Decreto del Presidente della Repubblica - 24/11/1971 - n. 1199 art. 1 - Ricorso.

Olga Toriello

Ricorso.

Art. 1

Contro gli atti amministrativi non definitivi è ammesso ricorso in unica istanza all'organo sovraordinato, per motivi di legittimità e di merito, da parte di chi vi abbia interesse.

Contro gli atti amministrativi dei Ministri, di enti pubblici o di organi collegiali è ammesso ricorso da parte di chi vi abbia interesse nei casi, nei limiti e con le modalità previsti dalla legge o dagli ordinamenti dei singoli enti.

La comunicazione degli atti soggetti a ricorso ai sensi del presente articolo deve recare l'indicazione del termine e dell'organo cui il ricorso deve essere presentato.

Inquadramento

La tutela giustiziale consiste nella possibilità per il privato di chiedere giustizia alla stessa Amministrazione. L'interessato ha, cioè, la possibilità di domandare, attraverso un ricorso alla P.A., la revisione del provvedimento di cui è destinatario – o altro tipo di soddisfazione della sua pretesa – senza ricorrere alla tutela giurisdizionale.

La ratio della tutela giustiziale, disciplinata in via generale dal d.P.R. n. 1199/1971, è riassumibile nella triplice necessità di evitare il ricorso a mezzi giurisdizionali, ricercando nell'ordine amministrativo una soluzione alle controversie, coinvolgenti interessi dell'Amministrazione, insorte nell'ambito di esso (cd. principio dell'economia dei mezzi giuridici); inoltre, essa tende consentire alla P.A., in seguito al ricorso, di riesaminare la questione, ed eventualmente di correggere i propri errori. Infine, l'impianto normativo della tutela giustiziale vuole garantire al privato la tutela relativamente a vizi che non siano deducibili in sede giurisdizionale: a differenza di quanto accade davanti al G.A., infatti, con il ricorso gerarchico è possibile dedurre in via generale vizi di merito del provvedimento.

La natura giuridica degli strumenti di tutela giustiziale non è pacifica: la dottrina è, infatti, tutt'oggi divisa nel sostenere due distinte tesi.

Secondo una prima corrente di pensiero (Benvenuti) i ricorsi amministrativi sono riconducibili nell'ambito del generale potere di autotutela della P.A.: si ritiene, cioè, che le decisioni sui ricorsi amministrativi, anche se caratterizzate da alcuni elementi di specificità, come l'iniziativa del privato e la puntuale regolamentazione del contraddittorio, sono un'esplicazione particolare del potere dell'Amministrazione di farsi giustizia da sé.

Per converso, altra e più convincente tesi (Sandulli) ritiene che i ricorsi amministrativi siano espressione del potere di autodichia dell'Amministrazione, in quanto le decisioni adottate, in seguito al ricorso dell'interessato, non sono espressione di un potere della P.A. di «autotutelare» i propri interessi, ma di decidere da sé in veste neutrale una controversia insorta con i terzi. L'autodichia è, pertanto, autentica espressione amministrativa della funzione di giustizia, che si condensa nell'affermazione del diritto nel caso concreto, sub specie di restaurazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi violati dal provvedimento amministrativo.

A sostegno di questa seconda tesi militano le caratteristiche proprie della tutela amministrativa che valgono a differenziarla dall'autotutela.

Innanzitutto, l'autodichia necessita dell'iniziativa del privato, ossia di un apposito ricorso, per sollecitare l'intervento della P.A., mentre l'autotutela è, per definizione, caratterizzata dall'iniziativa di ufficio della P.A., che può annullare l'atto senza la necessità di sollecitazioni esterne da parte del privato, le quali restano puramente eventuali.

È inoltre evidente la diversa intensità di garanzia del contraddittorio, che, nel caso di autotutela rimane limitata alle facoltà previste dall'art. 10 della l. n. 241/1990, ed è, comunque, caratterizzata dalle consistenti deroghe scolpite dagli artt. 7 e 13 della stessa legge, mentre nel caso della funzione giustiziale ha un più accentuato riconoscimento.

Ancora, nell'esercizio del proprio potere di autotutela, la P.A. deve sempre valutare l'interesse pubblico all'eliminazione del provvedimento, con la conseguenza che al riscontro della illegittimità può non far seguito l'eliminazione del provvedimento; nell'ipotesi di autodichia, viceversa, la constatata presenza di vizi di legittimità porta necessariamente all'annullamento del provvedimento.

Nel caso di autodichia, poi, la P.A. è neutrale, nel senso che gli interessi pubblici e privati sono considerati su di un piano di parità; nel caso di autotutela la P.A. è, invece, solo imparziale, nel senso che tutti gli interessi privati e pubblici coinvolti nell'esercizio della propria attività devono essere trattati senza alcuna discriminazione in una prospettiva funzionale all'ottimale perseguimento dell'interesse pubblico.

Diversamente da quanto accade in sede di autotutela, l'autorità decidente in sede di autodichia si deve attenere al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, analogo a quello previsto in ambito giurisdizionale.

Le fattispecie di autodichia, inoltre, sono caratterizzate dalla consumazione del potere decisorio, in quanto, a differenza di quanto accade per l'autotutela, l'autorità che decide il ricorso, una volta emanato il provvedimento decisorio, «consuma», secondo l'opinione prevalente, il suo potere. Alla P.A. è preclusa, cioè, la possibilità di pronunciarsi una seconda volta sul medesimo oggetto, volendosi evitare una sorta di bis in idem. Tale principio è antitetico al modello dell'inesauribilità temporale del potere di autotutela, a sua volta precipitato storico e logico della permanente tensione della P.A. al perseguimento dell'interesse pubblico istituzionale.

La natura giustiziale delle determinazioni esclude inoltre, in radice, che esse, diversamente da quanto accade in tema di autotutela, possano incidere sugli eventuali diritti soggettivi, degradandoli a interessi legittimi.

Infine, se si accede alla tesi secondo cui le decisioni sono atti neutrali di applicazione vincolata del diritto e non provvedimenti di esplicazione di discrezionalità amministrativa, si deve concludere che i motivi di ricorso giurisdizionale avverso dette decisioni dovranno concernere vizi identici a quelli deducibili in relazione a un atto giurisdizionale, a esclusione, pertanto, del vizio tipicamente amministrativo dell'eccesso di potere.

I ricorsi amministrativi in generale: l'autotutela in sede giustiziale.

La ormai acclarata natura di autodichia dei ricorsi amministrativi non esclude, in ogni caso, che il potere di decidere dei ricorsi amministrativi coesista con la decisione della P.A. di esercitare, contestualmente alla decisione, anche il potere di autotutela. Pur considerando infondati i motivi addotti dal ricorrente, infatti, l'Amministrazione potrebbe esercitare ex officio il diverso potere di autotutela e, per l'effetto, annullare il provvedimento per altri vizi ovvero caducare provvedimenti diversi da quello toccato dal ricorso amministrativo. Non si tratterebbe in tal caso di una pronuncia ultra vires, ma di un provvedimento di annullamento in sede di autotutela contestuale alla decisione giustiziale.

In dettaglio, la questione se l'esercizio della potestas judicandi, proprio delle decisioni sui ricorsi amministrativi, sia compatibile con il successivo esercizio del potere di autotutela sulla decisione già resa da parte dell'Autorità decidente trova soluzioni differenti nell'ipotesi dei ricorsi gerarchici in senso proprio ed in quella dei ricorsi gerarchici impropri. Nel primo caso, considerato che il potere di pronunciarsi in ordine ai ricorsi gerarchici e quello di rendere pronunce in sede di autotutela sono caratterizzati da una eadem ratio, ricorrendone i presupposti (ed in particolare, la puntuale esplicitazione delle relative ragioni di interesse pubblico), ben può ipotizzarsi l'annullamento o la revoca in autotutela di una decisione assunta in seguito a ricorso amministrativo; nel caso dei ricorsi gerarchici c.d. impropri, invece, il potere di rendere una pronuncia in sede giustiziale assume un carattere del tutto speciale, che non condivide la ratio della generale potestà di adottare atti di autotutela, sussistendo una scissione fra la devoluzione ex lege del potere di pronunciarsi in ordine al ricorso giustiziale potere riconosciuto ad un plesso amministrativo diverso da quello che ha emanato l'atto della cui legittimità si tratta e la generale titolarità del potere di autotutela, riconosciuto alla medesima amministrazione che ha adottato l'atto medesimo (T.A.R. Campania, Napoli VIII, 21 aprile 2021, n. 2542; T.A.R. Puglia, Lecce I, 7 febbraio2008, n. 367).

Rapporti tra ricorsi amministrativi e tutela giurisdizionale: analogie e differenze.

Dal raffronto fra l'attività dell'Amministrazione di decisione dei ricorsi amministrativi e l'attività giurisdizionale emergono rilevanti analogie.

In primo luogo, come il ricorso giurisdizionale, anche il ricorso amministrativo è preordinato a garantire l'affermazione del diritto nel caso concreto: ontologicamente le due situazioni possono essere, senz'altro, accomunate per l'analoga funzione di «giustizialità».

Le analogie tra i due tipi di ricorso si rinvengono anche dal punto di vista più strettamente procedurale: il ricorso amministrativo, infatti, come quello giurisdizionale deve essere sollecitato dall'iniziativa di parte, è vincolato ai motivi di ricorso ed è caratterizzato da forme più pregnanti di garanzia del contraddittorio.

È controverso in dottrina e giurisprudenza se il principio della consumazione del potere decisorio assuma valore assoluto anche in ambito giustiziale, ovvero se sia mitigato dalla possibilità di revocare o annullare i provvedimenti decisori da parte della stessa autorità decidente in sede di amministrazione attiva. La tesi più rigorosa reputa esportabile in blocco il principio dell'irretrattabilità delle decisioni giudiziarie. Altra tesi, che si manifesta più aperta in merito all'annullamento, sulla considerazione che la decisione ha pur sempre natura di provvedimento amministrativo, esclude, in ogni caso, la possibilità di applicare il rimedio della revoca, ossia la possibilità di ritirare la decisione sulla base di motivi di opportunità (così Cons. St. VI, n. 4150/2012). Risulta, infatti, complesso coniugare la revoca, che è atto discrezionale fondato sulla rivalutazione dell'opportunità di una pregressa determinazione, con il carattere comunque vincolato della decisione giustiziale.

Nonostante le indiscutibili analogie di cui si è sopra detto, la natura pur sempre amministrativa dei c.d. «rimedi giustiziali» impedisce una più profonda assimilazione alla funzione giurisdizionale stricto sensu intesa.

Così, nei ricorsi amministrativi ordinari è esclusa la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, al pari della questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Diverso è il discorso per il ricorso straordinario, che è stato ormai giurisdizionalizzato dopo la l. n. 69/2009 e il successivo codice del processo amministrativo del 2010 (v. infra sub artt. 9 e 13).

L'altra differenza riguarda l'efficacia delle decisioni. Le decisioni su ricorsi amministrativi, invero, non sono sentenze, ma provvedimenti amministrativi disapplicabili da parte del Giudice ordinario; esse, inoltre, non acquisiscono la forza di giudicato e, di conseguenza, non possono avere esecuzione attraverso il rimedio dell'ottemperanza.

L'unico strumento di tutela, nel caso di mancata uniformazione della P.A. al vincolo derivante dal decisum amministrativo, è allora l'impugnazione del provvedimento violativo/elusivo o del silenzio dell'Amministrazione inottemperante davanti al Giudice Amministrativo in sede di cognizione. La violazione di un provvedimento vincolante, quale è la decisione del ricorso amministrativo, da parte dell'autorità sottordinata vizia di eccesso di potere gli atti da questa emanati.

Classificazione dei ricorsi amministrativi.

La distinzione più tradizionale e consolidata è quella che contrappone i ricorsi ordinari a quelli straordinari.

Sono ordinari i ricorsi esperiti contro provvedimenti non definitivi della P.A., ovvero atti per i quali è possibile la rivisitazione, oltre che da parte della stessa autorità che ha emanato l'atto, anche di quella gerarchicamente sovraordinata, che manifesta in tal modo la «definitiva» volontà dell'Amministrazione su un determinato argomento.

I ricorsi ordinari sono l'opposizione (esperibile nei soli casi previsti dalla legge all'indirizzo della stessa autorità emanante), il ricorso gerarchico proprio (rimedio generale con il quale si aziona l'intervento dell'organo gerarchicamente sovraordinato rispetto all'emanante) e quello improprio (mezzo di tutela eccezionale praticabile nei casi tassativi di legge all'indirizzo di un organo non legato da rapporti di gerarchia, spesso appartenente ad un distinto plesso amministrativo). Sono invece straordinari i ricorsi che possono essere proposti solo nei confronti di atti definitivi, cioè di provvedimenti con i quali o in relazione ai quali sia già intervenuta l'ultima parola da parte dell'autorità amministrativa. Unica forma di ricorso straordinario oggi esistente è il ricorso al Presidente della Repubblica, che però non può essere considerato più come un ricorso stricto sensu amministrativo (v. infra, sub art. 8).

I ricorsi amministrativi sono, in via generale, ricorsi impugnatori, con i quali, cioè, si impugna un provvedimento amministrativo al fine di ottenerne una rivisitazione del merito oppure di legittimità. Viceversa, sono non impugnatori i ricorsi che non hanno per oggetto un provvedimento ma una controversia insorta, oltre che tra privati e P.A., anche tra due o più soggetti terzi contendenti in un campo che tocchi in qualche modo (in via diretta o anche solo indiretta) gli interessi della P.A. Tali rimedi sono ammessi solo in ipotesi eccezionali tassativamente previste dalla legge; la relativa decisione non riguarda un provvedimento amministrativo e, in caso di accoglimento, può sfociare di volta in volta in una pronuncia dichiarativa o costitutiva, senza acquistare in ogni caso il carattere di provvedimento di secondo grado. Sul punto, peraltro, deve evidenziarsi che il d.P.R. n. 1199/1971 si occupa solo dei ricorsi di tipo impugnatorio, mentre nessuna attenzione viene rivolta ai ricorsi di tipo non impugnatorio, ai quali le regole fissate per il ricorso gerarchico non si applicano, neppure in via suppletiva, continuando ad applicarsi soltanto le regole provvedimentali previste dall'ordinamento di settore (Cons. St., Ad. plen., 11 luglio 1983, n. 18; Ad. plen., n. 23/1987; T.A.R. Lombardia, III, 6 giugno 1984, n. 157; T.A.R. Milano, I, n. 4928/1986, ove si rileva che la contestazione di dette decisioni è di norma di pertinenza del giudice ordinario o del giudice amministrativo in sede esclusiva, trattandosi in gran parte di materie inerenti a diritti soggettivi).

Ancora, si distingue tra ricorsi eliminatori, che possono comportare la sola eliminazione del provvedimento impugnato, con salvezza del riesercizio del potere di amministrazione attiva, nel rispetto del vincolo decisorio, da parte dell'amministrazione che ha adottato il provvedimento annullato. Sono, invece, ricorsi rinnovatori quelli che comportano la devoluzione dell'intera pratica all'organo decidente: quest'ultimo, dopo aver verificato la fondatezza del ricorso, non si limita all'annullamento del provvedimento, ma procede alla sua modifica o sostituzione con altra determinazione che sancisce il definitivo assetto di interessi sul tema. Possono allora avere carattere rinnovatorio i soli ricorsi diretti ad un'autorità competente a provvedere sulla pratica, vale a dire titolare sia del potere giustiziale che di amministrazione attiva.

Ricorsi amministrativi e l. n. 241/1990

La natura sostanzialmente amministrativa dei ricorsi amministrativi implica la tendenziale soggezione degli stessi alle regole procedurali di cui alla Legge sul procedimento amministrativo recate dalla l. n. 241/1990.

Tale equiparazione, peraltro, non è totale: come chiarito da costante giurisprudenza, anche se dà luogo formalmente ad un procedimento amministrativo, i ricorsi amministrativi hanno natura sostanziale di rimedio giustiziale, con la conseguenza di imporre una selezione delle norme procedimentali applicabili.

Se trovano pacifica applicazione l'art. 2, che obbliga la P.A. a rispondere alle istanze prodotte dai propri amministrati volte al rilascio di provvedimenti quando le domande stesse non risultino palesemente infondate nel merito (T.A.R. Calabria, Catanzaro I, 25 gennaio 2021, n. 154) e l'art. 21- octies, comma 2, l. n. 241/1990, a norma del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (T.A.R. Puglia, Lecce I, 23 novembre2005, n. 5238) resta invece esclusa l'applicazione dell'art. 10-bisl. n. 241/1990, trattandosi di procedimento giustiziale sottoposto a regole procedurali proprie, le quali garantiscono adeguatamente il contraddittorio e la partecipazione del ricorrente (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 8 maggio 2023, n. 7777). Viceversa, trova applicazione la disciplina in punto di silenzio-inadempimento: la formazione del silenzio-rifiuto sul ricorso gerarchico non abilita all'azione exartt. 31 c.p.a., ad eccezione delle ipotesi nelle quali si perfeziona un silenzio concludente, che offre la possibilità di ricorrere al giudice per saltum: «Il termine assegnato all'Amministrazione per pronunciarsi sul ricorso gerarchico non è perentorio, sicché il decorso dei novanta giorni previsti dalla norma di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 1199/1971 non estingue il potere di decidere il ricorso amministrativo, ma il soggetto interessato ha la facoltà, alla scadenza di detto termine, di proporre ricorso giurisdizionale o straordinario avverso l'atto originario nei rispettivi termini di decadenza, ovvero di proporre ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-rigetto, ovvero ancora di attendere, ai fini della eventuale impugnativa, la decisione tardiva dell'Amministrazione» (T.A.R. Marche, Ancona I, 19 giugno2018, n. 435; T.A.R. Sicilia, CataniaIV, 22 gennaio 2021, n. 198; T.A.R. Lazio, Roma I-bis, 16 maggio2015, n. 7185).

Viceversa, l'art. 3 l. n. 241/1990 trova applicazione generale all'istituto in esame, in combinato disposto con l'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990: «La mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini e dell'autorità cui ricorrere concreta unicamente una mera irregolarità non incidente sulla legittimità dell'atto che, ai sensi degli art. 1, comma 3, d.P.R. n. 1199/1971 e 3, comma 4, l. n. 241/1990, dà titolo al destinatario dell'atto di ottenere la concessione dell'errore scusabile, al fine di attivarsi nella giusta sede» (Cons. St. III, n. 2506/2010; T.A.R. Campania, Napoli VIII, 7 luglio2010, n. 16606; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 17 febbraio 2023, n. 2834).

I ricorsi gerarchici: nozione e tipologie.

Il ricorso gerarchico è il rimedio accordato a chi vi ha interesse per contestare, innanzi all'autorità sovraordinata, i provvedimenti non definitivi dell'autorità inferiore che assuma viziati per ragioni di legittimità o di merito.

Esso è proponibile in unico grado e ha carattere impugnatorio, con la conseguenza che presuppone l'esistenza di un provvedimento da impugnare o di un silenzio-rifiuto da contestare (Cons. St. VI, n. 563/1986 che evidenzia la necessitò di indicare l'atto impugnato e l'onere di articolare specifici motivi di ricorso; vedi, peraltro, anche Cons. St. VI, n. 915/1987 sull'esistenza di un principio di libertà delle forme, tanto nella prospettazione del ricorso, quanto nei motivi di gravame.

Si distinguono due tipi di ricorsi gerarchici: quello proprio e quello improprio.

Si parla di ricorso gerarchico proprio quando tra l'autorità che ha emanato l'atto e quella decidente viene in rilievo un vero e proprio rapporto gerarchico, i.e. un rapporto di subordinazione. Tale rapporto di gerarchia sussiste solo tra organi individuali; è soltanto esterno (non rileva la gerarchia interna nell'ambito di un medesimo organo) e intercorre solo tra organi appartenenti allo stesso ramo di Amministrazione.

Il ricorso gerarchico è ammesso solo in unico grado: in esito alla sua definizione si produce in ogni caso la definitività dell'atto amministrativo, anche se il ricorso è stato proposto ad autorità rispetto alla quale sussistono ulteriori organi sovraordinati.

Si parla, viceversa, di ricorso gerarchico improprio quando tra l'organo che ha adottato l'atto e quello a cui si ricorre manca un rapporto di gerarchia e il potere di decidere il ricorso deriva da una espressa disposizione di legge che lo attribuisce.

Ferma restando l'applicabilità generale delle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 1199/1971 a tutti i ricorsi gerarchici, sia propri che impropri (Cons. St. VI, n. 5234/2003), la differenza rileva con riferimento all'ambito di applicazione dell'istituto: solo per i ricorsi gerarchici propri lo strumento in esame costituisce un rimedio generale, ammesso anche in assenza di un'espressa previsione normativa, purché vi sia un'Amministrazione con una struttura gerarchizzata, mentre per i ricorsi gerarchici impropri l'istituto trova applicazione nelle sole ipotesi tassativamente previste dalla legge. Essi si caratterizzano per una procedura variabile di caso in caso: solo in mancanza di una normativa specifica si applica, per analogia, la disciplina prevista dal d.P.R. n. 1199/1971.

Ne deriva, in definitiva, l'assoggettamento del ricorso gerarchico improprio ad una vera e propria riserva di legge, con la conseguenza che non può essere prevista una forma di ricorso gerarchico improprio con regolamento. Infatti, il ricorso gerarchico improprio può essere stabilito solo da un atto avente forza di legge che attribuisce il potere decisionale ad un'autorità in posizione di terzietà (Cons. St., Ad. gen., n. 23/1990; Cons. St., Ad. gen., n. 19/1991; Ad. plen., n. 16/1983).

Esemplificativamente, sono ricorsi gerarchici impropri: 1) i ricorsi al Ministro dei trasporti contro il provvedimento con cui il Prefetto impone il ritiro della patente così come previsto dal Codice della strada, in quanto il Prefetto è comunque organo dell'Amministrazione dell'Interno; 2) il ricorso presentato al Ministero dell'Interno contro il provvedimento prefettizio di revoca della patente; 3) il ricorso contro i pareri delle commissioni mediche locali per l'accertamento dei requisiti necessari all'ottenimento delle patenti di guida ai sensi dell'art. 119, in quanto diretto all'impugnativa di un giudizio emesso da un organo tecnico collegiale (Cons. St., Ad. gen., n. 8/1999); 4) il ricorso contro i provvedimenti in tema di collocazione della segnaletica lungo le strade (Cons. St. IV, n. 4942/2012); 5) il ricorso avanti la Commissione Sanitaria Regionale in tema di pensione di inabilità civile (Cass. S.U., n. 5934/1985); 6) il ricorso al Prefetto per la correzione degli errori nelle certificazioni anagrafiche rilasciate dagli uffici anagrafici comunali (T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1939).

In ogni caso, sia in ipotesi di ricorso gerarchico proprio che improprio, l'art. 1 del d.P.R. n. 1199/1971, nell'individuare nell'»organo sovraordinato» il destinatario del ricorso gerarchico, con tutta evidenza non comporta la necessità indefettibile che il ricorso sia trattato e deciso dalla persona fisica titolare dell'ufficio gerarchicamente superiore, occorrendo unicamente che a tale ufficio esso sia indirizzato e da esso sia esaminato e definito (T.A.R. Puglia, Bari I, 5 aprile 2007, n. 1011).

Il rapporto gerarchico: ambito di applicazione dell'istituto.

Con la privatizzazione del pubblico impiego si è posta in discussione la stessa ammissibilità, avverso provvedimenti emessi dalla P.A. datore di lavoro, del ricorso gerarchico.

Come è noto, infatti, il principio di piena separazione tra politica e Amministrazione, ha limitato a casi sostanzialmente residuali l'utilizzo dei poteri gestionali precedentemente assegnati ai titolari dei Dicasteri. Ciò ha comportato che, la relazione tra Ministri (e, in generale, organi di indirizzo politico nelle Amministrazioni non statali) e dirigenti pubblici, si configuri in termini di rapporto di direzione, e non più di gerarchia.

I dubbi interpretativi in ordine all'incidenza del nuovo assetto organizzativo dei rapporti tra Ministro e dirigenti sulla proponibilità dei ricorsi amministrativi sono stati risolti dal d.lgs. n. 165/2001 (breviter, T.U.P.I.), il quale ha sancito la definitiva scomparsa del potere ministeriale di decisione dei ricorsi gerarchici propri avverso gli atti dirigenziali e il contemporaneo trasferimento ai dirigenti preposti a uffici di livello generale del relativo potere nei confronti degli atti adottati dai dirigenti di livello inferiore, con conseguente abrogazione del ricorso gerarchico avverso un atto emesso da un ufficio sede di dirigente generale (Cons. St. IV, n. 5813/2008).

Qualche perplessità ha suscitato, invece, il potere ministeriale di annullamento «per motivi di legittimità» mantenuto dall'art. 14, comma 3, del T.U.P.I..

Rinviando per l'esame esaustiva della questione al commento sub art. 14 T.U.P.I., in questa sede ci si limita a ricordare che, secondo una prima ricostruzione, non potendosi trattare, per i motivi sopra esplicitati, di potere di annullamento in sede gerarchica (Cons. St. III, n. 23/1998), alcuni hanno ricondotto tale previsione al generale potere di autoannullamento, ritenendo che il Legislatore avrebbe così rimarcato la permanenza del potere ministeriale di annullare i propri atti in sede di autotutela.

Di diverso avviso è, invece, altra parte della giurisprudenza, per la quale tale norma lascia residuare in capo al Ministro il potere di annullare, in sede di eterotutela, gli atti dei dirigenti per motivi di legittimità (Cons. St., Ad. gen., n. 9/1999; Cons. St., comm. spec., 13 dicembre 1999, n. 362; Cons. St. II, n. 1856/1997). il Supremo Consesso perviene a tale conclusione sottolineando l'incongruenza della tesi che ritiene tale disposizione riferita all'autoannullamento, nel contesto dell'articolo tutto volto a disciplinare i poteri del ministro al cospetto degli atti dirigenziali.

Del resto l'annullamento dell'atto amministrativo è senz'altro, tra i poteri in passato riservati al Ministro, il meno pericoloso per l'autonomia dell'ambito gestionale proprio dei dirigenti. A differenza della revoca, della riforma ed anche della decisione su ricorso gerarchico, infatti, nel caso di annullamento è escluso il sindacato di merito e, quindi, la possibilità di una valutazione ex novo in ordine alla correttezza ed all'opportunità dell'atto adottato dal dirigente.

Accanto al tema del venir meno del potere, da parte del Ministro, di decidere i ricorsi gerarchici propri, si è posto l'ulteriore problema della caducazione del potere ministeriale di decisione dei ricorsi gerarchici impropri previsti dalle diverse discipline di settore. Intervenendo su tale argomento, l'Adunanza Generale del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. gen., n. 8/1999) ha confermato la persistente esperibilità dei gravami giustiziali in argomento. I giudici di Palazzo Spada hanno escluso che i ricorsi gerarchici impropri siano stati completamente travolti dalla disciplina generale prevista dal d.lgs. n. 80/1998, sottolineando, da un lato, come il carattere di specialità delle norme che li prevedono prevalga sulla riconosciuta definitività degli atti dirigenziali di carattere apicale; dall'altro, come l'eliminazione del vecchio ricorso improprio depotenzierebbe gli strumenti di tutela di cui il cittadino può valersi, in materie per le quali di norma i profili di merito, non conoscibili in sede giurisdizionale, hanno grande peso (C.G.A. Sicilia, 8 luglio 2002, n. 398, con riferimento al trasferimento di competenze dalle Camere di commercio alle Province regionali, il che non ha «alterato il quadro di riferimento peculiare del ricorso gerarchico improprio, che è ammesso, in particolare, «contro gli atti amministrativi... di enti pubblici ... nei casi, nei limiti e con le modalità previsti dalla legge o dagli ordinamenti dei singoli enti» (cfr. art. 1, comma 2, d.P.R.n. 1199/1971)».

Il requisito della non definitività dell'atto.

L'altro requisito necessario per esperire il ricorso gerarchico, oltre alla gerarchia esterna, è la non definitività dell'atto impugnato (T.A.R. Sicilia, Catania III, 21 settembre 2018, n. 1783; T.A.R. Calabria, Catanzaro II, 20 dicembre 2016, n. 2535;Cons. St. II, n. 1652/2015; T.A.R. Marche, Ancona, 3 febbraio 2004, n. 35; Cons. St. III, n. 23/1998; Cons. St., sez. spec., parere n. 362/1999;T.A.R. Puglia 29 novembre1991, n. 475; T.A.R. Calabria, Catanzaro, 18 giugno 1997, n. 347; T.A.R. Puglia 12 novembre2002, n.4903).

Oltre che a seguito dell'esperimento del ricorso gerarchico, l'atto può essere definitivo, e, quindi, non più impugnabile in sede gerarchica ma solo in sede giurisdizionale o straordinaria, per natura (in riferimento ad autorità che non hanno superiori gerarchici – ad esempio gli organi collegiali che, per definizione, sfuggono a relazioni gerarchiche, i dirigenti apicali) e per legge, (c.d. definitività esplicita: in tal caso è direttamente la legge ad attribuire il carattere di definitività ad un atto, sancendone l'esclusione della possibilità di esperire ricorsi gerarchici o la previsione della proponibilità immediata del ricorso straordinario).

Esistono, anche, casi di definitività implicita, per i quali il carattere definitivo dell'atto si desume dall'attribuzione per legge all'autorità inferiore di una competenza esclusiva.

Il problema si pone in caso di istruzioni, direttive e ordini dell'organo superiore nei confronti dell'organo inferiore, poiché deve stabilirsi se possa essere proposto un ricorso gerarchico nei confronti di un organo che si è già pronunciato in ordine all'atto che si trova poi a giudicare.

In generale, si ammette il ricorso gerarchico tutte le volte in cui le direttive, gli ordini e tutte le altre disposizioni altrimenti denominate risultino essere poco dettagliate e non puntuali, tanto da far ritenere opportuno e non contraddittorio sul punto un nuovo pronunciamento dell'autorità superiore; nell'ipotesi, invece, in cui tali indicazioni da parte dell'organo sovraordinato risultino particolarmente precise o addirittura vincolanti, si esclude la possibilità di esperire un ricorso gerarchico che si atteggerebbe come una sorta di inutile bis in idem dell'autorità che ha già espresso la sua opinione.

È ad esempio esclusa l'impugnabilità in via gerarchica degli atti sottoposti all'approvazione dell'organo superiore, poiché in tali casi l'autorità sovraordinata è tenuta ad esprimersi compiutamente sulla questione in sede di controllo (Cons. St. n.2471/1976).

È altresì esclusa l'esperibilità del ricorso gerarchico avverso gli atti collegiali: «Gli organi collegiali (come ad esempio il Consiglio di classe), in quanto dotati di competenza riservata, sono sottratti al vincolo di subordinazione gerarchica ad altro organo, con la conseguenza che le determinazioni da essi adottate sono da considerare – salvo specifiche eccezioni normativamente fissate definitive e, in quanto tali, non impugnabili nella via del ricorso gerarchico, ma solo in sede giurisdizionale o straordinaria, id est mediante ricorso al Capo dello Stato» (T.A.R. Puglia, Bari I, 8 giugno 2006, n. 2304; conforme T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 8 novembre 2021, n. 850).

Gli atti impugnabili e il rilievo della delega.

Più articolata è invece la soluzione in caso di delega. Secondo la giurisprudenza, invero, la disciplina del ricorso gerarchico non esclude che l'organo sovraordinato cui compete in via ordinaria l'emissione della decisione (art. 1) possa delegare a ciò altro ufficio (T.A.R. Sicilia, Palermo II, 5 giugno2006, n. 1394).

Il riferimento, in tal caso, è alla delega vera e propria e non alla delega di firma. Mentre la prima lascia al delegante la titolarità del potere e determina il trasferimento al delegato solo del suo esercizio, nella delega di firma sia la titolarità che l'esercizio del potere rimangono in capo al delegante, spettando al delegato solo il compito di apporre materialmente la sottoscrizione.

È evidente che, nel caso di delega di firma non ci sia spazio per esperire il ricorso gerarchico al delegante: l'atto è infatti formalmente riconducibile proprio all'autorità davanti a cui lo si dovrebbe impugnare. Si può per converso proporre ricorso gerarchico innanzi all'organo superiore rispetto a quello che ha adottato l'atto, delegando la firma (Cons. St. V, n. 7418/2019; v. anche Comm. trib. reg., Roma XVI, 21 marzo 2022, n. 1320 con specifico riferimento all'atto impositivo, emesso dall'Amministrazione finanziaria, firmato dal delegato).

Con riferimento alla delega vera e propria, la Commissione Speciale del Consiglio di Stato (Cons. St., comm. spec., n. 462/1999), a tal proposito, ha ritenuto possibile esperire il ricorso gerarchico per tre ordini di ragioni.

In primo luogo, nell'ipotesi in cui si tratti di delega nei confronti di un organo gerarchicamente subordinato, la delega determina una devoluzione temporanea dell'esercizio del potere per uno o più atti. Posto che l'atto è adottato dal delegato, è ad esso imputato e segue il regime degli atti del delegato, non vi è ragione per sottrarre tale atto al controllo, in sede di ricorso, dell'organo gerarchico superiore, il quale conserva il suo generale potere di sorveglianza e controllo sugli uffici sottostanti.

In secondo luogo, se la delega, come pacificamente ritenuto, non toglie al delegante il potere di riesaminare di ufficio gli atti emessi dal funzionario delegato, a maggior ragione il potere di riesame dovrebbe essere salvaguardato quando il suo esercizio venga eccitato da apposita istanza di parte.

Infine, si sottolinea che la generalizzazione della tesi contraria comporterebbe un'inammissibile compromissione dell'esperibilità del ricorso gerarchico che, quale rimedio posto a garanzia delle posizioni del cittadino, specie per vizi di merito altrimenti non sindacabili, non può essere eliminato se non mediante esplicita previsione normativa.

Rapporti tra il ricorso gerarchico e la tutela giurisdizionale.

Il ricorso gerarchico avverso atti non definitivi costituisce ormai rimedio solo facoltativo ai fini dell'accesso alla tutela giurisdizionale innanzi al Giudice Amministrativo, consentita ormai a prescindere dalla definitività dell'atto. È stato così superato l'orientamento previgente che ammetteva la tutela giurisdizionale solo per gli atti definitivi, principio reputato incompatibile con le coordinate costituzionali in punto di diritto alla tutela giurisdizionale.

Resta fermo, in ogni caso, che il concreto previo esperimento del ricorso amministrativo costituisce comportamento valutabile nel caso concreto dal giudice: «Il previo esperimento dei rimedi amministrativi, con il conseguente differimento della proponibilità dell'azione a un certo termine decorrente dalla data di presentazione del ricorso, è legittimo se giustificato da esigenze di ordine generale, nonché dalla preordinazione di tale limite al fine di evitare un uso in concreto eccessivo del diritto alla tutela giurisdizionale, tanto più ove l'adempimento dell'onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa, rappresenti il modo di soddisfazione della pretesa sostanziale più pronto e meno dispendioso» (C. cost. n.113/1997).

Assumono dunque carattere eccezionale e recessivo le residue ipotesi di ricorso amministrativo obbligatorio, come in tema di sanzioni militari (art. 1366 d.lgs. n. 66/2010, alla luce della sentenza Cons. St. IV, n. 880/2018. Sul tema v. anche Cons. St., sez. II, 31 luglio 2023, n. 7423), ferma restando la necessità di una complessiva valutazione in ordine all'ultravigenza di norme speciali anteriori all'entrata in vigore del d.P.R. n. 1199/1971: «Poiché la disciplina in tema di ricorsi amministrativi introdotta dal d.P.R. n. 1199/1971 è da ritenersi applicabile all'ordinamento militare, sia pure con i temperamenti espressamente previsti dal legislatore in ragione della specialità dell'ordinamento medesimo, non possono, di conseguenza, essere ritenute operanti quelle norme previgenti che, introducendo limiti di ordine procedimentale o sostanziale all'ordinaria operatività del ricorso gerarchico, si risolvono in un'inaccettabile compressione della tutela contenziosa riconosciuta sia in via amministrativa sia, di riflesso, in via giurisdizionale nei confronti degli atti delle amministrazioni statali; in particolare, devono ritenersi contrarie e comunque non compatibili con la sopravvenuta disciplina, quelle disposizioni dell'ordinamento militare che limitando i casi di esperibilità del ricorso gerarchico ed i vizi indeducibili si risolvono in sostanziale violazione del principio di generale ammissibilità del ricorso gerarchico da parte di chi vi abbia interesse, enunciato dall'art. 1 d.P.R. n. 1199 cit.» (Cons. St. IV, n. 623/1996; C. cost., n. 93/1979; C. cost. n.93/1979).

Oltre alla facoltatività, l'altro principio generale che regola i rapporti tra tutela giurisdizionale amministrativa e gerarchica è quello della prevalenza della tutela giurisdizionale rispetto a quella amministrativa. Ciò costituisce diretta gemmazione delle caratteristiche peculiari dell'istituto giustiziale che, sebbene garantisca una tutela più snella, è comunque privo delle garanzie tipiche degli istituti processuali.

In particolare, il ricorso giurisdizionale può essere proposto anche in pendenza del ricorso gerarchico e prima della sua definizione. Si è visto che il ricorso giurisdizionale non presuppone più la proposizione e neanche la definizione preventiva del ricorso gerarchico. Poiché è da escludere la contemporanea pendenza del procedimento per ricorso gerarchico e del giudizio davanti al giudice amministrativo, la proposizione del ricorso giurisdizionale rende improcedibile il ricorso amministrativo previamente proposto: tale ultimo ricorso s'intende nella sostanza rinunciato (T.A.R. Puglia, Bari II, 13 ottobre 2011, n. 1549). La decisione tardiva che intervenga quando il ricorrente abbia già impugnato il provvedimento originario in sede giurisdizionale, in quanto atto non confermativo, ma ad effetto confermativo del provvedimento originario, nel giudizio instaurato non ha effetti pregiudizievoli per il ricorrente, il quale non ha neppure l'onere di impugnarlo (Cons. St., Ad. plen., n. 16/1989; Cons. St. VI, n. 2351/2002; Cons. St., Ad. plen., n. 16/1989).

La successiva proposizione del ricorso gerarchico non comporta rinunzia al precedente ricorso giurisdizionale: in tal caso prevale il ricorso giurisdizionale, anche se proposto prima di quello gerarchico. L'art. 84 c.p.a. consente che il giudice possa desumere la rinuncia dall'intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso. La proposizione del ricorso amministrativo, tuttavia, non è interpretabile alla stregua di rinuncia al ricorso giurisdizionale. Ne deriva, pertanto, che il ricorso gerarchico proposto dopo il ricorso giurisdizionale è ammissibile solo se preceduto dalla espressa rinuncia al ricorso giurisdizionale (Cons. St., Ad. plen., n. 2/1978).

La prevalenza del ricorso giurisdizionale su quello amministrativo si verifica anche nel caso in cui il ricorso al giudice amministrativo sia proposto da un soggetto (c.d. cointeressato) diverso rispetto a quello che ha presentato il ricorso gerarchico contro il medesimo atto. Ne consegue che il ricorso gerarchico proposto dopo quello giurisdizionale del cointeressato deve ritenersi inammissibile, mentre quello pendente diventa improcedibile.

La prevalenza della tutela giurisdizionale pone il problema del ricorso gerarchico per vizi di merito: i principi sin qui enunciati, basati sulla prevalenza del mezzo giurisdizionale, non sono da applicare in modo rigido. Essi, infatti, sottrarrebbero a chi ha proposto il ricorso gerarchico la possibilità di una tutela per motivi di merito. Si ritiene pertanto che possano essere contemporaneamente pendenti un ricorso gerarchico per motivi di merito e un ricorso giurisdizionale per motivi di legittimità, anche se l'esito (di accoglimento) di uno dei due ricorsi può precludere la pronuncia sull'altro ricorso.

Resta in ogni caso ferma la decadenza processuale dell'impugnazione giurisdizionale: ne deriva che «In sede di ricorso giurisdizionale contro una decisione adottata a seguito di ricorso gerarchico, sono inammissibili i motivi nuovi di ricorso che non siano stati proposti nella predetta sede contenziosa amministrativa, a meno che il termine a ricorrere contro l'originario provvedimento impugnato non sia ancora decorso, e ciò al fine di evitare che la mancata impugnativa di un atto asseritamente illegittimo attraverso il rimedio giustiziale e la sua successiva impugnativa (per saltum) con il rimedio giurisdizionale possa costituire la via attraverso la quale eludere l'onere di impugnare tempestivamente l'atto nell'ordinario termine decadenziale» (Cons. St. VI, n. 6491/2018; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 23 febbraio 2023, n. 60). Ispirata allo stesso principio, Cons. St. IV, n. 5813/2008, secondo il quale «al fine di garantire il rispetto del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, in sede di ricorso gerarchico devono essere dedotti tutti i motivi di doglianza contro il provvedimento impugnato, potendo poi, in sede di ricorso giurisdizionale contro la decisione di rigetto, essere proposte nuove censure solo limitatamente ai vizi di detta decisione».

Anche nei casi (limitati, stante il carattere impugnatorio del ricorso e la natura autoritativa dei provvedimenti impugnati) in cui il ricorso gerarchico sia proposto a tutela di diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale davanti al Giudice ordinario prevale rispetto a quella esperita in sede amministrativa.

Si deve peraltro rammentare che solo in talune ipotesi eccezionali la tutela giurisdizionale è subordinata alla previa proposizione del ricorso gerarchico: è l'ipotesi della cosiddetta giurisdizione condizionata. Normalmente in tali casi il ricorso gerarchico è previsto a pena di inammissibilità dell'azione (ciò vale per i ricorsi in materia tributaria, in materia doganale, di professioni liberali, per l'iscrizione in taluni albi o registri e per il risarcimento dei danni cagionati dal servizio postale. In materia di ordinamento militare v. Cons. St. I, 6 febbraio 2019, n. 428: «L'art. 1363, comma 2, del codice dell'ordinamento militare secondo cui «Avverso le sanzioni disciplinari di corpo non è ammesso ricorso giurisdizionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica se prima non è stato esperito ricorso gerarchico o sono trascorsi novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso riguarda esclusivamente l'ordinamento militare, imponendo l'esperimento del ricorso gerarchico quale dovere di disciplina militare, ma non quale condizione dell'azione giurisdizionale in senso tecnico. La Corte costituzionale ha ritenuto che l'analoga previsione di cui alla l. n. 382/1978, costituzionalmente legittima, configura una condizione di proponibilità del giudizio; sulla stessa linea si è mosso il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. In conclusione, la disposizione in esame intende effettivamente delineare una condizione di proponibilità del giudizio, invero costituzionalmente legittima in virtù della specialità dell'ordinamento militare, della non particolare gravosità dell'adempimento, del solo temporaneo differimento della possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale, della più intensa capacità dello strumento gerarchico di soddisfare l'interesse demolitorio del ricorrente, alla luce della cognizione di merito riconosciuta all'Autorità adita»).

La Corte Costituzionale, modificando il proprio precedente indirizzo, ha considerato con sempre maggiore severità le disposizioni che condizionano l'ammissibilità della tutela giurisdizionale al previo esperimento di un ricorso amministrativo, fino a ritenerla incompatibile con l'art. 24 della Cost. (Corte cost.n. 406/1993), o, in taluni casi, astrattamente ammissibile solo quando, però, risulti giustificata «da superiori finalità di giustizia o da esigenze di carattere generale»: Corte cost. n. 113/1997).

In ogni caso, il decorso del termine per la formazione del silenzio rigetto previsto dall'art. 6 d.P.R. n. 1199/1971, ha effetti soltanto processuali, con la conseguenza che il ricorrente in sede gerarchica, anziché l'onere, ha la facoltà di agire immediatamente in sede giurisdizionale, restando integra la sua possibilità di impugnare il provvedimento originario unitamente alla eventuale decisione tardiva sul proposto ricorso gerarchico (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 9 maggio 2022 , n. 3137;T.A.R. Calabria, Catanzaro, 25 gennaio 2021, n. 154; Cons. St., Ad. plen., n. 16/1989).

Questioni applicative

1) Autodichia o autotutela?

È un tema teorico, ma dai rilevanti effetti pratici.

In primo luogo, vi sono coloro (Benvenuti) che fanno rientrare i ricorsi amministrativi nell'ambito del generale potere di autotutela della P.A. Si ritiene, cioè, che le decisioni sui ricorsi amministrativi, anche se caratterizzate da alcuni elementi di specificità, come l'iniziativa del privato e la puntuale regolamentazione del contraddittorio, altro non sono che un'esplicazione particolare del potere dell'Amministrazione di farsi giustizia da sé.

Per converso, altra e più convincente tesi (Sandulli) ritiene che i ricorsi amministrativi siano espressione del potere di autodichia dell'Amministrazione, in quanto le decisioni adottate, in seguito al ricorso dell'interessato, non sono espressione di un potere della P.A. di «autotutelare» i propri interessi, ma di decidere da sé in veste neutrale una controversia insorta con i terzi. L'autodichia è, pertanto, autentica espressione amministrativa della funzione di giustizia, che si condensa nell'affermazione del diritto nel caso concreto, sub specie di restaurazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi violati dal provvedimento amministrativo.

A sostegno di questa seconda tesi militano le caratteristiche proprie della tutela amministrativa che valgono a differenziarla dall'autotutela.

Esse sono:

a) Iniziativa del ricorrente: mentre l'autodichia necessita dell'iniziativa del privato, ossia di un apposito ricorso, per sollecitare l'intervento della P.A., l'autotutela è, per definizione, caratterizzata dall'iniziativa di ufficio della P.A., che può annullare l'atto senza la necessità di sollecitazioni esterne da parte del privato, le quali restano puramente eventuali.

b) Carattere contenzioso del procedimento: uno dei maggiori aspetti di differenziazione riguarda la diversa intensità di garanzia del contraddittorio, che nel caso di autotutela rimane limitata alle facoltà previste dall'art. 10 della l. n. 241/1990, ed è, comunque, caratterizzata dalle consistenti deroghe scolpite dagli artt. 7 e 13 della stessa legge, mentre nel caso della funzione giustiziale ha un più accentuato riconoscimento.

c) Doverosità dell'annullamento in presenza di vizi di legittimità: mentre in caso di autotutela la P.A. deve sempre valutare l'interesse pubblico all'eliminazione del provvedimento, con la conseguenza che al riscontro della illegittimità può non far seguito l'eliminazione del provvedimento (v. Parte VII, Capitolo 7), nell'ipotesi di autodichia la constatata presenza di vizi di legittimità porta necessariamente all'annullamento del provvedimento.

d) Neutralità e imparzialità: nel caso di autodichia la P.A. è neutrale, nel senso che gli interessi pubblici e privati sono considerati su di un piano di parità. Nel caso di autotutela la P.A. è, invece, solo imparziale, nel senso che tutti gli interessi privati e pubblici coinvolti nell'esercizio della propria attività devono essere trattati senza alcuna discriminazione in una prospettiva funzionale all'ottimale perseguimento dell'interesse pubblico.

e) Vincolo dei motivi di ricorso: nel caso di autodichia, diversamente da quanto accade in sede di autotutela, l'autorità decidente si deve attenere a un principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, analogo a quello previsto in ambito giurisdizionale.

A tal proposito, è necessario distinguere le ipotesi in cui, contestualmente alla decisione, la P.A. eserciti anche il potere di autotutela. Pur considerando infondati i motivi addotti dal ricorrente, infatti, l'Amministrazione potrebbe esercitare ex officio il diverso potere di autotutela e, per l'effetto, annullare il provvedimento per altri vizi ovvero caducare provvedimenti diversi da quello toccato dal ricorso amministrativo. Non si tratterebbe in tal caso di una pronuncia ultra vires, ma di un provvedimento di annullamento in sede di autotutela contestuale alla decisione giustiziale.

f) Consumazione del potere decisorio: in sede di autodichia, inoltre, a differenza di quanto accade per l'autotutela, l'autorità che decide il ricorso, una volta emanato il provvedimento decisorio, «consuma», secondo l'opinione prevalente, il suo potere. Alla P.A. è preclusa, cioè, la possibilità di pronunciarsi una seconda volta sul medesimo oggetto, volendosi evitare una sorta di bis in idem. Tale principio è antitetico al modello dell'inesauribilità temporale del potere di autotutela, a sua volta precipitato storico e logico della permanente tensione della P.A. al perseguimento dell'interesse pubblico istituzionale.

g) Esclusione dell'affievolimento: la natura giustiziale delle determinazioni esclude, in radice, che esse, diversamente da quanto accade in tema di autotutela, possano incidere sugli eventuali diritti soggettivi, degradandoli a interessi legittimi.

h) Vizi della decisione deducibili in sede giurisdizionale: se si accede alla tesi secondo cui le decisioni sono atti neutrali di applicazione vincolata del diritto e non provvedimenti di esplicazione di discrezionalità amministrativa, si deve concludere che i motivi di ricorso giurisdizionale avverso dette decisioni dovranno concernere vizi identici a quelli deducibili in relazione a un atto giurisdizionale, a esclusione, pertanto, del vizio tipicamente amministrativo dell'eccesso di potere.

2) Quali sono le analogie e le differenze tra ricorsi amministrativi e tutela giurisdizionale?

Dal raffronto fra l'attività dell'Amministrazione di decisione dei ricorsi amministrativi e l'attività giurisdizionale emergono rilevanti analogie.

In primo luogo, come il ricorso giurisdizionale, anche il ricorso amministrativo è preordinato a garantire l'affermazione del diritto nel caso concreto: ontologicamente le due situazioni possono essere, senz'altro, accomunate per l'analoga funzione di «giustizialità».

Le analogie tra i due tipi di ricorso si rinvengono anche dal punto di vista più strettamente procedurale: il ricorso amministrativo, infatti, come quello giurisdizionale deve essere sollecitato dall'iniziativa di parte, è vincolato ai motivi di ricorso ed è caratterizzato da forme più pregnanti di garanzia del contraddittorio.

È controverso in dottrina e giurisprudenza se il principio della consumazione del potere decisorio assuma valore assoluto anche in ambito giustiziale, ovvero se sia mitigato dalla possibilità di revocare o annullare i provvedimenti decisori da parte della stessa autorità decidente in sede di amministrazione attiva.

La tesi più rigorosa reputa esportabile in blocco il principio dell'irretrattabilità delle decisioni giudiziarie.

Altra tesi, che si manifesta più aperta in merito all'annullamento, sulla considerazione che la decisione ha pur sempre natura di provvedimento amministrativo, esclude, in ogni caso, la possibilità di applicare il rimedio della revoca, ossia la possibilità di ritirare la decisione sulla base di motivi di opportunità. Risulta, infatti, complesso coniugare la revoca, che è atto discrezionale fondato sulla rivalutazione dell'opportunità di una pregressa determinazione, con il carattere comunque vincolato della decisione giustiziale (Caringella).

Nonostante le indiscutibili analogie di cui si è sopra detto, la natura pur sempre amministrativa dei c.d. «rimedi giustiziali» impedisce una più profonda assimilazione alla funzione giurisdizionale stricto sensu intesa.

Così, nei ricorsi amministrativi ordinari è esclusa la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, al pari della questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Diverso è il discorso per il ricorso straordinario, che è stato ormai giurisdizionalizzato dopo la l. n. 69/2009 e il successivo codice del processo amministrativo del 2010.

L'altra differenza riguarda l'efficacia delle decisioni. Le decisioni su ricorsi amministrativi, invero, non sono sentenze, ma provvedimenti amministrativi disapplicabili da parte del Giudice ordinario; esse, inoltre, non acquisiscono la forza di giudicato e, di conseguenza, non possono avere esecuzione attraverso il rimedio dell'ottemperanza.

L'unico strumento di tutela, nel caso di mancata uniformazione della P.A. al vincolo derivante dal decisum amministrativo, è allora l'impugnazione del provvedimento violativo/elusivo o del silenzio dell'Amministrazione inottemperante davanti al Giudice Amministrativo in sede di cognizione. La violazione di un provvedimento vincolante, quale è la decisione del ricorso amministrativo, da parte dell'autorità sotto-oprdinata vizia di eccesso di potere gli atti da questa emanati.

3) Quali sono le conseguenze sul ricorso gerarchico della privatizzazione del lavoro pubblico?

Con la privatizzazione del pubblico impiego di cui al d.lgs. n.29/1993 (oggi T.U. n. 165/2001) si è posta in discussione la stessa ammissibilità, avverso provvedimenti emessi dalla P.A. datore di lavoro, del ricorso gerarchico.

Come è noto, infatti, il principio di piena separazione tra politica e Amministrazione, ha limitato a casi sostanzialmente residuali l'utilizzo dei poteri gestionali precedentemente assegnati ai titolari dei dicasteri. Ciò ha comportato che, la relazione tra Ministri (e, in generale, organi di indirizzo politico nelle Amministrazioni non statali) e dirigenti pubblici, si configuri in termini di rapporto di direzione, e non più di gerarchia.

I dubbi interpretativi in ordine all'incidenza del nuovo assetto organizzativo dei rapporti tra Ministro e dirigenti sulla proponibilità dei ricorsi amministrativi sono stati risolti dal d.lgs. n. 80/1998, recepito dal d.lgs. n. 165/2001. Tale corpus normativo ha sancito la definitiva scomparsa del potere ministeriale di decisione dei ricorsi gerarchici propri avverso gli atti dirigenziali e il contemporaneo trasferimento ai dirigenti preposti a uffici di livello generale del relativo potere nei confronti degli atti adottati dai dirigenti di livello inferiore.

Qualche perplessità ha suscitato, invece, il potere ministeriale di annullamento «per motivi di legittimità» mantenuto dall'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001.

Non potendosi trattare, per i motivi sopra esplicitati, di potere di annullamento in sede gerarchica, alcuni hanno ricondotto tale previsione al generale potere di autoannullamento, ritenendo che, il Legislatore avrebbe così rimarcato la permanenza del potere ministeriale di annullare i propri atti in sede di autotutela.

Di diverso avviso è stato, invece, il Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. gen., n. 9/1999), per il quale tale norma lascia residuare in capo al Ministro il potere di annullare, in sede di eterotutela, gli atti dei dirigenti per motivi di legittimità.

Il Supremo Consesso perviene a tale conclusione sottolineando l'incongruenza della tesi che ritiene tale disposizione riferita all'autoannullamento, nel contesto dell'articolo tutto volto a disciplinare i poteri del ministro al cospetto degli atti dirigenziali.

Del resto l'annullamento dell'atto amministrativo è senz'altro, tra i poteri in passato riservati al Ministro, il meno pericoloso per l'autonomia dell'ambito gestionale proprio dei dirigenti. A differenza della revoca, della riforma ed anche della decisione su ricorso gerarchico, infatti, nel caso di annullamento è escluso il sindacato di merito e, quindi, la possibilità di una valutazione ex novo in ordine alla correttezza ed all'opportunità dell'atto adottato dal dirigente.

Accanto al tema del venir meno del potere, da parte del Ministro, di decidere i ricorsi gerarchici propri, si è posto l'ulteriore problema della caducazione del potere ministeriale di decisione dei ricorsi gerarchici impropri previsti dalle diverse discipline di settore.

Intervenendo su tale argomento, l'Adunanza Generale del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. gen., n. 8/1999) ha confermato la persistente esperibilità dei gravami giustiziali in argomento.

I giudici di Palazzo Spada hanno escluso che i ricorsi gerarchici impropri siano stati completamente travolti dalla disciplina generale prevista dal d.lgs. 80/1998, sottolineando, da un lato, come il carattere di specialità delle norme che li prevedono prevalga sulla riconosciuta definitività degli atti dirigenziali di carattere apicale; dall'altro, come l'eliminazione del vecchio ricorso improprio depotenzierebbe gli strumenti di tutela di cui il cittadino può valersi, in materie per le quali di norma i profili di merito, non conoscibili in sede giurisdizionale, hanno grande peso.

4) Quali sono le questioni operative più significative collegate al requisito della non definitività dell'atto?

S'è osservato in precedenza che requisito necessario per esperire il ricorso gerarchico, oltre alla gerarchia esterna, è la non definitività dell'atto impugnato.

S'è rilevato anche che, a seguito dell'esperimento del ricorso gerarchico, l'atto può essere definitivo, e, quindi, non più impugnabile in sede gerarchica ma solo in sede giurisdizionale o straordinaria, per natura (in riferimento ad autorità che non hanno superiori gerarchici – ad esempio gli organi collegiali che, per definizione, sfuggono a relazioni gerarchiche, i dirigenti apicali) e per legge, (c.d. definitività esplicita: in tal caso è direttamente la legge ad attribuire il carattere di definitività ad un atto, sancendone l'esclusione della possibilità di esperire ricorsi gerarchici o la previsione della proponibilità immediata del ricorso straordinario).

Esistono, anche, casi di definitività implicita, per i quali il carattere definitivo dell'atto si desume dall'attribuzione per legge all'autorità inferiore di una competenza esclusiva.

Il problema si pone in caso di istruzioni, direttive e ordini dell'organo superiore nei confronti dell'organo inferiore, poiché deve stabilirsi se possa essere proposto un ricorso gerarchico nei confronti di un organo che si è già pronunciato in ordine all'atto che si trova poi a giudicare.

In generale, si ammette il ricorso gerarchico tutte le volte in cui le direttive, gli ordini e tutte le altre disposizioni altrimenti denominate risultino essere poco dettagliate e non puntuali, tanto da far ritenere opportuno e non contraddittorio sul punto un nuovo pronunciamento dell'autorità superiore; nell'ipotesi, invece, in cui tali indicazioni da parte dell'organo sovraordinato risultino particolarmente precise o addirittura vincolanti, si esclude la possibilità di esperire un ricorso gerarchico che si atteggerebbe come una sorta di inutile bis in idem dell'autorità che ha già espresso la sua opinione.

È esclusa l'impugnabilità in via gerarchica degli atti sottoposti all'approvazione dell'organo superiore, poiché in tali casi l'autorità sovraordinata è tenuta ad esprimersi compiutamente sulla questione in sede di controllo.

Più articolata è invece la soluzione in caso di delega. Il riferimento, in tal caso, è alla delega vera e propria e non alla delega di firma. Mentre la delega vera e propria lascia al delegante la titolarità del potere e determina il trasferimento al delegato solo del suo esercizio, nella delega di firma sia la titolarità che l'esercizio del potere rimangono in capo al delegante, spettando al delegato solo il compito di apporre materialmente la sottoscrizione.

È evidente che, nel caso di delega di firma, non ci sia spazio per esperire il ricorso gerarchico al delegante: l'atto è infatti formalmente riconducibile proprio all'autorità davanti a cui lo si dovrebbe impugnare. Si può per converso proporre ricorso gerarchico innanzi all'organo superiore rispetto a quello che ha adottato l'atto, delegando la firma.

Con riferimento alla delega vera e propria, la Commissione Speciale del Consiglio di Stato (Parere del 12 luglio 1999), a tal proposito, ha ritenuto possibile esperire il ricorso gerarchico per tre ordini di ragioni.

a) In primo luogo, nell'ipotesi in cui si tratti di delega nei confronti di un organo gerarchicamente subordinato, la delega determina una devoluzione temporanea dell'esercizio del potere per uno o più atti. Posto che l'atto è adottato dal delegato, è ad esso imputato e segue il regime degli atti del delegato, non vi è ragione per sottrarre tale atto al controllo, in sede di ricorso, dell'organo gerarchico superiore, il quale conserva il suo generale potere di sorveglianza e controllo sugli uffici sottostanti.

b) In secondo luogo, se la delega, come pacificamente ritenuto, non toglie al delegante il potere di riesaminare di ufficio gli atti emessi dal funzionario delegato, a maggior ragione il potere di riesame dovrebbe essere salvaguardato quando il suo esercizio venga eccitato da apposita istanza di parte.

c) Infine, si sottolinea che la generalizzazione della tesi contraria comporterebbe un'inammissibile compromissione dell'esperibilità del ricorso gerarchico che, quale rimedio posto a garanzia delle posizioni del cittadino, specie per vizi di merito altrimenti non sindacabili, non può essere eliminato se non mediante esplicita previsione normativa.

5) Quali sono i problemi pratici in tema di rapporti tra il ricorso gerarchico e la tutela giurisdizionale?

Il ricorso gerarchico avverso atti non definitivi costituisce, come detto, ormai rimedio solo facoltativo ai fini dell'accesso alla tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo, consentita ormai a prescindere dalla definitività dell'atto. È stato così superato l'orientamento previgente che ammetteva la tutela giurisdizionale solo per gli atti definitivi, principio reputato incompatibile con le coordinate costituzionali in punto di diritto alla tutela giurisdizionale.

Assumono allora carattere eccezionale e recessivo le residue ipotesi di ricorso amministrativo obbligatorio, come in tema di sanzioni militari (art. 1366 del d.lgs. n. 66/2010, alla luce della sentenza Cons. St. IV, n. 880/2018).

Oltre alla facoltatività, l'altro principio generale che regola i rapporti tra tutela giurisdizionale amministrativa e gerarchica è quello della prevalenza della tutela giurisdizionale rispetto a quella amministrativa. Ciò costituisce diretta gemmazione delle caratteristiche peculiari dell'istituto giustiziale che, sebbene garantisca una tutela più snella, è comunque privo delle garanzie tipiche degli istituti processuali. In particolare:

a) Il ricorso giurisdizionale può essere proposto anche in pendenza del ricorso gerarchico e prima della sua definizione. Si è visto che il ricorso giurisdizionale non presuppone più la proposizione e neanche la definizione preventiva del ricorso gerarchico. Poiché è da escludere la contemporanea pendenza del procedimento per ricorso gerarchico e del giudizio davanti al giudice amministrativo, la proposizione del ricorso giurisdizionale rende improcedibile il ricorso amministrativo previamente proposto: tale ultimo ricorso s'intende nella sostanza rinunciato.

b) La successiva proposizione del ricorso gerarchico non comporta rinunzia al precedente ricorso giurisdizionale: in tal caso prevale il ricorso giurisdizionale, anche se proposto prima di quello gerarchico. L'art. 84 c.p.a. consente che il giudice possa desumere la rinuncia dall'intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso. La proposizione del ricorso amministrativo, tuttavia, non è interpretabile alla stregua di rinuncia al ricorso giurisdizionale. Ne deriva, pertanto, che il ricorso gerarchico proposto dopo il ricorso giurisdizionale è ammissibile solo se preceduto dalla rinuncia al ricorso giurisdizionale.

c) La prevalenza del ricorso giurisdizionale su quello amministrativo si verifica anche nel caso in cui il ricorso al giudice amministrativo sia proposto da un soggetto (c.d. cointeressato) diverso rispetto a quello che ha presentato il ricorso gerarchico contro il medesimo atto.

Ne consegue che il ricorso gerarchico proposto dopo quello giurisdizionale del cointeressato deve ritenersi inammissibile, mentre quello pendente diventa improcedibile.

d) Il problema del ricorso gerarchico per vizi di merito: è stato peraltro notato come i principi di cui ai punti a), b) e c), basati sulla prevalenza del mezzo giurisdizionale, non siano da applicare in modo rigido. Essi, infatti, sottrarrebbero a chi ha proposto il ricorso gerarchico la possibilità di una tutela per motivi di merito. Si ritiene pertanto che possano essere contemporaneamente pendenti un ricorso gerarchico per motivi di merito e un ricorso giurisdizionale per motivi di legittimità, anche se l'esito (di accoglimento) di uno dei due ricorsi può precludere la pronuncia sull'altro ricorso.

Anche nei casi (limitati, stante il carattere impugnatorio del ricorso e la natura autoritativa dei provvedimenti impugnati) in cui il ricorso gerarchico sia proposto a tutela di diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale davanti al Giudice ordinario prevale rispetto a quella esperita in sede amministrativa.

Si deve peraltro rammentare che in talune ipotesi la tutela giurisdizionale è subordinata alla previa proposizione del ricorso gerarchico: è l'ipotesi della cosiddetta giurisdizione condizionata.

Normalmente in tali casi il ricorso gerarchico è previsto a pena di inammissibilità dell'azione (ciò vale per i ricorsi in materia tributaria, in materia doganale, di professioni liberali, per l'iscrizione in taluni albi o registri e per il risarcimento dei danni cagionati dal servizio postale).

La Corte Costituzionale, modificando il proprio precedente indirizzo, ha considerato con sempre maggiore severità le disposizioni che condizionano l'ammissibilità della tutela giurisdizionale al previo esperimento di un ricorso amministrativo, fino a ritenerla incompatibile con l'art. 24 della Cost. (Corte cost. n. 406/1993), o, in taluni casi, astrattamente ammissibile solo quando, però, risulti giustificata «da superiori finalità di giustizia o da esigenze di carattere generale» (Corte cost. n. 113/1997).

Bibliografia

Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, e Autotutela, in Enc. del dir., 115, 541; Caringella, Manuale di diritto amministrativo ragionato, Roma, 2021, parte 12, capitoli 1 e 5; Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020; G. D'angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in giustiziaamministrativa.it, 2013; De Roberto, Tonini, I ricorsi amministrativi, Milano, 1984, 78; Freni, Il nuovo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, Roma, 2010; Jaricci, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, Bologna, 2011; Mazza Laboccetta, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Un rimedio per la «tutela della giustizia nell'amministrazione», Napoli, 2017; Pignataro, Riflessioni sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e sulle sue dirette implicazioni, in federalismi.it, 2017; Sandulli, Manuale di Diritto Amministrativo, Napoli, 1989; Tanda, Le nuove prospettive del ricorso straordinario al capo dello Stato, Torino, 2014.

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