunanza Plenaria n. 9/2018Un punto di non riorno nell'elaborazione giurisprudenziale è stato segnato da Cons St., Ad. plen., n. 9/2018. Essa ha statuito che «l'art. 1, comma 1, d.P.C.M. 174/1994 e l'art. 2, comma 1, d.P.R. 487/1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell'UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il par. 2 dell'art. 45 del T.F.U.E. e non possono trovare conseguentemente applicazione. Il giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell'UE». La decisione in oggetto ha riguardato la controversia inerente l'incarico di direttore del Palazzo Ducale di Mantova e la scelta di ammettere alla procedura candidati non aventi la cittadinanza italiana, ma quella di altro Stato dell'Unione europea. L'Adunanza Plenaria ha scandagliato, in primo luogo, gli aspetti costituzionali (artt. 51 e 54 Cost.), confermando, in particolare, quanto già espresso da Cons. St. IV, n. 1210/2015. In quella sede era già stata specificamente affrontata la questione se l'art. 51, Cost. impedisca l'attribuzione a cittadini di altri Paesi membri dell'Unione europea di incarichi di funzioni dirigenziali., escludendo tale eventualità e sottolineando che, anche in base alla pertinente giurisprudenza costituzionale, «per il tramite dell'art. 11 Cost., le disposizioni sulla libertà di circolazione all'interno dell'Unione, poste dall'art. 45 T.F.U.E., [devono] considerarsi recepite nell'ordinamento interno, nell'ambito del quale il diritto dei cittadini dell'Unione di accedere a posti di lavoro nel nostro Paese è assistito dalla garanzia generale dell'art. 45 citato. (...) l'art. 51 Cost. va piuttosto letto in conformità all'art. 11, nel senso di consentire l'accesso dei cittadini degli Stati dell'Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 T.F.U.E., salvo gli eventuali limiti espressi o legittimamente ricavabili dal sistema». I giudici di Palazzo Spada hanno, poi, sottolineato che, in tema di ‘eccezione di nazionalità', ex art. 45 del TFUE, «trattandosi di eccezione rispetto a una delle libertà fondamentali del Trattato, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha serbato sul punto un atteggiamento di estremo rigore. In particolare, è stato stabilito che le eventuali misure nazionali volte ad affermare la c.d. ‘riserva di nazionalità' devono essere limitate a «quanto strettamente necessario» a salvaguardare gli interessi sottesi all'adozione di tale misura (in tal senso: CGUE, sent. 3 luglio 1986 in causa C-66/85, Lawrie Blum, nonché – più di recente – CGUE, sent. 10 settembre 2014 in causa C-270/13 – Iraklis Haralambidis). Un consolidato orientamento della Corte di giustizia ha altresì chiarito che gli Stati membri possono legittimamente invocare la riserva di nazionalità per i soli impieghi nell'amministrazione pubblica «che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell'esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato (...)» (in tal senso: CGUE, sent. 26 maggio 1982 in causa C-149/79 – Commissione c/ Regno del Belgio; id., sentenza 27 novembre 1991 in causa C-4/91 – Bleis c/ Ministère de l'Éducation Nationale; id., sentenza 2 luglio 1996 in causa C-290/94 – Commissione c/ Repubblica Ellenica). I criteri in questione sono stati richiamati – con valenza evidentemente ricognitiva – dalla Commissione europea attraverso la Comunicazione interpretativa dal titolo «Libera circolazione dei lavoratori – realizzarne pienamente i vantaggi e le potenzialità» (Documento COM (2002) 694 def. dell'11 dicembre 2002 [documento che si aggiunge al già citato documento del 1988 88/C 72/02]». Come sottolineato dalla decisione dell'Adunanza Plenaria del 2018, «la Corte di Giustizia ha poi chiarito che l'eventuale esercizio di taluni compiti di interesse pubblicistico non giustifica di per sé la c.d. ‘riserva di nazionalità. In particolare, nell'esaminare la normativa italiana in tema di rilascio della licenza per l'esercizio dell'attività di vigilanza privata e di guardia privata giurata (artt. 134 e 138 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – r.d. 18 giugno 1931, n. 773) la Corte, pur non negando che tali figure professionali svolgono attività di interesse pubblicistico, ha tuttavia negato che ciò sia sufficiente al fine di giustificare la ‘riserva di nazionalità' di cui al più volte richiamato paragrafo 4 dell'art. 45 del TFUE. Al riguardo la Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza secondo cui, al fine di richiamare in modo legittimo la sopra indicata eccezione in relazione a talune figure, è necessario che queste siano connotate da «una partecipazione diretta e specifica all'esercizio di pubblici poteri». La Corte ha inoltre esaminato la questione se, anche ad ammettere che talune figure professionali esercitino in maniera diretta e specifica taluni poteri di carattere pubblicistico, tale circostanza legittimi di per sé il ricorso alla c.d. ‘riserva di nazionalità', ovvero se – a tal fine – l'esercizio di tali poteri debba assumere un carattere del tutto prevalente in relazione al complesso delle funzioni e dei compiti demandati alla figura professionale di cui si discute. Come è stato da taluni osservato, la Corte di Giustizia si è dunque domandata se, al fine di applicare legittimamente la riserva di nazionalità debba trovare applicazione il c.d. ‘criterio del contagio' (secondo cui è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti), ovvero se debba trovare applicazione il diverso ‘criterio della prevalenza' (secondo cui è invece necessario che i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti). Ebbene, la Corte di giustizia ha risolto la questione nel secondo dei sensi richiamati. In particolare, con la sentenza 10 settembre 2014 in causa C-270/13 – Iraklis Haralambidis la Corte di giustizia, pur non negando che talune delle funzioni demandate ex lege al Presidente di un'Autorità portuale italiana comportino l'adozione di provvedimenti di carattere coattivo intesi alla tutela degli interessi generali dello Stato (e che quindi rientrino – a rigore – nell'area di possibile esenzione propria della c.d. ‘riserva di nazionalità'), ha nondimeno escluso che tale circostanza legittimi ex se l'attivazione di tale riserva». Secondo la Corte, in particolare, «il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d'imperio (...). È necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività». Quindi, non sussiste alcun puntuale «conforto testuale o sistematico per la tesi secondo cui tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato (art. 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. 174, cit.) sarebbero qualificabili sempre e comunque come posti con funzioni di vertice amministrativo e implicherebbero l'esercizio prevalente di funzioni di stampo autoritativo. Giova al riguardo richiamare l'art. 2 del medesimo decreto il quale, con previsione ‘di chiusura' evidentemente compatibile con l'ordinamento UE, stabilisce che qualunque posizione lavorativa (di livello dirigenziale o meno) la quale comporti l'elaborazione, la decisione e l'esecuzione di «provvedimenti autorizzativi e coercitivi» comporta ex se il vincolo della nazionalità. Al contrario, tale disposizione non può certamente essere intesa (a meno di non incorrere in un evidente ‘salto logico') nel senso che tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato siano – per una sorta di qualità intrinseca – caratterizzati di per sé da speciali connotazioni pubblicistiche e autoritative e che sia per ciò stesso loro riferibile la riserva di nazionalità». Sulla scia della esaminata decisione dell'Adunanza Plenaria, si segnala Trib. Milano sez. lav., n. 3314/2018, che ha dichiarato discriminatoria la previsione del requisito della cittadinanza italiana per la partecipazione a concorso per funzionario «mediatore culturale» nei ruoli dell'Amministrazione penitenziaria, indetto dal Ministero della giustizia. I giudici meneghini sono stati chiamati a pronunciarsi sull'art. 1, lett. d), del d.P.C.M. n. 174/1994, che esclude espressamente la possibilità di accesso senza il requisito della cittadinanza italiana in relazione a taluni comparti amministrativi: invero, «la disposizione regolamentare in commento confligge con la stessa normativa interna primaria ed in particolare il già citato art. 38 d.lgs. n. 165/01. Quest'ultimo non contiene alcuna norma che consenta di ritenere lecita l'esclusione dei cittadini comunitari in relazione ad impieghi presso interi comparti delle pubbliche amministrazioni. Ciò è reso assolutamente evidente dal fatto che il comma 2 di tale disposizione (che rappresenta deroga al principio generale della libertà di accesso salvo i casi in cui l'impiego comporta esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero la tutela interesse nazionale) legittima l'intervento regolamentare avendo riguardo alla individuazione di posti e funzioni per i quali non possa prescindersi dalla cittadinanza italiana. La nozione di posti lascia chiaramente intendere la necessità di una loro specifica individuazione all'interno dell'organico di ogni singola amministrazione laddove quella di funzioni è chiaramente indirizzata alla individuazione di specifici ruoli e compiti assegnati nell'ambito di tale organizzazione. Pertanto, è lo stesso legislatore nazionale ad avere escluso che vi possano essere interi comparti amministrativi che per ciò solo possano precludere l'accesso a chi sia privo della cittadinanza italiana. [...] Di conseguenza, resta scolpito il principio per cui l'accesso alla pubblica amministrazione di cittadini comunitari debba essere valutato avendo riguardo ai compiti ed alle funzioni che si andrebbero a disimpegnare» (cfr. anche Trib. Roma II, n. 798/2019). BibliografiaAlbanese, L'accesso degli stranieri al lavoro nella pubblica amministrazione e l'adeguamento (solo giurisprudenziale) alla disciplina europea, in questionegiustizia.it, 2019; Quatraro, La partecipazione ai concorsi pubblici italiani dei cittadini stranieri (art. 45, par. 2, TFUE, art. 38, d. lgs. n. 165/2001, D.P.C.M. n. 174/1994), in ildirittoamministrativo.it. |