Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 11 - Organi amministrativi e di controllo delle societa' a controllo pubblico

Andrea Zoppini

Organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico

 

1. Salvi gli ulteriori requisiti previsti dallo statuto, i componenti degli organi amministrativi e di controllo di società a controllo pubblico devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Resta fermo quanto disposto dall'articolo 12 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, e dall'articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 1351.

2. L'organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, di norma, da un amministratore unico.

3. L'assemblea della società a controllo pubblico, con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della sezione VI-bis del capo V del titolo V del libro V del codice civile. La delibera è trasmessa alla sezione della Corte dei conti competente ai sensi dell'articolo 5, comma 4, e alla struttura di cui all'articolo 152.

4. Nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le amministrazioni assicurano il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno. Qualora la società abbia un organo amministrativo collegiale, lo statuto prevede che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge 12 luglio 2011, n. 120.

5. Quando la società a controllo pubblico sia costituita in forma di società a responsabilità limitata, non è consentito, in deroga all'articolo 2475, terzo comma, del codice civile, prevedere che l'amministrazione sia affidata, disgiuntamente o congiuntamente, a due o più soci.

6. Con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze [, sentita la Conferenza unificata per i profili di competenza], previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, per le società a controllo pubblico sono definiti indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle suddette società. Per le società controllate dalle regioni o dagli enti locali, il decreto di cui al primo periodo è adottato previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Per ciascuna fascia è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico. Le stesse società verificano il rispetto del limite massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo dei propri amministratori e dipendenti fissato con il suddetto decreto. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto di cui al presente comma. Il decreto stabilisce altresì i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell'esercizio precedente. In caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta3.

7. Fino all'emanazione del decreto di cui al comma 6 restano in vigore le disposizioni di cui all'articolo 4, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni, e al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 24 dicembre 2013, n. 166.

8. Gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti. Qualora siano dipendenti della società controllante, in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 6, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi alla società di appartenenza. Dall'applicazione del presente comma non possono derivare aumenti della spesa complessiva per i compensi degli amministratori.

9. Gli statuti delle società a controllo pubblico prevedono altresì:

a) l'attribuzione da parte del consiglio di amministrazione di deleghe di gestione a un solo amministratore, salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove preventivamente autorizzata dall'assemblea;

b) l'esclusione della carica di vicepresidente o la previsione che la carica stessa sia attribuita esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza riconoscimento di compensi aggiuntivi;

c) il divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell'attività, e il divieto di corrispondere trattamenti di fine mandato, ai componenti degli organi sociali;

d) il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società.

10. E' comunque fatto divieto di corrispondere ai dirigenti delle società a controllo pubblico indennità o trattamenti di fine mandato diversi o ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva ovvero di stipulare patti o accordi di non concorrenza, anche ai sensi dell'articolo 2125 del codice civile.

11. Nelle società di cui amministrazioni pubbliche detengono il controllo indiretto, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere continuativo ovvero che la nomina risponda all'esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante o di favorire l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento.

12. Coloro che hanno un rapporto di lavoro con società a controllo pubblico e che sono al tempo stesso componenti degli organi di amministrazione della società con cui è instaurato il rapporto di lavoro, sono collocati in aspettativa non retribuita e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza, salvo che rinuncino ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori.

13. Le società a controllo pubblico limitano ai casi previsti dalla legge la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta. Per il caso di loro costituzione, non può comunque essere riconosciuta ai componenti di tali comitati alcuna remunerazione complessivamente superiore al 30 per cento del compenso deliberato per la carica di componente dell'organo amministrativo e comunque proporzionata alla qualificazione professionale e all'entità dell'impegno richiesto.

14. Restano ferme le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39.

15. Agli organi di amministrazione e controllo delle società in house si applica il decreto-legge 16 maggio 1994, n. 293, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 4444.

16. Nelle società a partecipazione pubblica ma non a controllo pubblico, l'amministrazione pubblica che sia titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento del capitale propone agli organi societari l'introduzione di misure analoghe a quelle di cui ai commi 6 e 10.

[4] Per l'applicazione del presente comma vedi, l'articolo 1, comma 4-duodecies, del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni dalla Legge 27 novembre 2020, n. 159.

Inquadramento

L'art. 11 del d.lgs. n. 175/2016 è dedicato alla disciplina degli organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico. In particolare, l'articolo in commento detta una serie di previsioni riferite: i) ai modelli di governance che le società a controllo pubblico possono scegliere e applicare (v. infra § 2); ii) ai requisiti soggettivi richiesti per far parte degli organi amministrativi e di controllo (v. infra § 3); iii) ai limiti di compensi e alle indennità che possono essere corrisposti ai componenti degli organi amministrativi e di controllo (v. infra § 4); nonché alla durata delle cariche, alla proroga e al rinnovo delle stesse (v. infra § 5).

L'art. 11 del TUSP, come meglio si dirà nel prosieguo, pur richiamando plurime disposizioni del codice civile, deroga alla disciplina generale di diritto comune, laddove: i) individua specifici criteri soggettivi da tenere in considerazione per la nomina degli amministratori e dei membri degli organi di controllo; ii) introduce stringenti previsioni in tema di numero di amministratori limitandone l'autonomia statutaria; e iii) razionalizza la spesa imponendo tetti alle retribuzioni sulla base di criteri oggettivi. Ciò in coerenza con i principi generali espressi dall'art. 1, comma 2 del medesimo Testo Unico, in quanto le previsioni recate dal medesimo art. 11 sono anch'esse finalizzate sia all'efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, sia alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.

Ambito soggettivo di applicazione.

Le disposizioni di cui all'art. 11 del TUSP si applicano alle società a controllo pubblico, così come definite all'art. 2, lett. m) del TUSP. Tuttavia, il medesimo art. 11 prevede, al comma 16, la possibilità che nelle «società a partecipazione pubblica ma non a controllo pubblico» la pubblica amministrazione titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento del capitale possa proporre agli organi societari l'introduzione di misure analoghe a quelle previste nella norma in commento, e segnatamente: i) quelle di cui al comma 6, in tema di limite dei compensi massimi per i membri degli organi di amministrazione e controllo; ii) quelle di cui al comma 10, concernenti il divieto del riconoscimento di bonus di fine mandato ai dirigenti o il divieto di stipula di patti o accordi di non concorrenza.

Le disposizioni di cui all'art. 11 del TUSPnon trovano, invece, applicazione per le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati. Poiché, ai sensi dell'art. 1, comma 5, del d.lgs. n. 175/2016, «le disposizioni del presente decreto si applicano, solo se espressamente previsto, alle società quotate, come definite dall'art. 2, comma 1, lett. p), nonché alle società da esse controllate», e nessun espresso richiamo è operato alle società quotate dall'art. 11 del TUSP.

I modelli di governance.

L'art. 11, comma 2, del TUSP prevede anzitutto che l'organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, «di norma», da un amministratore unico. La disposizione in esame persegue chiaramente la finalità di semplificazione della composizione dell'organo amministrativo e di contenimento dei costi.

La norma esprime un principio generale, che non riveste però un carattere assoluto. L'opinione appena espressa trova supporto nell'inciso «di norma», il quale ammette la possibilità di affidare la gestione societaria a un consiglio di amministrazione, come di regola accade per le società di maggiore dimensione: si pensi, ad esempio, alle società a partecipazione pubblica controllate direttamente e/o indirettamente dallo Stato, nelle quali la complessità sul piano economico e organizzativo dell'attività svolta si riflette anche sulla gestione societaria e, quindi, sull'attività e sulle responsabilità proprie degli amministratori.

In ragione di ciò, il terzo comma dell'art. 11 ha previsto, in deroga al comma precedente, la possibilità per l'assemblea di deliberare: i) che la società venga amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri (c.d. modello tradizionale); ovvero ii) che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della Sezione VI-bis del Capo V del Titolo V del Libro V del codice civile, per tali intendendosi: il c.d. sistema dualistico, basato su un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza; e il c.d. sistema monistico, basato sul consiglio di amministrazione e un comitato per il controllo sulla gestione.

La regola generale di governance per le società in controllo pubblico, costituita dalla presenza dell'amministratore unico è, dunque, superabile, purché l'assemblea adotti una delibera motivata dalla quale si evincano sia le specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa, sia le esigenze di contenimento dei costi. In caso di difetto o di insufficienza della motivazione la delibera è annullabile previa impugnativa da parte del collegio sindacale, in quanto assunta in violazione di una norma di legge (Libertini, 8; Picardi, 345). La delibera dell'assemblea, inoltre, è trasmessa sia alla sezione della Corte dei conti competente, sia alla struttura del Ministero dell'economia e delle finanze, cui spetta il controllo e il monitoraggio sull'attuazione del TUSP ai sensi dell'art. 15 del medesimo.

Qualora l'assemblea intenda optare per uno dei sistemi c.d. alternativi di amministrazione e controllo – ove non previsto dallo statuto – è necessaria una modificazione statutaria adottata dall'assemblea straordinaria (Libertini, 8; Donativi, 663). Può ammettersi, però, anche una clausola statutaria che consenta in via generale l'opzione, ma in tal caso è necessario che anche la successiva delibera dell'assemblea ordinaria che esercita l'opzione sia adeguatamente motivata (Libertini, 8).

Quanto al numero dei componenti dell'organo amministrativo, l'articolo in esame ha espressamente limitato al massimo di cinque il numero dei componenti del consiglio di amministrazione per il sistema tradizionale, mentre nulla ha specificato rispetto al numero dei componenti nei sistemi c.d. alternativi. Il silenzio della legge ha sollevato un dibattito dottrinale. Secondo un primo orientamento, più in linea con il dato letterale, il limite numerico si applicherebbe soltanto in caso di adozione del sistema c.d. tradizionale, mentre non opererebbe nel caso di adozione dei sistemi alternativi (Torino, 303). Secondo una diversa interpretazione, invece, il limite si applicherebbe anche ai sistemi alternativi, e con specifico riferimento al sistema dualistico, si intenderebbe riferito separatamente a ciascuno dei due diversi organi, perché, altrimenti, verrebbe sottratto ogni spazio all'autonomia statutaria e la società potrebbe scegliere solo per il limite minimo di legge (3+2) (Donativi, 661). Una terza impostazione, volta a garantire una maggior coerenza sistematica e ad evitare un raddoppio del numero massimo di componenti degli organi, ha invece ritenuto applicabile il limite numerico (per un totale massimo di cinque), oltre che per il sistema tradizionale, anche per entrambi i sistemi alternativi (Libertini, 8).

Le previsioni sin qui descritte trovano applicazione a tutti i tipi di società in controllo pubblico, indipendentemente dal tipo societario adottato.

Per le società a controllo pubblico costituite in forma di società a responsabilità limitata l'art. 11 comma 5 prevede l'espresso divieto di affidamento dell'amministrazione a due o più soci, sia nella forma disgiunta, sia in quella congiunta. Ciò rappresenta una deroga (dichiarata espressamente del legislatore) all'art. 2475, comma 3, c.c., in forza del quale «Quando l'amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. L'atto costitutivo può tuttavia prevedere [...] che l'amministrazione sia ad esse affidata disgiuntamente oppure congiuntamente».

La ratio della norma risiede nell'esigenza di individuare «un centro di precisa responsabilità della gestione societaria» (Libertini, 6).

La citata previsione, tuttavia, ha destato non pochi problemi interpretativi, sia perché non deroga espressamente all'art. 2475, comma 1, c.c. e sembra dunque consentire che l'amministrazione possa essere affidata anche a un socio, purché esso sia amministratore unico; sia perché sembra anche ammettere che l'organo amministrativo possa essere costituito anche da un consiglio di amministrazione, purché nello stesso non facciano parte due o più soci (Torino, 303).

Gli obiettivi di semplificazione dell'organo amministrativo e della consequenziale riduzione dei costi sono, inoltre, rinvenibili anche al successivo comma 9 dell'art. 11 del TUSP, il quale, come si dirà infra, detta specifiche prescrizioni sul contenuto degli statuti delle società a controllo pubblico. Al riguardo, in particolare, merita attenzione la lettera a) del menzionato comma 9, che impone l'introduzione negli statuti societari di limiti relativi alle deleghe gestorie a un solo amministratore, facendo salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove preventivamente autorizzata dall'assemblea. Nella stessa prospettiva si colloca anche la successiva lettera d) del comma 9 del d.lgs. n. 175/2016, che impone agli statuti delle società a controllo pubblico di prevedere il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società.

I requisiti soggettivi dei componenti degli organi societari.

Al fine di assicurare l'onorabilità e la competenza dei componenti degli organi societari, l'art. 11 del TUSP individua una serie di requisiti soggettivi minimi che i componenti degli organi di amministrazione e di controllo devono possedere per poter essere nominati da parte del socio pubblico.

Anzitutto, i componenti degli organi amministrativi e di controllo di società a controllo pubblico devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia stabiliti con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in Conferenza unificata (art. 11, comma 1).

Ad oggi la versione definitiva del D.P.C.M. non è ancora in vigore, e nell'attesa della pubblicazione dello stesso, trovano applicazione le norme generali degli artt. 2382 e 2399 c.c., che dispongono l'ineleggibilità di coloro che hanno subito la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi; nonché l'art. 32-bis c.p., che prevede l'interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese a carico di coloro che abbiano subito una condanna ad almeno sei mesi di reclusione per reati commessi con abuso di ufficio o con violazione dei doveri d'ufficio (Libertini, 8).

Parimenti applicabile, per espresso richiamo contenuto nella norma in commento, è il d.lgs. 39/2013, in tema di incompatibilità e inconferibilità degli incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico. In particolare, l'art. 11 del TUSP: i) al comma 1 richiama puntualmente l'art. 12 del d.lgs. 39/2013, il quale, a sua volta, disciplina le cause di incompatibilità tra incarichi dirigenziali interni e esterni e cariche di componenti degli organi di indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali; e ii) al successivo comma 14, opera un generico e integrale rinvio alle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi di cui al d.lgs. n. 39/2013.

In generale, l'inconferibilità è un istituto che opera sia al fine di impedire l'assegnazione dell'incarico al soggetto che abbia posto in essere condotte penalmente rilevanti già sanzionate o in fase di giudizio, sia a precludere di ricoprire la carica anche a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto ruoli in enti di diritto privato, regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, oppure siano stati componenti di organi di indirizzo politico, al fine proprio di evitare che lo svolgimento dei suddetti incarichi precostituisca la condizione favorevole in vista di eventuali e successivi conferimenti. Quanto all'incompatibilità, quest'ultima è funzionale ad impedire allo stesso soggetto di ricoprire contemporaneamente due o più ruoli potenzialmente in conflitto di interesse, e in particolare, in forza dell'art. 1, comma 2, lett. h) del d.lgs. n. 39/2013, impone «l'obbligo per il soggetto cui viene conferito l'incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell'incarico e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l'incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l'assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico».

Dal rinvio alle «disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al d.lgs. n. 39/2013» consegue che le società in controllo pubblico sottoposte alle norme del TUSP sono soggette alla vigilanza dell'ANAC e alla relativa disciplina di sanzioni e di obblighi di comunicazione gravanti sugli amministratori. Inoltre, la sussistenza di una causa di inconferibilità o incompatibilità determina, ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. n. 39/2013, la nullità dell'attribuzione della carica di amministratore (Torino, 307).

L'art. 11 del TUSP, inoltre, richiama altresì l'art. 5,comma 9, del d.l. n. 95/2012 rendendo, quindi, applicabile ai componenti degli organi di amministrazione e di controllo di società a controllo pubblico anche le cause di incompatibilità previste da tale norma. La finalità di quest'ultima norma è stata chiarita dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione con la Circolare n. 6/2014, ove è stato precisato che l'art. 5, comma 9 del d.l. n. 95/2012 è volto «a evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza o, comunque, per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse, aggirando di fatto lo stesso istituto della quiescenza e impedendo che gli incarichi di vertice siano occupati da dipendenti più giovani. Le nuove disposizioni sono espressive di un indirizzo di politica legislativa volto ad agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni. Come altre disposizioni vigenti, che già limitavano la possibilità di conferire incarichi ai soggetti in quiescenza, esse non sono volte a introdurre discriminazioni nei confronti dei pensionati, ma ad assicurare il fisiologico ricambio di personale nelle amministrazioni, da bilanciare con l'esigenza di trasferimento delle conoscenze e delle competenze acquisite nel corso della vita lavorativa».

Dell'art. 5, comma 9 del d.l. n. 95/2012 «non possono essere ammesse interpretazioni estensive o analogiche di siffatta disposizione» (Cons. St. I, parere n. 309/2020;T.A.R. MarcheI, n. 273/2021;T.A.R. Campania, NapoliI, n. 3225/2019). Inoltre, con riguardo alla portata precettiva di tale norma, la giurisprudenza ha anche «rimarcato «la natura palesemente selettiva del divieto introdotto dalla norma, la quale introduce nel sistema – in modo diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un anno – un impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un elemento oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative»» (C. conti, sez. contr. Lombardia, del. n. 405/2019. In senso analogo: C. conti, sez. contr. Puglia, del. n. 107/2020).

L'art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012 non stabilisce alcun limite espresso per il conferimento di incarichi a soggetti ancora in servizio, ma che saranno collocati in quiescenza prima della scadenza dell'incarico. La questione è stata però affrontata in un recente parere del Consiglio di Stato, ove è stato chiarito che, nel caso in cui il conferimento dell'incarico avvenga in un momento antecedente alla collocazione in quiescenza del destinatario, il rapporto dovrà trasformarsi in un rapporto a titolo gratuito ai sensi dell'art. 5, comma 9 del d.l. 95/2012, soggiacendo, peraltro, ove si tratti di incarichi dirigenziali e direttivi, anche ai limiti temporali sanciti nel quarto periodo dell'art. 5, comma 9 del d.l. 95/2012 (Cons. St. I, parere n. 309/2020). Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle società a controllo pubblico per effetto del rinvio al citato art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012 contenuto nell'art. 11 del TUSP.

Sempre in tema di incompatibilità, assume inoltre rilievo il comma 8 dell'art. 11, in forza del quale «gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti». Al riguardo la Corte dei conti ha affermato che «la tassatività della previsione contenuta nell'art. 11 T.U. impone quindi che la stessa trovi applicazione immediata, tanto più che il comma 8 non si esprime nel senso che non possono essere «nominati» amministratori i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ciò che lascerebbe pensare a un divieto relativo a una futura nomina rispetto a quella in corso, bensì introduce il pronto divieto del duplice ruolo» (C. conti, sez. contr. Valle d'Aosta, n. 7/2017; C. conti, sez. contr. Lombardia, n. 269/2017).

Un'ulteriore causa di ineleggibilità è poi prevista al successivo comma 11 dell'art. 11, in forza del quale nelle società sottoposte a controllo indiretto da parte di una pubblica amministrazione, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante.

Tale causa di ineleggibilità, a differenza del precedente comma 8, riveste carattere relativo, essendo previste specifiche deroghe alla stessa. Infatti, lo stesso comma 11 ammette la nomina di tali soggetti: i) quando agli amministratori della controllante siano attribuite deleghe gestionali a carattere continuativo; o in via alternativa, ii) quando la nomina risponde all'esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante o di favorire l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento.

Meritevole di particolare attenzione è poi il comma 4 dell'art. 11, espressivo del principio del rispetto dell'equilibrio di genere nella nomina degli amministratori. La norma, in particolare, distingue a seconda che si tratti di organo amministrativo monocratico o collegiale. Nel primo caso, è previsto che nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le amministrazioni assicurino il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno. Nel secondo caso, invece, lo statuto deve prevedere che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla l. n. 120/2011, in materia di parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate, ove già si stabiliva la misura del rapporto donna/uomo pari ad almeno una su tre.

Occorre rilevare, inoltre, che mentre la l. n. 120/2011, e segnatamente l'art. 1, comma 3, prescrive il rispetto dell'equilibrio di genere anche per il collegio sindacale, tale organo non è invece espressamente richiamato dalla norma in commento. Tuttavia, poiché la l. n. 120/2011 non rientra tra le disposizioni abrogate ai sensi dell'art. 28 del TUSP, le disposizioni in essa contenute sono pienamente applicabili; sicché anche per l'organo di controllo delle società in controllo pubblico dovrà necessariamente essere rispettato l'equilibrio di genere. Il vuoto normativo, dunque, è stato considerato come una mera svista del legislatore e può essere colmato mediante l'interpretazione sistematica cui si è fatto sopra riferimento (Occorsio, 374).

Il trattamento economico.

Massima espressione del principio del contenimento dei costi è rappresentata dal comma 6 dell'articolo in commento, il quale detta limiti ai compensi e alle indennità che possono essere attribuiti ai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società a controllo pubblico.

La norma in questione demanda a un decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, il compito di effettuare una classificazione delle società a controllo pubblico, fino ad un massimo di cinque, determinate sulla base di indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi. Ove la società sia controllata dalle Regioni o dagli enti locali, il citato decreto è adottato previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. n. 281/1997.

Per ciascuna fascia – precisa la norma – è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico.

La determinazione dei compensi per gli amministratori, dunque, resta concretamente affidata all'assemblea, ovvero al consiglio di sorveglianza, purché tale determinazione rispetti il limite fissato per ciascuna fascia (Percoco, 94).

Il decreto del MEF, inoltre, deve definire anche i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell'esercizio precedente e, nel caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta.

Ad oggi tale decreto non è stato ancora adottato e, pertanto, restano in vigore in via transitoria, in forza del successivo comma 7 dell'art. 11, le disposizioni contenute: a) nell'art. 4, comma 4, secondo periodo deld.l. n. 95/2012; e b) nel decreto del MEFn. 166/2013.

L'art. 4, comma 4, secondo periododel d.l. n. 95/2012 stabilisce che «a decorrere dal 1º gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori [delle società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001], ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l'80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013».

La norma del d.l. n. 95/2012 richiamata dall'art. 11 è interpretata dalla Corte dei conti in senso tassativo e inderogabile (C. conti, sez. contr. Basilicata, n. 10/2018).

Per l'individuazione del compenso annuo massimo che può essere deliberato in favore dell'organo amministrativo delle società a controllo pubblico, il TUSP, rinviando all'art. 4, comma 4, del d.l. n. 95/2012, sembrerebbe far riferimento esclusivamente al limite ivi indicato e non anche al relativo perimetro soggettivo di applicazione, stante l'espressa abrogazione ad opera del medesimo T.U. (art. 28, comma 1, lettera o)), del primo periodo del citato comma dell'art. 4 del d.l. n. 95/2012 ove tale perimetro era indicato. Pertanto, la soglia sopra menzionata si applicherebbe agli organi amministrativi di tutte le società a controllo pubblico, come definite dall'art. 2, comma 1, lett. m), del TUSP, e non soltanto alle «società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell'intero fatturato», come invece previsto dall'art. 4, comma 4, primo periodo, del d.l. n. 95/2012 (Orientamento MEF su «rispetto del limite ai compensi degli amministratori, individuato dall'art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 175/2016 (in seguito «TUSP»)» del 10 giugno 2019).

Il limite al compenso istituito dall'art. 4, comma 4, del d.l. n. 95/2012, laddove fa riferimento al «costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013», è stato ritenuto applicabile anche alle ipotesi in cui, nel 2013, vi sia stato un minor (o anche nessun) esborso da parte della società a titolo di compenso per gli amministratori. Tuttavia, in questo caso, porrebbe un problema di coordinamento con la disciplina civilistica e segnatamente con l'art. 2389 c.c. che prevede, invece, l'onerosità della prestazione fornita dai componenti dei consigli di amministrazione delle società, in ossequio al principio di corrispettività delle prestazioni (in tal senso: C. conti, sez. contr.Veneto, n. 68/2016;C. conti, sez.contr. Lombardia, n. 1/2015; C. conti, sez. contr. Marche, n. 160/2016). Tale antinomia è stata risolta dalla giurisprudenza nel senso che, nel caso in cui il costo storico complessivamente sostenuto nel 2013 sia pari a zero o sia comunque talmente esiguo da poter essere considerato sostanzialmente inesistente, sarebbe «necessario che l'amministrazione si autolimiti, determinando, in base a canoni di ragionevolezza che coniughino gli obiettivi di efficacia, legati al reperimento delle migliori professionalità, con gli obiettivi di economicità e contenimento della spesa, dei valori di compenso che, anche considerando altre realtà societarie proficue di dimensioni analoghe, possano considerarsi adeguati alla luce di un'ottica di contenimento». La soluzione appena prospettata, ha precisato la Corte dei conti, «dovrà recedere non appena sarà emanato l'auspicabilmente prossimo decreto previsto dall'art. 11 sesto comma, nell'ipotesi in cui i presupposti riferibili alla sana gestione considerati per dimensionare transitoriamente il limite dei compensi avessero determinato livelli di costo superiori e incompatibili con la disciplina attuativa del TUSP contenuta nel decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze» (C. Conti, sez. contr. Friuli VeneziaGiulia, n. 15/2020).

Altra disciplina espressamente richiamata dall'art. 11, comma 7, del TUSP è il d.m. n. 166/2013, recante il «Regolamento relativo ai compensi per gli amministratori con deleghe delle società controllate dal Ministero dell'economia e delle finanze, ai sensi dell'ex art. 23-bis del d.l. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 214/2011», il quale determina l'importo massimo dei compensi da corrispondere agli amministratori con deleghe, prendendo quale riferimento il trattamento economico vigente del Primo Presidente della Corte di Cassazione.

È stato inoltre chiarito che ai fini della definizione dei compensi dell'organo amministrativo ai sensi del menzionato art. 11, comma 7, del TUSP: i) rilevano, in via generale, le seguenti componenti: i compensi, ivi compresa la remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario; gli eventuali emolumenti variabili, quali, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, i gettoni di presenza ovvero gli emolumenti legati alla performance aziendale, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario; gli eventuali rimborsi spese, determinati in misura forfettaria, che assumono anche in ragione della continuità dell'erogazione – carattere retributivo, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario; ii) non rientrano, invece, forfettaria ma aventi carattere meramente restitutorio, in relazione all'espletamento di specifici incarichi (Orientamento MEF su «rispetto del limite ai compensi degli amministratori, individuato dall'art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 175/2016 (in seguito «TUSP»)» del 10 giugno 2019).

Oltre al sesto e settimo comma dell'art. 11 sin qui descritti, vi sono altre disposizioni dell'articolo in commento volte a disciplinare i compensi degli organi amministrativi o di controllo delle società a controllo pubblico.

Anzitutto, il comma 8, oltre a prevedere un caso di ineleggibilità delle cariche sociali per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti, stabilisce che, qualora gli amministratori siano dipendenti della società controllante, in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 6, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi alla società di appartenenza.

Anche il successivo comma 9, nel disciplinare il contenuto dello statuto delle società in controllo pubblico, è espressivo della ratio del contenimento dei costi. Al riguardo, infatti, la lettera a ), impone l'attribuzione, da parte del consiglio di amministrazione, delle deleghe di gestione ad un solo amministratore, salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove preventivamente autorizzata dall'assemblea. La successiva lettera b ) esclude il conferimento della carica di vicepresidente, o al più prevede possibilità che tale carica sia attribuita esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza riconoscimento di compensi aggiuntivi. Ancor più attinente alla determinazione dei compensi è la lettera c ), che stabilisce il divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell'attività; nonché il divieto di corrispondere trattamenti di fine mandato, ai componenti degli organi sociali. Da ultimo, anche la lettera d ), al fine di assicurare il risparmio di spese, stabilisce il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società.

Al comma 10 l'art. 11 del TUSP fissa poi un duplice divieto: i) quello di corrispondere ai dirigenti delle società a controllo pubblico indennità o trattamenti di fine mandato diversi o ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva; e ii) quello di stipulare patti o accordi di non concorrenza, anche ai sensi dell'art. 2125 c.c., da cui possano derivare ulteriori esborsi economici per la società.

Con riferimento al primo divieto, i destinatari della disposizione sono espressamente individuati nei «dirigenti delle società a controllo pubblico». Alcuna specificazione è, invece, prevista con riferimento al secondo divieto e, al riguardo, sono state prospettate due possibili soluzioni interpretative. Secondo una prima impostazione, la disposizione deve essere letta come un tutt'uno con la parte che precede, con la conseguenza che anche il divieto di stipula dei patti di non concorrenza debba essere inteso come riferito ai soli dirigenti. Secondo altra interpretazione, invece, si tratterebbe di due distinte ed autonome disposizioni, sicché la prima sarebbe riferita ai soli dirigenti, mentre la seconda, non prevedendo tale specificazione, dovrebbe essere intesa come riferita anche ai componenti degli organi di amministrazione e di controllo (Cuccu, 422).

Anche il comma 12 detta una specifica disciplina volta al contenimento dei costi e dispone, in proposito, che coloro che hanno un rapporto di lavoro con società a controllo pubblico e che sono al tempo stesso componenti degli organi di amministrazione della società con cui è instaurato il rapporto di lavoro, sono collocati in aspettativa non retribuita e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza, salvo che rinuncino ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori. In questi casi, pur non sussistendo un regime di incompatibilità tra l'incarico gestionale e il rapporto di dipendenza, i soggetti in questione sono in ogni caso posti di fronte ad una scelta: o rinunciare ai compensi dovuti per il ruolo gestionale ricoperto, o in alternativa, essere collocati in aspettativa non retribuita con relativa sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza.

Per le medesime finalità è stata inserita anche la previsione di cui al comma 13, secondo la quale le società a controllo pubblico devono limitare la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta. Negli specifici casi – espressamente previsti dalla legge – in cui sia ammessa tale possibilità, la norma precisa che non può comunque essere riconosciuta ai componenti di tali comitati alcuna remunerazione complessivamente superiore al 30 per cento del compenso deliberato per la carica di componente dell'organo amministrativo e comunque proporzionata alla qualificazione professionale e all'entità dell'impegno richiesto.

In ultimo, in ottemperanza a quanto stabilito dal comma 16, anche per le società a partecipazione pubblica (diverse, dunque, dalle società a controllo pubblico così come definite all'art. 2, lett. m) del TUSP), si applicano le misure di limitazione dei compensi e delle indennità di cui ai menzionati commi 6 e 10, ove l'amministrazione pubblica sia titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento del capitale.

La prorogatio.

Meritevole di specifica attenzione è il comma 15 dell'art. 11 del TUSP, che dichiara espressamente applicabili alle sole società in house le disposizioni di cui al d.l. n. 293/1994, recante la disciplina della proroga degli organi amministrativi.

La norma, dunque, implicitamente, distingue due ipotesi: la c.d. prorogatio privatistica, riferita alle società a controllo pubblico che non rivestono la natura di società in house; e la c.d. prorogatio pubblicistica, riferita invece alle sole società in house.

Nel primo caso, dunque, trovano applicazione gli artt. 2383 c.c. e 2385 c.c. (Rossi, 403), i quali prevedono rispettivamente: i) che «[g]li amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi, e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo all'ultimo esercizio della loro carica»; e ii) che «[l]a cessazione degli amministratori per scadenza del termine [di cui all'art. 2383 c.c.] ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione è stato ricostituito».

La c.d. prorogatio privatistica, dunque, non ha un termine stabilito, in quanto è volta a assicurare la continuità della gestione a tutela del patrimonio sociale, dei creditori e dei terzi, soprattutto nei casi in cui non si possa provvedere nell'immediatezza alla nomina dei nuovi amministratori. Inoltre, durante il periodo di prorogatio gli amministratori hanno gli stessi poteri antecedenti alla scadenza del termine (Percoco, 95; Cuccurullo, 161).

Lo stesso vale anche per i membri del collegio sindacale. E ciò si evince dalla lettura dell'art. 2400 c.c., il cui 1° comma dispone che i sindaci restano in carica per tre esercizi, e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della carica; e che la cessazione della rispettiva carica, per scadenza del termine, ha effetto dal momento in cui il collegio è stato ricostituito.

Diversamente dalla prorogatio privatistica, la prorogatio pubblicistica, applicabile, come si è detto alle sole società in house, rinviene la propria fonte nel d.l. n. 293/1994, recante la disciplina della proroga degli organi amministrativi. Tale d.l., è applicabile, in forza dell'art. 1 dello stesso, «agli organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo dello Stato e degli enti pubblici, nonché delle persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica, quando alla nomina dei componenti di tali organi concorrono lo Stato o gli enti pubblici» e prevede alcune deroghe alla normativa civilistica. Al riguardo, infatti, l'art. 3, stabilisce che: i) gli organi amministrativi non ricostituiti entro il termine di durata per essi previsto, sono prorogati per non più di quarantacinque giorni, decorrenti dal giorno della scadenza del termine medesimo (comma 1); ii) nel periodo in cui sono prorogati, gli organi scaduti possono adottare esclusivamente gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti e indifferibili con indicazione specifica dei motivi di urgenza e indifferibilità (comma 2); e iii) gli atti non rientranti fra quelli indicati nel comma 2, adottati nel periodo di proroga, sono nulli (comma 3).

Si tratta all'evidenza di una disciplina maggiormente restrittiva rispetto a quella privatistica, in quanto, non solo impone la durata massima di 45 giorni del periodo di prorogatio, ma circoscrive anche gli atti che possono essere adottati in costanza di tale periodo, ovverosia gli atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli urgenti e indifferibili, con il correlato obbligo di motivare le ragioni che giustificano l'adozione di tali misure e con la conseguente nullità degli atti diversi da quelli di cui sopra.

Anche se limitata alle società in house, la menzionata regola, che introduce stringenti limiti alla prorogatio, sembra porsi in contrasto con gli artt. 2384 e 2475-bis c.c., i quali tutelano in modo pressoché assoluto i terzi che abbiano trattato con il rappresentante di una società di capitali. Al riguardo, la norma del TUSP detta un limite legale al potere di rappresentanza degli amministratori decaduti di società in house e, sotto questo profilo, sembrerebbe porsi in contrasto con le norme della direttiva europea su cui si fondano le disposizioni del codice sul potere di rappresentanza degli amministratori, con la conseguenza della disapplicazione nel caso in cui si ravvisi tale contrasto. Al riguardo, il problema interpretativo è stato risolto accogliendo la tesi che limita la tutela del terzo al caso in cui l'atto dell'amministratore sia compiuto in violazione di limiti statutari, ma non anche nel caso in cui lo stesso esorbiti dai poteri legali dell'amministratore. La disapplicazione delle norme di legge per contrasto con il diritto europeo deve, infatti, essere limitata ai soli casi di contrasto certo e insanabile (Libertini, 5).

Altra questione che ha sollevato non pochi dubbi interpretativi concerne l'applicabilità o meno delle norme in tema di prorogatio pubblicistica anche agli organi di controllo di società in house. Sul punto, infatti, sono emersi due distinti orientamenti. Una prima impostazione, basata sul tenore letterale della norma in commento, ritiene applicabile agli organi di controllo, e dunque, ai collegi sindacali, la disciplina della prorogatio pubblicistica, così come prevista dal menzionato d.l. n. 293/1994 (Cossu, 482; Cuccurullo, 160). Secondo una diversa interpretazione, invece, il regime speciale di prorogatio delineato nel menzionato d.l. non troverebbe applicazione nei confronti del collegio sindacale delle società in house, restando dunque applicabile agli stessi la residuale disciplina civilistica di cui all'art. 2400, comma 1, c.c. Secondo tale impostazione, infatti, l'art. 11, comma 5, del TUSP dovrebbe operare nei confronti degli organi di controllo soltanto per quelle disposizioni che sono, di per sì applicabili ai sindaci. Tra queste, tuttavia, non rientra la norma relativa alla prorogatio di cui all'art. 3 del d.l. n. 293/1994, la quale non individua nel proprio campo di applicazione gli organi di controllo, ma solo gli «organi ammnistrativi» (Raffaele, 841). Alle medesime conclusioni si giungerebbe anche tenendo in considerazione, sul piano logico, che le stringenti deroghe imposte dalla prorogatio pubblicistica sono state pensate per porre fine ad una patologia di funzionamento degli organi amministrativi degli enti pubblici, simili esigenze non sono rinvenibili con riferimento al collegio sindacale, essendo tale organo estraneo alla gestione della società e, dunque, come tale immune dal rischio di compromettere il buon funzionamento dell'amministrazione societaria (Raffaele, 841).

Infine, va precisato come, nel periodo della c.d. emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus Covid-19, l'art. 11,comma 15, delTUSP è stato oggetto di un recente intervento normativo. L'art. 1, comma 4-duodecies, del d.l. n. 125/2020, convertito nella l. n. 159/2020, adottato per fronteggiare sul piano giuridico le disfunzioni e le difficoltà causate dall'emergenza sanitaria da Covid-19, ha infatti previsto che «in ragione dell'emergenza da Covid-19, dalla data del 17 marzo 2020, e sino al 15 dicembre 2020, non si applica l'art. 11, comma 15, del d.lgs. n. 175/2016. Nel suddetto periodo, agli organi delle società in house si applicano gli articoli 2385, comma 2, e 2400, primo comma, ultimo periodo, del codice civile. Nel medesimo periodo sono fatti salvi gli atti posti in essere da tali organi e la loro eventuale cessazione, per scadenza del termine, non produce effetti fino a quando gli stessi non sono stati ricostituiti».

Il legislatore ha, dunque, previsto una finestra temporale dal 17 marzo 2020 e sino al 15 dicembre 2020 durante la quale era in vigore una disciplina degli organi sociali derogatoria rispetto a quella ordinaria; in particolare, per quello che qui interessa: i) non trova applicazione l'art. 11, comma 15, del TUSP; ii) agli organi delle società in house si applicano gli articoli 2385, comma 2 e 2400, primo comma, ultimo periodo c.c.; iii) sono fatti salvi gli atti posti in essere da tali organi e la loro eventuale cessazione, per scadenza del termine, non produce effetti fino a quando gli stessi non sono stati ricostituiti.

La norma emergenziale ha, dunque, una doppia valenza di sanatoria, soggettiva e oggettiva. Sotto il profilo soggettivo, gli organi amministrativi in scadenza nel periodo dal 17 marzo 2020 e sino al 15 dicembre 2020 sono prorogati ex lege fino al «momento in cui il consiglio di amministrazione è stato ricostituito» e la loro cessazione, per scadenza del termine, «non produce effetti fino a quando gli stessi non sono stati ricostituiti». Sotto il profilo oggettivo, gli atti eventualmente posti in essere dagli organi scaduti in questo periodo «sono fatti salvi» (T.A.R. Lazio,RomaII, n. 4190/2021).

Bibliografia

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