Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 4 - Indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilità ( Art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993 , come sostituito prima dall' art. 2 del d.lgs. n. 470 del 1993 , poi dall' art. 3 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall' art. 1 del d.lgs. n. 387 del 1998 )Indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilità (Art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 2 del d.lgs. n. 470 del 1993, poi dall'art. 3 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 1 del d.lgs. n. 387 del 1998) 1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni; f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato; g) gli altri atti indicati dal presente decreto. 2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. 3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. 4. Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro. A tali amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di diretta collaborazione, posti alle di rette dipendenze dell’organo di vertice dell’ente1. [1] Comma modificato dall'articolo 2, comma 632, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Vedi, anche, il comma 633 dello stesso articolo. InquadramentoL'articolo 4 del decreto n. 165 disciplina, nel segno della distinzione, il nuovo assetto dei rapporti fra organi politici e burocrati, che costituisce uno dei nodi centrali dell'intera riforma dell'apparato pubblico. La norma da corpo ad un nuovo modello di amministrazione in cui agli organi di vertice delle P.A. competono l'indirizzo politico-amministrativo e la verifica dei risultati dell'attività amministrativa (e quindi le scelte di fondo sugli indirizzi e sull'organizzazione di un ente) ed ai dirigenti i compiti più strettamente gestionali, con responsabilità per i relativi risultati. Va evidenziato come il principio dell'autonomia gestionale dei dirigenti rispetto alle funzioni di indirizzo politico, che comporta l'esercizio di ampi poteri nell'organizzazione e nell'impiego delle risorse finanziarie ed umane, riceva una copertura costituzionale degli stessi artt. 97 e 98 della Costituzione. Risulta cioè coerente con l'assetto delle responsabilità delineato dalla Carta costituzionale, che, in buona sostanza, assegna agli organi di governo la responsabilità politica di tradurre in obiettivi i programmi politici approvati dagli elettori ed ai dirigenti la responsabilità di attuarli. Il principio di distinzione costituisce, in ultima analisi, una risposta equilibrata alla soluzione del problema di costruire un assetto di rapporti che garantisca la compresenza nella complessa organizzazione amministrativa di due diversi attori, l'organo politico e quello burocratico-amministrativo. Detto altrimenti, la distinzione ha lo scopo di introdurre una regola organizzativa per rendere effettivo il principio costituzionale di imparzialità e serve a distinguere competenze e responsabilità giuridiche all'interno della P.A. Il rapporto tra politica e amministrazione è un «problema antico», che nasce come tentativo di porre rimedio ad una situazione di completa ingerenza della sfera politica, tipica dell'esperienza autoritaria degli Stati assoluti. Solo con l'affermarsi del principio della «rule of law» e della supremazia del potere legislativo su quello esecutivo, in seno alla teorizzazione della democrazia, si delineano i primi tratti distintivi della sfera amministrativa, caratterizzata da un rapporto di dipendenza organica dal governo e funzionale dal parlamento. In dottrina, si inizia così a riflettere sulla distinzione tra politica e amministrazione utilizzando spesso la formula «dichotomy». Difatti, l'espressione «Politics-Administration dichotomy» compare nella letteratura americana a partire dal 1940, in particolare nel The study of Administration di Woodrow Wilsoni» (Ridolfi, 97). Il principio si è modernamente evoluto per legittimare in termini democratici la dimensione amministrativa e garantirne anche la professionalità e l'autonomia tecnico gestionale. Essa è apparsa funzionale ad assicurare un profilo neutrale alla burocrazia e decisioni improntate alla razionalità manageriale. I rapporti tra politici e dirigenti dalla gerarchia alla distinzione funzionale.Il modello che ha improntato, per lungo periodo, le relazioni tra alta burocrazia e politica era ispirato alla formula della gerarchia. Nell'ordinamento liberale post –unitario e nel regime fascista, infatti, l'amministrazione è considerata mero braccio esecutivo del governo e del potere politico. L'universo amministrativo è dominato dal principio gerarchico, che comporta la responsabilità unica e piena del ministro per l'attività dell'amministrazione, nella sua duplice veste di vertice politico e vertice amministrativo. Le figure burocratiche di vertice restano prive di competenze originarie ed esclusive in ordine agli atti a carattere discrezionale, svolgendo un ruolo di coadiuvazione, con possibilità di specifiche deleghe da parte del ministro. La Costituzione repubblicana non ha intaccato il principio tradizionale della responsabilità dei ministeri per gli atti dei loro dicasteri, cui da veste l'art. 95, comma 2, Cost.. Il costituente appare, però, sconfessare una interpretazione meccanica di detta disposizione. Il quadro letterale e sistematico delle disposizioni costituzionali in tema di pubblica amministrazione prospetta, infatti, i pubblici uffici come un ordine autonomo, sia pure subordinato al potere di origine elettiva, posto dall'ordinamento costituzionale quale espressione tecnica, accanto a quella politica, del governo dello Stato. Solo apparente è l'antinomia tra il secondo comma dell'art. 95 Cost., che afferma l'individuale responsabilità dei ministri per gli atti dei loro dicasteri, ed il secondo comma dell'art. 97, che, enunciando il principio della necessaria determinazione nell'ordinamento dei pubblici uffici delle sfere di competenza e delle attribuzioni proprie dei funzionari, muove nella direzione del riconoscimento a favore di questi ultimi di una sostanziale sfera di autonomia gestionale e, quindi, di responsabilità. Il primo comma dell'art. 97, Cost., infatti, rimarca come buon andamento e imparzialità rappresentino principi essenziali cui deve uniformarsi l'organizzazione dei pubblici uffici, postulando conseguentemente l'idea che alla sfera politica siano rimessi poteri di indirizzo e di controllo dell'azione di gestione, svolta dall'amministrazione in posizione di subordinazione funzionale, ma con sufficiente indipendenza rispetto agli organi politici. L'assunto è che la competenza dell'organo politico contenga, in sé, un rischio di parzialità delle scelte, cui è possibile porre rimedio stabilendo che esse debbano di regola esprimersi mediante atti dal contenuto generale, adottati, cioè, senza conoscere le singole situazioni sulle quali finiranno per incidere e i soggetti titolari degli interessi concreti che, di volta in volta, ne risulteranno avvantaggiati o pregiudicati. Nel nuovo ordine costituzionale, allora, il dogma della responsabilità ministeriale va letto come affermazione della responsabilità politica complessiva del ministro per quanto concerne le scelte di fondo e la determinazione degli obiettivi da raggiungere dall'amministrazione. Più specificamente, si tratta di una responsabilità per lo svolgimento delle attribuzioni di direzione complessiva: conferimento degli incarichi ai vertici dirigenziali, atti di indirizzo, reazione alla loro eventuale inesecuzione, controllo sulla attività dell'amministrazione, ecc.. Il perseguimento degli obiettivi dell'efficienza gestionale e della neutralità politico-ideologica dell'azione dell'apparato amministrativo, postula, invece, il trasferimento ai funzionari di vertice, in posizione di sufficiente indipendenza rispetto agli organi politici, delle competenze attinenti ai singoli atti (anche discrezionali) di gestione. L'art. 95 della Costituzione finisce, così, per esprimere soltanto la garanzia della continuità tra politica ed amministrazione, senza pregiudicare l'attribuzione di autonomi poteri e responsabilità ai vertici burocratici. Per tradurre tali indicazioni del costituente in diritto positivo si dovrà aspettate un quarantennio, passando per la sostanziale battuta a vuoto rappresentata dal d.P.R. n. 748/1972, atto formale di nascita della dirigenza pubblica. Solo le riforme degli anni ‘90 disegnano, per la prima volta, un ruolo e una figura dirigenziale dotata di una cospicua sfera di autonomia operativo-decisionale e, per conseguenza, destinata ad accollarsi una marcata responsabilità in relazione all'efficienza ed alla produttività del settore di pertinenza. Eliminato il presupposto gerarchico, il nuovo assetto organizzativo prevede, due blocchi di competenze, riservate ed esclusive, caratterizzate dalla reciproca infungibilità: l'uno afferente l'attività di indirizzo, definizione degli obiettivi e controllo, propria degli organi politici di governo; l'altro la sfera della gestione amministrativa (compresi i provvedimenti amministrativi autoritativi), riportata alla competenza dirigenziale. Il rapporto fra organi politici di governo e dirigenza si evolve più compiutamente in dipendenza funzionale del secondo, espressione di professionalità tecnica, dal primo, titolare della rappresentanza popolare e della legittimazione politica. Il vertice politico non si sovrappone più autoritariamente, ma, in posizione prevalente, guida, controlla e giudica il proprio apparato amministrativo nella sua azione distinta e indipendente (Gardini, 44; Cerbo, 479). La consacrazione, in capo ai dirigenti, della competenza diretta alla manifestazione all'esterno della volontà dell'ente di pertinenza, ne sottolinea la natura di veri organi (burocratici) dell'ente, demandati alla concreta attuazione degli indirizzi, dei programmi e degli obiettivi che promanano dagli organi di governo. Ciò conferma il radicamento nelle figure di vertice dell'apparato burocratico del potere discrezionale di provvedere, sul piano della gestione, in ordine al perseguimento dell'interesse pubblico affidato alla competenza dell'ente di riferimento. Contenuti del principio di distinzione politica/amministrazione.Il principio di distinzione tra i poteri spettanti ai titolari degli organi di governo degli enti e le competenze attribuite alla dirigenza è stato inaugurato dalla l. n. 142/1990 con riferimento all'ordinamento degli enti locali (cfr. ora gli artt. 107-111 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267). Esteso dal d.lgs. n. 29/1993 al complesso delle pubbliche amministrazioni, è stato considerato dalla giurisprudenza di diretta derivazione ed attuazione dai principi fondamentali, in tema di assetto della P.A., del buon andamento e dell'imparzialità amministrativa. Si veda Corte cost. n. 81/2013: «la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell'art. 97 Cost. L'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell'identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione» (così anche Corte cost. n. 304/2010). La più compiuta espressione del principio in oggetto si rinviene nel combinato disposto degli artt. 4 e 14 del d.lgs. n. 165/2001. Tali norme riservano agli organi di governo le sole funzioni di indirizzo politico-amministrativo e controllo (senza, però, elencare esaustivamente gli atti in cui tali funzioni si estrinsecano). Al contempo, sono enunciate le attribuzioni della dirigenza, cui è demandato, in via tendenzialmente esclusiva, l'espletamento delle funzioni gestionali e di amministrazione puntuale, quindi l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, con il contenuto decisionale e l'autonomia organizzativa necessaria a garantire l'operatività degli uffici e la realizzazione degli obiettivi. L'espresso riferimento testuale rinvia alla «gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo» (cfr. il comma 2 dell'art. 4). Ulteriore precisazione è offerta dalla disposizione recata dal comma 4 dell'art. 4 del d.lgs. n. 165, relativa alle amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non sono direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica (ad es. le Università). È in questa sede che il principio in commento trova la sua formulazione quale distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro. In tali amministrazioni, infatti, l'esigenza base risulta quella di assicurare momenti decisionali diversi in tema di programmazione e di gestione. Dopo la novella recata al comma 4 in commento dal comma 632 dell'art. 2, l. n. 244/2007, a tali amministrazioni «è fatto divieto di istituire uffici di diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze dell'organo di vertice dell'ente». La distinzione tra i due termini, politica e amministrazione, è ulteriormente sviluppata dall'art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001, che definisce la sfera di attività organizzatoria e gestionale riservata ai dirigenti, da esercitarsi con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Nell'attività di amministrazione, i dirigenti possono agire mediante poteri pubblicistici (come quelli provvedimentali) e, parallelamente, viene loro riconosciuta dalla legge una soggettività giuridica specifica e ulteriore, disciplinata da quella particolare espressione del diritto privato che è il diritto del lavoro. Il rapporto contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro (leggi dirigente) scaturisce e si svolge dopo che l'imprenditore (gli organi di vertice) ha individuato le diverse opzioni per indirizzare le attività – sulla base di disponibilità finanziarie predeterminate – nonché i modelli gestionali all'interno dei quali muoversi (si veda, per le P.A., agli atti di macro organizzazione in regime di diritto pubblico, comprensivi degli atti di indirizzo elencati dagli artt. 4, comma 1, e 14, comma 1, d.lgs. n. 165/2001). Il termine distinzione esprime meglio la natura della relazione politica-amministrazione, che non è concepita come rigida separazione, sussistendo un continuum logico tra i due momenti. Il rapporto tra dirigenti e organi di vertice non è improntato a reciproca impermeabilità ma è calato in un processo circolare di formazione delle decisioni. La metafora che appare più appropriata è, quindi, quella di due cerchi concentrici, interagenti fra di loro. Non a caso i dirigenti a capo delle maggiori unità operative sono espressamente chiamati a svolgere anche un'attività istruttoria e di collaborazione rispetto alla definizione di indirizzi e obiettivi da parte dell'autorità politica (concorrendo al policy making; cfr. anche l'art. 16 del d.lgs. n. 165/2001). La configurazione degli organi di estrazione politica e di quelli che sono espressione di professionalità tecnica quali parti latu sensu contrapposte interrompe una lunga tradizione di sovrapposizione e commistione tra i due ruoli, ponendo le basi per lo sviluppo di un nuovo modello di amministrazione (Dente, 81). È tale contrapposizione che può innescare e alimentare quel virtuoso circolo dialettico-negoziale necessario per far funzionare al meglio il meccanismo della programmazione seguita dalla gestione e dalla fase finale del controllo. È una prospettiva, al tempo stesso dualistica e unitaria, di distinzione/integrazione, diretta a far scaturire obiettivi effettivamente realizzabili, ancorché coerenti con il programma dell'autorità politica. Ciò corrisponde alla separazione tra le ragioni di chi rappresenta la domanda di servizi (e indica, quindi, quali devono essere gli obiettivi da realizzare), e chi invece eroga gli stessi e manifesta legittimamente tutte le difficoltà e i problemi dell'erogatore. Il principio di distinzione dei poteri/prerogative (e non certo di loro separazione, di fatto impossibile all'interno di sistemi complessi) si basa su una logica di direzione per obiettivi, la quale, per essere adottata correttamente, necessità di idonee condizioni organizzative, di sistemi di programmazione e controllo e di sistemi di valutazione dei risultati formalizzati e sofisticati. La cornice è quella del superamento della configurazione tradizional/burocratica delle strutture e dei meccanismi di funzionamento della P.A. (con i dirigenti come custodi della legittima esecuzione degli atti amministrativi), a vantaggio di un modello di dirigenza più manageriale (i dirigenti come gestori delle risorse dell'amministrazione e come responsabili dei risultati), anche attraverso la creazione di veri legami tra missioni, bilanci e risultati. Secondo la nuova disciplina, divengono irrilevanti le soglie di spesa, la natura discrezionale o vincolata del potere, il carattere erogativo o regolativo, autoritativo o consensuale dei provvedimenti: l'unico criterio di riparto, superando gli equilibrismi del d.P.R. n. 748 del 1972, consiste nella natura gestionale o di indirizzo dell'atto trattato (Cimino, 30). La progressiva maturazione – specie dopo la vasta novella operata dal d.lgs. n. 80/1998 – del principio della distinzione politica/amministrazione ha cancellato gli ultimi resti della precedente ricostruzione del rapporto tra vertici politici e dirigenti in termini di gerarchia. Dalla gerarchia derivava la sostanziale fungibilità della competenza dei politici rispetto a quella dei dirigenti: il gerarchicamente sopraordinato, infatti, ha, di regola, una competenza che è comprensiva anche delle competenze dei subordinati, oltre a poteri di ordine, controllo e coordinamento (secondo appunto il criterio della fungibilità o comprensività della competenza dei primi rispetto ai secondi). Alla antecedente formula organizzatoria se ne è sostituita una pienamente ispirata alla direzione, nel segno della differenziazione funzionale dei due ordini (amministratori politici e burocrati). Agli organi politici, titolari della rappresentanza popolare, sono ora inibiti poteri di gestione diretta e poteri di ordine nei confronti dei dirigenti, residuando solo poteri di indirizzo e direttiva, di verifica e di controllo, di attivazione e contestazione della responsabilità dirigenziale. Non a caso scompare dalla normativa del 1993 la menzione dei provvedimenti gerarchici tipici dell'autorità ministeriale: annullamento, revoca, riforma. In tale contesto, i controlli interni e la responsabilità dirigenziale hanno la funzione di assicurare che l'attività dei dirigenti sia nel suo complesso finalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico e tesa al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Ciò vuole dire che il vincolo dell'attività dei dirigenti pubblici agli scopi di interesse pubblico, che non emerge giuridicamente negli atti organizzativi di diritto privato, viene in rilievo, invece, al momento della valutazione dei risultati dell'attività e si concretizza nella corrispondente responsabilità dei dirigenti, che si ricollega ai risultati complessivi prodotti dalla organizzazione cui il dirigente è preposto. Il legislatore offre una elencazione degli atti costituenti prerogativa dell'organo politico – che, in considerazione dell'inciso «spettano, in particolare» di cui al primo comma dell'art. 4 del d.lgs. n. 165, non può comunque dirsi preclusiva di altri compiti stabiliti da fonti ulteriori. Tra essi: a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni; f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato; g) gli altri atti indicati dal decreto 165. Partendo dal carattere non esaustivo di tale elencazione, l'attenzione di una parte degli interpreti ha finito per polarizzarsi sulla determinazione delle ipotesi di discrezionalità amministrativa tanto ampia da superare la soglia dell'interesse politico (spesso, tuttavia, apoditticamente affermato). Tale orientamento ha finito per riconsegnare agli organi politici specifici atti di amministrazione concreta, argomentando che alcuni provvedimenti presentano, comunque, una amplissima latitudine discrezionale, tale da elevarli al rango di scelta discrezionale di fondo, sostanzialmente assimilabile a quella di un atto di indirizzo politico-amministrativo. Dal punto di vista testuale, peraltro, il comma 1 dell'art. 4 già evidenzia l'attribuzione agli organi di vertice l'adozione di «altri atti» rientranti nello svolgimento delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, diversi da quelli con i quali vengono definiti obiettivi e programmi. Sul punto si è espresso Cons. St. Ad. gen., n. 7/1999. Nela pronuncia richiamata viene osservato che la funzione di indirizzo politico-amministrativo è un genus del quale fanno parte species non a numero chiuso. Il vero problema – in questa prospettiva – è quello di individuare, nell'ampio novero di provvedimenti non meramente gestionali, quegli atti i quali attengono alle scelte di fondo dell'azione amministrativa discrezionale. Accanto alla latitudine della discrezionalità normativamente commessa (da utilizzare solo come extrema ratio), il principale criterio per individuare questi atti dovrebbe essere quello di vagliare analiticamente le norme di settore applicabili al caso concreto, le quali spesso – direttamente o indirettamente – forniscono indicazioni per la soluzione. In base a queste argomentazioni, il Consiglio di Stato ha confermato la competenza del ministro dell'Interno a provvedere alla rimozione dei componenti di consigli e giunte degli enti locali e ha riservato allo stesso ministro l'adozione dei provvedimenti in tema di cittadinanza, fondati su valutazioni discrezionali attinenti alla sicurezza della Repubblica, nonché l'autorizzazione alla consultazione prima dei termini dei documenti riservati contenuti negli Archivi di Stato. Il Consiglio di Stato ha, altresì, affermato che sopravvive il potere del ministro di decidere i ricorsi gerarchici impropri, laddove previsto da norme specifiche (in quanto la specialità del rimedio prevale sulla definitività, predicata dalla riforma in via generale, degli atti dirigenziali). Il d.lgs. n. 165/2001 contiene due ulteriori disposizioni tese, reciprocamente, a presidiare, in qualche modo, il tracciato della linea di demarcazione tra indirizzo/controllo e attuazione/gestione. La prima, contenuta nel comma 3 dell'art. 4, sancisce che le attribuzioni proprie dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. Un'ipotesi di deroga legislativa al principio di distinzione politica/amministrazione è stata realizzata per gli enti locali con meno di 5.000 abitanti. Ad operarla l'art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 (finanziaria 2001, come modificata dall'art. 29, comma 4, l. n. 448/2001; sulla sua legitttimità cfr. Corte cost. n. 17/2004). La seconda disposizione, dettata dall'art. 70, comma 6, precisa che, a decorrere dal 23 aprile 1998, le disposizioni che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi (di cui all'articolo 4, comma 2), si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti. Si tratta di una norma di chiusura, finalizzata a rendere immediatamente operativa ed effettiva la prevista attribuzione di poteri alla dirigenza, con un effetto novante che trasferisce alla competenza dei dirigenti gli atti di gestione prima affidati – dalla legislazione di settore – agli organi di governo (cfr. Cons. St. VI, n. 80/2004). È stata così superata l'applicazione conservativa del principio della lex specialis, propugnata da una parte di dottrina e giurisprudenza prima delle novelle del 1998, in assenza di una chiara disposizione di ghigliottina nel d.lgs. n. 29 del 1993: il decreto non aveva esplicitamente abrogato (né nominativamente – e sarebbe stato impossibile – né collettivamente) le disposizioni normative previgenti che, a vario titolo, attribuivano espressamente ad organi politici funzioni di natura gestionale. Per queste fattispecie (un vero profluvio) si avanzava un'interpretazione ultrattiva. I decreti c.d. di seconda privatizzazione del pubblico impiego (d.lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998) hanno così introdotto specifici presidi a tutela delle nuove competenze dirigenziali: sono soppressi i residui poteri straordinari d'intervento ministeriale, salva la sola nomina di un commissario ad acta in caso di inerzia; sono riassegnate alla dirigenza, con norma interpretativa, tutte le competenze gestionali che disposizioni di settore ancora riservavano agli organi di governo; vengono introdotte elencazioni specifiche delle competenze dirigenziali e ministeriali, integrando le formule generali adottate in precedenza. Immediato profilo pratico del complesso di norme su esposto è quello di rendere possibile, per gli interessati, invocare l'illegittimità del provvedimento amministrativo per incompetenza dell'organo politico nei confronti dell'elemento dirigenziale (o viceversa). Da ciò deriva che l'indagine sulla legittimità delle competenze deve risultare più accurata, nonché orientata dal basso verso l'alto. La violazione dell'obbligo del rispetto pieno della distinzione tra funzioni politiche e gestionali può, inoltre, consentire agli stessi dirigenti di agire in giudizio a tutela delle proprie attribuzioni: un provvedimento di avocazione di un atto dirigenziale, l'esercizio di una competenza dirigenziale o anche una direttiva eccessivamente specifica e di dettaglio, o improntata a circoscrivere sproporzionatamente la discrezionalità gestionale, possono essere provvedimenti lesivi della posizione d'autonomia dei dirigenti. Gli strumenti di collegamento tra organi politici e burocratici.All'interno del modello di distinzione politica/amministrazione, quattro sono i principali canali volti ad assicurare il collegamento diretto e permanente tra organi politici e vertici burocratici: a) i meccanismi di connessione tra indirizzo politico-amministrativo e bilancio dell'amministrazione; b) gli atti ministeriali di direttiva; c) il procedimento di attribuzione degli incarichi dirigenziali generali e apicali; d) il sistema dei controlli interni. Particolarmente acceso è risultato il dibattito sulla valutazione effettuata dall'organo di indirizzo politico al momento della nomina dei dirigenti di più alto livello. Si tratta di un meccanismo di controllo non più riferito puntualmente ai singoli atti ma ai risultati complessivi della gestione e alle attitudini e professionalità acclarate dai dirigenti: l'organo politico, infatti, esprime un giudizio sullo svolgimento – potenziale o già effettuato – dell'attività di direzione considerata nel suo complesso, realizzando un controllo di tipo finalistico sulle funzioni affidate ai dirigenti. L'indicazione fiduciaria ha, qui, il significato di scelta della persona più adatta cui attribuire l'esercizio del potere discrezionale per il raggiungimento di determinati obiettivi di interesse pubblico. Quindi, il «rapporto fiduciario» sotteso alla nomina dei dirigenti di maggior livello non può intendersi come affinità di idee personali o politiche, o generica compatibilità, ma deve consistere, per quanto possibile, nella ricerca di dati obiettivi, con riferimento alla probabilità di svolgimento ottimale di mansioni pubbliche (ex multis, Cons. St. IV, n. 120/1999). Una volta esaurita la fase della nomina, il dirigente viene inserito a pieno titolo in un sistema normativo autonomo e indipendente dall'opzione fiduciaria iniziale (Endrici, 25). Facile osservare come la durata minima e massima degli incarichi (stabilita per legge) rappresenti un fattore cruciale per l'autonomia della dirigenza. Termini di durata eccessivamente ridotti – che consentano il ripetersi a distanza ravvicinata dalla valutazione dell'organo politico in ordine alla attribuzione dell'incarico – rischiano di mettere la dirigenza in una condizione istituzionale caratterizzata da debolezza, dipendenza e precarietà (potenzialmente idonea ad innescare un effetto di fidelizzazione rispetto al potere politico). Con il pericolo, per questa via, di travolgere le altre norme che sanciscono positivamente il principio di distinzione politica-amministrazione (Cassese, 231; Leonardi, 1223). Significativamente, il legislatore ha mostrato più di una oscillazione e l'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 (dedicato agli Incarichi di funzioni dirigenziali) è stato più volte novellato al riguardo. Al tema si ricollega anche l'istituto del cd. spoils system all'italiana, il sistema di decadenze, al subentro di un nuovo esecutivo, introdotto, negli anni '90, per gli incarichi dirigenziali apicali delle amministrazioni statali, che svolgono le funzioni più strettamente connesse con gli indirizzi politico-amministrativi espressi dagli organi politici (cfr. il comma 8 dell'art. 19 del decreto n. 165). Alto aspetto di rilevo è stato affrontato dalla Corte dei Conti, secondo cui «le direttive generali emanate dal Ministro per lo svolgimento dell'azione amministrativa, al fine di risultare coerenti con la ratio che ispira il sistema di cui al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, debbono essere dirette a svolgere nei confronti dei dirigenti una funzione di alta direzione, di indirizzo e di coordinamento, nonché ad assicurare gli strumenti per la verifica della rispondenza dei risultati della gestione alle direttive stesse, senza vincolare le scelte amministrative, tecniche e gestionali degli apparati, rientranti nell'autonomia professionale dei funzionari e nella loro sfera di responsabilità; pertanto, le direttive debbono avere carattere di generalità, di tempestività e debbono essere espresse in forma scritta, per cui è da escludere che possano riguardare singoli affari ovvero essere impartite di volta in volta nelle vie brevi ed in modo episodico». Col conseguente divieto, per i politici, di emanare indirizzi che comprimano l'attività gestionale riducendola a mera esecuzione (C. conti, sez. contr. St., n. 167/1995).BibliografiaCassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Il lavoro nelle p.a., 2003, 2, 231; Cerbo, Lo status del dirigente e l'imparzialità della pubblica amministrazione, in Riv. it. dir. lav., 2002, 3, 479; Cimino, I profili funzionali: l'indirizzo e la gestione, in Battini, Fiorentino (a cura di), Venti anni di «politica e amministrazione» in Italia, in sna.gov.it, 2014; Dente, Verso una dirigenza pubblica responsabile: il nodo della riforma organizzativa, in Il lavoro nelle p.a., 2001, 1, 81; Endrici, Il potere di scelta. Le nomine tra politica e amministrazione, Bologna, 2000; Gardini, Imparzialità amministrativa e nuovo ruolo della dirigenza pubblica, in Diritto amm., 2001, 1, 44; Leonardi, Il principio della separazione della politica dall'amministrazione: alla ricerca del confine tra realtà e utopia, in Foro amm. –Tar, 2002, 4, 1223; Ridolfi, La distinzione tra politica e amministrazione nella struttura e nell'organizzazione della P.A., in rivistaitalianadipublicmanagement.it, 2919. |