Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 30 - Azione di condannaAzione di condanna
1. L'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma. 2. Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica. 3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti. 4. Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere. 5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. 6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo. InquadramentoL'azione di condanna è disciplinata dall'art. 30 c.p.a., il quale dedica cinque dei sei commi di cui si compone, al risarcimento dei danni per lesioni di interessi legittimi e di diritti soggettivi per i casi di giurisdizione esclusiva mentre, al primo comma, pone una regola di carattere generale: l'azione di condanna è proposta contestualmente ad altra azione e, in via di eccezione, anche in via autonoma, «nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo» (Follieri, 195). L'azione di condanna è stata dunque prevista in modo unitario nel Codice che usa l'espressione generica di «azione di condanna» senza una «tipizzazione dei contenuti» (Clarich, 185). Con la norma in commento, il Legislatore del 2010 ha recepito l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in ordine alla vexata quaestio della risarcibilità del danno causato dalla P.A. nell'esercizio dei propri poteri. La norma de qua cristallizza in particolare nell'ordinamento: (a) la risarcibilità dei danni derivanti dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, c.d. «danno da provvedimento»; (b) la risarcibilità dei danni derivanti dal mancato esercizio di quella obbligatoria, c.d. danno da silenzio-inadempimento o da ritardo; (c) la risarcibilità dei danni relativi alla lesione di interessi legittimi e di diritti soggettivi quando ricompresi nelle materie nelle quali il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva. Deve peraltro evidenziarsi che la disciplina della condanna pubblicistica è completata da altre disposizioni del codice del processo amministrativo e segnatamente (1) dall'art. 7, commi 4 e 5, c.p.a., che regola i confini della giurisdizione amministrativa (a) da un lato, attribuendo alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi; (b) dall'altro, stabilendo che, nelle materie di giurisdizione esclusiva indicate dalla legge e dall'art. 133 c.p.a., il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi; (2) dall'art. 34, 1 comma, lett. c), c.p.a. che, nel disciplinare le sentenze di merito, specifica che la sentenza di condanna può prevedere la «condanna al pagamento di una somma di danaro, anche a titolo di risarcimento del danno», la «adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio», il «risarcimento in forma specifica ai sensi dell'art. 2058 c.c.», il «rilascio di un provvedimento richiesto» in caso di proposizione dell'azione generale di esatto adempimento; (3) dall'art. 34, 4 comma, c.p.a. che prevede che «in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti»; (4) dagli artt. 31 e 117 c.p.a. che disciplinano la condanna a provvedere a seguito di silenzio della p.a.; (5) dall'art. 112, 3 comma, c.p.a. che dispone che «può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione»; (6) dall'art. 116 c.p.a. che si occupa dell'azione di condanna della p.a. all'esibizione dei documenti richiesti; (7) dall'art. 124 c.p.a. che regola l'azione risarcitoria in forma specifica in materia di appalti pubblici. In considerazione dell'articolato complesso delle disposizioni del codice sopra richiamate, si può affermare che la sentenza di condanna nel processo amministrativo abbia uno spazio assai ampio, addirittura maggiore di quello che può avere nel processo civile, poiché il ruolo del giudice amministrativo gli può consentire interventi ben più incisivi nei confronti dell'amministrazione di quanto non sia possibile per il giudice civile nei confronti dei privati (Gallo, 102). La risarcibilità dei danni derivanti dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa è stata disciplinata dal codice del processo amministrativo superando il precedente sistema che si estrinsecava in due azioni da proporre di fronte a due differenti giurisdizioni. La prima, di annullamento, esperibile innanzi al G.A. per l'impugnazione dell'atto amministrativo lesivo. La seconda, risarcitoria, esperibile innanzi al giudice ordinario. Con la disciplina oggi vigente, quindi, il legislatore ha adottato una soluzione più razionale ai fini riparto di giurisdizione. Nel quadro normativo delineato dal Codice sono stati dunque concentrati davanti al giudice amministrativo le diverse forme di tutela, compresa quella risarcitoria, sia nella giurisdizione generale di legittimità (art. 7, comma 4) sia nella giurisdizione esclusiva (art. 7, comma 5). Il comma 6 dell'art. 30, inoltre, rafforza il citato art. 7 esplicitando che «di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi, conosce esclusivamente il giudice amministrativo» (Chieppa, 2018, 287). Il Codice riconosce, pertanto, al giudice amministrativo la cognizione di controversie tipicamente risarcitorie, estendendo dunque il giudizio di quest'ultimo a materie che, a rigore, spetterebbero alla cognizione del giudice ordinario e che, peraltro, comporterebbero un sindacato del G.A. ultroneo rispetto al mero sindacato di legittimità. L'attribuzione di questa specifica tipologia di controversie al G.A. estende, dunque, «il limite interno della giurisdizione, in quanto [altera] la linea di confine tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, devolvendo alla giurisdizione amministrativa (...) controversie afferenti a diritti soggettivi, le quali, in assenza della specifica norma di legge (...) rientrerebbero normalmente nella giurisdizione ordinaria» (Caponigro, 7). Va da sé che nelle ipotesi di lesione di diritti soggettivi per i quali non è prevista la giurisdizione esclusiva, l'azione di condanna deve essere promossa in base ai generali criteri innanzi al giudice ordinario (Clarich, 186). L'accoglimento del modello aquiliano (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021) implica un'indagine sintetico-comparativa che, senza isterilirsi sull'esistenza del provvedimento illegittimo in quanto tale, valuti il comportamento complessivo della P.A. onde verificare se, in chiave di comparazione con la condotta del privato, esso dia vita a un fatto illecito produttivo di danno ingiusto. Occorre quindi integrare il provvedimento nella fattispecie complessiva, alla luce dei comportamenti precedenti, concomitanti e susseguenti, per rispondere, in forza dell'analisi sintetico-comparativa imposta dall'art. 2043 c.c., alla domanda fatidica: «Chi è più giusto che paghi?» Anche se il provvedimento è favorevole ed « ex se» non dannoso, è più giusto che paghi la P.A. se, rilasciando un atto favorevole poi legittimamente annullato, ha tenuto una condotta complessivamente illecita idonea a far nascere nel privato beneficiario l'incolpevole e dannosa convinzione circa la spettanza dell'attribuzione .Anche se il provvedimento è illegittimo, è più giusto che paghi il privato in caso di lesione di un interesse oppositivo volto alla conservazione di un bene acquisito « contra ius », non essendo ingiusto il danno da lesione di «interesse oppositivo illegittimo» (si pensi all'illegittima demolizione di un immobile abusivo frutto di reato). Il danno può, infine, non essere ingiusto o essere ridotto ai sensi dei due commi dell'art. 1227 c.c., se l'illegittimità del provvedimento è stata provocata o concausata dal comportamento scorretto del privato che abbia dolosamente o colposamente indotto in errore l'agente pubblico con informazione false o reticenti, e, più in generale, con condotte scorrette e negligenti. La L.A.C. e l'irrisarcibilità degli interessi legittimi.Per lungo tempo, la pubblica amministrazione è stata chiamata a rispondere a titolo di responsabilità per il suo operato solo quando, ponendo in essere comportamenti materiali o comunque nell'esercizio di attività paritetica con i privati, violava il principio del neminem laedere, codificato, prima nell'art. 1151 c.c. del 1865, secondo il quale «qualunque fatto dell'uomo che arrechi danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il danno» e, poi nell'art. 2043 c.c., che prevede che «qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Ad esempio, nessun dubbio alla risarcibilità poteva porsi nel caso in cui l'autista dell'ente pubblico causa con colpa un incidente stradale, oppure l'insegnante omette di vigilare sull'alunno che si infortuna, oppure ancora in caso di omessa manutenzione di beni pubblici che rovinano provocando danni. Sono queste tutte fattispecie di responsabilità per attività materiali della P.A. che non pongono particolari problemi interpretativi. Nessun limite alla risarcibilità è stato, quindi, ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (Chieppa, Giovagnoli, 1031). I problemi interpretativi hanno invece, da sempre, riguardato il tema della responsabilità della P.A. derivante da propri atti e provvedimenti. A tal riguardo, un autorevole dottrina evidenziava che se è vero che l'ordinamento giuridico fosse preordinato alla tutela degli interessi, non tutti gli interessi erano meritevoli di protezione dall'ordinamento e meritavano la qualifica di interessi giuridici. Sicché, di un danno giuridico poteva parlarsi soltanto in quei casi in cui sia stato leso un interesse che l'ordinamento direttamente riconosca e protegga. Negli altri casi si avrà se mai un danno economico, ma non un danno giuridico. L'atto amministrativo illegittimo induce responsabilità solo quando esso lede un vero diritto soggettivo perfetto (Sandulli, 408; Romano, 308). Pertanto, con riferimento alla risarcibilità degli interessi legittimi, o meglio al problema della configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., della P.A. per il risarcimento dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo, la giurisprudenza definita dalla dottrina «monolitica» o addirittura «pietrificata», è stata costante per decenni nel fornire una risposta sostanzialmente negativa al quesito. In particolare, il dogma dell'irrisarcibilità degli interessi legittimi si basava sui seguenti argomenti: (i) sul dato testuale della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E) – la legge di abolizione del contenzioso amministrativo (L.A.C.) i cui art. 1 e 4 dispongono che «i Tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo, tanto in materia civile quanto in materia penale, sono aboliti, e le controversie ad essi attribuite dalle diverse leggi in vigore saranno d'ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria», nonché che «quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'Autorità amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio»); (ii) sulla configurazione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione di mero annullamento del provvedimento illegittimo nel quadro di una tutela esclusivamente demolitoria, essendo il potere di condanna, al contrario, riservato al Giudice ordinario; (iii) sul rilievo che l'unico danno risarcibile fosse quello derivante dalla lesione di un diritto soggettivo assoluto (Caringella, Manuale, 202). Infatti, la tradizionale lettura dell'art. 1151 c.c. 1865, prima, e dell'art. 2043 c.c., poi, identificava il danno ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo. A tal riguardo, ripercorrendo la giurisprudenza granitica della Corte di cassazione fino al 1999, può constatarsi che il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi si è formato e consolidato con il concorso di due elementi, l'uno di carattere processuale, l'altro di carattere sostanziale: a) il peculiare assetto del sistema di riparto della giurisdizione nei confronti degli atti della P.A. tra giudice ordinario e giudice amministrativo, incentrato sulla dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo e caratterizzato dall'attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi); b) la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., nel senso che costituisce “danno ingiusto” soltanto la lesione di un diritto soggettivo (Cass. n. 4058/69; Cass. n. 2135/72; Cass. n. 5813/85; Cass. n. 8496/94; Cass. n. 1540/95). Col passare del tempo, tuttavia, la soluzione negativa ha visto progressivamente ristretto il suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata. In particolare, la giurisprudenza della Cassazione, pur riaffermandone in linea di principio la irrisarcibilità quale necessario corollario della lettura tradizionale dell'art. 2043 c.c., ha manifestato una tendenza progressivamente estensiva dell'area della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di interesse legittimo, nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica mediante attività giuridiche. Nessun limite è stato invece ravvisato, come è noto, in relazione ai comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (Cass. n. 737/1970; Cass. n. 2851/1976; Cass. n. 9550/1992; Cass. n. 3939/1996). Ed ulteriore estensione del principio ha riguardato la violazione dei c.d. limiti esterni della discrezionalità, ravvisata in ipotesi in cui la P.A., omettendo di svolgere attività di vigilanza o di informazione, o compiendo erroneamente attività di certificazione, aveva determinato danni a terzi (Cass. n. 6667/92; Cass. n. 8836/1994; Cass. n. 9593/1994; Cass. n. 5477/1995; Cass. n. 1030/1996). La tecnica è stata assai simile a quella utilizzata per ampliare l'area della risarcibilità ex art. 2043 c.c. nei rapporti tra privati, e cioè l'elevazione di determinate figure di interessi legittimi (diversificate per contenuto e forme di protezione) a diritti soggettivi. Ciò si è verificato, in particolare, quando è stata ammessa la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (in tal senso, tra le pronunce più risalenti, Cass. n. 543/1969; Cass. n. 5428/1979; Cass. n. 12317/1992; Cass. n. 6542/1995). Allo stesso modo, la dottrina evidenziava che, anche allorquando l'illegittimità dell'azione amministrativa abbia luogo entro l'ambito del potere dell'Amministrazione di sacrificare il diritto soggettivo, essa si risolve pur sempre nella lesione illegittima di un diritto. Di conseguenza è fuori dubbio che abbiano diritto al risarcimento del danno il proprietario illegittimamente espropriato, o i cui beni siano stati illegittimamente requisiti o demoliti, nonché l'impiegato il quale sia stato illegittimamente licenziato. Naturalmente in tali casi, dato che la lesione del diritto inerisce all'esercizio di un potere in presenza del quale diritto stesso degrada a interesse, e che in relazione a tale aspetto la pronuncia non può spettare che al giudice degli interessi, l'azione per il risarcimento del danno (sulla quale e competente il giudice ordinario) non potrà, venire esercitata prima che il giudice degli interessi si sia pronunciato circa l'illegittimità dell'azione amministrativa (Sandulli, 408). In altre parole, l'illecito, e cioè la lesione del diritto soggettivo da parte del provvedimento amministrativo, vi è e vi può essere solo in quanto il diritto soggettivo non sia stato «degradato» dal provvedimento stesso (Nigro, 200). In altre parole, si ritenevano risarcibili i soli interessi legittimi oppositivi che venivano «mascherati» da diritti soggettivi mediante il meccanismo del c.d. affievolimento. Il modulo procedimentale era il seguente: (i) l'adozione di un provvedimento autoritativo, incidendo negativamente su una posizione di diritto soggettivo, ne determinava la compressione, “trasformandola” in interesse legittimo; (ii) la sentenza di annullamento dell'atto invalido comportava, in virtù della sua efficacia retroattiva, la riespansione del diritto ingiustamente degradato; (iii) il privato, reintegrato nella titolarità dell'originaria situazione giuridica, poteva così adire il giudice ordinario per chiedere il risarcimento del danno. Si aveva, quindi, una doppia tutela: il privato, una volta ottenuto l'annullamento del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo, poteva ottenere, davanti al giudice ordinario, il risarcimento del danno per lesione di quello che, di fatto, era un diritto soggettivo. In questo contesto, quindi, la c.d. pregiudiziale amministrativa e, cioè, il previo annullamento dell'atto amministrativo aveva lo scopo di consentire il funzionamento del suddetto meccanismo (Lopilato, 1272). Una ulteriore operazione di trasfigurazione di interesse legittimo con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. si è verificata in relazione all'ipotesi della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo non originario ma nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell'atto fonte della posizione di vantaggio (Cass. n. 5145/1979; Cass. n. 5027/1992; Cass. n. 2443/1983; Cass. n. 656/1986; Cass. n. 2436/1997; Cass. n. 3384/1998). Anche nell'ambito di tale vicenda può invero rilevarsi che il privato, una volta acquisita in forza del provvedimento amministrativo (di concessione, autorizzazione, licenza, ammissione, iscrizione e così via) la posizione di vantaggio, risulta titolare di un «interesse legittimo oppositivo» alla illegittima rimozione della detta situazione, del quale si avvale utilmente sia per eliminare l'atto, sia per ottenere la reintegrazione dell'eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto. L'assetto giurisprudenziale passato era dunque caratterizzato dalla limitazione della tutela piena (di annullamento davanti al G.A. e, successivamente, risarcitoria davanti al G.O.) ai soli interessi legittimi oppositivi (elevati a diritti soggettivi mediante operazioni di trasfigurazione), con esclusione, quindi, dei soli interessi legittimi pretensivi. L'impossibilità di risarcire gli interessi legittimi pretensivi era basata, invece, sulla circostanza che, in questo caso, vi era «solo» un interesse legittimo senza «coesistenza» con diritti soggettivi, con conseguente preclusione derivante dalla sovraesposta concezione ristretta della locuzione danno ingiusto ex art. 2043 c.c. Inoltre, sul piano processuale, fino alla riforma del 2000, non vi era alcun giudice competente a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria. Infatti, il giudice amministrativo non aveva il potere di condannare la pubblica amministrazione al risarcimento del danno e il giudice ordinario non aveva cognizione sugli interessi legittimi (Lopilato, 1273). In particolare, la giurisprudenza inizialmente aveva negato la risarcibilità del danno conseguente a un atto di ritiro poi annullato dal G.A., sul rilievo che in capo al privato viene a configurarsi solamente a seguito del rilascio dell'atto una posizione di diritto soggettivo, che vanta una protezione non piena, ma subordinata al perseguimento dell'interesse pubblico e all'esercizio del potere amministrativo. Senonché la giurisprudenza, gradatamente, ha colto un tratto comune nel novero dei diritti risolutivamente condizionati – destinati ad affievolirsi al verificarsi della condizione risolutiva costituita dall'esercizio di un potere autoritativo – dal momento che, per via della sentenza di annullamento del G.A., la posizione giuridica soggettiva lesa viene a riespandersi e torna alla consistenza originaria. L'interesse legittimo pretensivo pur essendo in origine un mero diritto in attesa di espansione, si atteggia, dopo il conseguimento dell'atto richiesto, a guisa di diritto soggettivo perfetto, con la conseguenza che la relativa compressione a mezzo di un provvedimento contra legem di ritiro legittima, previo annullamento in sede di giurisdizione amministrativa, l'esperimento dell'azione civile innanzi al G.O. per il risarcimento del danno (Caringella, Manuale, 203). L'influenza del diritto comunitario ha costituito un impulso decisivo per incrinare il «dogma» della non risarcibilità dei danni causati alle posizioni di interesse legittimo. In particolare, va ricordato il riconoscimento, sotto la spinta dell'ordinamento comunitario, dell'azione di risarcimento (davanti al giudice ordinario previo annullamento dell'atto ad opera del giudice amministrativo) ai soggetti che abbiano subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture disposto dall'art. 13 della l. n. 142/1992 di recepimento della direttiva comunitaria Dir. CE/89/665, la cui disciplina è stata successivamente estesa agli appalti di servizi ed ai c.d. settori esclusi (la disposizione è stata peraltro abrogata dall'art. 35, comma 5 del d.lgs. n. 80/1998). Sul rilievo che il diritto comunitario non conosce la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e che nella suindicata materia il privato (secondo il nostro ordinamento) è titolare di posizioni di interesse legittimo, si è sostenuto che la menzionata normativa avrebbe introdotto nel nostro ordinamento una ipotesi di risarcibilità di interessi legittimi e si è suggerito di riconoscerle forza espansiva ultrasettoriale, così conformando l'ordinamento interno a quello comunitario (il cui primato è ormai incontroverso) ed evitando disparità di trattamento, nell'ordinamento interno, nell'ambito della generale figura dell'interesse legittimo. Oltre alla normativa comunitaria dettata in materia di appalti, irrompeva nel nostro ordinamento il principio di derivazione comunitaria della responsabilità dello Stato per i danni causati al privato a causa della mancata o imperfetta attuazione delle direttive comunitarie con la sentenza nel caso Francovich e Bonifaci (Corte giust. 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90) della Corte di Giustizia (Chieppa, Giovagnoli, 1033). Infine, con l'entrata in vigore del successivo d.lgs. n. 80/1998, il quale, nel ridisegnare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nei settori dei servizi pubblici, dell'edilizia e dell'urbanistica, ha statuito all'art. 35, comma 1, oggi abrogato per effetto del d.lgs. n. 104/2010, che: «Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto», la giurisprudenza ha assunto una posizione meno conservatrice (Caringella, Manuale, 203). La sentenza della Cass. S.U., 22 luglio 1999, n. 500All'esito del percorso evolutivo sinteticamente delineato, il dogma dell'irrisarcibilità delle posizioni d'interesse legittimo pretensivo è stato infranto dalla Corte di Cassazione, con la storica sentenza delle Cass. S.U., n. 500/1999, sulla base di una rilettura dell'art. 2043 c.c. e dell'adesione a una concezione sostanzialistica d'interesse legittimo. La Sezioni Unite, nel superare il granitico orientamento relativo alla irrisarcibilità degli interessi legittimi, hanno ricordato che l'opinione tradizionale, formatasi dopo l'entrata in vigore c.c. del 1942, secondo la quale la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda sulle seguenti affermazioni: l'art. 2043 c.c. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria; l'ingiustizia menzionata dall'art. 2043 c.c. è male riferita al danno, dovendo piuttosto essere considerata attribuita alla condotta, ed identificata con l'illiceità, da intendersi nel duplice senso suindicato; la responsabilità aquiliana postula quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e cioè lesivo di un diritto soggettivo (assoluto), e non iure, e cioè derivante da un comportamento non giustificato da altra norma. In senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente ha mosso alle suindicate affermazioni, le Sezioni Unite hanno tuttavia osservato, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell'art. 2043 c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo; per altro verso, che la scissione della formula “danno ingiusto”, per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno. In definitiva, secondo la Suprema Corte, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha funzione di riparazione del “danno ingiusto”, e che è ingiusto il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò, secondo le Sezioni Unite, non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo. Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere. Circa gli interessi legittimi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà invece vagliarsi per le Sezioni Unite la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta. Pertanto, secondo le Sezioni Unite, qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il giudice ordinario, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema normativo delineato dall'art. 2043 c.c., dovrà procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: (a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; (b) procederà quindi a stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento, che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), ovvero nelle forme dell'interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, poiché è la lesione dell'interesse al bene che rileva ai fini in esame, o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela, ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall'ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto); (c) dovrà inoltre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della P.A.; (d) provvederà, infine, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; e non sarà invocabile, ai fini dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza della S.C. con riferimento all'ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c. (Cass. n. 884/1961; Cass. n. 814/1967; Cass. n. 16/1978; Cass. n. 5361/1984; Cass. n. 3293/1994; Cass. n. 6542/1995), non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri nella negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato (Cass. n. 5883/1991) che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Infine, secondo le Sezioni Unite, rispetto al giudizio che può svolgersi davanti al giudice ordinario, non è ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento. Questa è stata infatti in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi all'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi, e non può quindi trovare conferma alla stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. E l'autonomia tra le due giurisdizioni risulta ancor più netta ove si consideri il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare l'applicazione, da parte del giudice ordinario, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di imputazione della responsabilità non correlato alla mera illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa, dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. La dottrina ha evidenziato che l'apertura al risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo ha eliminato un privilegio non più altrimenti giustificabile e ha consentito all'Italia di allinearsi con gli altri partners europei che non conoscono la categoria dell'interesse legittimo (Franzoni, Fatti illeciti, 232). La l. 21 luglio 2000, n. 205 e gli interventi della Corte costituzionale.La risarcibilità degli interessi legittimi, sancita dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 500/1999, è stata confermata nell'art. 7, l. n. 205/2000, la quale, nel riscrivere l'oggi abrogato art. 7, l. n. 1034/1971, ha tuttavia attribuito al Giudice Amministrativo, nell'ambito di tutta la sua giurisdizione (sia esclusiva, che di legittimità) la cognizione delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (anche attraverso la reintegrazione in forma specifica), e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. In particolare, l'art. 7 della l. n. 205/2000 ha previsto che «il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto». L'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione sulle domande risarcitorie ha trovato definitivo consolidamento a seguito della giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata negli anni antecedenti l'entrata in vigore del Codice. Invero, all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 205/2000, il giudice ordinario ha sollevato questione di legittimità costituzionale della predetta legge. In particolare, i giudici rimettenti lamentavano che la predetta l. n. 205/2000 avesse sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia «diritti soggettivi-interessi legittimi», il diverso criterio dei «blocchi di materie». In tal modo, secondo i giudici remittenti, sarebbe stato alterato non soltanto il rapporto tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo – rapporto che, pur non essendo stato realizzato il principio dell'unicità della giurisdizione, dovrebbe pur sempre essere di regola ad eccezione quanto alla cognizione su diritti soggettivi – ma anche il rapporto, all'interno della giurisdizione del giudice amministrativo, tra giurisdizione (generale) di legittimità e giurisdizione (speciale, se non eccezionale) esclusiva. La Corte costituzionale (Corte cost. n. 204/2004), nel ritenere in parte incostituzionali gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80/1998 come riscritti dall'art. 7 della l. n. 205/2000, ha tuttavia ritenuto conforme a Costituzione la predetta disposizione nella parte in cui attribuisce al giudice amministrativo il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. Tale potere non costituisce, secondo la Corte, sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Ha specificato, inoltre, la Corte che l'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola, che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l'art. 13 della l. n. 142/1992, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost. La Corte costituzionale si è nuovamente pronunciata sulla questione del risarcimento del danno con la sentenza Corte cost. n. 191/2006 con cui, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 325/2001, ha precisato che sia da escludere che, per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario. La Corte ha voluto con detta pronuncia ribadire che laddove la legge – come fa l'art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 – costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone il carattere «rimediale», essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli. In definitiva, la Corte costituzionale, con le due citate sentenze, ha riconosciuto che l'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria si fonda sull'esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice (quello amministrativo, in quanto giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica) l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione, attribuendogli non solo il potere di annullamento, ma tutti i poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione (Chieppa, Giovagnoli, 1038). Il Codice del processo amministrativo.Sulla base del quadro normativo e giurisprudenziale delineato nei precedenti paragrafi, è stato introdotto nel diritto pubblico un sistema in cui è devoluto al giudice amministrativo il potere di condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico, in una logica eminentemente «rimediale», e cioè come «strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione» (Corte cost., n. 204/2004), al precipuo scopo di garantire l'osservanza del principio dell'effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, sancito dall'art. 47, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e poi stabilito anche dal citato art. 1 c.p.a. L'art. 1 del c.p.a., dedicato all'effettività della tutela, richiama il concetto di pienezza della tutela assicurata dal giudice amministrativo. Assicurare una tutela piena significa che per le diverse posizioni giuridiche soggettive azionabili innanzi al giudice amministrativo sono esperibili adeguati strumenti di tutela, ivi compresa l'azione di risarcimento (in passato preclusa per il ricordato limite dei diritti patrimoniali consequenziali). È già stato ricordato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il risarcimento del danno è uno strumento di tutela e come tale è utilizzabile a protezione sia delle posizioni di interesse legittimo che di quelle di diritto soggettivo (Chieppa, Giovagnoli, 1038). Con il codice del processo amministrativo, è stata dunque attuata la suddetta tutela piena ed effettiva con la concentrazione presso il giudice amministrativo di ogni forma di tutela. Il risarcimento del danno non è elencato tra le materie di giurisdizione esclusiva, di cui all'art. 133 del Codice, ma è richiamato sia dal comma 4 (giurisdizione di legittimità) che dal comma 5 (giurisdizione esclusiva) dell'art. 7 del c.p.a. L'art. 7 c.p.a. costituisce una clausola generale tesa a spiegare la ratio delle diverse ipotesi di giurisdizione amministrativa in termini unitari. Detta clausola riproduce il testo di cui all'art. 103 Cost. All'interno di questo perimetro il giudice amministrativo: a) si caratterizza quale giudice naturale della legittimità dell'esercizio del pubblico potere (secondo la definizione utilizzata nella giurisprudenza della Consulta e delle Sezioni Unite della Cassazione) e come tale è il giudice chiamato ad apprestare ogni forma di tutela, anche risarcitoria, agli interessi legittimi (comma 4); b) nelle particolari materie indicate dalla legge, conosce, pure a fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi (comma 5). Come si legge nella Relazione al c.p.a., quella innanzi al giudice amministrativo è una tutela piena, nel senso che per le diverse posizioni giuridiche soggettive azionabili innanzi al giudice amministrativo sono esperibili adeguati strumenti di tutela, ivi compresa quella risarcitoria (Relazione al c.p.a., 12). Pertanto, per entrambe le tipologie di giurisdizione non vi può essere dubbio che la cognizione del G.A. riguardi anche le domande di risarcimento del danno collegate con l'esercizio o il mancato esercizio del potere e con posizioni di diritto soggettivo, rientranti nella giurisdizione esclusiva. Si tratta di una cognizione diretta, non giustificata da alcuna ragione di connessione, né dipendente dalle scelte processuali delle parti (domanda contestuale ad altra azione o domanda autonoma). A rafforzamento di tale devoluzione, il comma 6 dell'art. 30 del Codice esplicita che “di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo”. Viene definitivamente chiarito che le modalità di proposizione della domanda (contestualmente all'azione di annullamento o in via autonoma) non hanno alcun rilievo ai fini del riparto di giurisdizione, che spetta comunque al giudice dell'esercizio del potere, che è appunto il giudice amministrativo, unico a poter conoscere delle domande risarcitorie connesse con le modalità di esercizio, o mancato esercizio, di quel potere. Deve, quindi, escludersi che gli orientamenti del G.A., sui presupposti per l'accoglimento, o meno, delle domande risarcitorie o le scelte del privato ricorrente possano assumere rilievo per incardinare domande risarcitorie della tipologia descritta davanti al G.O. (Chieppa, Giovagnoli, 1039). Il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della P.A.Caduto il dogma della irrisarcibilità dei danni causati alle posizioni di interesse legittimo, si sono aperti una serie di rilevanti problemi interpretativi, rispetto ai quali la sentenza Cass. S.U., n. 500/1999 ha costituito più un punto di partenza che un punto di arrivo. Tra questi un particolare rilievo ha assunto la questione della natura della responsabilità (Chieppa, Giovagnoli, 1053). In effetti, il dibattito intorno alla natura della responsabilità della P.A. non costituisce soltanto una disquisizione teorica, in quanto, come è noto, dall'accertamento della natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità derivano una serie conseguenze, nient'affatto trascurabili, in particolare in tema: (i) di mora del debitore, che è mora ex re, ossia automatica, nel caso di obbligazione risarcitoria da responsabilità extracontrattuale (art. 1219, comma 2, n. 1, c.c.), ed è mora ex persona, che esige la costituzione in mora, nel caso di obbligazione risarcitoria da illecito contrattuale (art. 1219, comma 1, c.c.); (ii) di prescrizione, in quanto nella responsabilità da inadempimento contrattuale il creditore ha la possibilità di richiedere il risarcimento in giudizio secondo il termine ordinario di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.); nella responsabilità da fatto illecito, invece, il risarcimento del danno potrà essere richiesto nel termine di prescrizione quinquennale, decorrente dal momento in cui si esteriorizza e diventa conoscibile l'evento dannoso; (iii) di onere della prova, in quanto, come è noto, nella responsabilità da inadempimento dell'obbligazione il debitore ha l'obbligo di eseguire esattamente la prestazione e se questo non avviene, dovrà provare in sede di giudizio che l'inadempimento è dovuto a cause a lui non imputabili (art. 1218 c.c.), mentre nella responsabilità da fatto illecito l'onere della prova è posto a carico del danneggiato, il quale deve provare che vi è stata colpa o negligenza del soggetto che era tenuto a comportarsi secondo le norme dell'ordinamento giuridico per evitare che si cagionasse un danno ingiusto ad altri (art. 2043 c.c.). Pertanto, nella prospettiva contrattuale sarebbe la P.A. a dover fornire la prova liberatoria dell'art. 1218 c.c. A questo fine, non è certo che costituisca una «impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore» la prova di particolari circostanze, analoghe a quelle che integrano l'errore scusabile: ad esempio che la violazione delle regole applicabili al caso concreto è derivata dalla formulazione incerta delle norme da applicare, dalle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, dalla rilevante complessità del fatto (Franzoni, Fatti illeciti, 237); (iv) di danno, perché con riferimento alla responsabilità contrattuale colposa, il risarcimento è limitato «al danno che poteva prevedersi», secondo un criterio di normale diligenza, «nel tempo in cui è sorta l'obbligazione» (art. 1225 c.c.) mentre nel caso di illecito extracontrattuale non sussiste tale limite e il risarcimento ricomprende tutti i danni, perché l'art. 2056 c.c. richiama gli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., ma non l'art. 1225 c.c.; (v) di interessi legali che nel caso della responsabilità contrattuale sono dovuti dal momento della diffida o della domanda giudiziale con il quale si contesta il presunto inadempimento della P.A., mentre nel caso di illecito extracontrattuale sono dovuti dal momento del fatto illecito. a ) Tesi della responsabilità contrattuale da contatto amministrativo qualificato. Tra le tesi più innovative sulla questione della natura della responsabilità della P.A. vi è la teoria della responsabilità contrattuale da contatto amministrativo qualificato. Come evidenziato da autorevole dottrina, la riflessione ha preso l'avvio dal fatto che la legge sulla trasparenza dell'atto amministrativo (l. 7 agosto 1990, n. 241) ha imposto una serie di obblighi precisi alla pubblica amministrazione, e una serie di pretese azionabili per il privato. Così, ad esempio, l'amministrazione deve comunicare l'avvio e comunicare il nome del responsabile del procedimento, oltre che motivare il provvedimento finale; il privato ha diritto di vedere concluso l'iter entro un certo tempo, ha diritto di partecipare nella misura consentita dalla legge, anche soltanto con l'estrazione di copia degli atti che riguardano la procedura. In conseguenza di tutto ciò, con l'avvio, con lo svolgimento e con la conclusione di un procedimento amministrativo si instaura un rapporto speciale tra i soggetti interessati. La posizione del privato, dunque, non è assimilabile a quella di un qualsiasi terzo, ma a quella di chi entra in un contatto qualificato con chi deve prendere una decisione, seguendo una certa procedura, il cui rispetto è condizione per l'osservanza della legalità, della imparzialità, della correttezza e della buona amministrazione, alle quali i soggetti pubblici hanno il dovere di conformare la loro condotta. L'esercizio dell'azione amministrativa comporta la nascita di veri e propri obblighi a carico della p.a., l'esistenza dei quali, correlativamente, ingenera un affidamento nel privato che si consolida con lo sviluppo dell'azione amministrativa. Secondo questa impostazione, si sostiene pertanto che anche la responsabilità derivante dall'adozione di atti amministrativi illegittimi diventa una comune responsabilità per inadempimento, con tutte le conseguenze del caso sul punto della disciplina applicabile. Invero, l'interessato non è più semplice destinatario passivo dell'azione amministrativa; è il beneficiario di obblighi che si identificano nelle «regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità» (Cass. S.U., n. 500/1999). In definitiva, secondo questa impostazione, il «contatto sociale» (o il «contatto amministrativo»), creatosi per effetto dell'inizio di ogni procedimento amministrativo, determina la nascita del dovere dell'amministrazione di comportarsi secondo correttezza; quindi, fa nascere l'obbligazione ai sensi dell'art. 1173 c.c., la cui violazione dà luogo a una responsabilità da inadempimento (art. 1218 c.c.) (Franzoni, Fatti illeciti, 234). Da questo cambiamento di prospettiva discendono numerose implicazioni, diverse rispetto a quelle prospettate dalla sentenza n. 500/1999: (a) l'inquadramento della responsabilità della P.A. per attività provvedimentale all'interno della responsabilità contrattuale, con le connesse implicazioni in tema di prescrizione decennale e soprattutto onere della prova e colpa; (b) la tutela risarcitoria viene svincolata dal giudizio sulla spettanza del bene della vita o della sua probabilità di conseguirlo (Chieppa, Giovagnoli, 1053). La tesi della responsabilità contrattuale da contatto amministrativo qualificato è stata recepita da una parte minoritaria della giurisprudenza che ha statuito che allorché il privato sia titolare di un interesse legittimo di natura pretensiva, il contatto che si stabilisce fra lui è l'amministrazione deve ritenersi qualificato. La ricostruzione del rapporto tra pubblica amministrazione procedente e privato come contatto sociale qualificato permette di delineare l'effettiva dimensione dell'eventuale danno ingiusto, in quanto i comportamenti positivi e negativi della p.a. possono tradursi nella lesione patrimoniale dell'interesse del privato al bene della vita realizzabile attraverso l'intermediazione del procedimento amministrativo. Ne consegue che il diritto al risarcimento dell'eventuale danno derivante da atti illegittimi presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al mero modello aquiliano ex art. 2043, c.c., essendo caratterizzata dal rilievo di alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, da cui discendono importanti corollari in ordine alla disciplina concretamente applicabile con particolare riguardo al termine di prescrizione, all'area del danno risarcibile e all'onere della prova dell'imputazione soggettiva, corollari tra i quali va considerato quello secondo il quale «l'accertata illegittimità dell'atto ritenuto lesivo dell'interesse del cittadino rappresenta, nella generalità dei casi, indice presuntivo della colpa della p.a., alla quale incombe l'onere di provare la sussistenza di un errore scusabile» (Cons. St. V, n. 4461/2005; v. anche, Cons. St. V, n. 4338/2012; Cons. St. V, n. 4345/2012; Cons. St. V, n. 3367/2010; Cons. St. IV, n. 1467/2010; Cons. St. VI, n. 204/2003; Cons. St. V, n. 3796/2002; Cons. St. V, n. 4239/2001; T.A.R. Lazio I, n. 4491/2009; T.A.R. Lazio I, n. 4251/2007; T.A.R. Lazio I-quater, n. 9492/2006). b ) Tesi della responsabilità precontrattuale. Una diversa ricostruzione interpretativa attribuisce invece alla responsabilità della P.A. natura precontrattuale, ai sensi dell'art. 1337 c.c. Secondo questa seconda ricostruzione interpretativa, la posizione del titolare dell'interesse pretensivo e quella della pubblica amministrazione, titolare del potere, sono identiche in quanto su entrambi grava il dovere di comportarsi secondo buona fede. Dunque, la P.A. ha il dovere di comportarsi secondo buona fede nel valutare le pretese del privato. Secondo questo diverso indirizzo interpretativo la responsabilità della P.A. viene configurata come responsabilità precontrattuale per inadempimento degli obblighi di correttezza. L'azione amministrativa, che è l'esercizio della potestà, e l'azione del privato, che è l'esercizio dell'interesse legittimo, vanno riguardati alla stregua dei comportamenti precontrattuali, che sono governati, oltre che dalle regole giuridiche interne all''azione pubblica (le regole della discrezionalità), anche dalle regole proprie della responsabilità precontrattuale, adattate, però, alla specificità dell'azione pubblica (Chieppa, Giovagnoli, 1054). La dottrina evidenzia che l'accostamento con la responsabilità precontrattuale può contribuire a far emergere la necessità di assicurare una tutela risarcitoria in alcune fattispecie, in cui il cittadino non è direttamente leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma dal comportamento della P.A., che aveva dapprima generato, e poi violato, un affidamento, senza però perdere di vista la differenza che intercorre tra la realtà delle trattative che preludono al contratto ed i rapporti che si svolgono nell'istruttoria procedimentale, dove l'interesse non è quello a non essere coinvolti in trattative infruttuose, ma è il più rilevante interesse a conseguire un determinato ben della vita (Chieppa, Giovagnoli, 1055). c ) Tesi della responsabilità speciale. Una terza ricostruzione teorica attribuisce alla responsabilità della P.A. una natura speciale, non essendo possibile assimilare l'esercizio del potere autoritativo né alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale, né a quella ex art. 2043 c.c. È stato infatti evidenziato il rischio che le difficoltà di inquadramento della responsabilità della P.A. possano indurre l'interprete nella tentazione di scegliere una strada autonoma, costruendo un tertium genus di responsabilità speciale della P.A. ad immagine e modello delle peculiarità della P.A. In decisioni isolate, anche il Consiglio di Stato ha mostrato di aderire alla tesi di una responsabilità speciale, affermando che nel diritto pubblico e per il caso di lesione arrecata all'interesse legittimo, si è in presenza di una peculiare figura di illecito, qualificato dall'illegittimo esercizio del potere autoritativo il che preclude che possa essere senz'altro trasposta la summa divisio tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale, storicamente affermatasi nel diritto privato (Cons. St. VI, n. 1047/2005); la peculiarità di tale responsabilità consisterebbe nel fatto che il comportamento illecito si inserisce nell'ambito di un procedimento amministrativo e che la stretta connessione esistente tra sindacato di validità sul potere discrezionale e sindacato di responsabilità sul comportamento impone al giudice amministrativo, nel caso in cui sia proposta anche l'azione di annullamento o di nullità, di non sovrappone, nell'accertare la sussistenza del fatto illecito, proprie valutazioni a quelle riservate alla pubblica amministrazione (Cons. St . VI, n. 5611/2015). d ) Tesi della responsabilità extracontrattuale. A fronte delle precedenti tesi, da considerarsi minoritarie, l'orientamento prevalente continua a ricondurre la responsabilità della pubblica amministrazione per attività provvedimentale nel modello prevalente della natura extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c. Del resto, questa era stata la conclusione cui erano pervenute le Sezioni Unite con la sentenza Cass. S.U., n. 500/1999. La tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. è stata ribadita anche da successiva dottrina, che ha evidenziato, con riferimento alla responsabilità contrattuale da contatto, che nell'ambito del procedimento, amministrazione e cittadino vengono spesso in contatto fra loro, ma da questo contatto (eventuale) non sembra nascere un vero e proprio rapporto obbligatorio, il cui inadempimento costituisce fonte di responsabilità contrattuale (Chieppa, Giovagnoli, 1055). Con l'entrata in vigore del codice del processo alla responsabilità della P.A. è attribuita natura extracontrattuale, come si evince (i) dall'art. 30 c.p.a., ove viene richiamata la clausola aquiliana del «danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria»; (ii) dal dolo o colpa, quali requisiti soggettivi relativi al risarcimento del danno da ritardo amministrativo; (iii) nonché dal richiamo al risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. Uguale riferimento all'ingiustizia del danno e alla necessità dell'elemento soggettivo è contenuto nell'art. 133, comma 1, lett. a), c.p.a., che, recependo le indicazioni recate dall'art. 2-bis, l. n. 241/1990, disciplina il danno da ritardo (Caringella, Manuale, 206). La natura aquiliana della responsabilità, peraltro, non è messa in discussione dalla previsione del termine decadenziale di centoventi giorni per l'esperimento della domanda. Come espressamente osservato nella Relazione di accompagnamento al Codice, infatti, «potenzia la tutela del privato e, nello stesso tempo, offre una garanzia adeguata all'esigenza di certezza nei rapporti di diritto pubblico. Del resto, proprio il diritto civile ben conosce ipotesi in cui, anche nei rapporti paritetici, viene privilegiata tale esigenza di certezza con la previsione di termini decadenziali entro cui contestare la conformità a diritto di determinate situazioni giuridiche, la cui scadenza preclude anche l'azione risarcitoria. [...] La soluzione è, quindi, coerente con le forme di tutela nei confronti dei poteri privati che prevedono – talvolta – lo stesso termine per l'azione di impugnazione e per quella di risarcimento». L'Adunanza Plenaria ha definito il richiamo al modello della responsabilità contrattuale «un precedente isolato» (Cons. St., Ad. plen., n. 13/2008) e la giurisprudenza amministrativa ha inquadrato la gran parte delle fattispecie di responsabilità della P.A. nel modello extracontrattuale (ex plurimis, Cons. St. IV, n. 3318/2020; Cons. St. III, n. 4857/2019; Cons. St. V, n. 276/2015; Cons. St. IV, n. 623/2014; Cons. St. III, n. 5458/2013; Cons. St. V, n. 1271/2011; Cons. St. VI, n. 14/2010; Cons. St. V, n. 5124/2008; Cons. St. V, n. 4242/2008; Cons. St. IV, n. 1377/2007; Cons. St. VI, n. 6608/2006; Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. IV, n. 2408/2006). La questione relativa alla natura della responsabilità della P.A. è stata di recente oggetto di una sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio d Stato (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021). Per il Supremo Consesso Amministrativo la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non ha natura di responsabilità conseguente ad inadempimento contrattuale. Ha evidenziato l'Adunanza Plenaria che costituisce elemento centrale nella responsabilità aquiliana l'ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull'ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. Declinata nel settore relativo al «risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi», il requisito dell'ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l'esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l'incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo si caratterizza per l'esercizio unilaterale del potere nell'interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell'illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell'amministrazione. Inoltre, sempre secondo l'Adunanza Plenaria, depongono nel senso della riconducibilità del danno per lesione di interessi legittimi al modello della responsabilità per fatto illecito, anche indici normativi di univoca portata testuale. In particolare, l'art. 30,2 e 4 comma, c.p.a., rispettivamente fanno riferimento al ”danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria”, e al «danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Con specifico riguardo alle «conseguenze per il ritardo dell'amministrazione nella conclusione del procedimento», l'art. 2 -bis, comma 1, della l. n. 241/1990 prevede che i soggetti pubblici e privati tenuti ad agire secondo le regole del procedimento amministrativo «sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Per cui solo se dall'illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest'ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario. Ne consegue che il risarcimento è escluso quando l'interesse legittimo riceva tutela idonea con l'accoglimento dell'azione di annullamento, ma quest'ultimo sia determinato da una illegittimità, solitamente di carattere formale, da cui non derivi un accertamento di fondatezza della pretesa del privato ma un vincolo per l'amministrazione a rideterminarsi, senza esaurimento della discrezionalità ad essa spettante (Cons. St., Ad. plen., n. 13/2008). Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell'ingiustizia esige dunque la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza. Conseguentemente, il risarcimento del danno può essere accordato solo se è accertato che vi sia stata la lesione di un bene della vita. Una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell'art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità. Assume invece un ruolo centrale il sopra menzionato art. 1223 c.c., anch'esso richiamato dall'art. 2056 c.c., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». In ogni caso, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l'impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l'attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell'amministrazione (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021; adde Cons. St. IV, n. 216/2022). Ulteriore corollario applicativo della natura aquiliana della responsabilità in questione risiede nell'allocazione dell'onere della prova, assoggettata alla disciplina di cui al codice civile. La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha ritenuto che l'onus probandi debba essere completamente sopportato dal danneggiato, atteso che il giudizio risarcitorio è essenzialmente un giudizio sul rapporto, con una maggiore disponibilità probatoria da parte del ricorrente, secondo i generali principi di vicinanza della prova e di persistenza presuntiva del diritto (Cons. St. V, n. 2195/2014; Cons. St. III, n. 1160/2014). In punto di prova dei danni-conseguenza discendenti da una lesione dell'interesse legittimo del privato a causa di un illegittimo provvedimento della Pubblica Amministrazione, il Consiglio di Stato è intervenuto con una recentissima pronuncia (Cons. St, IV 16 novembre 2022, n. 10092) nel solco di principi già evidenziati dalla citata Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7). Il Consiglio di Stato ha fornito nell'occasione significative precisazioni di carattere generale in materia di domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi e prova delle relative conseguenze dannose: a) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell'interesse legittimo, e dunque di imputare all'evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze “dirette e immediate” dell'evento sul piano della causalità giuridica; b) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell'art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223,1226 e 1227 c.c.; c) una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere scolpito dal disposto di cui all'art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità, invece operante solo per la responsabilità da inadempimento ex art. 1225 c.c., con l'eccezione del caso di dolo; d) ai sensi dell'art. 1223 c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta», con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi; e) in questo ambito, resta fermo l'onere di allegazione e prova da parte del danneggiato, ai sensi degli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a., poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); f) la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno; g) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio. In materia vedi anche Cons. St, V, 1106/2022, con importanti precisazioni in materia di responsabilità precontrattuale per lesione del legittimo affidamento. Gli elementi costitutivi della responsabilità della P.A.Stabilito che la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano, va evidenziato che la lettura dell'art. 30 c.p.a. consente di individuare gli elementi necessari che debbono sussistere affinché possa esperirsi l'azione di condanna. In particolare, ai fini della configurabilità di detta responsabilità il giudice è tenuto a verificare tutti i requisiti dell'illecito e in particolare: (a) che sussista l'elemento oggettivo consistente nella illegittimità dell'attività amministrativa. In particolare la condotta della P.A. può essere commissiva o omissiva: è commissiva quando consegue all'adozione di un provvedimento amministrativo; omissiva quando consegue al ritardo della P.A. nell'adozione di un provvedimento; (b) che l'evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, alla condotta della Pubblica Amministrazione; (c) che sussista l'elemento soggettivo della colpa o del dolo, tenendo conto che la responsabilità della P.A. può essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto; (d) che sussista un evento dannoso e che il danno sia qualificabile come ingiusto. Nei successivi paragrafi si provvederà ad analizzare i singoli elementi costitutivi della responsabilità della Pubblica Amministrazione. L'elemento oggettivo: l'illegittimità dell'attività amministrativa.Ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A. deve sussistere l'elemento oggettivo consistente nell'illegittimità dell'attività amministrativa e quindi nell'esistenza di un danno ingiusto che, ai sensi dell'art. 30,2 comma, c.p.a. deve essere «derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria». L'art. 30 c.p.a. ha recepito alcuni dei principi che erano stati espressi nella nota sentenza Cass. S.U. , n. 500/1999 che ha infatti chiarito che potrà pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo. Perciò l'interesse legittimo che viene tutelato anche attraverso l'azione risarcitoria è identificato nell'interesse al bene della vita. Con ciò si fa riferimento a quell'interesse giuridicamente rilevante in forza del quale viene ammesso il riconoscimento di un interesse legittimo (Cortese, 2012, 968). La rilevanza dell'interesse tutelato viene accertata attraverso una comparazione degli interessi in conflitto da parte del giudice, volta a verificare se l'interesse del danneggiato possa essere sacrificato a fronte della realizzazione del contrapposto interesse del danneggiante poiché prevalente (Caringella, Manuale, 204). Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere. In dottrina si è criticata l'eccessiva protezione riservata agli interessi legittimi oppositivi nei casi in cui il provvedimento che va ad incidere su di essi è viziato per ragioni attinenti alla forma o al procedimento ma è sostanzialmente corretto e, quindi, non priva ingiustamente il cittadino del bene della vita. Tuttavia, tale «iperprotezione» degli interessi legittimi di tipo oppositivo, specie in presenza di mere violazioni formali o procedimentali, è stata in parte attenuata in seguito all'entrata in vigore dell'art. 21-octies della l. n. 241/1990, con cui alcuni vizi sono stati privati del carattere invalidante nel caso in cui emerga in giudizio che il contenuto del provvedimento non poteva che essere quello concretamente adottato dall'amministrazione (Chieppa, Giovagnoli, 1062). Circa gli interessi legittimi pretensivi, la lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione. In tal caso, ai fini della responsabilità, si dovrà valutare la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Tale valutazione implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta. Dunque, la semplice lesione degli interessi legittimi pretensivi non è di per sé sufficiente a configurare un danno ingiusto perché il privato non è titolare del bene della vita ma aspira ad ottenerlo e non è certo che l'atto amministrativo, sebbene illegittimo, abbia ingiustamente negato l'ampliamento della sfera giuridica dell'istante (Chieppa, Giovagnoli, 1062). Su questo tema la giurisprudenza si è espressa con diverse pronunce, generando un orientamento attualmente consolidato in base al quale, affinché si possa ottenere la tutela risarcitoria, è necessario l'accertamento di una lesione del bene della vita sotteso all'interesse legittimo salvaguardato ex lege. A tal riguardo, è degna di menzione l'importante pronuncia dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. plen., n. 13/2008) con la quale il Supremo Consesso Amministrativo ha stabilito come la tutela degli interessi legittimi – in particolare quelli pretensivi – presuppone l'accertamento positivo della spettanza del bene della vita. La giurisprudenza si è consolidata nel senso di statuire che la dichiarazione di illegittimità dell'atto non è sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. È sempre necessario che sia provato in modo certo la spettanza del bene della vita e la correlata lesione derivante dal provvedimento illegittimo e occorre verificare se l'annullamento per vizio del procedimento sia avvenuto a seguito di una illegittimità di natura formale o di carattere sostanziale (Cons. Giust. Amm. Sic., n. 555/2015). Ne deriva la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico (Cons. St. V, n. 2534/2020). In particolare, il Consiglio di Stato ha evidenziato che il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo. Quindi, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, l'ottenimento di una pronuncia favorevole è subordinata alla dimostrazione – secondo un giudizio prognostico – con accertamento in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'illegittima azione della p.a. (Cons. St. V, n. 5737/2019; Cons. St. V, n. 1859/2018). In un recente e importante arresto giurisprudenziale, il Consiglio di Stato ha avuto modo di prendere posizione nuovamente sul tema dell'elemento oggettivo dell'illecito amministrativo che legittima la tutela risarcitoria. È stato ribadito infatti che solo se dall'illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest'ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021). La recente pronuncia dell'Adunanza Plenaria ha in particolare riguardato il tema del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo, stabilendo che il requisito dell'ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza. Il danno ingiusto così declinato non è tuttavia il solo presupposto della responsabilità ex art. 2-bis l. n. 241/1990. Tale ultima disposizione dev'esser letta in combinato con l'art. 2 della medesima legge, che disciplina in termini generali la conclusione del procedimento amministrativo. La disposizione ora richiamata – oltre ad enunciare il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso, la cui violazione sostanzia nei rapporti intersoggettivi l'antigiuridicità della condotta dell'amministrazione; a modulare variamente i termini, le relative decorrenze e le ipotesi di sospensione; a regolare le conseguenze per alcune categorie di atti – prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l'inerzia dell'amministrazione, incentrato sul potere di avocazione dell'affare. L'istituto ha un ruolo centrale nella fattispecie di responsabilità dell'amministrazione per danno. La sua attivazione da parte del privato è infatti indice di serietà ed effettività dell'interesse legittimo di quest'ultimo al provvedimento espresso. All'opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi, salve diverse considerazioni che spieghino tale inerzia, che l'ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato, nell'ambito delle proprie autonome determinazioni. In tale prospettiva, il mancato utilizzo dello strumento può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell'art. 30, comma 3, c.p.a. al fine di escludere «il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti» (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021). Ciò secondo i principi affermati dalla stessa Adunanza plenaria in una precedente pronuncia (Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011) secondo cui l'assoggettamento della funzione amministrativa al diritto, e dunque il primato della legge, riconosce al privato un novero di mezzi a tutela dei propri interessi più ampio di quelli utilizzabili nei rapporti di diritto civile, ed in cui l'azione risarcitoria è solo uno dei rimedi a disposizione. Il nesso di causalitàFra i requisiti necessari per poter configurare la responsabilità della pubblica amministrazione vi è il nesso di causalità tra l'illegittima attività della p.a. e l'evento lesivo subìto dal danneggiato. Per definire il contenuto di tale elemento viene operato un collegamento con i criteri di diritto civile, dunque, con l'art. 1223 c.c., applicabile – stante il richiamo dell'art. 2056 c.c. – anche per le ipotesi di responsabilità aquiliana. La teoria principale in tema di rapporto di causalità è costituita dalla c.d. conditio sine qua non. Essa, denominata anche come teoria della condizione necessaria, identifica la causa in tutti gli antecedenti senza i quali un determinato effetto non si sarebbe verificato (Bianca, 142). Tuttavia, per l'applicabilità dell'art. 30 c.p.a. è necessario operare anche una precisazione terminologica e concettuale sul principio di cui si discute. Quando si fa riferimento al nesso eziologico nel senso di «causalità materiale», si intende il rapporto esistente tra un determinato fatto e l'evento lesivo, mentre quando si parla di «causalità giuridica», si vuole intendere il rapporto esistente tra l'evento provocato e le sue conseguenze risarcibili (Bordon, 118). Con «causalità adeguata», invece, ci si riferisce al fatto che il soggetto abbia provocato l'evento attraverso un'azione adeguata, ovvero, idonea a determinare l'evento in virtù di criteri di ‘normalità' valutati alla stregua della comune esperienza, ritenendo come non causati dalla condotta quegli effetti straordinari, imprevedibili o atipici (Bianca, 144). Ebbene, su questo tema, è necessario operare una distinzione anche a seconda che si tratti di interessi pretensivi o oppositivi. Nel primo caso, l'accertamento della lesione richiede un giudizio prognostico attraverso la teoria condizionalistica, mentre nel secondo caso si sono sviluppati due differenti filoni interpretativi. Il primo di questi ritiene non necessario un giudizio prognostico, avendo l'interesse una finalità conservativa del bene della vita, mentre il secondo sostiene l'esigenza, per l'interessato, di provare il rapporto di causalità materiale al pari di quanto avviene nell'ambito della responsabilità civile (Lopilato, 1286). Il tema del nesso di causalità è stato oggetto di orientamenti giurisprudenziali che hanno sostanzialmente confermato i suddetti principi, sottolineando anzitutto la sua necessità al fine di valutare se la condotta della p.a. sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo e operando, quindi, una ricognizione dei principi civilistici sul tema (Cons. St. V, n. 2174/2021). In particolare, secondo il Consiglio di Stato, l'accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento lesivo – ovvero la c.d. causalità materiale – impone di verificare se l'attività illegittima dell'Amministrazione abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e risulti meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento (Cons. St. II, n. 3318/2020). È stato evidenziato che si tratta di un giudizio da svolgere in forza della succitata teoria condizionalistica, governata dalla regola probatoria del “più probabile che non” e temperata in applicazione dei principi della causalità adeguata. Il giudizio controfattuale che deve essere svolto è funzionale a stabilire se, eliminando quella determinata condotta, l'evento si sarebbe ugualmente verificato, e, in caso affermativo tale scrutinio, una fase successiva richiede la verifica, con un giudizio di prognosi ex ante, dell'esistenza di condotte idonee – secondo il criterio del “più probabile che non” – a provocare quel determinato evento (Cons. St. VI, n.2734/2021; v. anche Cons. St. VI, n. 5388/2020). Con l'ultima pronuncia menzionata, il Consiglio di Stato ha peraltro posto in rilievo l'importanza dell'onere della prova facente capo al presunto danneggiato il quale è tenuto a dimostrare l'esistenza dell'elemento del nesso di causalità (Cons. St. VI, n.2734/2021). Con riferimento all'interruzione del nesso eziologico, è ormai pacifico in giurisprudenza come sia necessario valutare se la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, idonea alla produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, sia in grado di ‘recidere' quel nesso che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la presunta condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili (Cons. St. V, n. 962/2021; cfr. Cons. St. II, n. 6169/2021). L'elemento soggettivo dell'illecitoElemento essenziale ai fini della configurazione della responsabilità della P.A. è rappresentato – al pari della fattispecie di responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 c.c. – dall'elemento soggettivo, ovvero dalla colpa o dolo della p.a. Con quest'ultimo elemento, perciò, si definisce quella componente di presupposti essenziali perché si possa configurare una responsabilità dell'amministrazione e quindi ottenere una tutela risarcitoria: danno ingiusto, nesso di causalità ed elemento soggettivo. Tuttavia, l'elemento soggettivo non può essere ricavato in modo esplicito e lineare dalla lettura dell'art. 30 c.p.a., ma viene riconosciuto dal richiamo al paradigma dell'ingiustizia del danno. Come rilevato in dottrina, infatti, al comma 4 dell'art. 30 c.p.a. possiamo rinvenire un riferimento a dolo e colpa, ma con esclusivo riferimento al termine di conclusione del procedimento amministrativo; nulla si aggiunge invece in ordine a differenti fattispecie di danno. Al comma 3, invece si rinvengono impliciti riferimenti all'elemento soggettivo, ma solo in relazione alla valutazione del comportamento complessivo delle parti. Nondimeno, benché non vi sia una clausola generale di colpevolezza, il richiamo al danno ingiusto previsto nel comma 1 risalta la necessità di accertare anche la sussistenza dell'elemento psicologico tipico della responsabilità aquiliana (Caringella, Manuale, 226). Con una recente pronuncia è stato evidenziato che la parte, la quale affermi di avere subito un danno in conseguenza dell'altrui condotta lesiva è tenuta ad allegare e provare puntualmente gli elementi costitutivi dell'illecito e le conseguenze pregiudizievoli subite. In particolare, l'illecito civile ascrivibile alla p.a. nell'esercizio dell'attività autoritativa richiede: (a) sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità, a tale ultimo riguardo, di distinguere l'evento dannoso (o c.d. «danno-evento») derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone (c.d. «danno-conseguenza»), suscettibile di riparazione in via risarcitoria); (b) sul piano soggettivo l'integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell'amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell'Amministrazione (Cons. St. VI, n. 6111/2021). Nell'analisi dell'elemento soggettivo è necessario, tuttavia, esaminare il differente approccio che si è adottato con la sentenza della Cass. S.U. , n. 500/1999 e quello successivo a siffatta pronuncia tenendo conto che prima dell'intervento della citata sentenza delle SS.UU. la giurisprudenza, nel giudizio di accertamento della responsabilità dell'amministrazione derivante da provvedimenti adottati iure imperii fosse solita applicare il criterio della colpa in re ipsa (Trimarchi Banfi, 67). La colpa della P.A. nella sentenza Cass. S.U., n. 500/1999 Nell'esperienza giurisprudenziale amministrativa precedente alla sentenza Cass. S.U. , n. 500/1999, con riferimento al tema della colpa della p.a., quale elemento costitutivo della responsabilità aquiliana, si individua un primo “filone giurisprudenziale” per cui, al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non viene richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a., essendo a tal fine sufficiente invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa, o allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile; mentre spetta all'amministrazione dimostrare che si sia trattato di un errore scusabile. In tale direzione, la giurisprudenza ha dichiarato che il diritto al risarcimento del danno patrimoniale conseguenziale ad un atto amministrativo illegittimo, annullato dal giudice amministrativo, prescinde dalla prova della colpa della p.a., di per sé ravvisabile nella violazione della norma operata con l'emissione e l'esecuzione dell'atto (Cass. S.U., n. 5361/1984). A tale orientamento si giustappone un enunciato di principio che, riassuntivamente rispetto alle posizioni via via elaborate, è di maggior rilievo e frequenza, secondo il quale l'imputazione della responsabilità nei confronti della p.a. non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, giacché ciò si risolverebbe in un'inammissibile presunzione di colpa, ma comporta, invece, l'accertamento in concreto della colpa dell'amministrazione, che è configurabile quando l'esecuzione dell'atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza. (Cons. St., Ad. plen., n. 13/2008). La tesi della sussistenza della colpa in re ipsa è stata abbandonata dalla sentenza Cass. S.U. , n. 500/1999. Si è infatti stabilito che nella verifica dell'illecito della P.A. rientra anche l'accertamento dell'elemento soggettivo. L'illegittimità del provvedimento amministrativo non è più considerata di per sé sufficiente ai fini dell'indagine su una responsabilità amministrativa. La valutazione della colpa non deve essere effettuata in relazione al funzionario agente, bensì della P.A. intesa come «apparato», configurabile allorché vi sia la violazione di regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione. La colpa della P.A. dopo la sentenza Cass. S.U., n. 500/1999 I connotati attuali dell'elemento soggettivo nella responsabilità della P.A., nella fase successiva alla Sentenza delle S.U. n. 500/1999 derivano dalla giurisprudenza europea la quale ha avuto modo di pronunciarsi sul tema della responsabilità propria delle Istituzioni comunitarie. I principi che ne sono risultati ruotano su una colpa piuttosto oggettiva in forza della sola inosservanza, grave e manifesta, di norme comunitarie che attribuiscono diritti e la cui violazione costituisce un danno. Il riferimento alla giurisprudenza europea è alla sentenza della C.G.U.E., III, 30 settembre 2010, C-314/09. Il Consiglio di Stato ha in parte fatto propri i principi sorti dalla giurisprudenza comunitaria ed ha iniziato ad accogliere una nozione oggettiva di colpa della P.A. Si tengono quindi in considerazione i vizi che inficiano il provvedimento, ravvisando la colpa «d'apparato» qualora l'illegittimità del provvedimento sia stata cagionata da una violazione «grave» di norme giuridiche; e tanto con l'estensione analogica della norma ex art. 2236 c.c. che esclude la responsabilità dei professionisti per colpa lieve» (Caringella, Manuale, 229). Per l'accertamento della gravità in questione, la giurisprudenza nazionale richiama indici sintomatici in tutto similari a quelli dettati dalla giurisprudenza comunitaria. In particolare, è stato affermato che l'illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione (Cons. St. III, n. 3903/2020). Secondo siffatto orientamento, la colpa dell'apparato sussisterebbe solamente al cospetto di una illegittimità del provvedimento amministrativo derivante dalla grave violazione di norme giuridiche la cui valutazione si fonda su precisi elementi, tra cui il grado di chiarezza della norma violata, l'intenzionalità della violazione, l'esistenza di precedenti giurisprudenziali (Cons. St. V, n. 3814/2011), l'ampiezza delle valutazioni discrezionali di spettanza dell'organo, l'apporto fornito dai privati nel procedimento e le circostanze concrete (Cons. St. IV, n. 131/2015). Tuttavia, anche l'impostazione ora richiamata è stata criticata in dottrina poiché finirebbe per introdurre una limitazione della responsabilità della P.A. alla colpa grave, senza che vi sia una base normativa adeguata; poiché la responsabilità dell'Amministrazione acquisirebbe una funzione prevalentemente sanzionatoria, anziché una funzione di ripristinatoria del danno subito; poiché anche vizi oggettivamente meno gravi potrebbero accompagnarsi alla colpa della P.A.; poiché la colpa dev'esser riferita al processo generativo dell'atto illegittimo e non alla misura della difformità dai parametri normativi (Caringella, Manuale, 229). Un secondo orientamento, invece, si è incentrato sulla presunzione di colpa rilevando che l'inquadramento della responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo nell'ambito del modello aquiliano, fa sì che il privato possa provare la colpa dell'Amministrazione anche semplicemente dimostrando l'illegittimità del provvedimento lesivo, illegittimità la quale, pur non identificandosi nella colpa, costituisce, tuttavia, un indizio (grave, preciso e concordante) idoneo a fondare una presunzione (semplice) di colpa, che l'Amministrazione può vincere dimostrando elementi concreti da cui possa evincersi la scusabilità dell'errore compiuto (Cons. St. VI, n. 4115/2015). In via generale, secondo la giurisprudenza consolidata (ex multis, Cons. St. IV, n. 1709/2018; Cons. St. IV, n. 1615/2018), in materia di responsabilità da provvedimento illegittimo la responsabilità civile della P.A. non consegue automaticamente all'annullamento del provvedimento amministrativo (ovvero all'accertamento della sua illegittimità), in sede giurisdizionale (o di ricorso straordinario o di autotutela). Non basta il solo annullamento dell'atto lesivo o la declaratoria della sua invalidità, occorrendo la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, secondo un giudizio di regolarità causale, un pregiudizio direttamente riferibile all'assunzione o all'esecuzione della determinazione contra ius lesiva del bene della vita spettante all'attore (Cons. St. IV, n. 1356/2016; Cons. St. IV, n. 3258/2015). Perciò, il risarcimento del danno non spetta quando la declaratoria di invalidità del segmento di funzione pubblica in concreto esercitata ne consente la riedizione con esiti liberi (Cons. St. IV, n. 825/2018). Con particolare riguardo alla prova della sussistenza dell'elemento soggettivo, è stato poi condivisibilmente osservato in giurisprudenza che «ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della P.A. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo, il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata» (Cons. St. VI, n. 14/2010, Cons. St. IV, n. 5500/2004; Cons. St. V, n. 32/2005; Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. VI, n. 6608/2006; T.A.R. Campania, Napoli II, n. 545/2022). In sintesi, ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo, il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa. Spetterà a quel punto all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile. L'errore per essere scusabile deve essere valutato alla stregua del livello socioculturale dell'agente e sulla base della certezza della normativa di riferimento, in virtù di quanto se ne ricava dagli orientamenti in tema di buona fede nelle contravvenzioni e di errore di diritto ex art. 5 c.p. (Caringella, Manuale, 230). Non può essere escluso anche un errore sul fatto in base alla sindacabilità delle valutazioni tecniche. Ai fini della dimostrazione dell'errore scusabile può farsi riferimento alla giurisprudenza comunitaria che, pur assegnando valenza decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata; la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall'Amministrazione; nonché la novità di quest'ultima, riconoscendo così portata esimente all'errore di diritto, in analogia all'elaborazione della giurisprudenza penale (Caringella, Manuale, 231). In linea generale, quindi, a seguito della Cassazione n. 500/1999, si è affermato che per la configurabilità della colpa della P.A. occorre considerare il carattere della regola violata. Se essa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità. E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile (cfr. ex multis Cons. St. IV., n. 1683/2015; Cons. St. III, n. 3707/2015). La presunzione di colpa dell'amministrazione può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimento normativo, giuridico e fattuale tale da palesarne la negligenza e l'imperizia, cioè l'aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell'assunzione del provvedimento viziato, mentre deve essere negata la responsabilità quando l'indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto (Cons. St. VI, n. 4454/2019). La colpa della P.A. negli appalti pubblici. La giurisprudenza comunitaria ha ricostruito in termini oggettivi la responsabilità dell'Amministrazione in materia di appalti pubblici, escludendo la rilevanza, ai fini risarcitori, dell'elemento soggettivo dell'illecito. Il legislatore del c.p.a. con la disciplina di cui agli artt. 121 ss. c.p.a. prevede le ipotesi nelle quali il giudice deve pronunciare la declaratoria di inefficacia del contratto illegittimamente aggiudicato, disponendone l'attribuzione in favore del ricorrente. In particolare, come si vedrà meglio nel commento della specifica disposizione, l'art. 124, comma 1, c.p.a. prescrive che l'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto è subordinato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli artt. 121, comma 1, e 122 c.p.a. Se tale dichiarazione di inefficacia non interviene, viene disposto il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato. Quindi il legislatore ha previsto la possibilità di conseguire da parte dell'interessato il ristoro in forma specifica con il conseguimento dell'aggiudicazione o del contratto; nel caso contrario, la norma garantisce comunque al soggetto leso il ristoro per equivalente dei danni subiti, dei quali abbia fornito adeguata prova nel corso del giudizio (Caringella, Manuale, 232). La Corte di Giustizia, ha sostenuto che, laddove non venga dichiarata l'inefficacia del contratto, e quindi non venga riconosciuta la tutela in forma specifica ex art. 124 c.p.a., il giudice è tenuto a riconoscere d'ufficio e senza necessità di prova dell'elemento soggettivo, il risarcimento del danno subito e provato. Diversamente opinando, il rimedio per equivalente non sarebbe un'alternativa valida ed effettiva rispetto a quella in forma specifica (il conseguimento dell'aggiudicazione), che opera a prescindere dalla colpa (C.G.U.E., sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09). Dalla pronuncia della Corte di giustizia ne deriva che una normativa nazionale non può subordinare il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della P.A. commesse nel corso di gare d'appalto alla colpa e sancisce la natura oggettiva della responsabilità della stazione appaltante. Peraltro, la giurisprudenza nazionale ha sostenuto che nonostante la Corte di Giustizia si occupi esclusivamente dell'ipotesi in cui il danno lamentato dal ricorrente, del quale chiede il risarcimento, provenga dalla violazione della normativa europea in materia di appalti, il principio abbia una portata generale (T.A.R. Lazio I, n. 255/2014). Per contro, un altro orientamento giurisprudenziale nazionale si è espresso nel senso che il principio della responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione deve essere considerato solo per il settore degli appalti pubblici, come suffragato dalla disciplina europea, nonché dalle pronunce della Corte di Giustizia. Si sottolinea quindi che il rigido regime della responsabilità oggettiva non può essere esteso ad altri settori come quello in materia ambientale, focalizzato su criteri soggettivi del dolo o della colpa (T.A.R. Lazio II, n. 6864/2018). Il Consiglio di Stato, in materia di appalti pubblici era già intervenuto affermando che la regola comunitaria vigente in materia di risarcimento del danno per illegittimità accertate in siffatta materia per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi va a configurare una fattispecie di responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente. Infatti, essa deriva dal principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici. Intesa in questo senso, è dunque evidente che tale regola non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia di effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore interno nel Codice degli appalti (Cons. St. V, n. 5686/2012). Vi sono, in ogni caso, ulteriori pronunce che per parte loro attenuano il rigore di quest'ultima impostazione del Consiglio di Stato. Infatti, si è rilevato che, premettendo l'esame del motivo con il principio stabilito dalla citata sentenza C.G.U.E. 30.9.2010 n. C-314/09, secondo cui nella materia dei contratti pubblici non vi è alcuna necessità di accertare la componente soggettiva dell'illecito commesso da un'amministrazione aggiudicatrice in una procedura di affidamento, ciò non significa prescindere del tutto da un accertamento, anche in subiecta materia, della rimproverabilità del comportamento dell'amministrazione. Tuttavia, un tale accertamento, secondo il Consiglio di Stato, deve essere apprezzato sulla scorta del parametro oggettivo, enucleato in sede europea al fine di stabilire la responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario, del carattere di gravità ed evidenza dell'illegittimità, implicante un'indagine sul grado di chiarezza e precisione delle norme violate (Cons. St. V, n. 2256/2012). Per ulteriori riferimenti si rinvia al commento dell'art. 124 c.p.a. Il dolo. L'elemento psicologico del dolo, costituendo uno stato che non può essere riferito alla p.a. come apparato, ma al singolo agente pone la tematica di stabilire se e quando l'Amministrazione sia solidalmente responsabile, a fini risarcitori, della condotta dei suoi agenti, ovvero, dell'attività provvedimentale da questi realizzata. In effetti, l'Amministrazione risponde dell'operato dei propri funzionari in virtù di un rapporto di immedesimazione organica. Sicché gli atti posti in essere da questi ultimi vengono ad essa direttamente imputati. Occorre dunque interrogarsi se e quando la p.a. sia solidalmente responsabile, per il risarcimento dei danni, della condotta dei suoi agenti, ed in particolare, dell'attività provvedimentale da questi realizzata. Secondo un primo orientamento, gli atti compiuti con il proposito di cagionare un danno a terzi, ovvero integranti un reato, comportano l'interruzione del rapporto organico che lega il funzionario alla p.a., con la conseguenza che l'atto e la relativa responsabilità debbono essere ascritti al solo funzionario. Tuttavia, non si rinviene una valida argomentazione su come si possa produrre tale effetto interruttivo. Un diverso orientamento, che prende spunto dall'elaborazione dell'art. 2049 c.c., sostiene che la condotta del dipendente è riferibile all'ente pubblico se è stata realizzata in una situazione di occasionalità necessaria con le sue attribuzioni. Pertanto, se l'operato del dipendente è stato occasionato o facilitato dalle sue mansioni, a nulla rileva che questi abbia agito con dolo o al fine di commettere un reato. Un comportamento del tutto estraneo ai compiti della p.a., invece, comporterebbe che l'unico responsabile sarebbe il dipendente in linea col disposto dell'art. 28 Cost. (Caringella, 234). La giurisprudenza di legittimità con il suo tradizionale orientamento, fondato sul c.d. criterio «pubblicistico» del rapporto di immedesimazione organica derivante dall'art. 28 Cost., ha fornito risposta affermativa ad una responsabilità diretta e soggettiva della p.a. per fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente quando, oltre al nesso di causalità tra la condotta e l'evento, l'attività del dipendente fosse esplicazione dell'attività dello Stato, diretta, «pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto» (Cass. III, n. 10803/2000; Cass. III, n. 2089/2008). In quei casi in cui il dipendente agisse per fini strettamente personali ed egoistici o, addirittura, contrari ai fini istituzionali dell'ente, veniva invece esclusa la responsabilità dell'Amministrazione. Come sopra accennato, per converso, una più recente giurisprudenza ha ancorato il ragionamento su un criterio privatistico del rapporto di preposizione, rifacendosi all'art. 2049 c.c. e riconoscendo una fattispecie di responsabilità indiretta ed oggettiva dell'Amministrazione anche per la condotta del dipendente diretta a perseguire finalità esclusivamente personali ed egoistiche. Siffatte condotte dovevano essere state realizzate «sfruttando l'occasione necessaria offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni» (Cass. pen. VI, n. 13799/2015). In altri termini, secondo tale ultimo orientamento, è necessaria la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta tenuta e le funzioni attribuite al dipendente/funzionario. La p.a. non risponde soltanto se il comportamento tenuto costituisce un non prevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni «non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all'espletamento delle sue incombenze» (Cass. III, n. 11816/16). A fronte dei due orientamenti che si sono susseguiti, nel 2019 sono intervenute le SS.UU. stabilendo che la responsabilità della p.a. per l'illecito del suo dipendente, anche quando questi abbia approfittato delle proprie attribuzioni e agito per finalità esclusivamente personali o egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, sussiste «purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo» (Cass. S.U., n. 13246/2019). Il danno risarcibile.Ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A. deve infine sussistere un danno e detto danno deve essere ingiusto. L'art. 30,2 comma, c.p.a. fa espresso riferimento al risarcimento del danno in tre diverse proposizioni, prevedendo che: (a) può essere chiesta la condanna al «risarcimento del danno» ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria; (b) nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il «risarcimento del danno» da lesione di diritti soggettivi; (c) infine, sussistendo i presupposti previsti dall'art. 2058 c.c., può essere chiesto il «risarcimento del danno» in forma specifica. Ciò premesso, nei successivi paragrafi saranno analizzate le principali categorie di danno conseguente alla responsabilità della pubblica amministrazione. Senonché, preliminare alla trattazione delle differenti tipologie di danno appare la distinzione tra interessi legittimi pretensivi e interessi legittimi oppositivi. Il danno con riferimento agli interessi oppositivi. Nell'ambito degli interessi sostanziali occorre operare una distinzione di fondamentale importanza tra interessi di tipo oppositivo e interessi di tipo pretensivo, in quanto la lesione dell'uno o dell'altro genera diversi tipi di danno e legittima ad attivare differenti tipologie di pretese. Inoltre, ciascuno dei due impone l'utilizzo di una diversa tecnica di accertamento della lesione al bene della vita cui aspira il privato. Sotto il primo profilo si noti che, mentre nell'ipotesi di violazione di un interesse legittimo pretensivo il privato può chiedere l'annullamento del rigetto di emanazione del provvedimento o l'annullamento del silenzio serbato dalla P.A., nel caso di lesione di un interesse legittimo oppositivo il privato può chiedere soltanto l'annullamento del provvedimento lesivo emanato dalla P.A. Per quanto attiene al danno, invece, occorre rilevare che mentre nell'ipotesi di lesione di un interesse legittimo oppositivo il singolo subisce un danno da disturbo all'esercizio delle facoltà connesse al suo diritto, nell'ipotesi di lesione di un interesse legittimo pretensivo il singolo subisce un danno da ritardo nell'ampliamento della sua sfera giuridica (Corradino, 113). La dottrina ha evidenziato che, nel caso degli interessi legittimi oppositivi, contrariamente agli interessi pretensivi, stante la preesistenza del bene della vita al provvedimento affetto da vizi di legittimità, la lesione dell'interesse legittimo implica ex se la lesione del detto bene (ossia il sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere); l'accertata illegittimità dell'atto lesivo risulta sufficiente a far consolidare il dato del danno ingiusto (salvi i problemi di quantificazione). Cosicché, per evitare un'ingiustizia sostanziale, che renderebbe alcune categorie di interessi oltremodo protetti, è stata suggerita in dottrina, anche per gli interessi legittimi oppositivi, la distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, nel senso di riconoscere efficienza causale soltanto a questi ultimi (Caringella, Manuale, 210). Il Consiglio di Stato, con pronunce più risalenti, aveva affermato il principio secondo cui per il risarcimento del danno da lesione degli interessi oppositivi è sufficiente accertare la lesione dell'interesse alla conservazione del bene, o della situazione di vantaggio, provocata dall'illegittima attività dell'amministrazione, anche in violazione di regole solo formali (Cons. St. V, n. 2256/2006). In senso difforme, si è, tuttavia, rilevato che anche la distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali può non essere risolutiva. Invero, mentre nei casi di potere interamente vincolato il nesso causale è da escludere quando sia provato che l'Amministrazione, di fatto, non avrebbe deciso in modo diverso anche se la regola violata fosse stata osservata (specie dopo l'avvento dell'art. 21-octies della l. n. 241/1990 che limita l'effetto invalidante dei vizi formali), a conclusioni diverse deve giungersi quando l'attuazione del potere avrebbe ammesso decisioni diverse da quella assunta e anch'esse illegittime. In tal caso, dato che la statuizione, pur materialmente corretta, non ne preclude altre, anch'esse compatibili con il diritto sostanziale, non è possibile escludere che un diverso svolgimento delle cose, conforme alle regole formali, avrebbe condotto ad una decisione diversa da quella adottata e più favorevole all'interessato (ciò è quanto accade nelle ipotesi in cui il potere è discrezionale in qualche suo aspetto e non sussistono circostanze che, in concreto, riducano ad una soltanto la decisione che può essere legittimamente assunta). In queste situazioni, in cui è incerto se la violazione delle regole formali abbia inciso sulla possibilità di esito favorevole del procedimento, la dottrina, onde evitare che l'impossibilità della prova vada a detrimento della parte che si afferma danneggiata, ammette il risarcimento della chance. Recependo i suddetti rilievi critici, una vera e propria svolta si è registrata nel 2004 con un'importante sentenza del Consiglio di Stato che, pronunciandosi sulla specifica ipotesi del c.d. «danno da disturbo», ha osservato che se il provvedimento compressivo è viziato per ragioni formali oppure al solo procedimento, ma risulta ineccepibile sul piano sostanziale, la pubblica amministrazione potrebbe adottare un provvedimento di identico contenuto sfavorevole per il privato. In questa situazione è difficile giustificare un diritto al risarcimento, salvo sganciare la responsabilità dell'Amministrazione dal paradigma aquiliano, con conseguente differente valutazione dei presupposti fondanti il diritto al ristoro e distinta quantificazione dei pregiudizi riparabili (Cons. St. VI, n. 1261/2004). La sostanziale necessità dell'accertamento di una lesione sostanziale al bene della vita sotteso anche agli interessi legittimi oppositivi è stato da ultimo ribadita dalla giurisprudenza successiva, la quale ha definitivamente ripudiato ogni tipo di automatismo nel risarcimento degli interessi oppositivi. In tal senso è stato evidenziato (T.A.R. Campania V, n. 277/2014) che, con riferimento agli interessi oppositivi, è necessario distinguere l'annullamento del provvedimento per vizi formali o procedimentali, allorché resta integro il potere della Pubblica Amministrazione di adottare un nuovo provvedimento, emendato dai vizi, del pari negativo della pretesa al c.d. bene della vita, perché in tal caso pur in presenza di un danno ingiusto difficilmente può configurarsi un diritto al risarcimento perché manca proprio un danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) Successivamente lo stesso Consiglio di Stato ha rilevato come non possa considerarsi corretta la tesi secondo cui mentre in caso di interessi pretensivi che si proiettano verso il conseguimento di un bene futuro sarebbe necessario accertare, almeno in termini probabilistici, la fondatezza della pretesa sostanziale, nell'ipotesi di interessi oppositivi, miranti alla difesa di un bene della vita preesistente, tale indagine non sarebbe necessaria derivando in via automatica dall'accertamento dell'illegittimità dell'atto lesivo il precipitato dell'indebita sottrazione o lesione di un bene della vita preesistente. Il Consiglio di Stato ha infatti statuito che in materia di responsabilità civile della P.A. la verifica circa la sussistenza e l'ingiustizia del danno, secondo il modello aquiliano di cui all'art. 2043 c.c., ripreso dall'art. 30 c.p.a., rende necessaria, la verifica, anche in riferimento agli interessi oppositivi, della sussistenza della lesione di un bene della vita (senza la quale mancherebbe il danno) e della non illegittima acquisizione di detto bene (in assenza della quale farebbe difetto l'ingiustizia del danno) (Cons. St. V, n. 2187/2014). Sul tema, è di recente intervenuta anche la Corte di cassazione stabilendo che il diritto del privato al risarcimento del danno nei confronti della P.A. va accertato in maniera diversa a seconda della natura dell'interesse legittimo leso: quando esso è oppositivo, occorre verificare se l'illegittima attività dell'Amministrazione abbia leso l'interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio, mentre, se l'interesse è pretensivo, concretandosi la lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio prognostico la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (Cass. III, n. 21535/2021; conf. Cass. I, n. 21170/2011). Il danno con riferimento agli interessi pretensivi. Con riferimento agli interessi pretensivi, la posizione d'interesse legittimo e la spettanza del bene della vita per definizione non coesistono nella sfera del privato. Si pone, pertanto, il problema di verificare in che modo il giudice del risarcimento possa sostituirsi alla pubblica amministrazione, sia pure nell'ottica prognostica, nel valutare la spettanza del bene della vita (ad es. la possibilità di costruire grazie alla concessione edilizia). Per detti interessi pretensivi, cioè, è fisiologico che l'illegittimità formale del provvedimento possa non coincidere con l'ingiustizia sostanziale dello stesso. In tale direzione, il Giudice amministrativo ha spesso stabilito che un atto illegittimo esclusivamente per vizi formali non va necessariamente a ledere l'interesse al bene della vita cui il soggetto aspira perché non è escluso che il provvedimento, anche se formalmente illegittimo, sia sostanzialmente lecito. In tal caso il Giudice non è in grado di definire l'assetto degli interessi in gioco, dei quali rimane arbitra l'Amministrazione; una sentenza di annullamento per vizi formali non intacca, pertanto, l'essenza del potere dell'Amministrazione, la quale ben può riadottare un atto avente il medesimo contenuto di quello decaduto, purché emendato dal vizio estrinseco che lo inficiava. Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza, sia amministrativa che civile, è possibile pervenire al risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo soltanto se l'attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione del bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. Più precisamente, con riferimento agli interessi pretensivi, occorre stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, in base a un criterio di normalità, a un esito favorevole. In particolare, l'inerzia amministrativa, per essere fonte della responsabilità risarcitoria, richiede, oltre ai presupposti di carattere generale, non solo il preventivo accertamento in sede giurisdizionale della sua illegittimità, ma, ancor più, il concreto esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all'interessato, ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudice investito della richiesta risarcitoria (Cons. St. IV, n. 7622/2020; Cons. St. IV, n. 2586/2020; Cass. I, n. 651/2018; Cass. I, n. 21170/2011; T.A.R. Emilia Romagna II, n. 361/2021). Pertanto, l'obbligazione risarcitoria affonda le sue radici nella verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell'amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè secondo il canone del “più probabile che non”) spettato al titolare dell'interesse. In tal modo, ove il giudizio si concluda con la valutazione della sua spettanza, certa o probabile, il danno, in presenza degli altri elementi costitutivi dell'illecito, può essere risarcito, rispettivamente, per intero o sotto forma di perdita di chance (Cons. St. IV, n. 137/2019; Cons. St. IV, n. 3657/2018; T.A.R. Veneto, Venezia II, n. 1080/2019; T.A.R. Campania, Napoli V, n. 4438/2018). Con riferimento al giudizio prognostico finalizzato a stabilire se il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente spettato al titolare dell'interesse, la dottrina ha evidenziato che occorre distinguere tra attività vincolata, attività tecnico-discrezionale e attività discrezionale pura. In caso di attività vincolata, il giudizio prognostico sullo sbocco del procedimento amministrativo, oggi reso ulteriormente necessario anche ai fini dell'annullamento dall'art. 21-octies della l. n. 241/1990 per i vizi formali e procedimentali, può essere effettuato da parte del G.A. qualora l'attività amministrativa si estrinsechi nell'adozione di un atto vincolato. Infatti, ove non residui in capo all'Amministrazione alcun potere discrezionale, non si pone il problema di giustificare la sostituzione del giudice del risarcimento in una valutazione discrezionale riservata alla pubblica amministrazione (Caringella, Manuale, 213). Allorché invece il provvedimento amministrativo è espressione di discrezionalità tecnica – la quale ricorre ogni qualvolta l'Amministrazione, per decidere, deve applicare regole tecniche di varia natura (medica, scientifica ecc.) che si caratterizzano per la loro opinabilità – il giudice, nel formulare il giudizio prognostico, dovrebbe ingerirsi nella valutazione tecnica per verificare se questa sia stata esplicata in modo corretto. In ordine ai limiti entro cui l'autorità giudiziaria può sindacare la discrezionalità tecnica, può ritenersi ormai spezzato il legame tra discrezionalità tecnica e merito amministrativo, ammettendosi di conseguenza un sindacato c.d. intrinseco sulla discrezionalità tecnica, da condurre cioè alla luce di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla stessa scienza specialistica applicata dall'Amministrazione. Sul tema si registrano due diversi orientamenti. Secondo il primo, al Giudice sarebbe comunque precluso il giudizio sulla spettanza del bene della vita. Si evidenzia, infatti, che per formulare tale giudizio prognostico egli non si limita a censurare la valutazione tecnica compiuta dalla P.A. perché erronea, ma compie, ex novo, un'altra valutazione tecnica, sostituendosi all'Amministrazione. Questa conclusione è respinta da un'altra parte della dottrina sulla base della considerazione secondo cui nel risarcimento del danno per equivalente la sostituzione del giudizio tecnico, lungi dall'incidere sul concreto dispiegarsi dell'attività amministrativa, è funzionale al solo ristoro patrimoniale. In quest'ottica, pertanto, la sostituzione del Giudice alla P.A. non avrebbe alcun effetto diretto sull'esito della determinazione amministrativa implicante lo scioglimento di un nodo tecnico. Non si verificherebbe, in altri termini, nessuna sovrapposizione definitiva dell'opinione tecnica del Giudice (attraverso l'ausilio del consulente) all'opinione tecnica dell'autorità all'uopo investita. Secondo questo indirizzo interpretativo, in definitiva, il Giudice, ai soli fini del risarcimento per equivalente, potrebbe valutare la spettanza del bene della vita, sostituendosi al giudizio tecnico della P.A. in ogni caso di discrezionalità tecnica, anche laddove il controllo intrinseco di tipo forte è normalmente precluso (Caringella, Manuale, 214). I problemi più rilevanti si pongono nell'ambito della discrezionalità amministrativa in capo all'autorità, essendo il Giudice chiamato ad accertare il nesso causale tra illegittimità del provvedimento e lesione del bene della vita, nella sfera esclusiva afferente al merito riservata all'Amministrazione. Una prima impostazione ritiene che al privato sarebbe riconosciuta la sola tutela risarcitoria, a condizione che la P.A., riesercitando il suo potere, abbia riconosciuto allo stesso il bene della vita, in un primo momento negato. Secondo questo indirizzo, quindi, nell'ipotesi di attività discrezionale il risarcimento potrà essere disposto solo dopo che l'Amministrazione rieserciti il proprio potere e riconosca all'istante il bene della vita (ma il danno, in questi casi, non potrà che essere danno da ritardo). In senso critico, la dottrina ha tuttavia osservato che subordinare il diritto al risarcimento del danno all'attribuzione del bene della vita da parte della P.A. con un provvedimento tardivo può risultare non del tutto soddisfacente per il privato, sia perché la definizione della spettanza e la prospettiva risarcitoria si proiettano molto lontani nel tempo, sia perché la stessa circostanza che l'Amministrazione che (finalmente) provvede positivamente sia in quello stesso momento esposta alla domanda risarcitoria costituisce un disincentivo per tale decisione. Inoltre, si è rilevato che in tutti i casi in cui per il decorso del tempo il bene della vita non sia più perseguibile o non interessi più, appare illogico costringere il privato ad ottenere dall'Amministrazione un provvedimento tardivo che, anche se favorevole, sarebbe ormai non più eseguibile o inutile (Caringella, Manuale, 214). Una seconda impostazione ritiene che al privato andrebbe riconosciuta in ogni caso la possibilità di seguire la via del solo giudizio risarcitorio, concentrando in tale sede l'esplicitazione da parte della P.A. degli eventuali motivi ostanti al rilascio del provvedimento che avrebbe potuto esternare in sede di riesame dell'istanza. Il giudizio risarcitorio diverrebbe così la sede nella quale l'Amministrazione è chiamata ai fini processuali a una riedizione dell'attività amministrativa, con la conseguenza che, laddove i motivi eventualmente esposti di fronte al giudice al fine di giustificare il diniego risultassero illegittimi, il giudice potrà concludere in senso positivo il giudizio prognostico, per non essere stata la P.A., né in sede di risposta all'istanza dell'interessato, né in sede giudiziale, capace di prospettare motivi legittimi contrari all'attribuzione del bene richiesto dal privato. La tesi si scontra con la difficoltà di imporre all'Amministrazione l'esercizio, in sede processuale ed in via solo virtuale, dei propri poteri discrezionali, da attivare e distintamente esercitare, poi, in modo questa volta reale, nella distinta sede procedimentale (Caringella, Manuale, 215). Una terza impostazione nega la possibilità per il G.A. di compiere il giudizio prognostico, ma ritiene che il risarcimento del danno da lesione d'interesse pretensivo possa essere concesso in presenza di una seria probabilità di soddisfacimento dell'interesse pretensivo da parte dell'Amministrazione nel caso avesse posto in essere un'attività non inficiata da illegittimità. La chance viene, quindi, in rilievo in funzione eziologica, come onere in capo al danneggiato di dimostrare di possedere una possibilità superiore al 50% di ottenere il bene della vita dall'Amministrazione; ovvero in chiave ontologica, ove la percentuale sia inferiore (con correlativo coefficiente di riduzione dell'entità del danno) e si individui come bene leso non il risultato finale perso ma la perdita della possibilità di ottenerlo (Caringella, Manuale, 215). Con riferimento alla quantificazione dei danni, la Cassazione ha statuito che, in tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, ove sia accolta la corrispondente domanda proposta dal partecipante alla gara illegittimamente pretermesso, questi ha diritto all'integrale ristoro dei danni subiti, a fronte della colpa dell'amministrazione nel preferirgli un altro concorrente, qualora risulti accertato che, se la gara si fosse svolta regolarmente, ne sarebbe risultato vincitore. Nella loro quantificazione, peraltro, il giudice dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto nel liquidare sia il danno emergente che il lucro cessante (Cass. III, n. 11794/2015). Con riferimento all'onere della prova la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che la domanda di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi deve essere ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c. Da ciò consegue che l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo con il quale l'interessato consegue il bene della vita anelato, dovendo il danneggiato, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, segnatamente, sia gli elementi di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (T.A.R. Campania, Napoli II, n. 923/2017). Sempre con riferimento agli oneri probatori, la Suprema Corte ha dichiarato che ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria occorre valutare, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato ed in via presuntiva e probabilistica, la sussistenza “ex ante” di concrete e non ipotetiche possibilità di conseguire vantaggi economici apprezzabili; l'accertamento e la liquidazione di tale perdita va condotta in via equitativa ed il Giudice deve dare conto del processo logico e valutativo seguito (Cass. I, n. 24295/2016). Il danno da ritardo. Rinvio. Sul risarcimento del c.d. «danno da ritardo», sulle tesi, favorevoli e contrarie, alla risarcibilità del danno da ritardo mero, sui termini per la proposizione della domanda di risarcimento e sull'indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento, si rinvia al commento dell'art. 133,1 comma, lett. a), n. 1), c.p.a. Il danno da disturbo. La pubblica amministrazione, oltre al «danno da ritardo», può essere chiamata a rispondere del c.d. «danno da disturbo». Quest'ultimo si palesa ogni volta in cui la p.a. impedisce al privato, a causa di una illegittima azione amministrativa, di godere appieno di una situazione giuridica soggettiva di cui risulta titolare. Il «danno da disturbo» si configura quale lesione di un interesse legittimo di tipo oppositivo, consistente nel pregiudizio subito in conseguenza dell'illegittima compressione delle facoltà di cui il privato cittadino era già titolare. Il danno da disturbo si verifica, in altre parole, quando la pubblica amministrazione, esercitando un'attività illegittima, apprezza, in maniera indebita, come prevalente l'interesse pubblico su quello privato, imponendo al proprietario o ad altro titolare di diritti soggettivi una limitazione delle loro facoltà. Il danno da disturbo è, dunque, una tipologia di danno avente connotati nettamente diversi da quelli tipici del danno da ritardo (Corradino, 151). Mentre infatti il danno c.d. «da ritardo» lamentato da un privato nei confronti della p.a. è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo pretensivo, cagionata dal ritardo con cui l'amministrazione ha emesso il provvedimento finale inteso ad ampliare la sfera giuridica del privato, la richiesta di ristoro del danno c.d. «da disturbo» è caratterizzata dalla lesione di un interesse di tipo oppositivo, consistente nella pretesa a non essere disturbato nel libero esercizio delle facoltà inerenti al diritto dominicale (Cons. St. V, n. 4237/2009; Cons. St. V, n. 4312/2010). Pertanto, si è evidenziato che il c.d. «danno da disturbo» si deve ritenere non ricorra nel caso in cui il danno di cui si reclama il ristoro non derivi dalla violazione di un interesse di tipo c.d. oppositivo, consistente nella pretesa a non essere «disturbato» nel libero esercizio di un diritto, quanto, piuttosto, dalla violazione di una posizione giuridica di carattere pretensivo, quale quella volta all'ottenimento di fondi asseritamente necessari per l'esercizio di un'attività di ricerca (Cons. St. VI, n. 5255/2009). La risarcibilità del danno da disturbo è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato a partire dalla sentenza Cons. St. VI, n. 1261/2004 in cui è stata rimarcata la differenza esistente fra il c.d. danno da ritardo e il c.d. danno da disturbo: mentre il danno da ritardo è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo pretensivo, cagionata dal ritardo con cui la P.A. ha emesso il provvedimento finale, inteso ad ampliare la sfera giuridica del privato, viceversa nel danno da disturbo i ricorrenti agiscono per ottenere il ristoro del pregiudizio asseritamente subito in conseguenza dell'illegittima compressione delle facoltà di cui erano già titolari, in quanto destinatari del titolo concessorio abilitante la sospesa attività edificatoria. Dopo la sentenza Cons. St. VI, n. 1261/2004, la giurisprudenza amministrativa ha confermato e in parte ribadito che l'interessato può agire contro la p.a. affinché questa risponda della lesione di quell'interesse del privato consistente in una legittima pretesa a non essere disturbato nel libero esercizio delle facoltà inerenti al suo diritto. Principalmente, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto sussistere il danno da disturbo nel caso di illegittima compromissione del diritto di proprietà derivante da provvedimenti amministrativi illegittimi. La giurisprudenza di merito ha precisato che mentre in caso di annullamento di un atto negativo (incidente, cioè, su un interesse pretensivo), l'accertamento della conseguente responsabilità patrimoniale della P.A. è subordinato ad un giudizio sulla spettanza del bene della vita sottostante, nel caso di annullamento di un atto che abbia inciso su un interesse di tipo oppositivo il danno cagionato medio tempore è generalmente da considerare ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c., in quanto il destinatario del provvedimento è stato illegittimamente privato per il tempo di vigenza dell'atto di un'utilità che già apparteneva al suo patrimonio giuridico e che egli aveva il diritto di conservare quantomeno fino a che l'autorità competente non avesse stabilito, con un atto legittimo, di privarlo di tale utilità a vantaggio del pubblico interesse (T.A.R. Marche I, n. 200/2016; T.A.R. Marche I, n. 201/2016; T.A.R. Marche I, n. 204/2016; T.A.R. Marche I, n. 389/2016). Con specifico riferimento ai presupposti per la risarcibilità del danno da disturbo, è necessaria la positiva verifica di tutti gli elementi che caratterizzano l'illecito: la sussistenza della colpa o del dolo della P.A., la lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento e la presenza di un nesso causale che colleghi la condotta commissiva o omissiva della p.a. all'evento dannoso (Cons. St. II, n. 3217/2019). Sempre con riferimento ai presupposti per ammetterne la risarcibilità del danno da disturbo, la giurisprudenza ha evidenziato che la riscontrata illegittimità dell'atto rappresenta, nella normalità dei casi, l'indice della colpa dell'amministrazione, indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l'illegittimità in cui l'apparato amministrativo sia incorso (T.A.R. Liguria II, n. 1533/2011). Con riferimento alla colpa della pubblica amministrazione, il Consiglio di Stato (Cons. St. III, n. 7192/2019) ha evidenziato che essa può essere individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili (Cons. St. III, n. 2882/2018). Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto. Dunque, anche con riferimento al risarcimento del danno da disturbo l'elemento soggettivo della responsabilità deve essere escluso quando l'illegittimità dell'azione amministrativa sia dovuta a errore scusabile, individuato nell'esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (Cons. St. VI, n. 1106/2015). Secondo la giurisprudenza non è configurabile un «danno da disturbo», inteso quale pregiudizio derivante dall'illegittima compressione di facoltà di cui il privato cittadino sia titolare, nel caso in cui il provvedimento dell'amministrazione non ha inciso su un bene patrimoniale del privato «disturbandone il godimento», ma ha semplicemente sospeso l'efficacia di un provvedimento autorizzativo ritenendolo non eseguibile in assenza dei pagamenti. Si tratta dunque di un «bene della vita» che non era ab origine nella sfera giuridica del privato, ed il cui ottenimento dipendeva piuttosto dall'esercizio del potere da parte dell'amministrazione di rilasciare il titolo e di consentirne l'efficacia, secondo una logica giuridica tipica degli interessi cd pretensivi. Ne deriva che non potendosi dimostrare la «spettanza» del bene della vita in ragione del residuo potere, in capo all'amministrazione, di negarlo legittimamente, non è predicabile un pregiudizio risarcibile (Cons. St. IV, n. 3011/2014; Cons. St. IV, n. 3013/2014). Non è parimenti risarcibile alcun pregiudizio nell'ipotesi in cui l'attività repressiva dell‘amministrazione (concretatasi nell'ordine di sospensione dei lavori) è dipesa dal fatto che in fase esecutiva erano stati realizzati degli abusi in difformità dal predetto titolo, abusi che hanno reso doveroso l'intervento dell'Amministrazione (Cons. St. IV, n. 296/2017). Il danno da intrusione. Una ulteriore tipologia di danno che è stata individuata dalla giurisprudenza amministrativa è il c.d. danno da intrusione o intrusivo, derivante da illegittima effusione della potestà concessoria da parte della pubblica amministrazione (Corradino, 153). La giurisprudenza ha configurato tale tipologia di danno con la sentenza del T.A.R. Lazio, Roma III-ter, n. 5141/2004. Nella specie una società di autotrasporti concessionaria del servizio di autolinea notturno aveva lamentato davanti al G.A. il danno ingiusto asseritamente subito a causa dell'emanazione di un atto amministrativo con il quale l'allora Ministero dei trasporti aveva consentito ad altra impresa dello stesso ramo il medesimo servizio notturno nella stessa zona. Tale pretesa risarcitoria è stata ritenuta fondata dal T.A.R. Lazio il quale aveva concluso per la condanna del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al risarcimento. Nella motivazione, il T.A.R. Lazio ha precisato che il danno provocato dall'atto annullato è di natura intrusiva, perché l'emanazione dell'atto amministrativo a favore dell'altra impresa aveva modificato, in modo illegittimamente sfavorevole, in capo alla ricorrente la sua consolidata e legittima posizione di concessionaria pubblica, circa il godimento del bene della vita concessole. Poiché il rapporto concessorio garantisce al concessionario ampi poteri di godimento delle utilitates ritraibili dal bene e/o dal servizio concessi, questi vanta un vero e proprio diritto d'esclusiva, negli ovvi limiti del titolo, verso i terzi, nonché verso la stessa P.A. concedente. Quest'ultima, a sua volta, non può sua sponte disapplicare, quando effettua attribuzioni patrimoniali ai terzi, il complesso di diritti ed obblighi scaturenti da un rapporto concessorio concernente lo stesso bene della vita, tranne che non proceda a rimuoverlo, qualora ve ne siano i presupposti (T.A.R. Lazio, Roma III-ter, n. 5141/2004). Senonché, la decisione di primo grado è stata annullata dal Con. St. VI, n. 4153/2005 il quale ha al contrario dichiarato che non può condividersi l'assunto del T.A.R., secondo cui l'atto del Ministero avrebbe illegittimamente modificato, in senso sfavorevole all'originaria ricorrente, la posizione di concessionaria pubblica, con la conseguenza che sarebbero stati lesi i relativi specifici diritti soggettivi. Tale assunto non tiene in adeguata considerazione, invero, l'interesse pubblico al quale l'attività dell'Amministrazione deve ispirarsi e, soprattutto, il fatto che la posizione del concessionario non può ritenersi connessa ad un diritto soggettivo, bensì ad un interesse legittimo, essendo l'impresa titolare soltanto di una concessione provvisoria, prorogabile ogni anno, e, come tale, revocabile ove la l'Amministrazione stessa lo reputi necessario, ai fini di un migliore soddisfacimento dell'interesse pubblico. Né tiene conto la pronuncia appellata che la suddetta società di autotrasporti concessionaria non vantava un diritto di esclusiva. Pertanto, sulla base di quanto precede, deve ritenersi che il provvedimento impugnato abbia leso esclusivamente interessi legittimi e non diritti soggettivi. Secondo il Consiglio di Stato, dunque, il danno lamentato dalla società ricorrente presupponeva la lesione di un diritto soggettivo inesistente nel caso di specie ove l'unica posizione giuridica soggettiva rinvenibile in capo alla società di trasporti era quella di interesse legittimo (Corradino, 155). La giurisprudenza è tornata a ribadire la configurabilità di tale tipo di danno con la pronuncia T.A.R. Basilicata I, n. 122/2009. Tuttavia, tenuto conto che, dopo i citati precedenti del T.A.R. Lazio e del T.A.R. Basilicata, la giurisprudenza di primo grado e del Consiglio di Stato non risulta aver più riconosciuto il c.d. danno da intrusione, appaiono legittime le perplessità circa l'opportunità di prevedere questa ulteriore classificazione di tale fattispecie di danno. Il danno da perdita di chance La valutazione della chance perduta, quale perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, e non quale perdita di quel risultato, ha applicazioni anche nella giurisprudenza amministrativa nelle diverse fattispecie che sono sottoposte alla sua attenzione quale lesione di un interesse legittimo qualificato e ricalca i principi della giurisprudenza ordinaria in tema di criteri risarcitori e natura del danno che può derivare sia da responsabilità contrattuale che extracontrattuale. La chance è risarcibile ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato e la pretesa risarcitoria abbia ad oggetto non un danno futuro, ma un danno attuale rappresentato dalla perdita di un'occasione favorevole (Chindemi, 177). Il termine «chance», figura sorta e sviluppata nell'esperienza giuridica francese, che letteralmente può tradursi come «sorte», «fortuna», e in più termini generali, come «probabilità» o «possibilità», ha assunto, a livello giuridico, il significato più specifico di «probabilità di ottenere un certo risultato o vantaggio sperato» (Caringella, Manuale, 215; Viola, sub n. 1). La parola chance deriva, etimologicamente, dall'espressione latina cadentia, che sta ad indicare il cadere dei dadi, e significa «buona probabilità di riuscita». Si tratta, dunque, di una situazione teleologicamente orientata verso il conseguimento di un'utilità o di un vantaggio e caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza (Cons. St. VI, n. 5323/2006; T.A.R. Campania, Napoli VIII, n. 2483/2011). Con particolare riferimento alla responsabilità della p.a., il danno da perdita di chance viene generalmente in rilievo nell'ambito dei procedimenti caratterizzati dalla partecipazione di più soggetti interessati a ottenere il medesimo risultato, come nei concorsi pubblici o nelle gare di appalto, in cui risulta particolarmente gravoso per il soggetto escluso dalla procedura selettiva dimostrare che, ove l'Amministrazione si fosse comportata legittimamente, egli avrebbe ottenuto il bene della vita a cui aspirava (Corradino, 158). La perdita di chance costituisce, più in generale, un danno derivante ora da responsabilità contrattuale ora da responsabilità extracontrattuale e si identifica con la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile non con la perdita di quel risultato. Il danno da perdita di chance nella giustizia amministrativa si è sviluppato a seguito della sentenza della Cass. S.U. , n. 500/1999 la quale, come noto, ha affermato, per la prima volta, la risarcibilità degli interessi legittimi (Feola, 69). In base a tale orientamento anche il danno da perdita di chance conseguente ad atto amministrativo illegittimo deve essere risarcito a favore del soggetto leso (Chindemi, 182). Successivamente alla sentenza Cass. S.U. , n. 500/1999, la giurisprudenza amministrativa ha iniziato infatti ad affermare la risarcibilità del danno da perdita di chance (Cons. St. VI, n. 553/2001; Cons. St. VI, n. 686/2002). In particolare, nella seconda delle citate decisioni, che merita di essere richiamata, il Consiglio di Stato ha ricordato che il danno da perdita di chance esula dalla categoria dei danni futuri ossia quei danni (danni emergenti o lucri cessanti) che si prevedono doversi verificare in un tempo successivo a quello in cui il danneggiato fa valere la sua pretesa. Il criterio differenziale va individuato nel fatto che il danno da perdita di chance costituisce un danno attuale (non irrealizzato), presente e costituito dalla lesione della possibilità di conseguire il risultato favorevole. Nella valutazione del danno da perdita di chance il pregiudizio subito dal danneggiato incide direttamente sul suo patrimonio e deve essere valutato in termini di probabilità, pur senza certezza della realizzazione della chance favorevole, in questo senso conta la valutazione della probabilità perduta non la certezza del conseguimento del vantaggio sperato. Secondo la citata pronuncia, la possibilità di conseguire il risultato utile presuppone che sussista una probabilità di successo maggiore del cinquanta per cento (si esprime in termini statistici Cass. n. 6506/1985). In caso contrario diverrebbero risarcibili anche mere possibilità statisticamente non significative. La concretezza della probabilità deve essere statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta – con giudizio prognostico ex ante, secondo l'id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell'evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al cinquanta per cento (Cons. St. VI, n. 686/2002; v. inoltre T.A.R. Lombardia, Milano n. 5049/1999). Deve comunque evidenziarsi che, in linea generale, l'istituto della chance viene variamente utilizzato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa, sia come tecnica risarcitoria, sia quale bene della vita ex se risarcibile (Caringella, Manuale, 215). In particolare, una prima tesi individua la perdita di chance con la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile e non col la perdita di un risultato (c.d. tesi eziologica o della «falsa chance»). La chance, seguendo tale imposizione interpretativa, si identifica con un «bene astratto» e che va risarcito come danno futuro. Si tratta di un bene che il danneggiato avrebbe probabilmente ottenuto se non vi fosse stato il comportamento illecito altrui, appunto un'occasione persa (Viola, sub 2). Secondo questa prima tesi, la chance viene pertanto riportata nell'ambito del lucro cessante, e non del danno emergente ossia come perdita di una situazione soggettiva non ancora acquisita nel patrimonio del soggetto, ma potenzialmente raggiungibile. In altri termini la chance così intesa si configura come occasione persa (Corradino, 162 s.). In tale direzione, il risarcimento della chance viene evocato per facilitare il ragionamento eziologico, in ragione delle difficoltà probatorie derivanti dalla presenza di residua discrezionalità, pura o tecnica, in capo all'Amministrazione. In buona sostanza si tratta di una tesi che attribuisce alla chance il ruolo di sostanziale alleggerimento delle regole in materia di prova del nesso causale (Viola, sub 2). Al riguardo il Consiglio di Stato ha statuito che in materia di danno da perdita di chance, il ricorrente ha l'onere di provare gli elementi atti a dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell'art. 1226 c.c., presuppone che risulti comprovata l'esistenza di un danno risarcibile; in particolare, la lesione della possibilità concreta di ottenere un risultato favorevole presuppone che sussista una probabilità di successo almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative (Cons. St. V, n. 3249/2015). In materia di risarcimento, la perdita di chance, diversamente dal danno futuro, costituisce un danno attuale che non si identifica con la perdita di un risultato utile, ma con la perdita della possibilità di conseguirlo e richiede, a tal fine, che siano posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato, ossia una probabilità di successo maggiore del 50%, statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex ante secondo l' id quod plerumque accidit, sulla base di elementi di fatto forniti dal danneggiato (Cons. St. IV, n. 3340/2008; Cons. St. IV, n. 5174/2007; Cons. St. V, n. 7426/2006). Una seconda tesi intende, invece, la chance come un bene che esiste nel patrimonio del danneggiato e che va risarcito quale danno attuale da tenere distinto dal bene finale che l'interessato aspira a ottenere o a conservare (c.d. tesi ontologica o della «vera chance») (Viola, sub 2). In tale ottica la chance costituisce un bene giuridico a sé stante, posta attiva del patrimonio, economicamente rilevante e valutabile anche in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. Ne deriva che seguendo tale impostazione, il danno da perdita di chance viene in rilievo non più come danno da lucro cessante (mancato guadagno che spetta con certezza o con un grado di probabilità vicino alla certezza) bensì come danno emergente da perdita di una posta attiva del patrimonio, ossia come danno concreto, attuale, certo, ricollegabile alla perdita di una prospettiva favorevole, già presente nel patrimonio del soggetto (Corradino, 169). Dunque, secondo la tesi c.d. ontologica, che considera la lesione della chance come danno emergente e, quindi, elemento autonomo e attuale del patrimonio, il soggetto dovrà provare la lesione della chance, nella sua effettiva consistenza e nella sua derivazione causale dal comportamento del danneggiante e non la probabilità del cd. danno finale (Viola, sub 2; Caringella, 2020, 216). Sulla base di questa diversa ricostruzione interpretativa, il Consiglio di Stato ha statuito che il danno patrimoniale da perdita di una chance costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale. Tale danno esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza (Cons. St. III, n. 5330/2020; Cons. St. VI, n. 686/2002). Tale diverso orientamento giurisprudenziale consente il risarcimento del danno, in caso di illegittima esclusione da una procedura concorsuale, nelle ipotesi in cui, per l'elevato numero di concorrenti al concorso indetto dall'Amministrazione, in relazione ai posti da assegnare, il ricorrente si trovi nell'impossibilità di provare che le sue probabilità di risultare vincitore sarebbero state superiori al 50% (Corradino, 170; Chindemi, 181). In definitiva, dunque, il principale elemento di differenza che sembra emergere tra le tesi sopra riferite sta nel diverso regime dell'onere probatorio richiesto da ciascuna al fine di ritenere integrata la prova del pregiudizio lamentato: la tesi c.d. eziologica, che interpreta la perdita di chance in termini di lucro cessante, richiede la prova dell'esistenza di un nesso causale prossimo alla certezza tra la condotta illecita del danneggiante e la spettanza del bene perduto dal danneggiato. La tesi c.d. ontologica che, invece, ricostruisce la perdita di chance in termini di danno emergente ritiene sufficiente la prova di serie probabilità di successo, ossia la dimostrazione dell'esistenza di un valido nesso causale tra una qualunque possibilità di successo e la condotta illecita che ne ha estinto la possibilità (Corradino, 174). La giurisprudenza più recente si è occupata di precisare il rapporto esistente tra perdita di chance e lesione dell'interesse pretensivo quante volte l'Amministrazione sia munita di un potere discrezionale dal cui esercizio, solo, dipenda l'accertamento della spettanza del bene della vita. Sul punto, si osserva che l'imposizione, ai fini del risarcimento, dell'attesa del riesercizio, con esito favorevole, del potere amministrativo discrezionale, appare insoddisfacente perché posticipa irragionevolmente le possibilità di ottenere il risarcimento, costringendo il giudice a pronunciare una sentenza di inammissibilità dell'azione risarcitoria per difetto di presupposti, nel riesercizio del potere, sussisterebbero contrapposte esigenze da un lato di ottemperare al giudicato e dall'altro di evitare di creare i presupposti di una pretesa risarcitoria. In queste ipotesi il danno valutabile va allora visto nella dimensione della perdita di chance (Caringella, Manuale, 216). Si tratta, dunque, di una situazione teleologicamente orientata verso il conseguimento di un'utilità o di un vantaggio e caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza. Si può rilevare che, affinché un'occasione possa acquisire rilevanza giuridica, è necessario che sussista una consistente possibilità di successo, onde evitare che diventino ristorabili le mere possibilità statisticamente non significative. Vengono così a fondersi i due orientamenti sopra citati, da un lato perché la chance si palesa quale bene giuridico autonomo ascrivibile alla posta del danno emergente; dall'altro, perché si attribuisce rilievo decisivo al giudizio prognostico, al fine di ritenere giuridicamente rilevante la chance di successo. È decisivo, allora, distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire l'utilità sperata (chance irrisarcibile), utilizzando la teoria probabilistica. Occorre, pertanto, operare una valutazione secondo la miglior scienza ed esperienza, in modo da formulare un giudizio il più possibile corretto in ordine alla prognosi probabilistica circa il verificarsi o meno dell'evento vantaggioso preso in considerazione. Quanto al livello percentuale di verificazione dell'evento favorevole, la dottrina ha evidenziato che esso non deve essere necessariamente superiore al 50%, perché secondo la scienza statistica il grado di possibilità qualificabile come probabilità presenta una soglia costitutiva variabile da determinare caso per caso sulla base del concreto assetto della situazione esaminata (Caringella, Manuale, 217). Il danno da perdita di chance può essere accertato, e quindi risarcito, solo in riferimento ad ipotesi in cui sussista un grado di probabilità consistente e che, in concreto, il richiedente avrebbe potuto conseguire il bene della vita. Ciò non sarebbe sussistente con riguardo a quei casi in cui fossero dedotte generiche «chances» lavorative allegate come una mera possibilità astratta e non circostanziata di conseguire l'utilità sperata. In altre parole, il danno derivante dalla perdita di una “chance” può essere riconosciuto solo quando la “chance” perduta aveva la certezza o l'elevata probabilità di avveramento. Tale circostanza è da desumersi in base ad elementi certi ed obiettivi (Cons. St. III, n. 5330/2020). La giurisprudenza ha, di recente, ricordato come nel campo del diritto amministrativo la lesione della chance viene invocata per riconoscere uno sbocco di tutela (sia pure per equivalente) a delle aspettative andate irrimediabilmente deluse a seguito dell'illegittimo espletamento (ovvero del mancato espletamento) di un procedimento amministrativo. La chance prospetta un'ipotesi – assai ricorrente nel diritto amministrativo – di danno solo “ipotetico”, in cui non si può oggettivamente sapere se un risultato vantaggioso si sarebbe o meno verificato. Pur essendo certa la contrarietà al diritto della condotta di chi ha causato la perdita della possibilità, non ne è conoscibile l'apporto causale rispetto al mancato conseguimento del risultato utile finale. Poiché l'esigenza giurisdizionale è quella di riconoscere all'interessato il controvalore della mera possibilità – già presente nel suo patrimonio – di vedersi aggiudicato un determinato vantaggio, l'an del giudizio di responsabilità deve coerentemente consistere soltanto nell'accertamento del nesso causale tra la condotta antigiuridica e l'evento lesivo consistente nella perdita della predetta possibilità. La tecnica probabilistica va quindi impiegata, non per accertare l'esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il “valore” economico della stessa, in sede di liquidazione del “quantum” risarcibile. Con l'avvertenza che, anche se commisurato ad una frazione probabilistica del vantaggio finale, il risarcimento è pur sempre compensativo (non del risultato sperato, ma) della privazione della possibilità di conseguirlo (Cons. St. VI, n. 6268/2021). Sotto altro profilo la dottrina ha evidenziato che la peculiarità delle posizioni giuridiche di vantaggio consente di operare un distinguo, quanto al grado di accuratezza del giudizio probabilistico, tra attività vincolata, attività tecnico-discrezionale e attività discrezionale pura. Nei primi due casi il G.A. potrà fittiziamente sostituirsi ai soli fini risarcitori all'Amministrazione per individuare con certezza il grado di possibilità di ottenimento, da parte del privato del bene della vita, irrimediabilmente perso, che poteva scaturire dalla chance, senza che la natura dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione possa in alcun modo alterare l'esito prognostico. Al contrario, in presenza di attività discrezionale pura, e quindi di parametri valutativi elastici attraverso i quali si articola l'esercizio del potere dell'Amministrazione, il G.A. non potrà, nella generalità dei casi, enucleare un valido giudizio prognostico in termini di preciso calcolo percentuale, ma ciò non esclude una perdita di chance, sulla base del grado di approssimazione al bene della vita raggiunto dal ricorrente (Caringella, Manuale, 218). In merito ai presupposti per il risarcimento del danno da perdita di chance, occorre, quindi, che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole, concreta e verisimile possibilità del conseguimento dell'aggiudicazione di altri appalti e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illegittima della P. A., della quale il danno risarcibile costituisce conseguenza immediata e diretta (Cons. St. IV, n. 8253/2010; Cons. St. V, n. 3393/2010). Più in particolare, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare, con riferimento ai predetti criteri, che l'impresa richiedente il risarcimento per perdita di chance deve documentare l'esistenza di proprie dichiarazioni di rinuncia alla prosecuzione della partecipazione a gare, nelle quali aveva presentato domanda, nel che consisterebbe la perdita di concrete occasioni alternative di guadagno, non essendo sufficiente la semplice indizione di procedure selettive, né la richiesta o l'acquisto della documentazione di gara, né dichiarazioni di rinuncia alla partecipazione ad esse per generici impegni in precedenza assunti, in un periodo contestuale a quello in cui si è consumato l'illecito in questione. Allegazioni di tale tipo, infatti, si rivelerebbero del tutto insufficienti a provare, con l'efficacia connessa all'esigenza di evitare fenomeni di indebita locupletazione legati al cattivo esercizio della funzione selettiva dei contraenti con la P. A., la perdita di occasioni alternative favorevoli, difettando, in essa, la dimostrazione della concretezza – costituita dalla effettiva partecipazione ad altre procedure e dal ritiro da esse per l'impegno in questione – delle opportunità contrattuali asseritamente perdute, non bastando allegazioni generiche ed equivoche (Cons. St. V, n. 3393/2010; Cons. St. V, n. 2680/2008). Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene che la perdita di chance configura un danno attuale e risarcibile, ma sempre che ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni: alla mancanza di una tale prova non essendo possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., atteso che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile ed è diretta a fare fronte all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno (Cass. III, n. 11353/2010; Cass. III, n. 4052/2009; Cass. III, n. 8615/2006). La stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione precisa, ancora, che il danno patrimoniale da perdita di chance consiste non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale (Cass. III, n. 20808/2010). La perdita di chance, dunque, per poter assumere rilievo risarcitorio secondo il ricordato criterio probabilistico che, in quanto tale, deve correlarsi a dati reali senza i quali il calcolo percentuale di possibilità sarebbe impossibile, deve consistere in una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene; essa, pertanto, non può risolversi in una mera aspettativa di fatto ed in generiche ed astratte aspirazioni di lucro, ma rappresenta un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione. Di questa entità il danneggiato ha l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev'essere conseguenza immediata e diretta (Cass. S.U., n. 1850/2009; Cass., sez. lav., n. 16877/2008; Cass. III, n. 1752/2005). Anche per la perdita di chance andrà verificata l'imputazione soggettiva della condotta all'Amministrazione attraverso l'individuazione della colpa, che non può essere rinvenuta in re ipsa, nella illegittimità del provvedimento amministrativo, ma nella violazione da parte dell'Amministrazione di canoni generali di condotta, quali i principi comunitari di trasparenza e non discriminazione tra le imprese, in assenza di cause scusanti (Caringella, Manuale, 218). In relazione al nesso di causalità, la giurisprudenza ha specificato che la configurazione della chance quale possibilità perduta di un risultato migliore e solo eventuale non esime dall'accertamento del nesso causale tra condotta ed evento (Cass. III, n. 28993/2019; cfr. altresì Cass. III, n. 5641/2018). Di recente, inoltre, l'Adunanza Plenaria ha dichiarato che nel caso di danno da perdita di chance, l'accertamento del rapporto di causalità giuridica tra evento lesivo e danno-conseguenza, la valutazione ex art. 1223 c.c. assume la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità) in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe realizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2021). Al fine di non incorrere in una forma inammissibile di responsabilità senza danno, è necessario che, per raggiungere la soglia dell'«ingiustizia», la «chance» perduta sia «seria». A tal fine: da un lato, va verificato con estremo rigore che la perdita della possibilità di risultato utile sia effettivamente imputabile alla condotta altrui contraria al diritto; sotto altro profilo, al fine di non riconoscere valore giuridico a chance del tutto accidentali, va appurato che la possibilità di realizzazione del risultato utile rientri nel contenuto protettivo delle norme violate. Per scongiurare azioni bagatellari o emulative, il giudice dovrà disconoscere l'esistenza di un “danno risarcibile” (1223 c.c.) nel caso in cui le probabilità perdute si attestino ad un livello del tutto infimo (Cons. St. VI, n. 6268/2021). La liquidazione del danno da perdita di chance va fatta equitativamente, ai sensi della normativa di cui all'art. 1226 c.c., non comportando però quale ulteriore conseguenza l'esonero del ricorrente da ogni onere probatorio, non potendosi giungere alla liquidazione equitativa dei danni quando, pur apparendo certa l'esistenza dei danni lamentati, laddove non ricorra l'ulteriore presupposto richiesto dalla norma codicistica, costituito dalla relativa impossibilità di provare il danno nel suo preciso ammontare, da parte del ricorrente onerato (Cons. St. V, n. 5649/2021). In particolare, con riguardo alla perdita di «capacità di concorrenza» professionale, se allegato in termini generici e non circostanziati dal ricorrente, il danno da perdita di chance non può essere in concreto ravvisato e risarcito, poiché non provato, atteso che il potere del Giudice di ricorrere alla via equitativa ex art. 1226 c.c. attiene, come è noto, al «quantum», ferma restando la prova, che incombe sull'attore, dell'esistenza di un danno (T.A.R. Lazio, Roma III, n. 5555/2020). Segue: il danno da perdita di chance nel rito degli appalti. Rinvio. Il risarcimento della chance perduta ha applicazioni frequenti in tema di appalti pubblici ogni qual volta si dimostri che, a seguito dell'illegittimo comportamento della Pubblica Amministrazione, il ricorrente non aggiudicatario sia stato privato della possibilità di conseguire un risultato utile sperato e ragionevolmente prevedibile in mancanza del comportamento illecito della Amministrazione, come nel caso di lesione dell'interesse a partecipare ad una gara, ed alla conseguente perdita della chance di divenire aggiudicatario della stessa con conseguente perdita del guadagno che ìl ricorrente avrebbe avuto ove fosse risultato aggiudicatario (Chindemi, 186). Il tema della tutela risarcitoria della chance nel campo degli appalti pubblici è disciplinato dall'art. 124 c.p.a., che ammette, in caso di negazione della tutela specifica, il risarcimento del danno provato, senza più limitare il perimetro dei danni risarcibili ai soli danni da mancata aggiudicazione e consentendo il risarcimento anche della lesione della chance. Si rinvia, pertanto, al commento dell'art. 124 c.p.a. per la trattazione della tutela risarcitoria della chance nel campo degli appalti pubblici. Il danno curriculare. Costituisce una specificazione del danno da perdita di chance il c.d. danno curriculare (Cons. St. IV, n. 992/2016). Infatti, l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto pubblico può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (Cons. St. IV, n. 8253/2010). Pertanto, siffatta fattispecie di danno consiste ristoro di un pregiudizio subìto dall'impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio curriculum professionale, ovvero per il fatto di non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa di un illegittimo comportamento perpetrato dalla pubblica amministrazione (Cons. St. VI,n. 2751/2008). Più in generale, la giurisprudenza ha ripetutamente ricordato che, in materia di appalti pubblici, per le ipotesi di danno derivante da «mancata aggiudicazione», il pregiudizio conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, il quale include sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto): non essendo, invero, dubitabile che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante) possa essere, comunque, fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti (Cons. St. V, n. 5803/2019). In precedenza, il Consiglio di Stato ha evidenziato che tale voce di danno, costituente una specificazione del danno per perdita di chance, si correla necessariamente alla qualità di impresa operante nel settore degli appalti pubblici e, più in particolare, al fatto stesso di eseguire uno di questi tipi di contratto, a prescindere dal lucro che l'impresa stessa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. Questa qualità imprenditoriale può ben essere fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un operatore economico va oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti. Alla mancata esecuzione di un'opera pubblica illegittimamente appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all'immagine della società, al suo radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento, per non dire, poi, della lesione al più generale interesse pubblico al rispetto della concorrenza, in conseguenza dell'indebito potenziamento di imprese concorrenti che operino sul medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara. In linea di massima, allora, deve ammettersi che l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (Cons, St. VI, n. 20/2010; Cons. St. VI, n. 3144/2009; Cons. St. VI, n. 2751/2008; Cons. St. IV, n. 2680/2008; Cons. St. V, n. 4594/2009; Cons. St. V, n. 491/2008; Cons. St. IV, n. 3723/2008. Il danno curriculare – da riconoscere, in via di principio – si compone quindi di due elementi: a) la perdita di un livello di qualificazione già posseduta ovvero la mancata acquisizione di un livello superiore, quali conseguenze immediate e dirette della mancata aggiudicazione; b) la mancata acquisizione di un elemento costitutivo della specifica idoneità tecnica richiesta dal bando oltre la qualificazione SOA. Entrambe tali voci di danno vanno comprovate, secondo i ricordati principi in tema di responsabilità extracontrattuale della P.A. Ora, mentre la componente di cui alla lettera b) non necessita di prova rigorosa, consistendo il danno nella stessa mancata aggiudicazione e conseguente mancato incremento delle qualità imprenditoriali connesse alla capacità tecnica, altrettanto non è a dirsi per la voce sub a), per la quale occorre dimostrare rigorosamente e diligentemente gli elementi diminutivi o accrescitivi sopra evidenziati ed il relativo nesso di causalità con la mancata aggiudicazione (Cons. St. IV, n. 8253/2010). Opinioni contrastanti sussistono, in ordine ai presupposti di risarcibilità del danno in questione. Secondo una prima impostazione, infatti, il danno curriculare può essere risarcito solo se l'impresa riesce a dimostrare che avrebbe ottenuto con certezza l'appalto (Cons. St. V, n. 5592/2007). Una diversa tesi ritiene sufficiente la mera prova della chance di aggiudicazione della gara (Corradino, 212). Per questa seconda tesi si v. in giurisprudenza Cons. St. V, n. 5803/2019. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di delineare i confini della fattispecie del danno curriculare con la pronuncia Cons. St. IV, n. 2955/2011. Nella citata pronuncia il Consiglio di Stato ha rilevato che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico – a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava – costituisce «fonte per l'impresa di un vantaggio non patrimoniale ma – comunque – economicamente valutabile, poiché di per sé accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti». La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha stabilito altresì come, ai fini dell'accertamento del c.d. danno curriculare, sia necessario l'esito positivo di un giudizio prognostico, da effettuare secondo il metodo controfattuale, per accertare se, nell'ipotesi in cui la p.a. avesse indetto una procedura di selezione pubblica, così come richiesto da quelle norme che disciplinano l'azione della pubblica amministrazione, la ricorrente avrebbe potuto effettivamente conseguire il bene della vita sperato. Se tale valutazione si conclude in senso positivo il giudice può valutare le poste di danno risarcibili, ivi incluso il danno in esame. Tuttavia, in quei casi di attività della p.a. connotata da ampia discrezionalità, l'esito del giudizio prognostico risulta particolarmente incerto e, pertanto, è invalso l'utilizzo della tecnica risarcitoria della c.d. chance (Cons. St. V, n. 7845/2019). Con riferimento all'onere della prova, costituisce orientamento granitico della giurisprudenza amministrativa quello per cui, ai fini del riconoscimento del danno curriculare – ossia dello specifico pregiudizio subìto a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto – è onere dell'impresa partecipante a gara pubblica – la quale invochi il ristoro del danno curriculare patito per effetto della illegittima mancata aggiudicazione dell'appalto – fornire in sede giurisdizionale una prova adeguata in ordine all' an e al quantum della voce di danno in parola (Cons. St. III, n. 8160/2021; Cons. St. V, n. 3892/2021; Cons. St. V, n. 632/2021; Cons. St. V, n. 6970/2020; Cons. St. III, n. 1607/2020; Cons. St. III, n. 7448/2019, Cons. St. V, n. 5803/2019; Cons. St. V, n. 5283/2019; Cons. St. III, n. 2435/2019; Cons. St. V, n. 14/2019; Cons. St. V, n. 2527/2018; Cons. St. V, n. 6135/2017; Cons. St. V, n. 5444/2017; Cons. St. V, n. 4968 /2017; Cons. St. V, n. 3448/2017; Cons. St. IV, n. 2111/2016; Cons. St. V, n. 3605/2015). Nel senso della soggezione anche del danno curriculare al principio dell'onere della prova si è espressa anche il Cons. St., Ad. plen., n. 2/2017, pur evidenziando che nel processo amministrativo trovi applicazione il c.d. «principio dispositivo temperato dal metodo acquisitivo», in forza dell'art. 64 del c.p.a. Il comma primo stabilisce infatti che le parti hanno l'onere di fornire soltanto «gli elementi di prova che sono nella loro disponibilità», mentre il comma terzo attribuisce al giudice il potere di disporre, anche d'ufficio, i documenti utili ai fini della decisione che siano nella disponibilità dell'Amministrazione. È tuttavia opinione consolidata che il predetto temperamento trovi applicazione soltanto nei giudizi impugnatori, che, caratterizzandosi per la presenza dell'interesse pubblico e per la sua indisponibilità, denotano una forte asimmetria tra le parti in favore della P.A., asimmetria che è alla base di tale principio acquisitivo. Quanto esposto non opera nei giudizi risarcitori, né quando si tratti di controversie su diritti, in quanto si controverte su situazioni giuridiche rientranti nella «disponibilità» (ex art. 64 c.p.a.) del privato, senza tali ‘esigenze di riequilibrio'. Pertanto, in ipotesi di danno curriculare dovrà essere il ricorrente a provare i fatti posti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio (art. 2697 c.c.), ossia il mancato incremento del curriculum. L'onere di fornire la prova del danno ricade integralmente sull'interessato (Cons. St. V, n. 3303/2021; Cons. St. VI, n. 7004/2010). Ed infatti, sotto il profilo probatorio, ai sensi degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., applicabili anche al processo amministrativo (ex multis, Cons. St. V, n. 6118/2009), incombe sul danneggiato l'onere di fornire la prova del danno, del nesso di causalità, e dell'attribuibilità psicologica al soggetto agente (ex multis, Cons. St. V, n. 1038/2010; Cass. I, n. 3794/2008). La voce di danno in questione, pertanto, sebbene suscettibile di apprezzamento in via equitativa, esige, in ogni caso, l'allegazione, da parte del soggetto interessato, di tutti gli elementi atti a concretizzarla, onde evitare che la relativa quantificazione giudiziaria si risolva nel riconoscimento di un ristoro eccedente quello necessario alla compensazione patrimoniale del pregiudizio effettivamente subito: elementi relativi, ad esempio, al peso delle referenze correlate all'esecuzione dell'appalto in questione nell'ambito di quelle complessivamente maturate dalle società interessate, onde apprezzare la misura in cui l'impossibilità di allegare le prime incida, in futuro, sulle chances di aggiudicazione dl ulteriori appalti (T.A.R. Lazio, Roma n. 3169/2011). A restringere l'ambito di applicazione di questa tipologia di danno, si segnala, inoltre, un orientamento giurisprudenziale per il quale una impresa leader nel settore difficilmente subisce un danno curriculare dalla mancata aggiudicazione di un appalto, attesa l'inidoneità della mancata assegnazione a scalfirne il prestigio (Cons. St. V, n. 14/2019; Cons. St., Ad. plen., n. 2/2017; Cons. St. III, n. 1839/2015). In merito alla quantificazione del risarcimento del c.d. danno curriculare, i giudici amministrativi sono inoltre concordi nel ritenere che il danno in questione vada quantificato, in via equitativa, riconoscendo all'impresa danneggiata una somma pari ad una percentuale variabile dall'1% al 5% da applicare secondo equità da parte del Giudice amministrativo, sull'importo globale dell'appalto o, secondo un diverso orientamento, sulla somma già liquidata a titolo di lucro cessante. Con riferimento alla prima tesi secondo cui il danno curriculare vada quantificato, secondo equità, in misura percentuale calcolata sull'importo globale dell'appalto v. Cons. St. IV, n. 8253/2013; Cons. St. VI, n. 540/2013. Si segnala, nella giurisprudenza di merito, T.A.R. Puglia, Lecce I, n. 2454/2013 che, nella valutazione in via equitativa del c.d. danno curriculare, ha ritenuto equo quantificare il danno curriculare in una percentuale pari al 4% dell'importo posto a base d'asta. Maggioritaria è invece la tesi secondo cui il danno curriculare vada quantificato, secondo equità, sulla somma già liquidata a titolo di lucro cessante. Per questa soluzione si segnala Cons. St. VI, n. 7059/2021; Cons. St. V, n. 5803/2019; Cons. St. IV, n. 2111/2016; Cons. St. VI, n. 1514/2007. Di recente questa tesi è stata ribadita da Cons. St. V, n. 3892/2021, che ha dichiarato che il creditore che invochi il risarcimento del c.d. danno curriculare deve offrire prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante. La tutela risarcitoria degli interessi formali e procedimentali dopo l'art. 21-octies della l. n. 241/1990 L'art. 21-octies, comma 2, introdotto nella l. n. 241/1990 dall'art. 14, comma 1, l. n. 15/2005, recependo regole già consolidate in via interpretativa nella giurisprudenza amministrativa, ha previsto che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». L'art. 21-octies, comma 2, si articola dunque in due proposizioni. Nella prima sono indicate, in termini generali, le violazioni che non danno luogo ad annullabilità: vale a dire quelle relative alle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, laddove si tratti di provvedimenti a carattere vincolato, per i quali sia «palese» che il «contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Nella seconda è prevista una specifica disciplina per il caso della mancata comunicazione di avvio del procedimento: ove la P.A. «dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», la violazione predetta non produce ini ogni caso l'annullabilità dell'atto. In tale ipotesi, dunque, non opera il limite dell'attività vincolata, riferendosi la norma anche al caso di attività discrezionale; quanto all'onere della prova, esso è addossato espressamente a carico della P.A. (Caringella, Manuale, 1257). La dottrina ha evidenziato che l'art. 21 -octies , comma 2, ha accolto in via legislativa i principi della prova della resistenza, della conservazione degli atti, della strumentalità delle forme e del raggiungimento dello scopo (di cui all'art. 156,3 comma, c.p.c.) già elaborati dalla giurisprudenza, ed analizzati da attenta dottrina, i quali presentano come elemento comune la tendenza ad un'applicazione non meccanica e formalistica delle norme sul procedimento e sulla forma degli atti, nella convinzione che costituiscano mere irregolarità non invalidanti tutte quelle difformità degli atti dal paradigma normativo che si traducono in vizi meramente formali e di scarso valore sostanziale, tali, pertanto, da non avere una ragionevole incidenza causale sul contenuto del provvedimento finale e da non imporne l'annullamento. Si è evidenziato che alla base della teoria dell'irregolarità non invalidante vi sono difatti ragioni di economia dell'azione amministrativa che impongono la necessità di non disperdere energie umane e denaro pubblico, ossia, di evitare di procedere ad un annullamento di provvedimenti affetti da vizi di natura formale, laddove l'interesse sostanziale perseguito sia stato comunque raggiunto ed una rinnovazione del procedimento, disposta al fine di formare un atto privo dai predetti vizi formali, condurrebbe poi all'adozione di un atto finale dallo stesso contenuto sostanziale (Farina). La giurisprudenza amministrativa formatasi sotto l'impero del vecchio testo della l. n. 241/1990, la quale, com'è noto, non individuava la figura dell'irregolarità, ha fatto grande applicazione della predetta teoria dell'irregolarità giungendo ad individuare una vasta gamma di vizi procedimentali non invalidanti (Farina). In particolare, con riguardo ai vizi sulla forma degli atti, diversi casi di semplice irregolarità sono stati individuati in passato dalla giurisprudenza nei provvedimenti che non avessero osservato correttamente le norme prescritte dalla legge per il contenuto esteriore dello stesso provvedimento. In particolare, secondo la giurisprudenza, non determinano nullità ma mera irregolarità dell'atto: (a) l'omessa indicazione della data entro cui proporre il ricorso e dell'Autorità competente a riceverlo ai sensi dell'art. 3, comma 4, della l. n. 241/1990, non determina alcuna diretta illegittimità dell'atto, ma concreta unicamente una mera irregolarità (Cons. St. III, n. 560/2003; Cons. St. III, n. 3751/2003; Cons. St. VI, n. 5812/2002; Cons. St. II, n. 1782/1994); (b) l'erronea o omessa citazione di una disposizione all'interno di un provvedimento amministrativo il cui contenuto sia conforme alla legge (T.A.R. Calabria, n. 283/1998); (c) l'omissione del numero del protocollo nel provvedimento impugnato (T.A.R. Lazio, Latina n. 998/1989); (d) l'omissione della data del provvedimento medesimo (T.A.R. Basilicata, n. 204/1982); (e) l'errore di trascrizione (T.A.R. Sicilia, Palermo, n. 566/1991); (f) l'omessa indicazione del responsabile del procedimento Per quanto attiene alle violazioni di norme sul procedimento non invalidanti occorre sottolineare che esse hanno assunto particolare rilevanza, sotto la vigenza dell'originario testo della l. n. 241/1990, soprattutto in relazione alle formalità previste a tutela delle garanzie partecipative del privato nel procedimento amministrativo (Farina). In modo particolare la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo di cui agli artt. 7,8 e 10, della l. n. 241/1990, non vanno applicate meccanicamente e formalisticamente, nel senso che sia necessario annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, ma vanno interpretate nel senso che non sono annullabili i procedimenti che hanno comunque raggiunto lo scopo cui la comunicazione di avvio tende, in quanto, in caso contrario, si farebbe luogo ad un'inutile ripetizione del procedimento, con aggravio sia per l'amministrazione sia per l'interessato (Cons. St. IV, n. 4018/2004; Cons. St. IV, n. 6305/2000; Cons. St. V, n. 363/1997). Con riferimento alla valutazione del vizio di omessa comunicazione di avvio del procedimento, poi, i giudici amministrativi erano pervenuti a conclusioni improntate ad un approccio ermeneutico di tipo sostanzialistico, considerando irrilevante la relativa violazione qualora l'ipotetica partecipazione procedimentale del destinatario della comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 fosse risultata priva in concreto di qualunque utilità per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive e degli interessi poi dedotti in giudizio dal ricorrente. Inoltre, l'omesso invio della comunicazione è stato ritenuto non censurabile (a) laddove l'interessato abbia avuto aliunde piena conoscenza della pendenza del procedimento e vi abbia potuto partecipare, o il procedimento sia stato avviato su istanza di parte (Cons. St. IV, n. 3709/2000); (b) o ancora laddove l'adozione del provvedimento sia doverosa, oltre che vincolata, per la P.A., sicché l'eventuale annullamento del provvedimento non priverebbe comunque l'Amministrazione del potere di emanare un atto dal contenuto identico (Cons. St. IV, n. 3813/2003; Cons. St. IV, n. 395/2004); (c) nei casi in cui il cittadino, pur privato della predetta comunicazione, abbia avuto comunque conoscenza aliunde del procedimento amministrativo (Cons. St. IV, n. 3037/2003; Cons. St. IV, n. 4018/2004; Cons. St. IV, n. 7405/2004) o (d) ad esso abbia comunque avuto modo di partecipare (Cons. St. VI, n. 1325/2002; Cons. St. V, n. 1095/2003; Cons. St. VI, n. 3684/2003). Questa giurisprudenza, sensibile alle esigenze di economicità ed efficienza dell'azione amministrativa, ha inteso escludere l'annullabilità di quei provvedimenti che, ancorché affetti da violazioni formali di norme sul procedimento, non ledono interessi sostanziali del privato soggetto all'azione amministrativa: ed infatti l'annullamento per motivi eminentemente formali di un provvedimento sostanzialmente legittimo produrrebbe il solo effetto di aggravare l'azione dei pubblici uffici, costretti a rinnovare l'iter procedimentale per adottare un provvedimento dello stesso contenuto. Le teorie suesposte ben si conciliano pertanto con il principio di efficienza sancito dall'art. 1 della stessa l. n. 241/1990, e, più in generale con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione enunciato dall'art. 97 della Costituzione (Farina). Recependo questi orientamenti già consolidati nella giurisprudenza, l'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, costituisce una disposizione di fondamentale importanza nel diritto amministrativo, in quanto ha introdotto la regola, definita dalla dottrina «rivoluzionaria per l'ordinamento italiano», della conservazione degli atti affetti da vizi e da violazione di legge «non essenziali». Di conseguenza, di fronte ai vizi formali e procedimentali, e nell'ipotesi di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, il G.A. ai fini dell'annullamento dell'atto sarà tenuto a effettuare il giudizio sulla spettanza del bene finale della vita e, nell'ipotesi di esito negativo di tale giudizio, al G.A. resta precluso il potere caducatorio (Caringella, Manuale, 224). A tal riguardo, deve ricordarsi che secondo l'orientamento sostanzialmente pacifico della giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Cons. St. V, n. 4155/2021; Cons. St. V, n. 2534/2020; Cons. St. IV, n. 827/2018; Cons. St. V, n. 5546/2017; Cons. St. V, n. 3505/2017; Cons. St. IV, n. 3255/2017; Cons. St. V, n. 1037/2017; Cons. St. IV, n. 489/2017; Cons. St. VI, n. 5042/2016Cons. St. V, n. 4718/2016; Cons. St. V, n. 3674/2016; Cons. St. V, n. 675/2015; Cons. St. III, n. 302/2015; Cons. St. V, n. 5115/2014; Cons. St. IV, n. 467/2010; Cons. St. IV, n. 148/2009; Cons. St. V, n. 4868/2008; Cons. St. IV, n. 6538/2008; Cons. St. IV, n. 3552/2008; Cons. St. IV, n. 4231/2006; Cons., St. Ad. plen., n. 13/2008; Cons. St. V, n. 2294/2004; contra Cons. St. IV, n. 2288/2006) l'annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo per vizi formali (tra i quali si può annoverare non solo il difetto di motivazione, ma anche e soprattutto i vizi del procedimento), non reca di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno. Come precisato nell'ambito di tale indirizzo giurisprudenziale, il risarcimento del danno non è infatti una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato, alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'agire illegittimo dell'amministrazione. Tale giudizio prognostico non può tuttavia essere positivo quando la spettanza del bene richiesto è subordinata al nuovo esercizio del potere amministrativo in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire, come nel caso di un annullamento che pone all'amministrazione l'obbligo di provvedere nuovamente, senza tuttavia vincolarla quanto alla determinazione finale da assumere. La dottrina ha evidenziato, d'altra parte, che tale soluzione presenta degli inconvenienti in punto di effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 24,103 e 113 Cost., in quanto conduce ad una sostanziale degradazione dei vizi formali e procedimentali a mere irregolarità, con esclusione di ogni forma di tutela. Si è dunque evidenziato la necessità di riconoscere che l'illegittimità solo formale, pur non cagionando l'annullamento, possa comunque determinare un danno risarcibile. A tal fine, sul piano teorico, si è ritenuto opportuno estendere al diritto amministrativo la tradizionale distinzione civilistica tra regole del comportamento e regole dell'atto, cioè regole la cui violazione comporta una qualificazione in termini di illiceità del comportamento complessivamente inteso (e dunque la responsabilità per scorrettezza comportamentale), e regole la cui violazione comporta invece l'invalidità. In conclusione, l'art. 21-octies amplia lo spettro delle sanzioni: l'annullabilità non è più l'unica sanzione per il comportamento illegittimo della pubblica amministrazione, ma è addirittura una sanzione eccessiva e persino in assenza di violazione della regola formale o procedimentale. In tale ipotesi, il contegno illecito della P.A., in virtù del principio di effettività della tutela giurisdizionale, determina la responsabilità della pubblica amministrazione per scorrettezza procedimentale e formale che abbia cagionato un danno al privato (Corradino, 181 s.; Caringella, Manuale, 225). Proprio la dimostrazione della sussistenza del danno, unitamente alla prova della colpa dell'Amministrazione, dovrà essere la chiave di volta per il riconoscimento di una responsabilità della P.A. per la violazione di interessi formali e procedimentali aventi una portata sostanziale e non meramente strumentale. In tal modo si evita di giungere all'estremo e di concedere la tutela risarcitoria in ogni caso, indipendentemente dall'indagine sulla sussistenza di una lesione sostanziale per il privato, pur diversa dall'interesse al conseguimento del bene finale della vita (Caringella, Manuale, 225). Il danno non patrimoniale da provvedimento amministrativo. Una delle più importanti conquiste della giurisprudenza amministrativa in tema di responsabilità della P.A. è il riconoscimento della responsabilità del danno non patrimoniale che trova tutela nell'art. 2059 c.c. Il Giudice amministrativo infatti sempre più spesso emette condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, sub specie di danno biologico e danno esistenziale, ricorrendo il più delle volte, per la loro liquidazione al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. (Corradino, 185). L'art. 2059 c.c. prescrive che «il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge». Al riguardo, è noto il completo recupero dell'impianto bipolare del 1942 elaborato dalle due sentenze gemelle delle Suprema Corte (Cass. III, n. 8827 e 8828/2003) e avallata dalla interpretazione costituzionalmente orientata che, analogamente alla Corte di Cassazione, ne ha dato la Corte Costituzionale (Corte cost. n. 233/2003). Sulla base della predetta giurisprudenza il danno non patrimoniale è risarcibile non soltanto nei cassi espressamente previsti dalla legge, ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Pertanto alla luce dei predetti arresti giurisprudenziali, la tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059 c.c. in relazione al 185 c.p., come diretto alla tutela del solo danno morale soggettivo nei casi di fatto reato e fondata sui lavori preparatori del 1942, viene ritenuta non più accoglibile. La teoria secondo cui le norme costituzionali che attengono a valori inviolabili della persona umana, non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma sono anche immediatamente efficaci nei rapporti privatistici, impone al legislatore ordinario, nel rispetto della gerarchia delle fonti, di non porre limiti alla risarcibilità di valori della persona umana. Nella misura e nei casi in cui sono considerati inviolabili dalla Costituzione, anche a detti valori va riconosciuta la tutela minima e cioè quella risarcitoria. La stessa legislazione successiva al Codice Civile ha operato un cospicuo ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi di reato in relazione alla compromissione di valori personali. Il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell'art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. La tesi conclusiva è la costruzione di una categoria unitaria di danno non patrimoniale, identificante tutti pregiudizi determinati dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, e la sua intera riconduzione nella sfera applicativa dell'art. 2059 c.c. Riportata la responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal codice vigente tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, la giurisprudenza di legittimità ha espresso un principio che impone una rinnovata riflessione della materia. In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza Cass. S.U., n. 26972/2008, hanno statuito che, nel nostro ordinamento, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi “previsti dalla legge”, e cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento; c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati “ex ante” dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice. In definitiva, secondo la giurisprudenza citata, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: a) che l'interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell'art. 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (Cons. St. III, n. 4336/2020). Pertanto, occorre innanzi tutto verificare la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale derivante da attività o comportamenti illegittimi o illeciti della P.A., ed a ciò in tanto il giudice può procedere, in quanto, nelle rituali forme processuali, ne venga investito da domanda di parte. Sulla base del citato orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che nell'ambito della categoria generale «danno non patrimoniale», non sussistono distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale. È solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico, ovvero che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2,29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale; ancora, come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale. Con specifico riferimento alla individuazione di una categoria autonoma di danno esistenziale, la nuova figura di danno non può risolversi nella mera descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (del tipo «il peggioramento della qualità della vita», «l'alterazione del fare non reddituale»), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale sia l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto è ostativa all'ammissione a risarcimento. Il pregiudizio di tipo esistenziale, in definitiva, è risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Dunque, qualora venga richiesto il ristoro di un danno non patrimoniale, e non un danno patrimoniale, si deve fare applicazione dell'art. 2059 e non dell'art. 2043 c.c. e, al riguardo occorre che vi sia la sussistenza di uno dei “casi determinati dalla legge”, in ragione della tipicità delle ipotesi di danno non patrimoniale (Cons. St. II, n. 2610/2021). Il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. costituisce un'ipotesi di danno conseguenza, consistente nella lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Si tratta quindi di un ulteriore pregiudizio rispetto a quelli di ordine patrimoniale, derivante da un medesimo fatto illecito ex art. 2043 c.c. (Cons. St. V, n. 2807/2017). Il danno non patrimoniale, configurabile quale danno-conseguenza derivante dall'effettiva lesione di specifici beni/valori oggetto di tutela (e non quale mero danno-evento), deve essere puntualmente allegato e dimostrato nella sua consistenza, se del caso attraverso il ricorso a presunzioni, purché plurime, precise e concordanti. Laddove si accedesse all'opposta tesi del danno in re ipsa, si finirebbe infatti per snaturare la funzione stessa del risarcimento, che non conseguirebbe all'effettivo accertamento di un danno, ma si atteggerebbe alla stregua di vera e propria pena privata per un comportamento illecito. Come precisato dal Consiglio di Stato, «costituisce orientamento consolidato quello secondo cui, per conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale, il richiedente è tenuto ad allegare e provare in termini reali il pregiudizio subito, anche se collegato a valori riconosciuti a livello costituzionale, e ciò perché la categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., pur nei casi in cui la sua applicazione consegua alla violazione di diritti inviolabili della persona, costituisce pur sempre un'ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell'integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza (deducibile da specifiche circostanze da cui possa desumersi la violazione di interessi di rilievo costituzionale) ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiato (Cass. S.U., n. 26792/2008; Cass. III, n. 21865/2013; Cons. St. VI, n. 34/2014)» (Cons. St. VI, n. 4454/2019; Cons. St. VI, n. 7059/2021). Cosicché al fine di conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale, il richiedente è tenuto, in particolare, ad allegare e provare in termini reali il pregiudizio subito, anche se collegato a valori riconosciuti a livello costituzionale atteso che la categoria del danno non patrimoniale, di cui all'art. 2059 c.c., pur nei casi in cui la sua applicazione consegua alla violazione di diritti inviolabili della persona, costituisce pur sempre un'ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell'integrale allegazione e della prova in ordine alla sua consistenza (Cons. St. III, n. 5191/2021; Cons. St. VI, n. 3907/2021). Il danno non patrimoniale deve essere dunque allegato e provato tanto nella sussistenza che nel nesso eziologico. In particolare, si ammette, quanto al danno propriamente biologico, che il verificarsi della menomazione della integrità psico-fisica della persona possa essere accertato facendo ricorso alle presunzioni e che la sua quantificazione possa avvenire in via equitativa, occorrendo tuttavia che la motivazione indichi gli elementi di fatto i quali, nel caso concreto, sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa. Quanto al danno esistenziale, a maggior ragione si ammette il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio ad un bene immateriale, diverso da quello biologico e consistente nel danno, di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine alla espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno (Cons. St. V, n. 697/2019). Deve però specificarsi come la verifica storica attraverso la sola prova diretta e rappresentativa può andare incontro ad insormontabili difficoltà data la connotazione intrinsecamente probabilistica dei fatti; difficoltà solo in parte temperabili attraverso l'utilizzo sapiente dei poteri ufficiosi del giudice. Diviene doveroso, pertanto, il ricorso alla prova critica che consente di affermare l'esistenza di un fatto né percepito né rappresentato di fronte al giudice, attraverso la conoscenza di un fatto diverso da lui raggiunta per percezione o per rappresentazione. Le presunzioni, è bene precisarlo, non costituiscono uno strumento probatorio dì rango «secondario» nella gerarchia dei mezzi di prova ovvero «più debole» rispetto alla prova diretta o rappresentativa ma, al contrario, può anche costituire l'unica fonte del convincimento del giudice (Cons. St. VI, n. 6451/2020). La giurisprudenza ha evidenziato che il danno esistenziale non esiste come categoria a sé stante (il punto fermo è rappresentato dalle fondamentali decisioni di Cass. S.U. , n. 26972/2008 e 26975/2008), posto che il nostro ordinamento positivo non conosce altre distinzioni, in materia, se non quelle tra danno emergente e lucro cessante (art. 1223 c.c.) e tra danno patrimoniale e non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Il danno non patrimoniale consiste nella lesione di qualsiasi interesse della persona non suscettibile di valutazione economica, ha natura unitaria e omnicomprensiva (nel senso che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati – danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale – risponde a esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno), e il suo accertamento e la successiva liquidazione costituiscono questioni concrete e non astratte, che non chiedono all'interprete la creazione di astratte tassonomie classificatorie, ma lo obbligano alla ricerca della sussistenza di effettivi pregiudizi (cfr. Cons. St. IV, n. 5494/2016; Cass. III, n. 24210/2015; Cass. III, n. 4379/2016; Cass. III, n. 7766/2016). Nel caso di lesione del diritto all'immagine, derivante da un illegittimo provvedimento, è risarcibile oltre all'eventuale danno patrimoniale (se verificatosi e se dimostrato) il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali il danneggiato abbia a interagire (Cons. St. III, n. 4615/2016). La prova del danno risarcibile.Il principio generale dell'onere della prova sancito dall'art. 2697 c.c., si applica anche all'azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo e per tale motivo è onere del danneggiato portare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria e, quindi, del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario (Cons. St. V, n. 1739/2019). Dunque, anche nel processo amministrativo è dovere del danneggiato «provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria» (Cons. St. VI, n. 1667/2019). Tale ragionamento vale anche per il danno da ritardo, atteso che l'inerente pretesa risarcitoria rientra nello schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo e dell'onere della prova, sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, c.c., opera con autonoma pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio invece dell'azione di annullamento (Cons. St. V, n. 1737/2019). Il risarcimento del danno per equivalente e i criteri per la quantificazione del danno.La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall'ordinamento mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro equivalente al valore della lesione patrimoniale patita, e quello della reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla condotta illecita. Col primo il danneggiato ottiene una somma di denaro corrispondente al valore del bene della vita perduto o leso (c.d. tantundem), mentre col secondo viene rimesso nella medesima situazione in cui si trovava prima della commissione dell'illecito (Caringella, Manuale, 234). Anche innanzi al giudice amministrativo, quindi, il cittadino è legittimato ad ottenere un risarcimento del danno con tutti i contenuti di cui al codice civile (Travi, 225). Sul tema della quantificazione del danno da liquidare al soggetto danneggiato dall'amministrazione occorre operare uno stretto collegamento con i parametri previsti dal codice civile con riferimento alla disciplina dell'inadempimento delle obbligazioni. Nei successivi paragrafi si provvederà, dunque, ad esaminare, più nel dettaglio, i parametri civilistici ai fini della quantificazione del danno, estensibili anche alla fattispecie della responsabilità della pubblica amministrazione. Gli articoli 1223, 1225 e 1226 del codice civile. Prendendo spunto dagli istituti di diritto civile risulta necessario premettere che la funzione del risarcimento del danno per equivalente – ai sensi dell'art. 1223 c.c. – consiste nell'assicurare una riparazione integrale, e deve quindi comprendere una somma corrispondente alla diminuzione subita dal patrimonio del creditore – danno emergente – e una somma corrispondente al mancato aumento del patrimonio, ovvero il lucro cessante (Breccia, 637). Il danno emergente, in senso lato, può consistere nel valore economico della prestazione cui il creditore aveva diritto e che non ha ottenuto in conseguenza dell'inadempimento, ovvero nella difformità o nella mancanza di qualità della prestazione. Esso si può altresì estrinsecare nel temporaneo impedimento del godimento di un bene così come nelle prestazioni rese dal creditore a terzi in conseguenza dell'inadempimento. Ancora, si può individuare nei danni alla persona e ai beni del creditore a causa dell'inadempimento e nelle spese sostenute (Bianca, 116). Con particolare riferimento alla tematica di cui all'art. 30 c.p.a., in dottrina si è osservato come il meccanismo di quantificazione, tenendo in considerazione quei principi giuridici di cui agli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., risponde ad esigenze di equità in relazione alla funzione ed agli scopi della tutela risarcitoria, nelle controversie che vedano parte una pubblica amministrazione (Police, 287), in modo da bilanciare l'interesse pubblico al contenimento della spesa dell'amministrazione ed a rispondere a quelle esigenze e interessi sociali di tutela effettiva dei cittadini (Gargano, 1105). L'applicazione del principio dell'integralità del risarcimento del danno che comprende la risarcibilità del danno emergente e del lucro cessante in virtù dell'art. 1223 c.c. fa sì che nel caso di gara illegittima il risarcimento ricomprenda non solo le perdite derivanti dalle spese di partecipazione, ma anche l'utilità economica non realizzata che ne ha comportato la mancata aggiudicazione (Caringella, Manuale, 235). Con una importante pronuncia la giurisprudenza ha stabilito che, in tema di cumulo tra risarcimento e indennità dovuti da ente pubblico a un proprio dipendente, la condotta illecita, che abbia fatto sorgere due obbligazioni in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subìto dallo stesso bene giuridico protetto (nella specie, equo indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio e risarcimento del danno non patrimoniale a carico del datore di lavoro pubblico), determina la costituzione di un rapporto giuridico sostanzialmente unitario, che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa (e non punitiva) della responsabilità, il divieto del cumulo, con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario (Cons. St., Ad. plen., n. 1/2018). Con siffatta statuizione è stato sancito che il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione nel caso in cui il danno e l'effetto favorevole tutelino lo stesso bene con un divieto di cumulo tra le due diverse pretese. In ordine alla disciplina di cui all'art. 1225 c.c., ovvero alla prevedibilità del danno, occorre sottolineare come il suo fondamento, secondo autorevole dottrina, si ravvisa nel principio per cui l'obbligazione, in quanto strumento per il soddisfacimento di un altrui interesse, comporta l'assunzione di un sacrificio contenuto entro limiti di normalità e quindi l'obbligo di risarcimento deve essere proporzionato alla lesione di quei vantaggi del creditore connessi alla prestazione secondo un parametro di normalità (Bianca, 154). Siffatto criterio, tuttavia, troverebbe applicazione solo se la responsabilità dell'amministrazione venisse qualificata come contrattuale (Caringella, Manuale, 235). Il criterio della prevedibilità del danno stabilito all'art. 1225 c.c. troverebbe applicazione solo se la responsabilità dell'amministrazione venisse qualificata come contrattuale (Caringella, Manuale, 235). Il tema della perdita di chance è costante nei casi di difficile quantificazione del danno a interessi legittimi pretensivi e, nonostante il suo utilizzo abbia una spiccata finalità semplificante, essa viene utilizzata sia per la definizione dell'an del risarcimento, sia per adeguare la quantificazione dello stesso proporzionalmente al grado della verosimile prossimità effettiva del danneggiato rispetto all'agognato, ma illegittimamente «distratto», bene della vita (Cortese, 2012, 989). Si deve ritenere che in sede risarcitoria alla somma espressiva del danno in sé considerato vadano tradizionalmente portati in detrazione gli eventuali vantaggi (compensatio lucri cum damno) di cui il danneggiato abbia tratto anche involontario beneficio (Cons. St. V, 1151/2009). La compensatio lucri cum damno richiede identità tra il fatto produttivo del danno e del vantaggio. Ne consegue che tale compensazione non può operare nel caso il vantaggio (nella specie derivante dalla qualificazione tecnica per l'esecuzione del servizio, sia pure per un tempo limitato), non sia derivato dallo stesso fatto (aggiudicazione illegittima) produttivo del denunciato danno (Cons. St., Ad. plen., n. 2/2003). In particolare, in materia di liquidazione del risarcimento del danno da mancata assunzione al pubblico impiego, dovendosi risarcire il pregiudizio concretamente subito dall'interessato, occorre tenere conto dei vantaggi patrimoniali conseguiti nel periodo considerato (c.d. principio della compensatio lucri cum damno), in forza del quale il datore di lavoro (l'Amministrazione) che contesti la domanda risarcitoria del lavoratore è onerato, pur mediante presunzioni semplici, della prova dell'aliunde perceptum o dell'aliunde percipiendum (Cons. St. V, n. 102/2017). Tra i criteri per la quantificazione del danno risarcibile rientra anche quello della liquidazione in via equitativa. La giurisprudenza amministrativa ha stabilito sul punto che l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., non dà luogo ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa. Tale giudizio presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare. Infatti, non è possibile surrogare, attraverso il ricorso all'equità, il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (Cons. St. V, n. 1683/2019). L'equità di cui all'articolo richiamato sta ad indicare la necessità di un prudente contemperamento e mediazione tra i vari fattori, positivi e negativi, di probabile incidenza sul danno, mentre sono estranei a tale giudizio quei fattori che non incidono sul danno, come a titolo esemplificativo, le facoltose condizioni economiche del danneggiante (Bianca, 165). La giurisprudenza amministrativa ha stabilito sul punto che l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., non dà luogo ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa. Tale giudizio presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare. Infatti, non è possibile surrogare, attraverso il ricorso all'equità, il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (Cons. St. V, n. 1683/2019). Nei casi di difficile quantificazione del danno a interessi legittimi pretensivi è costante il riferimento al tema della perdita di chance e, nonostante il suo utilizzo abbia una spiccata finalità semplificante, essa viene utilizzata sia per la definizione dell'an del risarcimento, sia per adeguare la quantificazione dello stesso proporzionalmente al grado della verosimile prossimità effettiva del danneggiato rispetto all'agognato, ma illegittimamente «distratto», bene della vita (Cortese, 2012, 989). Segue: il comportamento del danneggiato. L'art. 1227 c.c. prevede, al primo comma, che: «se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate». Il secondo comma dispone che: «Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza». Il collegamento può essere considerato una naturale conseguenza del capoverso del comma 3 dell'art. 30 c.p.a. secondo cui nella quantificazione del risarcimento del danno il giudice sarà tenuto a valutare tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti. Si esclude, dunque, il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti. In particolare, come stabilito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può ritenersi alla stregua di una condotta contraria a buona fede nell'ipotesi in cui si accerti che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno. Il ricorso per annullamento, finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l'unica tutela esperibile, è quello strumento con cui l'ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest'ultimo produca conseguenze dannose. Da ciò ne consegue che l'utilizzo del rimedio appropriato, volto a raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui all'art. 1227 c.c. La scelta, dunque, di non avvalersi della forma di tutela specifica, non particolarmente complessa, se confrontata rispetto a quella risarcitoria, anche in relazione all'esistenza di misure cautelari all'uopo previste e che avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che viola il canone della buona fede e che, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità, implica la non risarcibilità del danno evitabile (Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011; cfr. altresì Cons. St. V, n. 1625/2022; Cons. St. IV, n. 6351/2020; nella giurisprudenza di merito, ex multis, T.A.R. Cagliari I, n. 675/2016). Il soggetto leso è, pertanto, tenuto ad agire usando l'ordinaria diligenza per evitare l'aggravarsi del danno, senza giungere al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. Gli orientamenti del giudice ordinario, che ritengono che la proposizione di un'azione giudiziaria non rientri nell'ordinaria diligenza del creditore in quanto trattasi di una attività gravosa, non sono tuttavia applicabili nel processo amministrativo: il c.p.a. rende infatti rilevante l'attivazione degli «strumenti di tutela» (Scoca, 199). La giurisprudenza ha evidenziato che il riferimento agli «strumenti di tutela» al plurale deve essere correttamente inteso, non nel senso che il privato ha l'onere di attivare tutti gli strumenti di tutela astrattamente previsti dall'ordinamento (ivi inclusa, quindi, la tutela cautelare), ma, al contrario, nel senso che l'onere di ordinaria diligenza può essere assolto anche attivando uno (o solo alcuni) degli strumenti di tutela previsti, compresi persino, come ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, anche quelli di natura non giurisdizionale, evidenziando inoltre come anche solo attraverso la proposizione del ricorso giurisdizionale possa essere assolto l'onere di ordinaria diligenza di cui all'art. 30, comma 3, e all'art. 1227, comma 2, c.c. (Cons. St. VI, n. 1549/2020). Dunque, l'omessa attivazione degli strumenti di tutela, tra i quali non può non ricomprendersi il rimedio cautelare, costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini della mitigazione e finanche dell'esclusione del danno in quanto evitabile con l'ordinaria diligenza (ex plurimis, Cons. St. V, n. 2789/2021; Cons. St. V, n. 2174/2021; Cons. St. V, n. 962/2021; Cons. St. VI, n. 5388/2020; Cons. St. VI, n. 5387/2020; Cons. St. IV, n. 5378/2020; Cons. St. V, n. 1683/2019). Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ha evidenziato che, in tema di responsabilità civile della P.A. l'utilizzo nel secondo periodo del comma terzo dell'art. 30 c.p.a., della formula al plurale «attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti» non ha il significato di imporre al danneggiato l'esperimento di tutti gli strumenti di tutela che l'ordinamento processuale prevede per la tutela in forma specifica dell'interesse legittimo e, quindi, l'onere di esperire oltre alla tutela di annullamento, anche la tutela esecutiva mediante il giudizio di ottemperanza al giudicato di annullamento (Cons. St. VI, n. 4283/2015). Siffatti principi, come precisato dalla stessa giurisprudenza, valgono anche in tema di danno da ritardo, in cui occorre valutare non il solo comportamento dell'amministrazione, ma anche la condotta dell'istante, il quale è parte essenziale ed attiva del procedimento. In tale veste, l'interessato dispone di capacità idonee a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giurisdizionali offertogli dall'ordinamento. Tra questi ultimi si fa ricomprendere il rito del silenzio, che va attivato con adeguata tempestività. In difetto, rileva come comportamento causalmente orientato ai sensi dell'art. 1227 c.c. in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile (Cons. St. V, n. 1739/2019). Sempre in materia di danno da ritardo e dello strumento del silenzio, è stato rilevato come la condotta del privato che integri la violazione del canone comportamentale cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c. – e oggi recepito dall'art. 30, comma 3, c.p.a. – produca un effetto eziologico nella produzione di un preteso danno, altrimenti evitabile. La scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica di agire per l'accertamento del silenzio inadempimento, che avrebbe plausibilmente evitato il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno che sarebbe stato evitabile (Cons. St. IV, n. 270/2019). Allo stato, rimane invece dibattuta la questione se una istanza in autotutela dell'interessato, volta ad ottenere dalla p.a. l'annullamento dell'atto amministrativo, sia di per sé sufficiente ad integrare la diligenza del creditore e non escludere quindi il risarcimento del danno di cui al comma 3, benché la versione definitiva del testo del c.p.a. sembrerebbe più restrittiva rispetto al testo predisposto dalla Commissione presso il Consiglio di Stato (Scoca, 200). Il risarcimento del danno per equivalente L'art. 34, comma 4, c.p.a. prevede che «in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti». L'art. 34 c.p.a., che ha previsto tale forma di liquidazione in tutte le ipotesi di condanna della P.A., regola la possibilità che le parti – compresa quindi l'Amministrazione soccombente – possano proporre opposizione alla condanna parziale emessa dal giudice, domandando la quantificazione giudiziale della somma da versare a titolo di condanna. La motivazione della scelta normativa a favore di una condanna parziale (o incompleta) risiede nella difficoltà di quantificazione dei danni patiti per effetto di atti e comportamenti illegittimi o illeciti della P.A. Di qui l'incentivazione di accordi pattizi di stampo lato sensu transattivi. Residuano dubbi sulla natura dell'accordo e sulle conseguenze derivanti dal suo inadempimento. Dalla natura dell'accordo eventualmente raggiunto dalle parti dipende, infatti, anche la possibilità di riconoscergli natura di titolo esecutivo. L'impossibilità di assimilarlo a una sentenza impone una risposta negativa, con evidente deficit di tutela per il danneggiato: qualora venisse adottata dalle parti la soluzione transattiva, infatti, verrebbe a mancare il presupposto per l'esecuzione forzata processualcivilistica privando il danneggiato, di reali strumenti esecutivi per opporsi ad un'inerzia del danneggiante nel momento attuativo dell'accordo (salvi i rimedi anche sommari per l'inadempimento contrattuale) (Caringella, Manuale, 238). L'art. 34 c.p.a., invece, è più chiaro con riferimento ai limiti entro i quali è possibile l'utilizzo del rimedio dell'ottemperanza, chiarendo come non solo il mancato raggiungimento dell'accordo, ma anche il suo inadempimento consentono il ricorso al giudice dell'ottemperanza. In tal modo, dunque, il Legislatore sembra aver confermato come, più che un rinvio pieno al giudizio di ottemperanza, si tratta di un rinvio al solo procedimento proprio di tale giudizio, senza riprendere limiti e presupposti per la sua attivazione. Stante l'inconcepibilità di una condanna monca di primo grado, non era dubitabile che a detta anomala forma di ottemperanza dovesse approdarsi anche per sentenze esecutive prive dell'autorità di cosa giudicata, e che quindi il richiamo concernesse la procedura non i presupposti dell'ottemperanza. La contraria opinione, secondo cui l'ottemperanza in esame avrebbe richiesto il giudicato, oltre a lasciare residuare decisioni inconcepibilmente mutilate, avrebbe moltiplicato appelli puramente defatigatori, dilatando i tempi della giustizia sostanziale. Il problema è ora risolto dall'art. 112 c.p.a., il quale allarga anche alle sentenze esecutive, e non necessariamente passate in giudicato, il ricorso al giudizio di ottemperanza. Si deve inoltre rilevare che, ove la condanna parziale venga pronunciata in secondo grado, anche il giudizio di ottemperanza anomalo si svolgerà solo innanzi al Consiglio di Stato, con la deroga al principio del doppio grado di giudizio (propria, d'altronde, anche dell'ottemperanza in senso stretto). Discostandosi dalla tesi secondo la quale l'art. 34, comma 4, c.p.a. modellerebbe un giudizio di ottemperanza nel corso del quale – a seguito dell'annullamento del provvedimento amministrativo all'esito del precedente giudizio di cognizione – vi sarebbe, sulla base dei criteri stabiliti dal Giudice, una prima fase collaborativa (imperniata sulla formulazione della proposta) e una seconda esecutiva e condannatoria (in caso di mancanza dell'accordo o della stessa proposta), il Consiglio di Stato afferma che le attività di condanna al risarcimento, con la fissazione dei criteri nel rispetto dei quali deve essere formulata la proposta, sono di competenza del giudice amministrativo di cognizione, essendo riservato al giudizio di ottemperanza solamente il compimento delle attività di quantificazione del danno in mancanza di proposta e di accordo. A sostegno dell'assunto depone, in uno con la chiarezza del dato testuale, l'osservazione che la verifica dei presupposti della fattispecie risarcitoria complessa ex art. 2043 c.c. implica un accertamento ordinario imperniato sul doppio grado di giurisdizione, non costituendo il risarcimento una sorta di sanzione patrimoniale automatica, conseguente all'annullamento di un provvedimento amministrativo. Va precisato, infine, che nel processo amministrativo non sono ammissibili domande di condanna genericaex art. 278 c.p.c. Il ricorso alla c.d. «sentenza sui criteri» di liquidazione del danno ex art. 34, comma 4, c.p.a., postula, infatti, che sia stata accertata l'esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che fungeranno da guida per la formulazione dell'offerta da parte della P.A. Impostazione non scalfita dal Codice del 2010, il quale, nel disciplinare l'azione di condanna, prevede che «nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'impugnazione, nel termine di decadenza, degli atti lesivi illegittimi» (art. 30, comma 3). Inoltre in caso di sentenza «incompleta» ex art. 34, comma 4, c.p.a., resta fermo l'accertamento dell'an e dei criteri di liquidazione della somma da parte del giudice (Caringella, Manuale, 240). Il risarcimento del danno in forma specifica.Il comma 2 dell'art. 30 c.p.a. stabilisce che «sussistendo i presupposti previsti dall'art. 2058 c.c., può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica». A tale disposizione si lega quella contenuta nell'art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a. secondo cui «in caso di accoglimento del ricorso, il Giudice nei limiti della domanda [...] dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell'art. 2058 c.c.». Il codice del processo amministrativo ha chiarito, dunque, che il giudice amministrativo può pronunciare sentenze di reintegrazione in forma specifica negli stessi casi in cui avrebbe potuto pronunciarle il giudice civile ai sensi dell'art. 2058 c.c. (Travi, 225). Ciò premesso, al fine di poter analizzare l'istituto così come è stato previsto nel diritto amministrativo appare opportuno preliminarmente esaminare, seppur per brevi cenni, la reintegrazione in forma specifica nel diritto civile. Va pertanto ricordato che nel processo civile il risarcimento del danno ingiusto può essere corrisposto attraverso due diverse modalità: per equivalente e in forma specifica. Nel risarcimento per equivalente il danneggiato riceve una somma di denaro corrispondente all'entità del danno subito; con il risarcimento del danno in forma specifica, invece, il danneggiato ottiene l'eliminazione materiale del danno mediante il ripristino della situazione antecedente l'illecito (Corradino, 232). Il risarcimento in forma specifica consiste, in altre parole, nella diretta rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno. Nell'ottica civilistica la reintegrazione in forma specifica rimane un rimedio risarcitorio, o riparatorio secondo alcuni, ossia una forma di reintegrazione dell'interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio (Chieppa, Il processo amministrativo, 309). Così come nel processo civile, anche nel processo amministrativo il risarcimento del danno in forma specifica offre una particolare tutela al danneggiato attraverso il ripristino dello status quo ante, che si realizza con il conseguimento di una situazione del tutto analoga a quella che si sarebbe avuta laddove l'atto illegittimo non fosse stato emesso (Caringella, Giustiniani, Manuale, 200; Corradino, 230). Va inoltre ricordato che il risarcimento del danno in forma specifica nel processo amministrativo non costituisce una novità del c.p.a., dato che la previsione di questo istituto nella giustizia amministrativa era già avvenuta ad opera del d.lgs. n. 80/1998, che lo aveva introdotto nell'ambito delle azioni di condanna nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva. In particolare, l'art. 35, comma 1, aveva previsto che «il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto». Successivamente, un'analoga previsione era stata introdotta anche nell'ambito della giurisdizione di legittimità. In particolare, l'art. 7, comma 3, della l. n. 1034/1971, sostituito dall'art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 80/1998 a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 7 della l. n. 205/2000, aveva stabilito che «il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». La previsione della reintegrazione in forma specifica nell'ambito del diritto pubblico ad opera del d.lgs. n. 80/1998 aveva sollevato non pochi interrogativi e problemi applicativi. In particolare, una parte della dottrina amministrativa e della giurisprudenza di primo grado ha ritenuto che, con la previsione dell'art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 e dell'art. 7 della l. n. 205/2000, il legislatore avesse introdotto nell'ordinamento un'azione di adempimento simile a quella prevista nell'ordinamento tedesco, la quale consentisse alla parte di agire in giudizio per ottenere la condanna dell'amministrazione all'emanazione di un atto amministrativo. Una specificazione della predetta tesi, sempre nel senso dell'azione di adempimento, ha reputato ammissibile la richiesta di condanna dell'amministrazione ad un facere consistente nell'emanazione di un atto amministrativo, ma solo a condizione che si tratti di attività vincolata e non di attività con significativo tasso di discrezionalità (sul punto v. Corradino, 235; in giurisprudenza, v. T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 2889/1999; T.A.R. Sicilia, Catania n. 38/2000; T.A.R. Emilia- Romagna, Bologna I, n. 30/2001; T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 2246/2002). Viceversa, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha sostenuto che l'azione di reintegrazione in forma specifica non avrebbe nulla a che vedere con l'azione di adempimento e, dunque, con la possibilità per il giudice amministrativo di ordinare un facere alla P.A. L'impostazione in parola ha, in particolare, ritenuto di dover riconoscere a detta azione natura risarcitoria e di doverla, di conseguenza, distinguere dall'azione di adempimento in quanto finalizzata a riconoscere al danneggiato non lo stesso bene della vita negatogli dalla P.A. ma un alterum dare a titolo risarcitorio. Si è ritenuto, infatti, che detta soluzione trovasse conferma nel rilievo che una diversa opzione interpretativa avrebbe finito per violare il principio di separazione dei poteri permettendo al giudice di sostituirsi alla P.A. (Corradino, 239). In questo senso, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa in favore della tesi c.d. civilistica, dando rilievo alla circostanza che il legislatore aveva espressamente inserito l'inciso «anche attraverso la reintegrazione in forma specifica» all'interno della disposizione che prevede che il giudice amministrativo dispone il risarcimento del danno. Da tale rilievo la giurisprudenza ha ricavato la tesi che contrasta con il dato letterale ogni interpretazione che ponga l'istituto in esame al di fuori di una alternativa risarcitoria (Cons. St. VI, n. 3338/2002; Cons. St. VI, n. 1716/2003; Cons. St. VI, n. 2622/2008). In senso contrario e per un inquadramento della reintegrazione in forma specifica come forma di tutela parallela all'annullamento, la quale realizza la pretesa sostanziale e pertanto è emancipata da una dimensione meramente risarcitoria, si era in precedenza orientato il Consiglio di Stato, con altra decisione che appare ora superata dai precedenti appena citati (Cons. St. VI, n. 6281/2001), in cui il giudice amministrativo afferma che la domanda di annullamento contiene in sé l'implicita domanda di risarcimento in forma specifica (Chieppa, Il processo amministrativo, 308). Stando così le cose, la reintegrazione in forma specifica non deve essere confusa né con l'azione di adempimento, diretta ad ottenere la condanna del debitore all'adempimento dell'obbligazione, né con il diverso rimedio dell'esecuzione in forma specifica quale strumento per l'attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli. In altre parole, la forma specifica non è né una forma eccezionale né una forma sussidiaria di responsabilità, ma uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito, la cui scelta spetta al creditore, salva l'ipotesi di eccessiva onerosità (Chieppa, Il processo amministrativo, 309). Conformemente agli approdi ai quali è giunta la prevalente giurisprudenza amministrativa, la relazione al c.p.a. ha sottolineato che, con la previsione di questo istituto nel processo amministrativo, non si è introdotta un'azione diretta ad ottenere la condanna del debitore all'adempimento di una obbligazione, né un rimedio in forma specifica per l'attuazione coercitiva del diritto, ma si è inteso estendere al processo amministrativo lo stesso rimedio, di natura risarcitoria, di cui all'art. 2058 c.c., al fine di ottenere la diretta rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo attraverso la produzione di una situazione materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno (così la Relazione al c.p.a., 24). Pertanto, la specifica reintegrazione in forma specifica costituisce, secondo la dottrina, un rimedio risarcitorio-riparatorio, ossia una forma di «reintegrazione dell'interesse danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio». La specifica reintegrazione sarebbe quindi l'oggetto della condanna alla rimozione delle conseguenze pregiudizievoli, da attuarsi attraverso un facere individuato ad hoc dalla sentenza (Sassani, 360). Si pensi, ad esempio, al caso di una revoca di una patente di guida annullata per difetto di motivazione con condanna dell'amministrazione alla consegna del documento (Clarich, 191). Secondo la giurisprudenza amministrativa, pertato, l'azione di reintegrazione in forma specifica è un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno, il cui accoglimento è subordinato al ricorrere dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva onerosità per l'autore dell'illecito previsti dall'art. 2058 c.c. (Cons. St., Ad. plen., n. 6/2021). La giurisprudenza ha inoltre dichiarato che il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, sicché la relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione in forma specifica (artt. 2058 c.c. e 124c.p.a.). Pertanto, una volta riconosciuta la proponibilità della domanda di reintegrazione in forma specifica, da ciò consegue necessariamente che è proponibile anche la domanda di risarcimento per equivalente, implicita in quella (Cons. St. VI, n. 4482/2015). Procedendo quindi all'esame della disposizione del codice, si è evidenziato che il testo del comma 2 dell'art. 30 c.p.a. – che risulta separato dal periodo immediatamente precedente, che si riferisce ai «casi di giurisdizione esclusiva» – porta a ritenere che il risarcimento in forma specifica è comune sia alle ipotesi di giurisdizione esclusiva che a quelle di giurisdizione di legittimità (Chieppa, Il processo amministrativo, 307; Sassani, 360). Ai sensi dell'art. 30, comma 2, c.p.a. il risarcimento in forma specifica può essere chiesto «sussistendo i presupposti previsti dall'art. 2058 c.c.». Alla luce dell'esplicito richiamo all'art. 2058 c.c., dunque, è chiaro che tale particolare forma di risarcimento in esame può essere disposta solo ove richiesta dal danneggiato e purché sia in tutto o in parte possibile e non eccessivamente onerosa (Caringella, Manuale, 240). Sulla base del chiaro tenore della disposizione in parola, la giurisprudenza ha pertanto individuato i limiti della reintegrazione in forma specifica proprio facendo riferimento alla disciplina dell'art. 2058 c.c. Pertanto, ai sensi di detta disposizione, il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica solo «qualora sia in tutto o in parte possibile» (art. 2058,1 comma, c.c.) e qualora la stessa non «risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058,2 comma, c.c.). In riferimento al primo presupposto di cui all'art. 2058 c.c. («qualora sia in tutto o in parte possibile»), il riferimento alla «possibilità» deve essere inteso nel processo amministrativo quale possibilità «giuridica», ove cioè il risarcimento in forma specifica non sia impedito dalla persistenza di un residuo potere discrezionale dell'Amministrazione, il cui esercizio non potrebbe in ogni caso essere condizionato da una pronuncia di condanna del G.A., in base al precetto di cui all'art. 31, comma 3, c.p.a. (Caringella, Manuale, 241). Ne consegue, quindi, che seguendo la tesi – senz'altro preferibile – per cui, tramite la reintegrazione in forma specifica, come forma di tutela risarcitoria, non è possibile ottenere l'esatto adempimento della p.a. (esistendo, sul punto, una specifica azione), il rimedio è destinato a operare prevalentemente, se non solo, per gli interessi oppositivi, ove ad essere turbato è il legittimo godimento del bene da parte del privato (Cortese, 2021, 328). In tal caso, infatti, è possibile che l'effetto caducatorio-ripristinatorio lasci residuare pregiudizi ulteriori (si pensi, ad esempio, alle modifiche del bene immobile del privato apportate durante la sua occupazione illegittima). Il Giudice amministrativo, pertanto, accordando la tutela in forma specifica, potrebbe condannare l'Amministrazione a rimuovere tali effetti pregiudizievoli, salvo il limite dell'eccessiva onerosità previsto dall'art. 2058,2 comma, c.c. Tale soluzione vale, a maggior ragione, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, ove il privato lamenti un danno da ingerenza nella sua sfera di diritto soggettivo, che abbia comportato delle alterazioni eliminabili con il ripristino dello status quo ante (si pensi all'occupazione usurpativa) (Caringella, Manuale, 241). È invece difficile, in linea di massima, che la tutela in forma specifica possa operare per gli interessi pretensivi, con un ordine rivolto all'Amministrazione di emanare un certo provvedimento con un determinato contenuto. In tal caso, infatti, non si tratterebbe di risarcimento, ossia di elisione del danno con un comportamento volto ad eliminare le modifiche materiali prodotti dall'illecito, bensì di un'azione di esatto adempimento tesa a ottenere la stessa prestazione originariamente dovuta e illegittimamente negata. Dette conclusioni, già evincibili dal complesso dell'impianto codicistico, e, più in generale, dal coordinamento dell'istituto in esame con le peculiarità derivanti dal coinvolgimento di un soggetto pubblico, trovano oggi una conferma espressa nella nuova formulazione dell'art. 34, comma 1, lettera c) c.p.a. che annovera esplicitamente tra i provvedimenti adottabili dal Giudice la condanna al risarcimento in forma specifica, abilitando il G.A. a disporre le misure di risarcimento ex art. 2058 c.c.. La norma, inoltre, precisa che in tal caso «l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'art. 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio» (Caringella, Manuale, 241). Dunque, allorché si tratti di interessi legittimi pretensivi, il risarcimento in forma specifica non dev'essere confuso con la condanna al conseguimento del bene vita a seguito di azione di adempimento poiché in quest'ultima ipotesi non si presuppone un comportamento della p.a. qualificabile come illecito di cui all'art. 2043 c.c. (Clarich, 191). Inoltre, il Consiglio di Stato ha avuto modo di evidenziare che l'azione ripristinatoria a tutela di un diritto reale, pur non incontrando il limite dell'eccessiva onerosità del ripristino fissato dall'art. 2058 c.c., resta comunque necessariamente condizionata dalla materiale possibilità di effettuare l'intervento di ripristino in forma specifica (Cons. St. V, n. 2890/2017; Cons. St. IV, n. 6862/2010; sempre con riferimento all'azione ripristinatoria a tutela di un diritto reale derivante dalla responsabilità della P.A. per occupazione illegittima di un fondo, v. Cons. St. IV, n. 3288/2013). In riferimento al secondo presupposto di cui all'art. 2058 c.c. (non eccessiva onerosità), la giurisprudenza amministrativa è solita richiamare il dettato di cui all'art. 2933 c.c., il quale, nel disciplinare l'esecuzione forzata degli obblighi di non fare, ne individua il relativo limite nel «pregiudizio all'economia nazionale». In particolare, il Consiglio di Stato ha chiarito che il giudice amministrativo può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore. Ad esempio, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che per eseguire coattivamente un obbligo di fare o di non fare, specialmente quando ciò comporti una qualche trasformazione del territorio (per il quale siano necessari titoli abilitativi), è necessario ottenere, sotto forma di provvedimento amministrativo, un assenso dell'amministrazione genericamente inteso. Qualora a richiedere tale assenso non provveda l'obbligato, vi provvede il Giudice dell'Esecuzione, se del caso per mezzo di un ausiliario, in base all'art. 612 c.p.c. infatti, ai sensi di tale norma il Giudice dell'Esecuzione provvede a risolvere le difficoltà che possono sorgere in tale ambito. Tuttavia, la possibilità di attuazione coattiva di tale obbligo di fare, quale è ad esempio quello di demolire una costruzione realizzata a distanza inferiore a quella legale, nell'ordinamento non è assoluta, ma trova un limite logico, prima che giuridico, nell'impossibilità, fisica o giuridica, di procedervi nel caso concreto (art. 2933, comma 2, c.c.). Se dunque la difficoltà si rivela insormontabile, il diritto del creditore si converte nell'equivalente pecuniario del risarcimento del danno (Cons. St. VI, n. 455/2017; v. Cons. St. V, n. 2776/2013). Ciò, ad esempio, è stato evidenziato nei casi nei quali l'accoglimento della domanda di reintegrazione comporterebbe la distruzione di un'opera pubblica di rilevante importanza e di ingente valore economico (Cons. St. IV, n. 3169/2001). Inoltre, il Consiglio di Stato ha stabilito che, in caso di occupazione usurpativa, come tale implicante l'obbligo di restituzione del bene al privato, l'amministrazione non può validamente opporre né l'eccessiva onerosità della rimozione delle opere nel frattempo realizzate, né richiamare il principio di cui al comma 2 dell'art. 2933 c.c.; invero, da un lato, l'eccessiva onerosità di cui all'art. 2058 c.c., non è opponibile nelle azioni intese a far valere un diritto reale, il cui carattere assoluto non lascia margini a modalità di reintegrazione diverse da quella in forma specifica (salva diversa volontà del titolare), dall'altro, la deroga prevista al comma 2 dell'art. 2933 c.c., non può trovare applicazione qualora la restituzione inciderebbe comunque su interessi circoscritti alla realtà locale; infatti, il limite di cui all'art. 2933 comma 2, ha carattere eccezionale e trova applicazione nei riguardi della demolizione delle fonti di produzione e di distribuzione della ricchezza (Cons. St. IV, n. 4590/2011; Cons. St. V, n. 2095/2005, Cons. St. IV, n. 450/2002). Da ultimo occorre sottolineare che in relazione ai rapporti tra le due forme di risarcimento – quello per equivalente e quello in forma specifica – si registrano due tesi: da un lato quanti sostengono l'alternatività dei due rimedi; dall'altro quanti attribuiscono priorità al rimedio «in forma specifica», declassando il secondo ad una funzione sussidiaria (Caringella, Manuale, 242). Tale ultimo argomento è quello maggiormente condivisibile sia alla luce della dottrina civilistica che processualistica, nonché di plurime sentenze della Cassazione e Consiglio di Stato. Il rapporto di continenza tra i due rimedi implica, sul piano processuale, che la domanda volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica costituisce domanda nuova rispetto alla domanda originaria proposta di risarcimento per equivalente pertanto inammissibile, in quanto concretizza un'ipotesi di mutamento della domanda giudiziale originariamente proposta. E tuttavia, non accade lo stesso nel caso inverso: la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione della domanda di risarcitoria in forma specifica originariamente proposta, in quanto la prima deve ritenersi già compresa nella seconda. Ne deriva che il giudice può attribuire discrezionalmente al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica oggetto di domanda giudiziale; viceversa, costituisce violazione dell'art 112 c.p.a. la condanna giudiziale al risarcimento in forma specifica in caso di domanda attorea atta ad ottenere il ristoro per equivalente. Azione risarcitoria e giurisdizione.L'attuale attribuzione all'autorità giudiziaria amministrativa della tutela risarcitoria dell'interesse legittimo costituisce il punto di arrivo di una lunga evoluzione legislativa e giurisprudenziale sul riparto di giurisdizione. Si provvederà, dunque, nei seguenti paragrafi a riassumerne le principali tappe. a) Il riparto di giurisdizione fino alla sentenza della Cass. S.U., 22 luglio 1999, n. 500. Fino alla sentenza n. 500/1999, la pubblica amministrazione non rispondeva in via risarcitoria per i danni causati nell'esercizio (illegittimo) della propria attività amministrativa e beneficiava così di una sorta di immunità o di privilegio, non previsto per altri soggetti del nostro ordinamento e sconosciuto anche nella maggior parte dei sistemi europei (Chieppa, Il codice, 178). Richiamando sul punto le più ampie considerazioni espresse supra § 2, il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi si è formato e consolidato con il concorso di due elementi, l'uno di carattere processuale, l'altro di carattere sostanziale: a) il peculiare assetto del sistema di riparto della giurisdizione per il quale il giudice amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi; b) la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., nel senso che costituisce «danno ingiusto» soltanto la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l'art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, va intesa nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto (Cass. n. 4058/69; Cass. n. 2135/72; Cass. n. 5813/85; Cass. n. 8496/94; Cass. n. 1540/95). Col passare del tempo, tuttavia, la soluzione negativa ha visto progressivamente ristretto il suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata. Ciò si è verificato, in particolare, quando è stata ammessa la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (in tal senso, tra le pronunce più risalenti, Cass. n. 543/69; Cass. n. 5428/79; Cass. n. 12317/92; Cass. n. 6542/95). La dottrina ha peraltro ricordato che «sulla base del previgente testo dell'art. 7, comma 3, L. T.A.R. (e prima ancora dell'art. 30 del T.U. Cons. Stato), era previsto che, nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., quest'ultimo conoscesse anche di diritti soggettivi, con il limite delle «questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di illegittimità dell'atto o provvedimento contro cui si ricorre», riservate all'autorità giudiziaria ordinaria. Restavano quindi fuori dalla giurisdizione esclusiva non tutte le questioni attinenti a diritti patrimoniali, ma solo quelle consequenziali alla pronuncia di illegittimità. Proprio il risarcimento del danno derivante dal provvedimento amministrativo caducato nel giudizio amministrativo costituiva il principale diritto patrimoniale consequenziale, in quanto conseguenza ulteriore della pronuncia di illegittimità e non derivante immediatamente da questa. Cosicché la rilevanza attribuita dal legislatore ai diritti patrimoniali consequenziali ai fini del riparto di giurisdizione determinava, nel quadro normativo antecedente al 1998, la sussistenza della G.A. per l'annullamento dell'atto e del G.O. per le pretese risarcitorie» (Chieppa, Giovagnoli, 1034). Con l'entrata in vigore dell'art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 viene realizzata la concentrazione davanti al giudice amministrativo della c.d. giurisdizione piena (di annullamento e di risarcimento) nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva di detto giudice (Chieppa, 179). Con la sentenza Cass. S.U., n. 500/1999, la Suprema Corte, da un lato, ha demolito il dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi e, dall'altro, ha radicato la giurisdizione del giudice ordinario sulle domande intese al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi. In sostanza la Corte, sulla premessa che l'art. 2043 c.c. è essa stessa disposizione primaria che fonda il diritto soggettivo al risarcimento del danno da lesione d'interessi reputati meritevoli di tutela, dichiara che la posizione soggettiva dedotta in giudizio è qualificabile in termini di diritto soggettivo, e come tale, ove non venga in rilievo una materia sussumibile nella giurisdizione esclusiva del G.A., rientra naturaliter nella sfera di operatività della giurisdizione ordinaria in base al criterio della causa petendi (Caringella, Manuale, 79) Il nuovo corso inaugurato dalle Sezioni Unite, che attribuiva al G.O. la giurisdizione sulle domande intese al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, è stato tuttavia immediatamente rivalutato dal legislatore. Quest'ultimo infatti, emanando l'art. 7, l. n. 205/2000, nel riscrivere l'oggi abrogato art. 7, l. n. 1034/1971, ha confermato la risarcibilità degli interessi legittimi, sancita dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 500/1999, ha tuttavia attribuito al Giudice Amministrativo, nell'ambito di tutta la sua giurisdizione (sia esclusiva, che di legittimità) la cognizione delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (anche attraverso la reintegrazione in forma specifica), e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. L'inciso «nell'ambito della sua giurisdizione» chiarisce che il potere di assicurare il risarcimento da parte del G.A. riguarda tutto l'universo della giurisdizione di quest'ultimo e non solo le materie attratte nella giurisdizione esclusiva (Chieppa, Giovagnoli, 1037). b ) La sentenza della Corte cost. n. 204/2004. All'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 205/2000, che ha attribuito al Giudice Amministrativo, nell'ambito di tutta la sua giurisdizione, esclusiva e di legittimità, il potere di risarcire il danno, il giudice ordinario ha così sollevato questione di legittimità costituzionale della predetta legge. In particolare, i giudici rimettenti lamentavano che la l. n. 205/2000 avesse sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei «blocchi di materie». In tal modo, secondo i giudici remittenti, sarebbe stato alterato non soltanto il rapporto tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo – rapporto che, pur non essendo stato realizzato il principio dell'unicità della giurisdizione, dovrebbe pur sempre essere di regola ad eccezione quanto alla cognizione su diritti soggettivi – ma anche il rapporto, all'interno della giurisdizione del giudice amministrativo, tra giurisdizione (generale) di legittimità e giurisdizione (speciale, se non eccezionale) esclusiva. La Corte costituzionale (Corte cost., n. 204/2004), nel ritenere in parte incostituzionali gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80/1998 come riscritti dall'art. 7 della l. n. 205/2000, ha tuttavia ritenuto conforme a Costituzione la predetta disposizione nella parte in cui attribuisce al giudice amministrativo il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. Il risarcimento del danno non costituisce, secondo la Consulta, una nuova «materia» attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Ha specificato, inoltre, la Corte che l'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola, che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l'art. 13 della l. n. 142/1992, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost. c ) La sentenza della Corte cost. 11 maggio 2006, n. 191. I principi affermati dal giudice delle leggi nel 2004 hanno poi trovato ulteriore conferma nella successiva sentenza Corte cost., n. 191/2006 con cui, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 325, ha precisato che sia da escludere che, per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario. La Corte ha voluto con detta pronuncia ribadire che laddove la legge costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere «rimediale», essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli. In tal modo, in definitiva, il legislatore ha costruito un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi, anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione». In definitiva, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria si fonda sull'esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice (quello amministrativo, in quanto giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica) l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione, attribuendogli non solo il potere di annullamento, ma tutti i poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione, ma non si giustifica quando la pubblica amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il potere che la legge le attribuisce per la cura dell'interesse pubblico (Chieppa, Giovagnoli, 1038; Caringella, Manuale, 82). La giurisdizione sul danno da provvedimento. Fermi i principi espressi dalla Suprema Corte e dalla Corte costituzionale, in relazione alle singole fattispecie di responsabilità si è posto non solo il problema di definire presupposti e regole dell'azione risarcitoria, ma anche quello di individuare la giurisdizione davanti alla quale le domande devono essere proposte. La tipologia di fattispecie più frequente è quella in cui il danno deriva direttamente dal provvedimento illegittimo: si tratta di una responsabilità da provvedimento in cui il privato è leso da un provvedimento di carattere negativo, di reiezione di una propria istanza (nell'ipotesi di lesione di interessi legittimi pretensivi) ovvero di provvedimento destinato ad incidere su una posizione già consolidata (nell'ipotesi di lesione di interessi legittimi oppositivi) (Chieppa, Giovagnoli, 1039). Sul punto deve oramai definitivamente ritenersi consolidata la tesi secondo cui la domanda di risarcimento del c.d. danno da provvedimento amministrativo spetti sempre alla giurisdizione del giudice amministrativo (Chieppa, Giovagnoli, 1039). La giurisdizione sul danno da comportamento e sull'affidamento. La responsabilità della pubblica amministrazione può discendere anche dal comportamento tenuto, anche attraverso l'adozione di atti, che però non costituiscono diretta causa del danno. La dottrina (Chieppa, Giovagnoli, 1043), ha inserito in questa fattispecie l'esempio del privato che ha beneficiato di una aggiudicazione di una gara, poi revocata dalla p.a. per mancanza di fondi. La revoca è legittima; pur tuttavia può essere individuata una scorrettezza compiuta dall'amministrazione, consistente nella mancanza di ogni vigilanza e coordinamento sugli impegni economici che l'amministrazione venivi; assumendo quando la procedura di evidenza pubblica risultava già avviata a addirittura pervenuta all'aggiudicazione. Il danno non deriva quindi dal provvedimento di revoca, che è legittimo, ma dall'evidenziata scorrettezza, lesiva dell'affidamento del privato. Sempre secondo autorevole dottrina (Chieppa, Giovagnoli, 1044), l'ipotesi precedente deve essere distinta da quella in cui, pur intervenendo una revoca (sempre legittima) di un provvedimento favorevole al privato, alcun appunto può essere mosso all'amministrazione sotto il profilo della correttezza (ad esempio, nel caso in cui la concessione di un bene pubblico viene revocata per destinare l'immobile ad uso scolastico, causa la sopravvenuta ed imprevedibile inagibilità dell'edificio destinato alla scuola); in tale ipotesi, l'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990 prevede oggi la corresponsione di un indennizzo (diverso dal risarcimento) per il pregiudizio causato agli interessati, con attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie in materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo. Si tratta di verificare se tali ipotesi rientrino, o meno, nell'ambito della giurisdizione amministrativa. Deve ritenersi che la pretesa risarcitoria va azionata innanzi al giudice amministrativo ogni qualvolta il sacrificio da ristorare si ricolleghi ad una iniziativa provvedimentale o anche comportamentale dell'Amministrazione (purché anche indirettamente collegata all'esercizio del potere attribuito alla P.A. per la cura dell'interesse pubblico), il vaglio della cui legittimità è di pertinenza della giurisdizione del giudice amministrativo (Chieppa, Giovagnoli, 1044). Nella categoria delle fattispecie di responsabilità non derivanti da provvedimento, la dottrina ha richiamato la necessità di assicurare una tutela risarcitoria nelle ipotesi in cui il cittadino non è direttamente leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma da un fatto giuridico più ampio e articolato, in cui ciò che rileva è la violazione dell'affidamento generato dalla P.A. con i propri comportamenti o con i propri atti; con il riconoscimento della tutela risarcitoria del c.d. danno da lesione dell'affidamento. Per alcune fattispecie di danno da scorrettezza della P.A., non direttamente collegata ad un provvedimento negativo da impugnare, viene a volte richiamata la natura precontrattuale della responsabilità dell'amministrazione (Chieppa, Giovagnoli, 1044). In materia di affidamento si registra un contrasto giurisprudenziale fra Corte regolatrice e Consiglio di Stato. Prima dell'entrata in vigore del Codice, l'Adunanza Plenaria ha dichiarato che è devoluta al giudice amministrativo la domanda di condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni, per responsabilità precontrattuale, nel caso di revoca dell'aggiudicazione di un appalto disposta per mancanza di adeguate risorse finanziarie. Pertanto secondo il Supremo Consesso Amministrativo vanno comprese nella giurisdizione ex art. 6 l. 21 luglio 2000, n. 205 anche le liti concernenti il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale della p.a. per il mancato rispetto delle norme di correttezza di cui all'art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune, regole la cui violazione si concretizza quando siano venuti meno gli atti della fase pubblicistica attributiva degli effetti vantaggiosi, che avevano ingenerato affidamenti restati, poi, senza seguito. Sussiste la responsabilità della p.a. a tale titolo quando l'amministrazione, dopo avere indetto una gara di appalto e pronunciato l'aggiudicazione, ne disponga la revoca per carenza delle risorse finanziarie occorrenti. In tale ipotesi, infatti, la responsabilità precontrattuale risale alla mancanza di vigilanza e coordinamento sugli impegni economici che l'amministrazione aveva assunto quando la procedura di evidenza pubblica era stata avviata, emettendo atti sulla cui legittimità aveva confidato il soggetto aggiudicatario (Cons. St., Ad. plen., n. 5/2006). Senonché, di diverso avviso appare la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui spetta alla giurisdizione ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell'amministrazione (Cass. S.U., n. 615/2021; Cass.S.U., n. 8236/2020). Nello stesso senso, qualora il privato abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, successivamente annullato, in via di autotutela od “ope iudicis”, senza che si discuta della legittimità dell'annullamento, la controversia relativa ai danni subiti dal privato rientra nella giurisdizione del giudice ordinario perché ha ad oggetto non già la lesione di un interesse legittimo pretensivo, bensì una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato (Cass. S.U., n. 6885/2019; Cass.S.U., n. 1654/2018; Cass.S.U., n. 13194/2018; in precedenza, v. Cass. S.U., n. 6594/2011). L'orientamento risulta consolidato nella giurisprudenza di legittimità che ha rilevato che la domanda risarcitoria proposta nei confronti della P.A. per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientri nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell'interesse legittimo pretensivo del danneggiato, ma di una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole (Cass. S.U., n. 17586/2015; Cass. S.U., n. 8236/2020; per giurisdizione del g.o. in caso di la lesione del legittimo affidamento ingenerato da un comportamento inerte della P.A., non riconducibile all'esercizio di un pubblico potere, Cass. S.U., n. 12640/2019). Il principio, ormai consolidato, è stato ulteriormente ribadito di recente dalla giuriprudenza (Cass. S.U., n. 12428/2021). Nello stesso senso, con un'altra recente statuizione, si è ritenuto appartenente al G.O. la controversia introdotta dall'amministrazione che ha indetto una gara per l'affidamento di lavori o servizi pubblici nei confronti del soggetto privato ad essa partecipante, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all'inadempimento del convenuto all'obbligo di rinnovare la polizza fideiussoria da esso prestata ove sia venuta a scadenza prima dell'aggiudicazione della gara, vertendo il petitum sostanziale sull'inadempimento di una obbligazione del privato funzionale a preservare il diritto dell'ente pubblico appaltante all'escussione della garanzia, il cui fondamento risiede nel principio di buona fede di cui all'art. 1337 c.c. e dalla cui violazione scaturisce una responsabilità precontrattuale meramente occasionata dal procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi (Cass. S.U., n. 17329/2021). Sul tema la dottrina ha rilevato come permanga il rischio di una area grigia, non identificabile attraverso criteri chiari aprioristici, dove il privato rischierebbe di rimanere privo di tutela. Siffatta considerazione porta con sé l'auspicio di interventi giurisprudenziali nel solco tracciato dalle ultime Sezioni Unite, affinché si possa comprendere se e come possano convivere l'esercizio del potere, negli spazi connaturali all'attività della p.a. e la vincolatività effettiva del rapporto obbligatorio concluso mediante l'accordo. La natura vincolante di quest'ultimo può rassicurare il privato a operare con il soggetto pubblico, attuando quindi iniziative che comportino investimenti rilevanti, funzionali alla realizzazione di programmi, di utilità e rilevanza giuridica pubblica, che trovino nell'accordo il decisivo presupposto (Macario, 369). Dunque, la lesione del legittimo affidamento e quindi la responsabilità precontrattuale destano ancora dibattiti in relazione al giudice fornito di giurisdizione. In ogni caso, si può rilevare come in letteratura v'è chi sottolinea che – ad eccezione dell'ipotesi in cui venga in rilievo un contratto iure privatorum – la giurisdizione in materia precontrattuale spetterebbe in via esclusiva al G.A. laddove, pur venendo in rilievo la libertà negoziale, e non l'interesse legittimo, essa si colloca in un ambito pubblicistico ove l'amministrazione pubblica realizza condotte che costituiscono un'espressione di poteri pubblici (Lopilato, 1383). In senso contrario rispetto all'orientamento della Corte regolatrice si è pronunciata l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dichiarando che la responsabilità dell'amministrazione per lesione dell'affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sia insorto un ragionevole convincimento sulla legittimità dell'atto, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento. Con la stessa pronuncia la Plenaria ha statuito che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie in cui si faccia questione di danni da lesione dell'affidamento sul provvedimento favorevole, posto che in base al richiamato art. 7, comma 1, c.p.a., la giurisdizione generale amministrativa di legittimità include i «comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni» (Cons. St., Ad. plen., n. 20/2021). Ha chiarito l'Alto Consesso che nella dicotomia diritti soggettivi – interessi legittimi si colloca anche l'affidamento. Esso non è infatti una posizione giudica soggettiva autonoma distinta dalle due, sole considerate dalla Costituzione, ma ad esse può alternativamente riferirsi. Richiamando la precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'affidamento «è un principio generale dell'azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l'aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività» (Cons. St. VI, n. 5011/2020). Deve quindi essere affermata, secondo l'Adunanza Plenaria la giurisdizione amministrativa, poiché anche quando il comportamento non si sia manifestato in atti amministrativi, nondimeno l'operato dell'amministrazione costituisce comunque espressione dei poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura. Non può dunque essere seguita l'impostazione secondo cui quando il potere amministrativo non si è manifestato in un provvedimento tipico ma è rimasto a livello di comportamento la giurisdizione sarebbe devoluta al giudice ordinario; questa è per contro ipotizzabile solo a fronte di comportamenti «meri», non riconducibili al pubblico potere, a fronte dei quali le contrapposte situazioni giuridiche dei privati hanno consistenza di diritto soggettivo. Ha chiarito inoltre l'Adunanza Plenaria che l'affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall'amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato. Nel caso di provvedimento poi annullato, il soggetto beneficiario deve dunque vantare una fondata aspettativa alla conservazione del bene della vita ottenuto con il provvedimento stesso, la frustrazione della quale può quindi essere considerata meritevole di tutela per equivalente in base all'ordinamento giuridico. La tutela risarcitoria non interviene quindi a compensare il bene della vita perso a causa dell'annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è accertato non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento ragionevole che esso spettasse. Nella descritta prospettiva, il grado della colpa dell'amministrazione, e dunque la misura in cui l'operato di questa è rimproverabile, rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento. Al riguardo va ricordato che nel giudizio di annullamento la colpa dell'amministrazione è elemento costitutivo della responsabilità dell'amministrazione nei confronti del ricorrente che agisce contro il provvedimento a sé sfavorevole, sebbene essa sia presuntivamente correlata all'illegittimità del provvedimento, per cui spetta all'amministrazione dare la prova contraria dell'errore scusabile. Sulla base di questa presunzione, per il danno da lesione dell'affidamento da provvedimento favorevole, poi annullato, la colpa dell'amministrazione è invece un elemento che ha rilievo nella misura in cui rende manifesta l'illegittimità del provvedimento favorevole al suo destinatario, e consenta di ritenere che egli ne potesse pertanto essere consapevole. L'atteggiamento psicologico del privato può dunque essere considerato come fattore escludente del risarcimento solo in queste ipotesi e non già ogniqualvolta vi sia un contributo del privato nell'emanazione dell'atto, come suppone l'ordinanza di rimessione. Non ogni apporto del privato all'emanazione dell'atto può infatti condurre a configurare in via di automatismo una colpa in grado di escludere un affidamento tutelabile sulla sua legittimità. Si giungerebbe altrimenti a negare sempre la tutela risarcitoria, tenuto conto che i provvedimenti amministrativi favorevoli, ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sono sempre emessi ad iniziativa di quest'ultimo. Va infatti considerato al riguardo che, sebbene al privato sia riconosciuto il potere di attivare il procedimento amministrativo e di fornire in esso ogni apporto utile per la sua conclusione in senso per sé favorevole, egli lo fa all'esclusivo fine di realizzare il proprio utile. È invece sempre l'amministrazione che rimane titolare della cura dell'interesse pubblico e che dunque è tenuta a darvi piena attuazione, se del caso sacrificando l'interesse privato; pertanto, se quest'ultimo trova soddisfazione è perché esso è ritenuto conforme alla norma e all'interesse pubblico primario dalla stessa tutelato. Malgrado gli istituti partecipativi introdotti con la l. n. 241/1990, e la recente positivizzazione dei doveri di collaborazione e buona fede, il potere amministrativo mantiene infatti la sua tipica connotazione di unilateralità, che si correla alle sovraordinate esigenze di attuazione dei fini di interesse pubblico stabiliti dalla legge, di cui l'amministrazione è responsabile. Nondimeno, con riguardo a gradi della colpa inferiore a quello «grave», non possono nemmeno essere trascurati i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l'esercizio dell'azione di annullamento quest'ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui, ai sensi dell'art. 29 c.p.a.., l'azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce, per un verso, ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l'annullamento dell'atto per effetto dell'accoglimento del ricorso diviene un'evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da lui avversata allorché deve resistere all'altrui ricorso; per altro verso, porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell'atto introduttivo del giudizio. Segue. Considerazioni critiche sull'indirizzo della Cassazione La ricordata teoria che iscrive le condotte amministrative scorrette e lesive dell'affidamento nell'orbita di un contatto sociale schiettamente privatistico (Cass., S.U., n. 8236/2020; Cass.,S.U., n. 615/2021) finisce per sgretolare l'unitarietà del rapporto procedimentale e processuale, sancendo un improbabile ritorno al passato: l'interesse legittimo, privato della pretesa a un contegno conforme a buona fede, finisce per assumere i contorni ottocenteschi del figlio di un Dio minore (mero interesse alla legittimità amministrativa, se non interesse occasionalmente protetto); al processo di ipostatizzazione che trasforma l'affidamento, al pari della buona fede, in posizione a autonoma (cd. diritto all'affidamento) in diritto soggettivo sostanziale nell'ambito di un contatto sociale privatistico avente la consistenza del rapporto obbligatorio, si deve obiettare che, come confermato dal comma 2-bis del nuovo art. 1 della l. n. 241, la tutela dell'affidamento è principio che, al pari del canone solidaristico a monte di buona fede, è principio generale che governa i rapporti giuridici pubblicistici e privatistici, aderendo ai caratteri delle relazioni di base e imponendo condotte corrette sia nell'agire privato che nel potere pubblico: è quindi regola del diritto pubblico e vincolo modale del potere pubblico violato se pubblica amministrazione tiene il comportamento scorretto nel corso del procedimento costituente forma dinamica del public power; La ‘debolezza' dell'indirizzo della Cassazione sta in una sorta di ‘non sequitur' che interrompe la pregevole linearità del ragionamento (incentrato sulla valorizzazione del contatto sociale qualificato): se il comportamento dell'amministrazione viola il canone di buona fede, non per questo è necessario (ed è, anzi erroneo) postulare, in via di ipostatizzazione dell'affidamento, una ‘autonoma' situazione soggettiva. La lesione dell'affidamento matura, infatti, pur sempre nel contesto relazionale gestito dal confronto interesse legittimo – potere amministrativo (un potere, peraltro, che la sentenza si vede costretta, senza troppo persuadere, a negare per poter giustificare le conclusioni in punto di giurisdizione (Caringella). La giurisdizione sul danno da ritardo. Rinvio. La responsabilità della pubblica amministrazione può discendere dal ritardo della P.A. Per quanto concerne le domande risarcitorie e il silenzio non qualificato della P.A., è ormai pacifica la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo; in primo luogo, è il giudice che tutela le pretese del cittadino nei confronti del silenzio dell'amministrazione, sempre che ovviamente l'inerzia riguardi l'esercizio di veri e propri poteri pubblici. Peraltro, la dottrina (Chieppa, Giovagnoli, 1099) ha evidenziato che la scissione della tutela reale e della tutela risarcitoria del silenzio davanti a due giurisdizioni si porrebbe in contrasto, oltre che col valore dell'effettività, anche col principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., tenuto conto che il giudizio sul silenzio della P.A. è strettamente connesso con il sindacato sul potere pubblico ed anche il giudizio risarcitorio è legato alle successive manifestazioni del potere pubblico. La giurisdizione del G.A. sul danno da ritardo è stata ritenuta sussistere sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte di Cassazione. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. plen., n. 7/2005) ha affermato che, ai fini della giurisdizione rileva unicamente, l'inerenza a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere. Sul punto, si rinvia al commento dell'art. 133,1 comma, lett. a), n. 1), c.p.a. La pregiudiziale amministrativa prima del Codice del processo amministrativo.Per pregiudizialità amministrativa si intende la necessità di impugnare (e ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto (Chieppa, Giovagnoli, 1073). Il tema della pregiudizialità costituisce uno dei temi più dibattuti e controversi che la giurisprudenza ha tentato in vario modo di risolvere. Esso consiste nello stabilire se l'azione risarcitoria promossa dal singolo per ottenere il risarcimento del danno patito in conseguenza della lesione di un interesse legittimo possa essere proposta solo previa proposizione e previo esito positivo di un'azione di annullamento dell'atto amministrativo illegittimo o se, al contrario tale azione debba considerarsi del tutto autonoma e, dunque, esperibile anche in assenza del già avvenuto esercizio dell'azione di annullamento (Corradino, 378). Fino alla sentenza Cass. S.U. , n. 500/1999, la giurisprudenza ammetteva la tutela risarcitoria dei c.d. diritti affievoliti e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo, incisa da un provvedimento illegittimo Per arrivare dunque ad un risarcimento del danno era necessaria una doppia tutela: il privato, una volta ottenuto l'annullamento del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo, poteva ottenere, davanti al giudice ordinario, il risarcimento del danno per lesione di quello che, di fatto, era un diritto soggettivo. In questo contesto, quindi, la c.d. pregiudiziale amministrativa e, cioè, il previo annullamento dell'atto amministrativo aveva lo scopo di consentire il funzionamento del suddetto meccanismo (Lopilato, 1272). Dunque, secondo questo sistema, era sempre necessaria la previa proposizione dell'azione di annullamento, subordinando l'azione risarcitoria all'esito vittorioso del giudizio demolitorio (Corradino, 378). Al fine di concentrare la tutela giurisdizionale innanzi al medesimo giudice, con il d.lgs. n. 80/1998 venne attribuita al giudice amministrativo la cognizione delle domande risarcitorie nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva di detto giudice (Chieppa, Giovagnoli, 1073). L'orientamento a favore della necessità della pregiudiziale amministrativa è stato integralmente ribaltato dalla sentenza n. 500/1999. Con detta decisione, le Sezioni Unite hanno escluso la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento rispetto a quello risarcitorio. In particolare, secondo la Cassazione la pregiudizialità non poteva trovare conferma alla luce del nuovo orientamento, che svincolava la responsabilità aquiliana della P.A. dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. Secondo la Suprema Corte, inoltre, l'autonomia tra le due giurisdizioni – ordinaria e amministrativa – risulta ancor più netta considerando il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare l'applicazione, da parte del giudice ordinario, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di imputazione della responsabilità non correlato alla mera illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa, dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. Tuttavia, all'indomani della sentenza delle Sezioni Unite, con l'art. 7, l. 21 luglio 2000 n. 205, il legislatore ha deciso di attribuire al Giudice Amministrativo, nell'ambito di tutta la sua giurisdizione, la cognizione delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (anche attraverso la reintegrazione in forma specifica), e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. In particolare, l'art. 7 della l. n. 205/2000 ha previsto che «il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto». In tal modo i dubbi sulla pregiudizialità si sono riproposti quando la tutela risarcitoria dell'interesse legittimo si è spostata sul fronte della giurisdizione amministrativa (Chieppa, Giovagnoli, 1074). A seguito dell'intervento legislativo introdotto dalla l. n. 205/2000, la giurisprudenza, amministrativa e civile, ha iniziato ad interrogarsi sulla necessità della pregiudiziale amministrativa, pervenendo a conclusioni affatto contrastanti. Val la pena richiamare le principali pronunce emanate dell'Adunanza Plenaria e delle Sezioni Unite a seguito della l. n. 205/2010 e fino all'entrata in vigore del Codice. Peraltro, come correttamente evidenziato dalla dottrina, il problema della pregiudizialità si pone unicamente in ipotesi di danno derivante da provvedimento illegittimo, mentre non vi alcuna pregiudizialità dell'azione di annullamento in fattispecie di danni derivanti da comportamento, o comunque non direttamente provocati dagli effetti del provvedimento illegittimo (Chieppa, Giovagnoli, 1074). Ciò premesso, nel 2003 l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, superando l'orientamento della sentenza n. 500/1999, ha dichiarato che una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio. L'azione di risarcimento può essere proposta sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma, ma è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari (Cons. St., Ad. plen., n. 4/2003). La sentenza della Plenaria, alla quale aveva inizialmente aderito la Corte di cassazione (Cass. II, n. 4583/2003) non ha tuttavia trovato conferma presso le Sezioni Unite. La Corte di cassazione, con la sentenza Cass. S.U., n. 10180/2004, ha ribadito che, a norma dell'art. 7, comma terzo, della l. n. 205/2000, il giudice amministrativo ha il potere, anche nelle controversie che rientrano nella giurisdizione generale di legittimità, e non solo in quelle attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, di condannare l'amministrazione al risarcimento del danno, in tal modo concentrandosi in un unico giudizio le questioni relative all'annullamento degli atti illegittimi e quelle attinenti al ristoro dei danni da questi determinati, senza che all'uopo sia necessaria in via pregiudiziale la declaratoria di illegittimità del provvedimento, ed eliminandosi altresì il pericolo di contrasto tra giudicati. L'orientamento delle Sezioni Unite è stato riaffermato nel 2006 con due decisioni nelle quali il giudice di legittimità ha ribadito che, al fine del risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, non può considerarsi necessaria la pregiudiziale impugnazione del provvedimento lesivo, sicché, qualora il giudice amministrativo dichiarasse inammissibile, per tale ragione, una domanda della specie, la sua decisione configurerebbe un rifiuto di esercizio della giurisdizione e si presterebbe, dunque, a cassazione da parte delle Sezioni Unite, quale giudice del riparto di giurisdizione. In definitiva la Cassazione ha statuito che l'azione di risarcimento del danno doveva ritenersi svincolata dai termini di decadenza propri dell'azione di annullamento (Cass. S.U., n. 13659/2006; Cass.S.U., n. 13660/2006; Cass.S.U., n. 13911/2006). Le decisioni del giudice ordinario del 2006 sono state condivise dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con la pronuncia Cons. St. V, n. 2822/2007 – la quale ha statuito che l'azione risarcitoria da lesione di interesse legittimo è proponibile dinanzi al giudice amministrativo anche a prescindere dall'utile previo esperimento della domanda di annullamento dell'atto illegittimo che ha causato il danno – ma non dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, sempre nel 2007, ha invece ribadito la sussistenza del vincolo della c.d. pregiudiziale amministrativa, al fine dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno dinanzi allo stesso Giudice amministrativo. Con la predetta sentenza, il Supremo Consesso Amministrativo, in dissenso con la pronuncia Cass. S.U., n. 13659/2006, ha altresì dichiarato che la decisione del giudice amministrativo di inammissibilità o di rigetto della pretesa risarcitoria per mancata tempestiva impugnazione del provvedimento non è sindacabile dalla Cassazione ai sensi dell'art. 362 c.p.c., poiché esula dalle questioni di giurisdizione (Cons. St., Ad. plen., n. 12/2007). Nonostante la citata decisione del Supremo Consesso Amministrativo, le Sezioni Unite nel 2008, enunciando un principio di diritto nell'interesse della legge ex art. 363 c.p.c., hanno ribadito, in senso difforme dall'Adunanza Plenaria, che, proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento (Cass. S.U., n. 30254/2008; nel senso del superamento della pregiudiziale amministrativa, Cass. S.U., n. 35/2008; Cass.S.U., n. 16090/2009). Non ha tuttavia mutato il proprio orientamento il Consiglio di Stato che, diversamente da quanto statuito dalla Corte di Cassazione in tema di pregiudiziale amministrativa, ha ribadito nel 2009 che la mancata impugnazione da parte di un privato di un provvedimento amministrativo lesivo, nel breve termine decadenziale, non consente di considerare illecita la condotta dell'amministrazione e, conseguentemente, di poter agire nel più ampio termine prescrizionale di cinque anni per ottenere il risarcimento del danno (Cons. St. VI, n. 578/2009; Cons. St. IV, n. 1917/2009; Cons. St. VI, n. 2436/2009). Il superamento della pregiudiziale amministrativa nel Codice del processo amministrativo.Dopo un decennio di contrasti giurisprudenziali fra giudice ordinario e giudice amministrativo sul tema della pregiudiziale, si è data avvio alla codificazione del processo amministrativo. La legge delega per la codificazione del processo amministrativo (art. 44 l. n. 69/2009) non conteneva un puntuale riferimento alla questione della pregiudiziale, ma il richiamo alla necessità di disciplinare le azioni e i termini di decadenza o prescrizione (eventualmente riducendoli) delle azioni esperibili, cercando così di trovare una soluzione al contrasto tra il Consiglio di Stato e la Corte di cassazione in merito alla pregiudiziale. La soluzione individuata dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato è stata quella di prevedere l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, superando così il principio della c.d. pregiudiziale ma, al contempo, sottoponendo la proponibilità dell'azione di risarcimento al rispetto di un termine decadenziale di centottanta giorni decorrente dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato o il provvedimento lesivo è stato conosciuto. Inoltre, si attribuiva una mera rilevanza di fatto alla mancata impugnazione come al mancato invito all'autotutela, che sono valutati dal giudice in sede di quantificazione del risarcimento (che può essere limitato o escluso), attraverso un meccanismo ispirato a quello di cui all'art. 1227 del codice (Chieppa, Giovagnoli, 1079). Il Governo ha lievemente modificato la previsione ipotizzata dalla Commissione riducendo il termine decadenziale da centottanta a centoventi giorni e precisando il meccanismo di valutazione degli oneri di ordinaria diligenza gravanti sul danneggiato. Il Codice del processo amministrativo disciplina l'azione risarcitoria agli artt. 7 (Giurisdizione amministrativa) e 30 (Azione di condanna). In particolare, l'emanazione di una norma ad hoc sull'azione di condanna e dunque la tutela risarcitoria ha risolto definitivamente i numerosi problemi applicativi che derivavano, ante riforma del 2010, dalla pressoché totale assenza di una disciplina processuale, anche solo di mero rinvio. Prima dell'entrata in vigore del Codice, infatti, la legge si limitava a prevedere all'art. 7 l. n. 205/2000, che «il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». Il legislatore non si era mostrato particolarmente interessato ai profili più squisitamente processuali, limitandosi a dettare alcune disposizioni volte a definire tipologia e consistenza del potere istruttorio (art. 35, comma 3, d.lgs. 80/1998), oltre che una peculiare tecnica di quantificazione del danno risarcibile (art. 35, comma 2, d.lgs. 80/1998). Nessuna specifica disposizione, invece, era dettata al fine di delineare un vero e proprio rito risarcitorio, distinto da quello tradizionalmente seguito in sede di trattazione delle domande a carattere demolitorio. Veniva così affidato all'interprete il compito di colmare le numerose lacune di previsione del sistema. L'art. 30 c.p.a. ha previsto invece una disciplina specifica della tutela risarcitoria. L'art. 30 c.p.a., da leggere in combinazione con il disposto del comma 4 dell'art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma – sancisce, dunque, l'autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio. Detta autonomia è confermata, per un verso, dall'art. 34, comma 2, c.p.a., che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l'accertamento dell'illegittimità a fini meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il ricorrente. Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l'affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria “ancillarità” e “sussidiarietà” rispetto al paradigma caducatorio (Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011). Pertanto, costituisce un dato oramai acquisito che l'art. 30 c.p.a. delinea una azione risarcitoria autonoma, esperibile indipendentemente dalla caducazione del provvedimento lesivo dell'interesse legittimo (da ultimo, Cons. St. IV, n. 1736/2022;. Cons. St. V, n. 364/2022). Nel nuovo sistema non si può più ritenere sussistente la necessità di impugnare (ed ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento dell'anno derivante da quel medesimo atto. L'omessa impugnazione del provvedimento amministrativo, fonte del danno, non rappresenta più una causa di per sé ostativa all'accoglimento dell'azione risarcitoria, ma costituisce comunque un elemento valutabile dal giudice (Chieppa, Giovagnoli, 1081). L'art. 30 c.p.a. ha così definitivamente composto il contrasto tra Cassazione e Consiglio di Stato sulla questione della c.d. pregiudizialità amministrativa, in coerenza con l'orientamento della Suprema Corte di Cassazione. La mancata impugnazione del provvedimento lesivo perde così la sua natura di sbarramento processuale, ma conserva tuttavia importante rilevanza sostanziale, ai fini, cioè, del merito della fondatezza della pretesa risarcitoria, potendo essere valutata dal giudice al fine di ridurre o addirittura escludere il risarcimento, attraverso un meccanismo chiaramente ispirato a quello di cui all'art. 1227 c.c. (Caringella, Manuale, 244). L'introduzione dell'articolo in esame ha in ogni caso suscitato un intenso dibattito dottrinale per il conferimento del carattere autonomo all'azione risarcitoria. In senso critico si è infatti rilevato che, nonostante l'apparente autonomia dell'azione, risulta in qualche misura riproposta, ancorché trasfigurata, la logica della c.d. “pregiudizialità”, tradendo una profonda incertezza circa il disegno di fondo perseguito dal legislatore delegato, che a parole afferma la proponibilità autonoma dell'azione risarcitoria, ma che al fondo sembra ancorato alla tradizione seguita dal giudice amministrativo (Casetta, 799). Lo stesso autore ha evidenziato che la pregiudizialità – negata in rito – risulta trasfigurata sul piano sostanziale ma sostanzialmente confermata, all'interno di un quadro che intende fortemente incentivare la tempestiva proposizione dell'azione di annullamento. Sotto altro profilo, si è evidenziato che se da un lato il legislatore ha scelto di avvalersi di un istituto privatistico come la responsabilità civile per la tutela di interessi legittimi, dall'altro persiste nell'applicazione della logica propria del diritto pubblico tralasciando l'istituzione di un rapporto paritario tra i soggetti coinvolti (Saitta, 1234). All'indomani dell'entrata in vigore del c.p.a., il giudice ordinario, sollecitato a pronunciarsi nuovamente sulla problematica in esame, ha riconosciuto che il principio della non necessità della pregiudiziale impugnativa del provvedimento amministrativo, già affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con riferimento al sistema normativo conseguente alla l. 21 luglio 2000, n. 205, è confermato dall'art. 30 c.p.a. (Cass. S.U., 25395/2010). Viceversa il giudice amministrativo ha adottato in alcune pronunce un orientamento maggiormente restrittivo, dichiarando che la «mancata tempestiva impugnazione di un provvedimento amministrativo impedisce di considerare illecita la condotta della Pubblica Amministrazione e di conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto, con la conseguenza che l'applicazione del principio della “pregiudiziale amministrativa” non comporta una preclusione di ordine processuale all'esame nel merito della domanda risarcitoria, ma determina un esito negativo nel merito dell'azione, perché la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non, o tardivamente, ovvero inammissibilmente, impugnato è ammissibile ma infondata nel merito, in quanto la mancata corretta impugnazione dell'atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo (dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti e imponendone l'osservanza ai consociati), così impedendo che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dalla P.A. in esecuzione dell'atto in oppugnato». (Cons. St. V, 5917/2014). Modalità e termini di esercizio dell'azione di condanna.Con riferimento alle modalità e i termini di esercizio dell'azione di condanna, l'art. 30 c.p.a. prevede che l'azione possa essere proposta «contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma». La proposizione dell'azione di condanna in via autonoma costituisce, dunque, l'eccezione, mentre la regola generale è che venga proposta contestualmente ad altra azione (Scoca, Giustizia amministrativa, 193). Più precisamente, la condanna della pubblica amministrazione può essere domandata in diversi momenti processuali: a) contestualmente alla domanda di annullamento dell'atto, alla domanda di nullità dell'atto, o all'azione avverso il silenzio dell'amministrazione («contestualmente ad altra azione»: art. 30 comma 1); b) nel corso del giudizio inteso all'annullamento dell'atto (art. 30 comma 5), o alla declaratoria di nullità, ovvero alla decisione sul silenzio, compreso il giudizio d'appello (art. 30, comma 5); c) dopo l'annullamento dell'atto e fino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza d'annullamento (art. 30 comma 5); d) nel corso del giudizio d'ottemperanza (art. 112, comma 3); e) in via autonoma, e cioè indipendentemente dall'esercizio di ogni altra azione volta ad annullare atti o avente comunque ad oggetto l'illegittimità di comportamenti. In quest'ultimo caso la domanda andrà proposta «entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo» (art. 30 comma 3) (così Sassani, 357). Con riferimento all'azione proposta contestualmente ad altra azione; ciò significa che il termine sarà quello di proposizione dell'azione correlata (Casetta, 804). Nell'ipotesi in cui l'azione sia proposta in via autonoma, il ricorrente deve agire nel termine di 120 giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Il Codice prevede, inoltre la possibilità di proporre l'azione di condanna autonoma nei casi di giurisdizione esclusiva, ma anche nei casi di giurisdizione di legittimità, purché in quest'ultimo caso la domanda venga proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. La previsione dell'azione risarcitoria autonoma ha messo fine alla polemica giurisprudenziale sulla necessaria pregiudizialità dell'annullamento del provvedimento lesivo al risarcimento del danno (Garofoli, 321). Sotto altro profilo va evidenziato che lart. 30, dopo aver fissato, al terzo comma, in 120 giorni il termine di decadenza per la proposizione della domanda risarcitoria, al quarto comma prescrive che «per il risarcimento dell'eventuale danno patrimoniale che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il termine inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere». Il comma 5 dell'art. 30 c.p.a. dispone che la condanna possa essere domandata nel corso del giudizio inteso all'annullamento dell'atto o alla declaratoria di nullità. A tal riguardo, è stato stabilito che la domanda risarcitoria deve essere proposta con atto notificato alla controparte e non con semplice memoria, atteso che la pur rilevante esigenza di concentrazione dei giudizi e di ragionevole durata dei processi, ribadita dall'art. 30 c.p.a. con l'imposizione di un termine di decadenza, non esime la parte ricorrente dall'obbligo di instaurazione di un regolare contraddittorio tramite la notifica della domanda (Cons. St. II, n. 1907/2021). Il termine di decadenzaIl legislatore, superando come già ricordato la regola della c.d. pregiudizialità amministrativa – e stabilendo l'autonomia dell'azione risarcitoria – ha tuttavia assoggettato quest'ultima ad un termine decadenziale autonomo rispetto al termine per l'impugnazione dell'atto amministrativo interessato. Si tratta di un termine di 120 giorni che decorre, ai sensi del 3 comma, «dal giorno in cui il fatto si è verificato» ovvero «dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo» (Cons. St. VI, 2610/2014). Il comma 5 stabilisce, inoltre, che, nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. In dottrina si è rilevato che il termine decadenziale di 120 giorni è eccessivamente breve. Si è ritenuto, in particolare, che siffatto termine sembri costituire una eccessiva guarentigia a favore dell'amministrazione (Foà, Termine decadenziale, 610). In virtù del regime introdotto dall'art. 30 c.p.a., la giurisprudenza amministrativa ha confermato l'autonomia processuale dell'azione risarcitoria, pur assoggettando detta azione ad un termine decadenziale autonomo rispetto a quello di impugnazione dell'atto amministrativo, di 120 giorni, decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento lesivo (comma 3), oppure, nel caso in cui sia proposta azione di annullamento, dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (comma 5). Da ultimo, in dottrina è stato osservato che l'apposizione del termine decadenziale non pone in discussione in alcun modo la natura della responsabilità della p.a. che, come già evidenziato al § 6, è, secondo l'orientamento di gran lunga maggioritario, di natura aquiliana (Caringella, Manuale, 207). Sotto altro profilo, la dottrina ha evidenziato che il c.p.a., nel superare la «pregiudizialità amministrativa», tende a garantirne comunque le finalità ultime, riuscendo quasi a riaffermarla: per un verso, scegliendo per l'azione risarcitoria autonoma un termine di decadenza che coincide con quello previsto dalla legge per l'attivazione della domanda di annullamento nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (e quindi con il termine ultimo previsto dall'ordinamento giuridico per l'esercizio del rimedio impugnatorio e demolitorio); per altro verso, introducendo il principio in base al quale il danneggiato che agisca per il risarcimento in via autonoma non possa vedersi ricompensato dei danni che avrebbe potuto evitare anche mediante l'esercizio delle forme di tutela che gli sono normalmente riconosciute (e quindi anche, se non principalmente, mediante l'azione volta a rimuovere direttamente la «fonte» provvedimentale del pregiudizio subito) (Cortese, 2017, 665). La dottrina ha così sottolineato come il legislatore, prevedendo, da un lato, un termine di decadenza breve all'art. 30 c.p.a. anziché un tradizionale termine di prescrizione che solitamente è previsto per i rimedi risarcitori e, dall'altro, mostrando apprezzamento per la rilevanza eziologica dell'omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso, abbia finito per generare, se non una forma di pregiudizialità mascherata (Comporti, 555), senz'altro un'azione risarcitoria la cui autonomia rispetto all'azione di annullamento è ormai indiscutibile ma può considerarsi solo formale, temperata, debole e disincentivata (Saitta, 1191; Clarich, 189). In tale direzione, la congruità del termine decadenziale di 120 giorni previsto dal codice per l'esercizio dell'azione risarcitoria ha suscitato diversi dubbi di legittimità costituzionale nella giurisprudenza amministrativa (v. T.A.R. Sicilia, Palermo II, n. 1628/2011, la cui q.l.c. è stata dichiarata inammissibile dalla Corte cost., n. 280/2012; T.A.R. Liguria, n. 105/2014, la cui q.l.c. è stata definita con una pronuncia di manifesta inammissibilità dalla Corte cost., n. 57/2015; da ultimo, il T.A.R. Piemonte II, n. 1747/2015, la cui q.l.c. è stata definita infondata da Corte cost. n. 94/2017). Con riferimento al regime transitorio, l'applicabilità del termine di decadenza previsto dall'art. 30, comma 3, c.p.a. ad illeciti verificatisi in periodi antecedenti rispetto all'entrata in vigore del codice del 2010 è stata oggetto di dibattito, in dottrina e giurisprudenza. La questione è stata alla fine rimessa all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha statuito che l'introduzione di un termine di decadenza di centoventi giorni costituisce un'innovazione legislativa rispetto al regime prescrizionale quinquennale, ex art. 2947 c.c., operante in epoca precedente a parere di un pacifico indirizzo interpretativo. Ciò si risolve in una compressione del potere di azione giudiziale in quanto dà la stura a una significativa e singolare restrizione della cornice temporale entro la quale è dato agire in giudizio nei confronti dei soggetti titolari di un potere pubblico, con la creazione di una causa di estinzione anticipata della pretesa risarcitoria. L'applicazione del termine decadenziale introdotto con l'art. 30 c.p.a. a fattispecie sostanziali anteriori, in assenza di una apposita disciplina transitoria, sarebbe quindi contraria ai principi generali stabiliti dalle disposizioni preliminari al codice civile in materia di efficacia delle leggi nel tempo (art. 11) e di portata applicativa di norme eccezionali (art. 14). (Cons. St., Ad. plen., n. 6/2015). La decisione del Consiglio di Stato si fonda altresì su quanto statuito dalla Corte costituzionale nello stesso anno che avrebbe avallato la soluzione interpretativa secondo la quale il termine di centoventi giorni previsto dall'art. 30, comma 3, c.p.a., non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all'entrata in vigore del codice (Corte cost., n. 57/2015). La sentenza del Cons. St., Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3L'azione risarcitoria come disciplinata dal Codice del processo amministrativo è stata sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la fondamentale pronuncia del 23 marzo 2011 n. 3. Con la citata sentenza il Supremo Consesso Amministrativo ha provveduto ad una complessiva ricognizione della tutela risarcitoria come disciplinata dall'art. 30 c.p.a. in relazione con quella caducatoria, statuendo che non sussiste più la pregiudiziale di rito, secondo cui l'azione risarcitoria era inammissibile ove non preceduta o accompagnata dall'azione demolitoria. Superata la pregiudiziale di rito, il Consiglio di Stato ha tuttavia evidenziato che il comportamento del danneggiato che non esperisce l'azione demolitoria deve essere valutato dal giudice, ai sensi dell'art. 1227 c.c. e del principio di buona fede, ai fini della quantificazione del danno risarcibile. Superata la pregiudizialità di rito, il Consiglio di Stato si è preoccupato di contemperare le esigenze di preservazione della stabilità dei rapporti pubblicistici e quelle di prevenzione di comportamenti opportunistici. Il rischio è infatti quello che il privato danneggiato – di fronte ad comportamento colposo dalla pubblica amministrazione – possa opportunisticamente preferire di non impugnare l'atto lesivo, rimanendo inerte e così aggravando le conseguenze dannose oggetto di risarcimento a suo favore. Tali esigenze possono essere soddisfatte, secondo la Plenaria, con l'applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti c.c. in materia di causalità giuridica. Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non”: Cass. S.U., n. 577/2008; Cass. III, n. 6045/2010), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell'omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall'ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi. Assume rilievo, secondo il Consiglio di Stato, il disposto dell'art. 1227, comma 2, c.c. – norma applicabile anche in materia aquiliana per effetto del rinvio operato dall'art. 2056 – che considera non risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato. L'Adunanza Plenaria ha così offerto una lettura dell'art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica dell'inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell'illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno. Un limite all'obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. L'obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende, pertanto, l'esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un facere non corrispondente all'id quod plerumque accidit (Cass. I, n. 10895/2010). Resta allora da vedere, secondo il Supremo Consesso, se nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo sia sussumibile, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l'utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio. A tal riguardo, la Plenaria ha statuito che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (Cons. St. VI, n. 7124/2010; Cons. St. VI, n. 5183/2008; Cons. St. V, n. 6908/2007; Cons. St. IV, n. 2136/2005). Cosicché, il Supremo Consesso ha evidenziato che la mancata impugnazione dell'atto amministrativo illegittimo, pur non precludendo la possibilità di esperire un'autonoma azione di risarcimento dei danni da esso conseguenti, costituisce un comportamento apprezzabile da parte del giudice ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno medesimo, laddove si appuri che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno, non essendo risarcibili quei danni che il destinatario dell'atto amministrativo lesivo avrebbe potuto evitare con la sua impugnazione e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, secondo quanto previsto dall'art. 30,3 comma, c.p.a., ricognitivo dei principi espressi dall'art. 1227 c.c., secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo consistente nell'astenersi dall'aggravare il danno, ma anche dall'obbligo positivo di tenere quelle condotte rivolte a evitare o ridurre il danno, nel rispetto delle generali clausole di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Pertanto, il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. Orbene, la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può ritenersi alla stregua di una condotta contraria a buona fede nell'ipotesi in cui si accerti che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno. In tal senso, infatti, si rileva come il ricorso per annullamento, finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l'unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l'ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest'ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l'utilizzo del rimedio appropriato, volto a raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui all'art. 1227 c.c. La scelta, dunque, di non avvalersi della forma di tutela specifica, non particolarmente complessa, se confrontata rispetto a quella risarcitoria, anche in relazione all'esistenza di misure cautelari all'uopo previste e che avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione (come correttamente asserito nella sentenza appellata), che viola il canone della buona fede e che, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità, implica la non risarcibilità del danno evitabile. Analizzando i profili processuali e probatori che connotano l'applicazione al processo amministrativo della regula iuris sottesa all'art. 1227, capoverso, c.c., l'Adunanza ha statuito che, sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall'art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo è chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitato in tutto o in parte il danno. Un rilievo significativo è destinato ad assumere l'utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni exartt. 2727 e seguenti c.c., che consente di valutare se l'apprezzamento dell'illegittimità dell'atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche all'annullamento dello stesso – dato, questo, in linea generale presumibile, vista l'identità dell'oggetto delle valutazioni – in modo da impedire, alla luce anche delle misure provvisorie adottabili in corso di giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno. Autorevole dottrina ha evidenziato che il principio dell'art. 1227 c.c. invocato dal Consiglio di Stato è applicato però ben oltre la portata individuata dai giudici ordinari nei rapporti tra privati e, cioè, imponendo quale comportamento operoso l'impugnazione, evidentemente immaginando che ciò induca l'amministrazione a intervenire; per altro verso, si consideri che se un onere di intervenire per impedire il danno sussiste, questo, appunto, in prima battuta grava sull'amministrazione, che dispone del potere di autotutela. Si è evidenziato che di fatto, gli avvocati che intendano azionare la pretesa risarcitoria sono fortemente incentivati a impugnare nei termini o comunque, a sollecitare gli Interventi in autotutela, salvi i casi in cui «l'interesse all'annullamento non esista o sia venuto meno» (Casetta, 806). La prescrizione dell'azione risarcitoria.Le questioni sorte intorno al tema della prescrizione dell'azione risarcitoria contro la p.a. si sono incentrate sul problema della individuazione del dies a quo e sulla durata del termine di prescrizione. Quest'ultimo, in particolare, dipende a seconda del tipo di responsabilità in cui si fa rientrare la fattispecie risarcitoria, ovvero se contrattuale – con un termine quindi decennale – oppure aquiliana, con un termine perciò quinquennale. Orbene, tenuto conto dell'orientamento consolidato della giurisprudenza, la natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. da attività provvedimentale illegittima implica l'applicazione del termine quinquennale di prescrizione ex art. 2947 c.c. (Cons. St. VI, n. 2610/2014). L'individuazione del dies a quo, invece, nel sistema previgente al c.p.a. era condizionato alla sussistenza della pregiudizialità amministrativa. Invero, ritenendo il previo vaglio della legittimità dell'atto lesivo il prerequisito essenziale per la correlata domanda risarcitoria da parte del G.A. presentava ripercussioni sul concreto atteggiarsi della tutela risarcitoria avverso la p.a. Come si è visto, tuttavia, il legislatore del 2010 con l'introduzione del c.p.a., e in particolare con l'art. 30 c.p.a., ha innovato notevolmente, superando la c.d. pregiudizialità e introducendo precisi termini decadenziali. In particolare, in merito alla decorrenza del termine di prescrizione, la giurisprudenza sostiene che il regime giuridico introdotto dall'art. 30 c.p.a., nel superare la regola della c.d. pregiudizialità amministrativa e nel sancire l'autonomia processuale dell'azione risarcitoria, l'ha assoggettata ad un termine decadenziale autonomo rispetto a quello per l'impugnazione dell'atto amministrativo, di 120 giorni, decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento lesivo (comma 3), oppure, nel caso in cui sia proposta azione di annullamento, dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (comma 5). Il momento dal quale decorre il termine prescrizionale deve collocarsi in corrispondenza della data del fatto illecito e non dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento (Cons. St. VI, n. 4305/2021; Cons. St. IV, n. 4938/2016; in senso contrario, v. Cons. St. IV, n. 190/2017, secondo cui il momento iniziale del decorso del termine quinquennale di prescrizione dell'azione di risarcimento va individuato nella data di passaggio in giudicato della decisione di annullamento del Giudice Amministrativo; Cons. St. VI, n. 524/2014). In materia di occupazione illegittima di un bene privato da parte della P.A., alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale (n. 71/2015), delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (n. 735/2015; n. 22096/2015; n. 15283/2016), dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 2/2016) e del Consiglio di Stato (ex plurimis, Cons. St. IV, n. 4790/2021; Cons. St. IV, n. 6833/2020; Cons. St. VI, n. 1166/2018; Cons. St. IV, n. 4636/2016), il quadro che ne risulta è nel senso che, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. Secondo la giurisprudenza occorre necessariamente distinguere la domanda di risarcimento del danno per perdita del diritto di proprietà dalla domanda di risarcimento del danno per mancato godimento del bene a causa della pregressa illegittima occupazione del fondo da parte della pubblica amministrazione. Se nel primo caso la natura permanente dell'illecito ha consentito nella prassi giurisprudenziale allora formatasi di accogliere la domanda risarcitoria anche a distanza di molti anni, nel secondo caso invece, per il danno da mancato godimento, rilevano le singole annualità in cui è maturato tale pregiudizio. In ipotesi di domanda di risarcimento del danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato dall'amministrazione, la prescrizione decorre per ogni singola annualità, con la conseguenza che deve ritenersi estinto per prescrizione il diritto al risarcimento del danno da mancato godimento del bene per gli anni precedenti al quinquennio antecedente la messa in mora (Cons. St. IV, n. n. 1383/2021; Cons. St. IV, n. 5084/2017). Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale l'occupazione illegittima di un terreno altrui configura un illecito a carattere permanente, con la conseguenza che il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria, di cui all'art. 2947 c.c., decorre soltanto dal momento in cui cessa l'illecito (Cons. St. IV, n. 912/2019; Cons. St. IV, n. 4106/2017). Anche nell'ipotesi di ritardo illegittimo dell'Amministrazione a provvedere sull'istanza del privato, ci si trova al cospetto di un illecito permanente che cessa evidentemente solo al momento dell'adozione dell'atto che definisce il procedimento e pone fine all'inadempimento dell'obbligo de quo. Di conseguenza, il termine di prescrizione della pretesa risarcitoria comincia a decorrere solo dal momento della cessazione dell'illecito (Cons. St. IV, n. 2650/2017; Cons. St. IV, n. 1347/2016). La giurisprudenza amministrativa riconosce all'azione di annullamento effetto interruttivo ai sensi degli artt. 2943 e 2945 c.c. rispetto a quella di risarcimento dei danni consequenziali. L'indirizzo si fonda sul presupposto che la domanda di annullamento, pur non costituendo il prodromo necessario per conseguire il risarcimento dei danni, è comunque indice della «volontà della parte di reagire all'azione amministrativa reputata illegittima ed è idonea ad interrompere per tutta la durata di quel processo il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice ordinario, dovendosi al riguardo fare applicazione del principio, affermato da Corte cost. n. 77/2007, per cui la pluralità dei giudici ha la funzione di assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia e non può risolversi in una minore effettività o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale» (Cass. n. 4874/2011; Cass. n. 20640/2011; Cass. n. 10395/2012; Cass.S.U., n. 25572/2014; Cass. n. 6343/2019). I precedenti appena citati si riferiscono alla situazione in cui la giurisdizione sulla domanda risarcitoria era devoluta al giudice ordinario, ma il principio che sorregge le decisioni e la sottesa interpretazione dei sopra citati artt. 2943 e 2945 c.c. sono a maggior ragione validi quando i due giudizi si svolgano dinanzi al medesimo giudice amministrativo (Cons. St. V, n. 364/2022). Sotto altro profilo il Consiglio di Stato ha precisato che l'atto di interruzione della prescrizione, ai sensi dell'art. 2943, comma 4, c.c., non deve necessariamente consistere nella richiesta o intimazione, essendo sufficiente una dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti l'intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante. Deve trattarsi di un atto del titolare del diritto idoneo a manifestare la volontà di far valere il diritto nei confronti del soggetto passivo e che tale requisito non è rinvenibile in semplici sollecitazioni prive del carattere di intimazione e della richiesta di adempimento al debitore (Cons. St. VI, n. 4304/2021). Il rapporto tra azione risarcitoria e azione di ottemperanza.Un tema che ha suscitato dibattito in dottrina e in giurisprudenza ha riguardato il rapporto tra azione risarcitoria e azione di ottemperanza. Infatti, come evidenziato da autorevole dottrina spesso soltanto all'esito dell'ottemperanza di un giudicato di annullamento è possibile accertare e quantificare il danno risarcibile per equivalente e tale elemento spiega lo scarso utilizzo dell'azione autonoma di risarcimento. In caso di mancata o non corretta esecuzione del giudicato il privato ha lo strumento del ricorso in ottemperanza. Laddove non risulta più satisfattiva la pronuncia di annullamento supplisce la tutela risarcitoria e il momento in cui emerge con chiarezza lo spazio per l'esecuzione del giudicato e per il risarcimento del danno è proprio quello dell'ottemperanza (Chieppa, Giovagnoli, 1119). Ciò premesso, si è posta la questione dell'ammissibilità di una domanda di risarcimento del danno formulata per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza ad una precedente decisione di annullamento di un provvedimento. Prima del Codice, la tesi prevalente, muovendo dalla diversità della tutela risarcitoria rispetto a quella impugnatoria e dalla natura prevalentemente esecutiva del giudizio di ottemperanza, aveva sposato la tesi negativa. Era stata ammessa, in via d'eccezione, la proposizione della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza solo in caso di: (a) danno da mancata esecuzione del giudicato (oggi art. 112, comma 3, c.p.a.); (b) danno da ineseguibilità in forma specifica del giudicato; (c) risarcimento per equivalente in caso di non eseguibilità della sentenza che abbia disposto il risarcimento in forma specifica; d) mancato raggiungimento o mancata esecuzione dell'accordo di cui all'art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998 (oggi v. art. 34, comma 4, c.p.a.) (Caringella, Manuale, 255). In particolare, secondo una parte della giurisprudenza, nel giudizio di ottemperanza non era possibile formulare una domanda risarcitoria solo per i danni che si fossero verificati in seguito alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia irretrattabile. Secondo il Consiglio di Stato, il risarcimento di tutti i danni lamentati, collegati al periodo antecedente al giudicato, deve essere oggetto di domanda nell'ambito di un giudizio cognitorio da proporsi dinanzi al giudice di primo grado. Il giudizio di ottemperanza veniva identificato nella sua natura puramente esecutiva (Cons. St. V, n.7800/2009). Con il codice del processo amministrativo, la domanda risarcitoria può essere proposta anche in sede di ottemperanza con possibilità di cumulare due azioni di esecuzione e di risarcimento, che spesso possono essere tra loro alternative e, proprio perché alternative, vi è un vantaggio a poterle proporre insieme (Chieppa, Giovagnoli, 1120). L'art. 112 del Codice ha ammesso la proponibilità in sede di ottemperanza della domanda risarcitoria «connessa» (comma 4). Cosicché il Codice del processo aveva prodotto, quanto meno in prima battuta, una forte innovazione in quanto l'art. 112, comma 4, nella sua originaria formulazione, consentiva la proposizione nel giudizio di ottemperanza, per la prima volta, della domanda risarcitoria. Il termine decadenziale di 120 giorni decorreva in questo caso dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento (Caringella, Manuale, 255). Senonché, all'indomani dell'entrata in vigore del Codice, è sorto il problema dell'ammissibilità della proposizione, anche in unico grado davanti al Consiglio di Stato, delle domande risarcitorie connesse. Il correttivo al Codice, apportato dal d.lgs. n. 195/2011, ha risolto il dubbio interpretativo, abrogando il comma 4 dell'art. 112 e modificando il comma 3, il quale oggi dispone che «può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione».Il correttivo ha così delimitato i casi di ammissibilità della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza e previsto espressamente che la domanda risarcitoria può essere proposta «anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza». Conseguentemente, anche per le sentenze da portare ad esecuzione innanzi al Consiglio di Stato, la domanda risarcitoria è esperibile direttamente innanzi al giudice del gravame, senza che sia necessario spostare la competenza a conoscere dell'ottemperanza della sentenza al giudice di prima istanza onde garantire il doppio grado di giudizio al processo risarcitorio. La dottrina ha al riguardo osservato che l'utilizzo dell'espressione «danni connessi», al posto di «danni derivanti» consente, rispetto alla disciplina precedente al Codice, di richiedere in sede di ottemperanza, anche in deroga al principio del doppio grado, non solo i danni successivi al giudicato ma anche quelli già subiti per effetto dell'attività amministrativa oggetto di annullamento. Rispetto al testo originario del Codice non è tuttavia sufficiente una semplice connessione tra risarcimento e ottemperanza, ma è necessario che la connessione sia riferita all'impossibilità, alla mancata esecuzione o alla violazione/elusione del giudicato (Caringella, Manuale, 256). Va infine soggiunto che la locuzione «totale o parziale» va riferita sia alla mancata esecuzione che all'impossibilità di esecuzione del giudicato: ne consegue che la domanda di risarcimento può essere sia alternativa all'esecuzione del giudicato (si pensi al caso in cui il ricorrente abbia ottenuto l'annullamento della gara ma non sia possibile il subentro nell'esecuzione del contratto) sia complementare a essa quando l'esecuzione è possibile solo in parte (si pensi al caso in cui il ricorrente possa subentrare in parte nel rapporto contrattuale e chieda il risarcimento per la parte del contratto che ha già avuto esecuzione) (Caringella, Manuale, 256). In sede di ottemperanza il solo risarcimento del danno riconoscibile è quello connesso all'impossibilità o mancata esecuzione in forma specifica inoltre, il ritardo in sé dell'esecuzione del giudicato dà luogo all'esperibilità dei rimedi previsti dall'ordinamento nazionale e, dunque, di quelli previsti dal codice del processo amministrativo, mentre ulteriori pretese risarcitorie, quale il danno da ritardo, non attengono all'oggetto del giudizio d'ottemperanza e in presenza dei relativi presupposti possono essere fatti valere in altra sede. (Cons. St. VI, n. 3123/2020; conf. Cons. St. III, n. 1089/2020). È stato altresì precisato che in tali casi l'azione di ottemperanza non è finalizzata all'attuazione di una precedente sentenza, ma trova in essa solamente il proprio presupposto. È una azione nuova, esperibile perché l'ottemperanza stessa è divenuta impossibile, ovvero perché alla parte vittoriosa sono derivati ulteriori danni dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, e in ordine alla quale il potere di decidere, qualunque sia il Giudice che ha emesso la pronuncia rimasta ineseguita, è attribuito al Giudice dell'ottemperanza, per ragioni di economia processuale e, quindi, di effettività della tutela giurisdizionale (Cons. St. V, n. 1956/2016; conf. Cons. St. IV, n. 259/2013). Con una recente pronuncia i giudici di legittimità sono nuovamente tornati sul tema precisando che la causa petendi della domanda risarcitoria proponibile in sede di ottemperanza vada individuata nell'impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, ovvero nell'inadempimento alle prescrizioni impartite con il titolo giudiziale passato in giudicato. Per converso, non è possibile proporre per la prima volta in sede di ottemperanza la domanda di risarcimento del danno come conseguenza del provvedimento amministrativo illegittimo, già annullato in sede giurisdizionale. Siffatta domanda, avrebbe come causa petendi fatti antecedenti al giudicato e correlati alla condotta dell'amministrazione che si è inverata nel provvedimento censurato nell'ambito del giudizio di cognizione; i danni reclamati, pertanto, non avrebbero alcun collegamento con l'attività amministrativa successiva alla formazione del giudicato (Cons. St. V, n. 2531/2021). La sentenza del Cons. St., Ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2 L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n. 2 del 12 maggio 2017, ha indagato natura, presupposti e ambito soggettivo della domanda risarcitoria spiccata in sede esecutiva e della responsabilità che essa sottende. Preliminarmente, nella decisione in esame si legge che «il legislatore ha qualificato espressamente questo rimedio in termini di «azione di risarcimento dei danni», evocando, così, l'istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale risarcimento del danno, l'azione in esame presenta significativi profili di peculiarità. In primo luogo, il presupposto del rimedio è individuato nell'esistenza di un danno (anche solo) «connesso all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato». È significativo evidenziare che l'art. 112, comma 3, c.p.a. distingue il danno «connesso» all'impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato) da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato, subito dopo, come distinto presupposto per l'esercizio dell'azione. Rispetto alla formulazione originaria dell'art. 112, comma 3, c.p.a. (prima della novella introdotta dal d.lgs. n. 195/2011), il principale profilo di novità è proprio questo: l'avere, cioè, esteso il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque «connesso» all'impossibilità di ottenerne l'esecuzione in forma specifica. Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l'azione di risarcimento del danno – e non un semplice indennizzo – anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato. Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale (che si traduce nell'ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell'azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche quando questa si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità che prescinde dall'inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato. La deroga, in particolare, è al regime della responsabilità da inadempimento dell'obbligazione, come delineato dall'art. 1218 c.c. (Caringella, Manuale, 258). Dal giudicato amministrativo, infatti, almeno quando esso, come nel caso di specie, riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all'amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un'obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere «in natura» (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è assoggettabile al regime dell'inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione. In base all'art. 1218 c.c., il debitore si libera dall'obbligazione se prova che l'inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La disciplina dell'art. 1218 c.c. trova riscontro nell'art. 1256 c.c., secondo cui l'obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore». Così ricostruita la natura della responsabilità risarcitoria in discorso, il Collegio si concentra quindi sulla peculiarità della disciplina di cui all'art. 112, comma 3, c.p.a. rispetto alla disciplina civilistica. Infatti le norme recate dal Codice del processo introducono un elemento di specialità ove dispongono che l'impossibilità derivante da causa non imputabile non estingue l'obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l'equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato. La norma, dunque, presuppone una forma di responsabilità che, «nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, presentata i caratteri della responsabilità oggettiva, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell'elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato; potendo la responsabilità essere esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo». Viene così in rilievo una sorta di «ottemperanza per equivalente» che sostituisce l'ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile. Essa si traduce nel riconoscimento dell'equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato (Caringella, Manuale, 258). Tale funzione sostitutiva del rimedio giustifica «la scelta del legislatore sia di prevederne l'ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto «connessa» all'impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, sia di slegarla dal requisito della colpa, sia pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura «oggettiva» che ne dà la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea: trattandosi di una tutela che sostituisce l'ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell'azione di ottemperanza (in forma specifica), che pure si caratterizza come rimedio «oggettivo», sganciato dalla prova del dolo o della colpa. è, in altri termini, una ragionevole scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio della impossibilità di esecuzione del giudicato». In sintesi, quindi, può affermarsi che l'impossibilità sopravvenuta di esecuzione in forma specifica dell'obbligazione nascente dal giudicato dà vita in capo all'amministrazione a una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale; sulla base dell'art. 112, comma 3, c.p.a., questa responsabilità deroga rispetto alla disciplina civilistica: infatti l'impossibilità derivante da causa non imputabile non estingue l'obbligazione ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l'equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica. Resta ovviamente imprescindibile, per addivenire ad una condanna, l'effettiva sussistenza degli elementi minimi ed essenziali per la configurazione dell'illecito, ossia il rapporto di causalità e l'antigiuridicità della condotta (Caringella, Manuale, 259). La responsabilità della P.A. derivante dalla lesione di diritti soggettivi.Si è sin qui discusso delle fattispecie di responsabilità dell'Amministrazione pubblica in caso di lesione di interessi legittimi, individuando altresì le differenze e analogie a seconda di interessi pretensivi e oppositivi. Ebbene, è necessario vagliare anche le ipotesi nelle quali si possono considerare altre fattispecie di responsabilità civile, in cui può incorrere la P.A., questa volta per lesioni concernenti diritti soggettivi. Sebbene nel corso degli anni si sia sviluppato un ampio dibattito sul tema, si tratta di tipi di responsabilità da lungo tempo ammessi, in quanto sincronizzati con la qualificazione dell'art. 2043 c.c. L'art. 28 della Costituzione stabilisce che i funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Secondo la dottrina questa disposizione costituzionale rappresenta la norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale della P.A., in quanto opera un rinvio alle leggi che regolano i rapporti tra privati in materia di responsabilità per fatto illecito, applicabili perciò – come si vedrà di seguito – anche all'amministrazione pubblica (Caringella, Manuale 260). Occorre accertare perciò se, in relazione ad alcune fattispecie astratte, gli istituti civilistici siano sempre applicabili alle controversie, non involgenti l'esercizio del potere, di cui sia parte un soggetto pubblico. Come si è già accennato, ci si pone innanzi a situazioni giuridiche soggettive costituite da diritti soggettivi. Per tale ragione, nei successivi paragrafi verrà esaminata più concretamente l'applicabilità di alcune fattispecie speciali di responsabilità civile, in particolare forme di responsabilità aggravata (tra cui la responsabilità per esercizio di attività pericolose o responsabilità per i danni da cose in custodia), anche nei rapporti con enti pubblici. In questo senso, il succitato collegamento con l'art. 28 Cost. è stato operato dalla recente giurisprudenza di legittimità, la quale si è pronunciata a S.U. in tema di danno cagionato a terzi dal fatto illecito del suo dipendente e quindi sull'applicabilità dell'art. 2049 c.c. In particolare, è stato stabilito che l'ente pubblico è civilmente responsabile del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del suo dipendente anche quando questi abbia approfittato delle proprie attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali o estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo (Cass. S.U., n. 13246/2019). Con quest'ultima pronuncia si è risolto il contrasto derivante proprio su questo tema, il quale origina dal combinato disposto dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 c.c., ovvero sul rapporto di immedesimazione organica del funzionario preposto. Secondo un primo orientamento, infatti, la ratio dell'art. 28 Cost. risiederebbe nel più agevole od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato e tale norma, basandosi sul rapporto di immedesimazione organica, ne farebbe desumere la configurabilità di una responsabilità diretta o per fatto proprio, soltanto se l'attività dannosa del preposto si atteggi come esplicazione dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto (Cass. III, n. 10803/2000; Cass. III, n. 2089/2008). Un diverso orientamento, invece, ascrivibile alla giurisprudenza penale di legittimità configurava la responsabilità civile della pubblica amministrazione pure in relazione a quelle le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali e mercè la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall'art. 2049 c.c. (Cass. pen., n.33562/2003; Cass. pen., n. 13799/2015; Cass. pen., n. 35588/2017; contra: Cass pen., n. 44760/2015). Le responsabilità aggravate. Il codice civile, come noto, stabilisce alcune fattispecie tipiche di responsabilità aggravata rispetto alla responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 c.c. È stato dibattuto negli anni se e quali di queste forme di responsabilità, contenute negli artt. 2047 c.c. e ss. siano applicabili anche nei confronti della P.A. Dunque, di seguito si discuterà di fattispecie «speciali» di responsabilità. Invero, nel nostro ordinamento, alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. si affiancano regole che riguardano ipotesi speciali di responsabilità. La loro origine è risalente ed ha sempre accompagnato il principio generale del neminem laedere (Alpa, 51). Tali fattispecie tipiche di responsabilità si caratterizzano per una differente struttura dell'illecito e, quindi, nell'ambito dell'onere probatorio. Invero per quelle fattispecie di responsabilità presunta sussiste un'inversione dell'onere probatorio a carico del danneggiante poiché la colpa di quest'ultimo è presunta, mentre nei casi di responsabilità oggettiva viene a mancare – nella struttura dell'illecito – l'elemento soggettivo. La responsabilità della p.a. per esercizio di attività pericolose. L‘art. 2050 c.c. prevede una responsabilità aggravata per colui che esercita attività pericolose. Il legislatore stabilisce che chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di siffatta attività, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati pericolosa, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. In molti casi si insiste ancora sulla distinzione tra attività pericolose in sé e per sé e attività innocue che «possono diventare pericolose», alle quali non si applica il regime speciale. Tuttavia, rimarrebbe ancora aperto il dibattito sulla questione della qualificazione della pericolosità, se cioè le attività pericolose siano tali solo per definizione legislativa oppure no (Alpa, 400). Si è perciò discusso sulla possibilità di applicare tale forma di responsabilità anche in capo alla p.a. In origine, l'orientamento interpretativo dominante escludeva tale applicazione. Dopodiché, siffatto orientamento ha subìto dei mutamenti fino a giungere ad ammettere tale fattispecie di responsabilità. In riferimento alla natura di tale responsabilità, a partire dagli anni Sessanta, la dottrina, prendendo spunto dall'oggetto della prova liberatoria previsto dal legislatore a favore dell'esercente l'attività pericolosa, ha sostenuto la sua natura oggettiva (Trimarchi, 48). La mancata adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno non sta a significare la necessità di una violazione di un dovere di condotta. Una risalente giurisprudenza di merito stabiliva che «la presunzione di colpa ex art. 2050 c.c., che riguarda anche la gestione di cavi elettrici aerei ad alta tensione, non si applica ad attività della p.a. svolte per soddisfare imprescindibili esigenze della collettività e quindi neppure all'attività dell'Enel che fa parte della p.a.» (Trib. Roma, n. 252/1972). Negli anni successivi, la giurisprudenza di legittimità ha ribaltato l'interpretazione succitata sostenendo sostanzialmente che la presunzione di colpa prevista dall'art. 2050 c.c. nello svolgimento di attività pericolose si applica anche all'ente pubblico gestore di linee elettriche ad alta tensione (Cass. III, n. 537/1982). Successivamente, il principio è stato affermato anche in materia di gestione di sottostazione elettrica da parte dell'ente pubblico Ferrovie dello Stato (Cass. n. 1393/1984). La Cassazione ha avuto modo di stabilire che la presunzione di responsabilità per danni che, nell'esercizio di attività pericolose, vengono cagionati a terzi in ipotesi di attività di carattere tipicamente tecnico e svolta da enti pubblici (tra cui la produzione e fornitura di energia elettrica) non sorge in funzione dell'astratta qualità di titolare dell'esercizio delle linee elettriche e di proprietario dell'energia da queste erogata, bensì richiede la concreta gestione da parte di detto ente di impianti, reti, linee o manufatti utilizzati per la produzione e distribuzione di energia elettrica. Siffatta presunzione a carico dell'ente medesimo non trova, dunque, applicazione quando l'effettiva gestione e manutenzione della linea di distribuzione dell'energia sia rimasta nella sfera del soggetto proprietario della linea stessa, su cui grava in tal senso l'esclusiva responsabilità del danno (Cass. n. 3935/1995). Ad oggi, si può quindi sostenere consolidato il principio di diritto che ritiene applicabile la fattispecie di responsabilitàexart. 2050 c.c. a carico dell'amministrazione pubblica, sia da parte della giurisprudenza di merito che di legittimità. Si è in un caso ritenuto sussistente la responsabilità, ex art. 2050 c.c., della P.A. nella produzione del sinistro stradale, poiché si era omessa l'apposizione del segnale di «pericolo lavori» in un tratto di strada antecedente ad un dosso e non avendo, gli addetti alle segnalazioni, deviato il traffico su una sola semicarreggiata idonea a consentire il passaggio di un veicolo alla volta. È stato così affermato che l'esecuzione di lavori su una strada pubblica costituisce attività pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 c.c., che prevede una presunzione di responsabilità a carico di chi svolge l'attività, in base alla quale, quando è provato il nesso causale tra l'esercizio dell'attività pericolosa ed il danno, per superare la presunzione, l'esercente l'attività deve dare prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (App. Roma IV, 25/07/2007). I giudici di legittimità, in tema di attività di polizia, svolta per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, hanno stabilito che spetta al soggetto danneggiato, il quale invoca la responsabilità della P.A. per l'intrinseca pericolosità dei mezzi effettivamente adoperati, fornire la prova delle concrete ed oggettive condizioni atte a connotare il fatto come illecito, in quanto antigiuridico, mentre sulla p.a. incombe la prova di aver adottato, in ogni caso, tutte le misure idonee a prevenire il danno. (Cass. III, n. 21426/2014). Ad oggi, quindi, appare pacifica l'applicabilità di siffatta fattispecie di responsabilità anche nei confronti della p.a. allorquando non siano state poste in essere le dovute e ragionevoli cautele per evitare il danno (Lopilato, 1368). La responsabilità della p.a. per i danni cagionati da cose in custodia. Il codice civile stabilisce, all'art. 2051, una forma di responsabilità aggravata facente capo al soggetto che ha in custodia una cosa, salvo che questo provi il caso fortuito. Ebbene, i presupposti di tale responsabilità si individuano nella derivazione del danno dalla cosa e nella custodia. Il primo, si estrinseca nel fatto che il danno deve essere esplicazione della concreta potenzialità dannosa della cosa in considerazione della sua connaturale forza dinamica o per concause umane o naturali (Bianca, 718). Il secondo presupposto implica invece l'esistenza di un potere di effettiva disponibilità e controllo della cosa da parte di quei soggetti custodi che ne hanno il possesso o la detenzione (Bianca, 721). Sulla natura di tale fattispecie di responsabilità, l'orientamento prevalente accoglie l'idea di una responsabilità oggettiva, quindi che prescinde dalla condotta e dall'elemento colposo del custode (Franzoni, 369). La giurisprudenza ha inizialmente ritenuto non applicabile la responsabilità aggravata di cui all'art. 2051 c.c. alle pubbliche amministrazioni. Ciò per la natura stessa delle cose oggetto della sua custodia in quanto essendosi al cospetto «di beni la cui estensione non consente una vigilanza ed un controllo idonei ad evitare l'insorgenza di situazioni di pericolo; di conseguenza il danneggiato può agire per il risarcimento soltanto in base al diverso principio del «neminem laedere» sancito dall'art. 2043 c.c.» (Cass. III, n.12314/1998). La Corte costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2051 c.c., per violazione degli artt. 3,24 e 97 Cost., nella parte in cui non prevedeva l'applicabilità della norma nei confronti della p.a., ha dichiarato che «il proprietario delle cose che abbiano cagionato danno a terzi è responsabile ai sensi dell'art. 2051 c.c., solo in quanto ne sia custode, e dunque ove egli sia stato oggettivamente in grado di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sulle cose stesse....alla pubblica amministrazione non è applicabile il citato articolo, allorché sul bene di sua proprietà non sia possibile – per la notevole estensione di esso e le modalità d'uso, diretto e generale, da parte dei terzi – un continuo, efficace controllo, idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti» (Corte cost., n. 156/1999). L'indirizzo della Corte costituzionale è stato perciò accolto ed attuato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale è giunta ad applicare l'art. 2051 c.c. nei confronti della p.a. ove, nel caso concreto, si configurasse una custodia in senso tecnico.
Dopo l'intevento della Corte costituzionale, la Cassazione ha aperto le porte all'applicabilità della fattispecie anche alla p.a. Essa ha statuito che la discrezionalità dei criteri e dei mezzi con i quali «l'amministrazione realizza e mantiene un'opera pubblica trovano un limite nell'obbligo dell'amministrazione medesima di osservare, a tutela dell'incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti quelle attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, così che all'inosservanza di dette disposizioni e norme consegue la ineludibile responsabilità dell'amministrazione per i danni arrecati a terzi». Quindi si è ritenuto configurabile anche per la p.a. una responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c. in relazione a quei beni, demaniali o patrimoniali, non soggetti ad uso generale e diretto della collettività, «i quali consentano, per effetto della loro limitata estensione territoriale, un'adeguata attività di vigilanza e di controllo da parte dell'ente a tanto preposto» (Cass. I, n. 674/1999). L'orientamento giurisprudenziale oggi dominante origina da una pronuncia della Cassazione secondo la quale l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. nei confronti della p.a. non può essere esclusa automaticamente quando il bene demaniale o patrimoniale da cui si sia originato l'evento dannoso, risulti adibito all'uso diretto da parte della collettività e si presenti di notevole estensione. Tali caratteristiche del bene «quando ricorrano congiuntamente, rilevano soltanto come circostanze le quali – in ragione dell'incidenza che abbiano potuto avere sull'espletamento della vigilanza connessa alla relazione di custodia del bene ed avuto riguardo alle peculiarità dell'evento – possono assumere rilievo sulla base di una specifica e adeguata valutazione del caso concreto, ai fini dell'individuazione del caso fortuito e, quindi, dell'onere che la p.a. (o il gestore) deve assolvere per sottrarsi alla responsabilità, una volta che sia dimostrata l'esistenza del nesso causale» (Cass. III, n. 19653/2004). Si è dunque sviluppato un filone giurisprudenziale teso ad ammettere l'applicazione dell'art. 2051 c.c. nei confronti della p.a. A titolo esemplificativo, si è riconosciuta la responsabilità di un comune per i danni verificatisi a causa di una caduta su strada urbana destinata, in parte, al transito pedonale ed in cattive condizioni di manutenzione. È stato così enunciato che nel caso «di danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, non è configurabile la responsabilità della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 2051 c.c. solo ove l'esercizio di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire situazioni di pericolo per gli utenti, sia risultato oggettivamente impossibile a causa della notevole estensione del bene e del suo uso generale da parte dei terzi.» (Cass. III, n. 11446/2003; conf. Cass. III, n. 15042/2008; v. di recente, Cass. VI, n. 4963/2019). La responsabilità precontrattuale della P.A.Come noto, con responsabilità precontrattuale – o culpa in contrahendo – si fa riferimento a quel tipo di responsabilità che può sorgere nell'ambito delle trattative contrattuali, quindi nella fase antecedente a quella della conclusione del contratto. Con il codice del 1942, in linea evolutiva rispetto all'archetipo delineato nel codice unitario del 1865, si è disciplinato compiutamente questa fattispecie, prevedendo una disposizione ad hoc, ovvero l'art. 1337 c.c., il quale impone alle parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, di comportarsi secondo buona fede (Fava, 1430). L'individuazione della responsabilità extracontrattuale quale modello prevalente per la responsabilità della P.A. per attività amministrativa illegittima non esclude, come già evidenziato, che in alcune ipotesi sia configurabile la responsabilità precontrattuale, che del resto si inquadra all'interno della responsabilità aquiliana (Chieppa, Giovagnoli, 1056). Sull'applicabilità della responsabilità precontrattuale alla p.a. si sono succeduti negli anni vari orientamenti interpretativi. A fronte di un primo periodo storico in cui si tendeva ad escludere tale possibilità, a partire dagli anni Sessanta si è assistito ad una prima apertura, accogliendo quindi l'ipotesi che un soggetto di diritto pubblico possa agire anche come privato, benché nell'esercizio e perseguimento di un interesse collettivo. Inoltre, si è teso ad ammettere tale responsabilità anche per i casi di procedura ad evidenza pubblica in cui tra le parti si sia venuto a configurare un rapporto personalizzato. Secondo questa ricostruzione, quindi, prima della scelta del contraente, ovvero, in quella fase prodromica in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di contraenti (risultanti ancora in quell'alveo di partecipanti alla gara) e quindi ancora in una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, non possa configurarsi una responsabilità precontrattuale. Prima dell'aggiudicazione gli interessati sarebbero solo dei «partecipanti al procedimento amministrativo», legittimati perciò solo a pretendere la legittimità degli atti compiuti (Caringella, Manuale, 264). Successivamente, per mezzo della costante elaborazione di orientamenti giurisprudenziali, il tema ha assunto una diversa veste, ammettendosi – seppur con alcune peculiarità – anche tale fattispecie di responsabilità. Su questa tematica, come si vedrà, è intervenuta a più riprese l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Secondo la giurisprudenza, la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede. Secondo la giurisprudenza amministrativa, la responsabilità ex art. 1337 c.c. della P.A. è una responsabilità da comportamento (amministrativo) scorretto, non da provvedimento illegittimo: essa nasce dalla violazione di norme (di derivazione privatistica) che hanno ad oggetto il comportamento della pubblica amministrazione, non l'invalidità del provvedimento. Essa, pertanto, sussiste anche a prescindere dall'invalidità provvedimentale, perché il danno che il privato lamenta non discende dal provvedimento, ma dal comportamento tenuto dall'Amministrazione (Cons. St. V, n. 1979/2017). La responsabilità precontrattuale della P.A., da un lato, non richiede necessariamente la sussistenza di una illegittimità amministrativa, dall'altro, è finalizzata a sanzionare l'abuso della libertà negoziale della parte pubblica che, in contrasto con la buona fede(artt. 1337,1338 c.c.), intesa come lealtà di comportamento, incide sulla libertà negoziale dei partecipanti nella fase delle trattative che precedono la stipulazione di un contratto (Cons. St. VI, n. 5611/2015; Cons. St. III, n. 1532/2016). Con particolare riferimento alle procedure di evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile sia in presenza del preventivo annullamento per illegittimità di atti della sequenza procedimentale, sia nell'assodato presupposto della loro validità ed efficacia: a) nel caso di revoca dell'indizione della gara e dell'aggiudicazione per esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta vari anni dopo l'espletamento della gara; b) per impossibilità di realizzare l'opera prevista per essere mutate le condizioni dell'intervento; c) nel caso di annullamento d'ufficio degli atti di gara per un vizio rilevato dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione definitiva o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio della procedura; d) nel caso di revoca dell'aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il contratto dopo l'aggiudicazione, per mancanza dei fondi (Cons. St. V, n. 4674/2014). In tema di culpa in contraendo per la P.A., risulta necessaria la menzione dei vari arresti dell'Adunanza Plenaria che hanno risolto contrasti interpretativi ed elaborato fondamentali principi in materia. Infatti, a fronte di un primo orientamento che limitava l'applicabilità delle regole di condotta alle procedure negoziate, oppure alla fase successiva alla scelta del contraente nei casi di procedure non negoziate (Cons. St. V, 1864/2015), si contrapponeva un altro orientamento. Secondo quest'ultimo, non sarebbe possibile operare una distinzione di fasi individuando il momento di sviluppo del procedimento negoziale e prevedendo l'applicazione delle regole di responsabilità precontrattuale alla sola fase in cui viene individualizzato il contatto sociale. Il comportamento deve essere valutato nella sua complessità e la disciplina della responsabilità precontrattuale non necessita di un rapporto personalizzato tra amministrazione e privato, in quanto è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, la quale sorge sin dal momento del procedimento (Cass. I, n. 15260/2014). A fronte del contrasto che si è venuto a manifestare, quindi, il Consiglio di stato ha rimesso la questione all'Adunanza Plenaria (Cons. St. III, n. 5492/2017). Quest'ultima è quindi intervenuta definendo i principi cardine su questo tema. È stato stabilito che la responsabilità precontrattuale della p.a. può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all'esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede. Quindi, l'Ad. Plenaria ha precisato come per la responsabilità dell'amministrazione non sia sufficiente la prova da parte del privato sulla propria buona fede soggettiva, consistente nella dimostrazione che abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose, ma occorrono gli ulteriori presupposti: a) che l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'amministrazione (Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018). La fattispecie della responsabilità in esame, dunque, risulta applicabile anche nei confronti della p.a. benché – al pari di altri istituti di diritto civile estensibili ai rapporti di diritto pubblico – presenta alcune peculiarità. Sul versante della giurisdizione – ad eccezione dell'ipotesi in cui venga in rilievo un contratto iure privatorum – essa spetta in via esclusiva al G.A. poiché pur venendo in rilievo la libertà negoziale, e non l'interesse legittimo, essa si colloca in un ambito pubblicistico ove l'amministrazione pubblica realizza condotte che costituiscono un'espressione di poteri pubblici (Lopilato, 1383). Secondo l'Adunanza Plenaria del 2005, infatti, vanno comprese nella giurisdizione ex art. 6 l. n. 205/2000, anche le liti concernenti il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale della p.a. per il mancato rispetto delle norme di correttezza di cui all'art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune, regole la cui violazione si concretizza quando siano venuti meno gli atti della fase pubblicistica attributiva degli effetti vantaggiosi che avevano ingenerato affidamenti restati, poi, senza seguito. Sussiste la responsabilità della p.a. a tale titolo quando l'amministrazione, dopo avere indetto una gara di appalto e pronunciato l'aggiudicazione, ne disponga la revoca per carenza delle risorse finanziarie occorrenti. In tale ipotesi, infatti, la responsabilità precontrattuale risiede nella mancanza di vigilanza e coordinamento sugli impegni economici che l'amministrazione aveva assunto quando la procedura di evidenza pubblica era stata avviata, emettendo atti sulla cui legittimità aveva confidato il soggetto aggiudicatario Il risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale va riconosciuto nei limiti dell'interesse negativo, rappresentato dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative e dalla perdita di “chance” connesse ad eventuali occasioni di stipula di contratti con altri soggetti (Cons. St., Ad. plen., n. 6/2005). Nel 2021, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata nuovamente sul tema della responsabilità precontrattuale dell'amministrazione nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici. In particolare, il Consiglio di Stato ha rimesso al Supremo Consesso la risoluzione dei seguenti quesiti: a) se in relazione ad un favorevole provvedimento amministrativo annullato in sede giurisdizionale fosse possibile configurare un legittimo e qualificato affidamento tutelabile con un'azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione; b) in caso affermativo, quali condizioni debbono sussistere ed entro quali limiti potesse riconoscersi al privato un diritto al risarcimento per lesione dell'affidamento incolpevole, con particolare riferimento all'ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale. L'Adunanza Plenaria ha elaborato il seguente principio secondo cui: «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull'operato dell'amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest'ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi». Con tale pronuncia si è rivelato altresì che non ogni illegittimità della normativa di gara sia sufficiente per fondare un addebito di responsabilità precontrattuale nei confronti dell'Amministrazione, visto che la partecipazione ad una procedura di gara non fonda di per sé una legittima aspettativa di aggiudicazione e di stipula del contratto, per cui va escluso ogni tipo di automatismo. Quindi l'ulteriore principio elaborato stabilisce che «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa» (Cons. St., Ad. plen., n. 21/2021). Da ultimo si è ritenuto che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda risarcitoria avanzata dalla p.a. appaltante nei confronti del concorrente aggiudicatario di un appalto di progettazione e lavori, derivante dalla mancata stipula del contratto, con conseguente incameramento della cauzione e relativa domanda di condanna al pagamento, nel caso in cui l'accordo negoziale non si sia perfezionato per fatto imputabile al medesimo aggiudicatario, il quale ha mancato di adempiere l'obbligo di mantenere, per tutta la durata della procedura concorrenziale, il possesso dei requisiti dichiarati, oltre che di informare l'Amministrazione del venir meno di tali requisiti. In tal caso, infatti: a) non rileva che abbia avuto luogo l'aggiudicazione, e nemmeno che si sia provveduto alla revoca della stessa, dal momento che il giudizio non verte sull'accertamento della legittimità o illegittimità di tali atti, ma sulla responsabilità precontrattuale; b) le norme che attribuiscono al giudice amministrativo la giurisdizione in particolari materie – nella specie che qui interessa: l'art. 133, lett. e1), c.p.a., in tema di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture – si devono interpretare nel senso che non vi rientra ogni controversia che in qualche modo riguardi una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, non essendo sufficiente il dato della mera attinenza della controversia con la materia, ma soltanto le controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri. Cass., S.U., 29 febbraio 2024, n. 5441. Contra, tuttavia, si veda Cons. St., V, 11 marzo 2024, n. 2318. Nella vicenda in contestazione l'amministrazione comunale non ha esercitato, quale privato contraente, mediante recesso dalle trattative (non configurabili sulla base degli atti prodotti in giudizio) o dal contratto (in effetti formalmente mai stipulato), ossia attraverso un atto diretto allo scioglimento di un vincolo contrattuale (a ben vedere mai sorto), ma ha sostanzialmente adottato un provvedimento di autotutela (deliberazione n. 91 del 2023) rispetto alla precedente determinazione di individuazione dell'immobile (quello ossia dell'odierna appellante) ritenuto non più idoneo onde perseguire gli obiettivi del suddetto programma abitativo e di riqualificazione. In altre parole, con gli atti impugnati in primo grado è stato diversamente modulato il “potere di individuazione dell'immobile” da destinare al programma abitativo in questione. In siffatta direzione, quel che si lamenta non è da ascrivere ad un “mero comportamento” della P.A. ma, piuttosto, ad un vero e proprio “provvedimento autoritativo” di scelta (o meglio di individuazione della specifica strategia). Questioni applicative.1) Qual è il criterio di quantificazione del risarcimento del danno in caso di ritardata o mancata assunzione alle dipendenze dell'Amministrazione pubblica? In tema di danno per ritardata assunzione, in sede di quantificazione per equivalente di detto pregiudizio, il danno non si identifica in astratto nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione. Tali elementi comporterebbero una vera e propria “restitutio in integrum“ e possono rilevare soltanto sotto il profilo della responsabilità contrattuale. Occorre invece individuare, caso per caso, l'entità dei pregiudizi che trovino causa nella condotta illecita del datore di lavoro alla stregua dell'art. 1223 c.c. Dunque, se la base di calcolo di detta quantificazione continua ad essere rappresentata dall'ammontare del trattamento economico netto non goduto, tale importo deve essere sottoposto ad una percentuale di abbattimento, la quale non può che essere quantificata equitativamente ai sensi dell'art. 1226 c.c. (Cons. St. III, n. 1230/2019; conf. Cons. St. III, n. 4020/2013). In materia di pubblico impiego, a fronte della mancata assunzione in servizio alle dipendenze dell'Amministrazione per inottemperanza dello scorrimento di graduatoria costituitasi a seguito di concorso, gli interessati maturano diritto al relativo risarcimento del danno, il quale va riconosciuto in misura pari alla metà dell'importo massimo previsto normativamente, altresì in considerazione della diversa carriera lavorativa intrapresa nelle more dello svolgimento di un secondo concorso bandito col medesimo oggetto (Cons. St. VI, n. 926/2018). Tuttavia, quando il ricorrente ha fatto valere una situazione di interesse strumentale alla regolarità della procedura concorsuale, rispetto al quale tutti i candidati si trovano nella stessa posizione, non sussistono i presupposti per il risarcimento del danno a seguito dell'annullamento di una procedura concorsuale. Tale pronuncia origina da una illegittimità concernente la mancata predeterminazione di criteri specifici di valutazione da parte della Commissione giudicatrice. Pertanto, poiché l'esito del concorso doveva ritenersi per definizione incerto per tutti i concorrenti, venendo a dipendere dalla riformulazione dei criteri di valutazione ad opera di una nuova commissione, in sede di futura rinnovazione del concorso, risulterebbe impossibile effettuare una valutazione giudiziale, in termini probabilistici, dell'esito del concorso per il ricorrente. Considerata quindi l'incertezza valevole per tutti i candidati, non si può configurare un danno ingiusto da perdita di chance (ossia, di un danno da perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile) (Cons. St. IV, n. 34/2014). 2) Quali elementi possono escludere la manifestazione di un legittimo affidamento in capo all'aggiudicatario di una gara poi annullata dall'autorità giurisdizionale? Il Cons. St., Ad. plen., n. 20/2021, ha stabilito che l'affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall'amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato. Nel caso di provvedimento poi annullato, il soggetto beneficiario deve dunque vantare una fondata aspettativa alla conservazione del bene della vita ottenuto con il provvedimento stesso, la frustrazione della quale può quindi essere considerata meritevole di tutela per equivalente in base all'ordinamento giuridico. La tutela risarcitoria non interviene quindi a compensare il bene della vita perso a causa dell'annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è accertato non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento ragionevole che esso spettasse. Nella descritta prospettiva, il grado della colpa dell'amministrazione, e dunque la misura in cui l'operato di questa è rimproverabile, rileva sotto il profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento. Al riguardo va ricordato che nel giudizio di annullamento la colpa dell'amministrazione è elemento costitutivo della responsabilità dell'amministrazione nei confronti del ricorrente che agisce contro il provvedimento a sé sfavorevole, sebbene essa sia presuntivamente correlata all'illegittimità del provvedimento, per cui spetta all'amministrazione dare la prova contraria dell'errore scusabile. Sulla base di questa presunzione, per il danno da lesione dell'affidamento da provvedimento favorevole, poi annullato, la colpa dell'amministrazione è invece un elemento che ha rilievo nella misura in cui rende manifesta l'illegittimità del provvedimento favorevole al suo destinatario, e consenta di ritenere che egli ne potesse pertanto essere consapevole. L'atteggiamento psicologico del privato può dunque essere considerato come fattore escludente del risarcimento solo in queste ipotesi e non già ogniqualvolta vi sia un contributo del privato nell'emanazione dell'atto, come suppone l'ordinanza di rimessione. Non ogni apporto del privato all'emanazione dell'atto può infatti condurre a configurare in via di automatismo una colpa in grado di escludere un affidamento tutelabile sulla sua legittimità. Si giungerebbe altrimenti a negare sempre la tutela risarcitoria, tenuto conto che i provvedimenti amministrativi favorevoli, ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sono sempre emessi ad iniziativa di quest'ultimo. Va infatti considerato al riguardo che, sebbene al privato sia riconosciuto il potere di attivare il procedimento amministrativo e di fornire in esso ogni apporto utile per la sua conclusione in senso per sé favorevole, egli lo fa all'esclusivo fine di realizzare il proprio utile. È invece sempre l'amministrazione che rimane titolare della cura dell'interesse pubblico e che dunque è tenuta a darvi piena attuazione, se del caso sacrificando l'interesse privato; pertanto, se quest'ultimo trova soddisfazione è perché esso è ritenuto conforme alla norma e all'interesse pubblico primario dalla stessa tutelato. Malgrado gli istituti partecipativi introdotti con la l. n. 241/1990, e la recente positivizzazione dei doveri di collaborazione e buona fede, il potere amministrativo mantiene infatti la sua tipica connotazione di unilateralità, che si correla alle sovraordinate esigenze di attuazione dei fini di interesse pubblico stabiliti dalla legge, di cui l'amministrazione è responsabile. Nondimeno, con riguardo a gradi della colpa inferiore a quello «grave», non possono nemmeno essere trascurati i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l'esercizio dell'azione di annullamento quest'ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui, ai sensi dell'art. 29 c.p.a.., l'azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce, per un verso, ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l'annullamento dell'atto per effetto dell'accoglimento del ricorso diviene un'evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da lui avversata allorché deve resistere all'altrui ricorso; per altro verso, porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell'atto introduttivo del giudizio. 3) Quale è il rapporto fra risarcimento in forma specifica e per equivalente? Il Consiglio di Stato ha chiarito che il giudice amministrativo può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore. Ad esempio, allorché per eseguire coattivamente un obbligo di fare o di non fare, specialmente quando ciò comporti una qualche trasformazione del territorio (per il quale siano necessari titoli abilitativi), è necessario ottenere, sotto forma di provvedimento amministrativo, un assenso dell'amministrazione genericamente inteso. Qualora a richiedere tale assenso non provveda l'obbligato, vi provvede il Giudice dell'Esecuzione, se del caso per mezzo di un ausiliario, in base all'art. 612 c.p.c. infatti, ai sensi di tale norma il Giudice dell'Esecuzione provvede a risolvere le difficoltà che possono sorgere in tale ambito. Tuttavia, la possibilità di attuazione coattiva di tale obbligo di fare, quale è ad esempio quello di demolire una costruzione realizzata a distanza inferiore a quella legale, nell'ordinamento non è assoluta, ma trova un limite logico, prima che giuridico, nell'impossibilità, fisica o giuridica, di procedervi nel caso concreto (art. 2933, comma 2, c.c.). Se dunque la difficoltà si rivela insormontabile, il diritto del creditore si converte nell'equivalente pecuniario del risarcimento del danno (Cons. St. VI, n. 455/2017; v. Cons. St. V, n. 2776/2013). Ciò, ad esempio, è stato evidenziato nei casi nei quali l'accoglimento della domanda di reintegrazione comporterebbe la distruzione di un'opera pubblica di rilevante importanza e di ingente valore economico (Cons. St. IV, n. 3169/2001). Inoltre, il Consiglio di Stato ha stabilito che, in caso di occupazione usurpativa, come tale implicante l'obbligo di restituzione del bene al privato, l'amministrazione non può validamente opporre né l'eccessiva onerosità della rimozione delle opere nel frattempo realizzate, né richiamare il principio di cui al comma 2 dell'art. 2933 c.c.; invero, da un lato, l'eccessiva onerosità di cui all'art. 2058 c.c., non è opponibile nelle azioni intese a far valere un diritto reale, il cui carattere assoluto non lascia margini a modalità di reintegrazione diverse da quella in forma specifica (salva diversa volontà del titolare), dall'altro, la deroga prevista al comma 2 dell'art. 2933 c.c., non può trovare applicazione qualora la restituzione inciderebbe comunque su interessi circoscritti alla realtà locale (infatti, il limite di cui all'art. 2933 comma 2, ha carattere eccezionale e trova applicazione nei riguardi della demolizione delle fonti di produzione e di distribuzione della ricchezza (Cons. St. IV, n. 4590/2011; Cons. St. V, n. 2095/2005, Cons. St. IV, n. 450/2002). 4)Con quale intensità va modellato l’onere di diligenza del danneggiato ex art. 1227, comma 2, cc? Secondo Cons. St, IV, 4 settembre 2023, n. 8149, gli artt. 1227 c.c. e 30, comma 3, c.p.a. non possono essere interpretati in modo così ampio e rigido da tradursi, di fatto, in una forma di denegata giustizia; in particolare, esigere non solo l’impugnativa degli atti lesivi e la proposizione di un’istanza cautelare, ma anche la proposizione di ogni possibile censura significa denegare, in concreto, l’esistenza stessa di quella cognizione, che rende la tutela del g.a. effettiva, piena e satisfattiva. La sezione, formulando il principio in massima, ha accolto l’appello, ritenendo che l’onere di diligenza imposto al soggetto danneggiato non possa essere inteso in senso così ampio e rigido da comportare un vulnus alla pienezza ed all’effettività della tutela; in particolare, “l’attribuzione al giudice amministrativo (in tempi relativamente recenti) della cognizione piena in materia risarcitoria gli imponga di approfondire sotto ogni aspetto la pretesa economica oltre che giuridica delle parti, facendosi carico anche dell’evoluzione di un contesto di mercato (anzi, di mercati) sempre più complesso”. Inoltre, “non può essere un ostacolo (a volte implicito) la pur oggettiva difficoltà, per il giudice amministrativo, di quantificazione del danno effettivamente subito, specie in situazioni peculiari come quella di specie (in cui si verte pacificamente del solo danno da ritardo nell’accertamento di una pretesa poi effettivamente riconosciuta, ma con conseguenze economiche che si assumono molto gravi per la parte ricorrente). Se tale quantificazione può, almeno in parte, essere particolarmente complessa e finanche esulare dalle conoscenze tecniche del giudice, si può ricorrere a meccanismi di quantificazione ad hoc, opportunamente predisposti dal sistema (cfr. infra, i punti 9 e ss.), ma non si può giungere alla totale negazione, in fatto, di quei remedies che l’ordinamento ha ormai pacificamente incardinato in capo al giudice amministrativo”. Conf. Cons. St, IV, 3 agosto 2023, n. 7503 : non sempre la mancata impugnazione può essere ritenuta un comportamento contrario a buona fede e, come tale, suscettibile di assumere rilievo ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a., ma soltanto nelle ipotesi in cui si appuri che una tempestiva impugnazione avrebbe evitato o mitigato il danno. L’onere di ordinaria diligenza posto a carico del privato per delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile può intendersi soddisfatto con l’attivazione di strumenti non necessariamente processuali ma anche procedimentali). Precedenti conformi: Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sulla distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica e tra danno evento e danno conseguenza, tra le tante, Cass. sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass. sez. un. 11 novembre 2008, n. 26972. Sulla diligenza espressa con meccanismi procedimentali: Cons. Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7. Sull’ onere di diligenza esigibile dal soggetto danneggiato, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2023, n. 8149. Sulla possibilità di ricorrere alla prova presuntiva per provare i danni non patrimoniali, tra le tante, Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, 26972; Cons. Stato, Ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; più di recente, C.g.a., sez. giur., 25 maggio 2023, n. 367. 5) In caso di giudicato di annullamento, da quando decorre il termine per proporre la domanda risarcitoria? SecondoCGA Sicilia, sez. giurisdizionale, 27 luglio 2023, n. 488, il momento del passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, coincidente con il dies a quo del termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a., entro cui può proporsi la domanda risarcitoria, risulta articolato come segue: a) la proposizione della revocazione ordinaria, essendo un mezzo di impugnazione ordinario, è ostativa alla immediata formazione del giudicato sulla sentenza revocanda, il quale dunque si forma con la pubblicazione della decisione di inammissibilità della revocazione, qualora tale ultima sentenza non sia passibile di ricorso per cassazione; b) né, a prolungare di sei mesi tale termine, soccorre l’art. 107, comma 1, c.p.a., perché avverso la declaratoria di inammissibilità della revocazione non è ammesso il ricorso in cassazione, non potendosi configurare da parte di tale sentenza una violazione dei limiti esterni della giurisdizione; c) ne deriva che le sentenze del Consiglio di Stato passano in giudicato, nei vari possibili casi: c.1) con lo spirare dei termini per proporre il ricorso per cassazione o la revocazione ordinaria, ove non proposti; c.2) con la pubblicazione della sentenza che dichiara inammissibile il ricorso per revocazione; c.3) il giorno in cui spirano i termini del ricorso per cassazione avverso la sentenza resa nel giudizio di revocazione, ove esso, avendo positivamente superato la fase rescindente e dunque revocato la sentenza gravata, abbia deciso in qualsiasi senso il c.d. giudizio rescissorio: è solo a tale ipotesi che si riferisce, ove correttamente inteso, l’art. 107, comma 1, c.p.a.; d) la suddetta casistica non implica una sostanziale differenza tra revocazione ordinaria e straordinaria, poiché: d.1) anche per quest’ultima, invero, superata positivamente la fase rescindente e rimosso così il giudicato che si era formato, la decisione sulla revocazione resa in esito alla fase c.d. rescissoria riapre – analogamente al caso di cui alla superiore lettera c.3) – il termine per il ricorso in cassazione ex art. 107, comma 1, c.p.a.; nonché, ove la decisione rescissoria sia favorevole anche nel merito, altresì il termine di 120 giorni ex art. 30, comma 5, c.p.a., per proporre la domanda risarcitoria; d.2) viceversa, la declaratoria di inammissibilità della revocazione – sia straordinaria, sia ordinaria – tiene ferma la data di formazione del giudicato e, quindi, quella di decorrenza del termine ex art. 30, comma 5, c.p.a.: d.2.1) alla data della già avvenuta formazione del giudicato, per quella straordinaria; d.2.2) alla data della declaratoria di inammissibilità della revocazione, per quella ordinaria; d.2.3) salvo che, in ambo tali ipotesi, sia stato già proposto autonomamente il ricorso per cassazione, nel rispetto dei termini per esso previsti, comportando esso che il giudicato si vada a formare (non sulla decisione della revocazione, bensì sulla decisione, ove successiva, della Corte di Cassazione.
4)A chi appartiene la giurisdizione in caso di azione proposta verso la persona fisica del funzionario? Tar Catanzaro, sez. II, ord. 4 gennaio 2024, n. 22 ha chiarito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia con cui una società agisce per il risarcimento dei danni nei confronti della persona fisica che, in qualità di sindaco del comune, con il proprio comportamento omissivo, non autorizzando tempestivamente i richiesti interventi di messa in sicurezza del fabbricato di proprietà della società ricorrente, abbia così determinato il cedimento della struttura; la domanda è infatti proposta nei confronti di una persona fisica e non dell’ente, ed è a tutela di un diritto soggettivo 5) Giurisdizione in caso di danno da lesione dell’affidamento alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda, proposta dal privato nei confronti della P.A., di risarcimento dei danni conseguiti alla lesione dell’incolpevole affidamento riposto sull’adozione di un provvedimento ampliativo della propria sfera soggettiva – sia in caso di successivo annullamento del provvedimento giudicato illegittimo, sia in ipotesi di affidamento ingenerato dal comportamento dell’amministrazione nel procedimento amministrativo, poi conclusosi senza l’emanazione del provvedimento ampliativo -, perché il pregiudizio non deriva dalla violazione delle regole di diritto pubblico sull’esercizio della potestà amministrativa, bensì, in una più complessa fattispecie, dalla violazione dei principi di correttezza e buona fede, che devono governare il comportamento dell’amministrazione e si traducono in regole di responsabilità, non di validità dell’atto. Cass., Sez. Un., 28 agosto 2023, n. 25324 e 16 marzo 2023, n. 7737 con particolare riguardo al pregiudizio da provvedimento favorevole e Cass., S.U., 29 febbraio 2024, n. 5441 sulla responsabilità precontattuale. . Vedi, però, in senso opposto la giurisprudenza amministrativa: Cons., St., Ad. Plen., 29 novembre 2021, nn. 19, 20 e 21 secondo cui si tratta di un contatto pubblicistico. Conf. Cons. St., VII, 27 marzo 2023, n. 3094. Alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 36/2023, il combinato disposto dell’articolo 5, comma 4, del decreto legislativo n. 36/2023 e dell’articolo 124, comma 1 c.p.a., in correlazione con il recepimento della buona fede come principio dell’azione amministrativa (art. 1, comma 2 bis della legge 241), avalla la tesi della Plenaria secondo cui la condotta procedimentale lesiva dell’affidamento è “comportamento amministrativo” ex art. 7, comma 1 c.p.a., ossia esercizio scorretto del potere per violazione della regola di correttezza che lo conforma e lo limita; di qui la giurisdizione del GA ex art. 30 c.p.a. per danni da lesione dell’ affidamento (da intendersi quest’ultimo non come diritto soggettivo, ma come principio del rapporto amministrativo, e, quindi, come norma di diritto pubblico). Sulla giurisdizione del G.O. in tema di danno da lesione dell’affidamento nell’ambito di un contatto sociale privatistico vedi da ultimo Cass., Sez. Un., 28 agosto 2023, n. 25324; contra Cons. St., Ad. Plen., 29 novembre 2021, nn. 19, 20 e 21. BibliografiaAlpa, La responsabilità civile, Milano, 2010; Bianca, Diritto civile, 5, Milano, 2012; Bordon, Il nesso di causalità, Torino, 2006; Breccia, Le obbligazioni, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 1991; Caponigro, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, Roma, 2010; Carbone, L'azione di esatto adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012; Caringella, Giustiniani, Manuale del processo amministrativo, II ed., Roma, 2017; Caringella, Giustiniani, Protto, Tarantino, Codice del processo amministrativo ragionato, Roma, 2017; Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2020; Caringella, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Roma, 2019; Carpentieri, Risarcimento del danno e provvedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 881; Casetta, Manuale di diritto amministrativo, XXIII ed., Milano, 2021; Cassano, Posteraro, La responsabilità della pubblica amministrazione, Sant'Arcangelo di Romagna (RN), 2020; Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano 2010; Chieppa, in Quaranta, Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011; Chieppa, Codice del processo amministrativo, Milano 2018; Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Milano, 2021; Chieppa, Il danno da ritardo (o da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento), in giustizia-amministrativa.it; Chindemi, Il danno da perdita di chance, II ed., Milano, 2010; Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, 2021; Comporti, Il codice del processo amministrativo e la tutela risarcitoria: la lezione di un'occasione mancata, in Riv. dir. proc., 2011, 555; Corradino, La responsabilità della Pubblica Amministrazione, Torino, 2011; Cortese, Dal danno da provvedimento illegittimo al risarcimento degli interessi legittimi? La ‘nuova' responsabilità della P.A. al vaglio del giudice amministrativo, in Il diritto processuale amministrativo, 2012, 968; Cortese, Autonomia dell'azione di condanna e termine di decadenza, nota a C. Cost. 94/2017, Giornale dir. amm., fasc. 5, 2017, p. 662; Cortese, in Falcon, Cortese, Marchetti, Commentario beve al codice del processo amministrativo, Padova, 2021; De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, IV ed., Milano, 2017; Farina, L'art. 21 octies della nuova legge 241/1990: la codificazione della mera irregolarità del provvedimento amministrativo, in LexItalia.it, n. 9/2005; Fava, Il contratto, Milano, 2012; Feola, Il danno da perdita di chances, Napoli, 2004; Foà, Termine decadenziale e azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi. Dubbi di legittimità costituzionale, in Resp. civ. e prev., 2016, 610; Foà, Interesse legittimo «disomogeneo» rispetto al diritto soggettivo: ragionevole il termine decadenziale per l'azione risarcitoria, in Resp. Civile e Previdenza, fasc. 5, 2017, 1583; Fracchia, Elemento soggettivo nella responsabilità dell'amministrazione, in Atti del Convegno di Varenna 2008, Milano, 2009; Franzoni, Fatti illeciti, II ed., Bologna, 2020; Franzoni, La responsabilità oggettiva. Il danno da cose e animali, Padova, 1988; Gargano, L'azione di condanna e le regole di limitazione del danno risarcibile tra autonomia e pregiudizialità, in Dir. proc. amm., 2015, 1105; Garofoli, Codice amministrativo ragionato, VIII ed., Roma, 2021; Greco, Le situazioni giuridiche soggettive e il rapporto procedimentale, in giustizia-amministrativa.it; Lopilato, Manuale di diritto amministrativo, III ed., Torino, 2021; Nigro, Giustizia amministrativa, III ed., Bologna, 1983; Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, II, Milano, 2001; Racca, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000; Romano, Corso di diritto amministrativo, III ed., Padova, 1937; Saitta, Tutela risarcitoria degli interessi legittimi e termine di decadenza, in Dir. proc. amm., 2017, 1191; Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, I ed., Napoli, 1952; Sassani, Il codice del processo amministrativo, Torino, 2012; Scoca, Per un'amministrazione più responsabile, in Giur. cost. 1999, n. 6, 4045; Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, in Corr. giur., 2011, 988; Scoca, Giustizia amministrativa, VII ed., Torino, 2017; Scoca, Sul termine per proporre l'azione risarcitoria autonoma nei confronti dell'amministrazione, in Giur. cost., fasc. 3, 2017, 980; Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021; Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; Trimarchi Banfi, L'elemento soggettivo nell'illecito provvedimentale, in Dir. Amm., 2008, 1, 67; Viola, Il danno da perdita di chances nel giudizio amministrativo dopo le nuove sentenze di «San Martino» della Corte di Cassazione, in LexItalia.it, n. 7/2020. |