Codice di Procedura Civile art. 669 nonies - Inefficacia del provvedimento cautelare 1Inefficacia del provvedimento cautelare1 [I]. Se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'articolo 669-octies, ovvero se successivamente al suo inizio si estingue [306 ss.], il provvedimento cautelare perde la sua efficacia [669-octies 6, 675]. [II]. In entrambi i casi, il giudice che ha emesso il provvedimento [669-ter, 669-quater, 669-quinquies], su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto [in calce al ricorso], dichiara[, se non c'è contestazione,] con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. [In caso di contestazione l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'articolo 669-decies]2. [III]. Il provvedimento cautelare perde altresì efficacia se non è stata versata la cauzione [119; 86 att.] di cui all'articolo 669-undecies, ovvero se con sentenza, anche non passata in giudicato [282], è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso. In tal caso i provvedimenti di cui al comma precedente sono pronunciati nella stessa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento. [IV]. Se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato italiano o estero, il provvedimento cautelare, oltre che nei casi previsti nel primo e nel terzo comma, perde altresì efficacia: 1) se la parte che l'aveva richiesto non presenta domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali [156-bis 1 att.]; 2) se sono pronunciati sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o lodo arbitrale [823, 824-bis] che dichiarino inesistente il diritto per il quale il provvedimento era stato concesso. Per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e per le disposizioni di ripristino si applica il secondo comma del presente articolo.
[1] La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995. [2] Comma da ultimo modificato dall'art. 3, comma 8, lett. m), d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 che soppresso le parole «in calce al ricorso». Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. Precedentemente il comma era stato modificato dall'art. 3, comma 47, lett. c), numeri 1) e 2), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che aveva soppresso le parole: «, se non c'è contestazione,» e « In caso di contestazione l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'articolo 669-decies]» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoLa norma dell'art. 669-novies c.p.c., dedicata alla disciplina dell'inefficacia del provvedimento cautelare, dato che il provvedimento cautelare, pur se di accoglimento, è ontologicamente inidoneo alla produzione di effetti stabili nell'ambito del processo civile ed anzi rappresenta emblematicamente il provvedimento meno idoneo alla stabilità, insieme con la successiva norma dell'art. 669-decies c.p.c., regola l'ambito della durata del provvedimento cautelare. In particolare, essa detta la normativa di riferimento per le ipotesi di inefficacia sopravvenuta del provvedimento cautelare, causata da eventi non interni al procedimento cautelare, pur se collegati ad esso in modo stabile. Ciò a differenza dalla disciplina dell'art. 669-decies c.p.c. che, diversamente dallo strumento impugnatorio costituito dal reclamo, regola la revoca e la modifica come strumenti non diretti alla critica della misura cautelare concessa, ma idonei a far valere eventuali mutamenti delle circostanze in base alle quali era stato emanato il provvedimento cautelare, onde evitare che lo stesso diventi anacronistico e sopravviva alla propria originaria funzione. La revoca, infatti, si fonda su eventi sopravvenuti ma interni al procedimento cautelare e univocamente collegati ai presupposti del provvedimento cautelare. La disposizione dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., deriva da quella in precedenza dettata in tema di sequestro dall'abrogato art. 683 c.p.c. nel cui comma 1 era stabilito che il sequestro perdeva efficacia se non erano osservate le norme per l'introduzione della domanda di convalida o per la sua trattazione dagli artt. 680 e 681 c.p.c., oltreché nel caso di rigetto di tale domanda, ma anche nell'ipotesi in cui il giudizio di merito si estinguesse per qualunque causa. Caduto l'istituto processuale del giudizio di convalida, la precedente disciplina, sotto l'aspetto delle situazioni assunte al suo oggetto, è stata trasfusa integralmente nell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. Dove l'art. 683 c.p.c. recitava che «il sequestro perde la sua efficacia se il sequestrante non osserva le disposizioni degli artt. 680 e 681, se l'istanza di convalida è rigettata con sentenza passata in giudicato, o se il giudizio si estingue per qualunque causa», invece l'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. recita «Se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'art. 669-octies ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia». Mentre l'art. 683 c.p.c. stabiliva che il sequestro dovesse diventare inefficace una volta che la sentenza di rigetto della istanza di convalida o della domanda di merito fosse passata in giudicato, nulla disponeva quanto al tempo in cui lo stesso effetto avrebbe potuto essere dichiarato nei casi in cui non fossero state osservate le disposizioni dettate dagli artt. 680 e 681 c.p.c. o il giudizio di merito si fosse estinto. L'art. 683, comma 3, c.p.c. stabiliva poi il modo della dichiarazione della inefficacia, disponendo che il giudice vi provvedesse con decreto su ricorso del sequestrante. Con i successivi commi dell'art. 669-novies c.p.c., questa disciplina, resa generale per tutti i provvedimenti cautelari, ha conosciuto una profonda modificazione di cui ci occuperemo nella successiva disamina. La disciplina dell'art. 669-novies c.p.c. relativa all'inefficacia non è, tuttavia, completamente esaustiva perché non regola tutte le ipotesi di inefficacia della misura cautelare concessa; ciò perché non comprende la disciplina delle ipotesi di inefficacia dei sequestri, regolate dagli artt. 675 c.p.c. e 156 disp. att. c.p.c. o delle ipotesi di inefficacia disciplinate dall'art. 156-bis disp. att. c.p.c. e, in ogni caso, non comprende la regolamentazione della inefficacia del provvedimento cautelare a seguito di riesame dei presupposti della cautela, ossia del fumus boni iuris e del periculum in mora eventualmente compiuto in sede di reclamo cautelare, ovvero, per l'appunto, in fase di modifica e revoca del provvedimento. Secondo la giurisprudenza, le ipotesi di inefficacia previste dalla disposizione in commento non sono, comunque, tassative, perché ad esse si potrebbero aggiungere ulteriori ipotesi derivanti da omissioni poste in essere dai soggetti nei cui confronti la misura cautelare è stata concessa. Conseguentemente, non essendovi una regolamentazione ad hoc delle ipotesi, la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare dovrà essere disposta d'ufficio all'udienza in cui le parti sono convocate per la comparizione ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., senza applicare la disposizione normativa dell'art. 669-novies c.p.c. In tal senso, si è specificato che alle ipotesi di inefficacia del procedimento cautelare, elencate non tassativamente dall'art. 669-novies c.p.c., va ricollegata la mancata o tardiva notifica del decreto emesso inaudita altera parte exart. 669- sexies, comma 2, c.p.c. e la dichiarazione di inefficacia, in sede di reclamo avverso la successiva ordinanza, assorbe ogni altro rilievo sul merito (Trib. Milano 25 febbraio 1998); ciò perché il termine di cui all'art. 669-sexies c.p.c. per la notifica del decreto con cui è stata concessa inaudita altera parte la misura cautelare ha carattere perentorio e la mancata osservanza, da equipararsi all'omessa notifica, comporta l'inefficacia del provvedimento. La pronuncia in questione non è rimasta isolata. Si è affermato, infatti, che la perentorietà del termine che, in caso di concessione di una misura cautelare inaudita altera parte, deve essere assegnato all'istante, ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c., per la notificazione del ricorso e del decreto, impone di ritenere che la sua inosservanza cagioni l'inefficacia del concesso provvedimento (Trib. Verona 21 settembre 1993, secondo cui, una volta verificatasi una ipotesi di inefficacia del provvedimento cautelare, il giudice deve emettere declaratoria in tal senso e adottare d'ufficio i più opportuni provvedimenti ripristinatori, in particolare l'ordine di trasmissione di copia degli atti di causa al conservatore dei registri immobiliari perché questi provveda alla cancellazione della trascrizione di un sequestro conservativo). Si è, però, rilevato, in senso contrario, che, in caso di mancato rispetto del termine perentorio per la notifica del decreto emanato inaudita altera parte, il provvedimento cautelare va revocato e non dichiarato inefficace con il subprocedimento di cui all'art. 669-novies c.p.c. (Trib. Torino 21 aprile 1994). Di recente si è precisato che il sequestro conservativo è una misura cautelare intesa a preservare la garanzia patrimoniale al creditore. Suo presupposto è il fumus boni iuris, ovvero la non manifesta infondatezza della pretesa creditoria. Questa è la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto che, accertata l'inesistenza del credito con sentenza pronunciata all'esito d'un giudizio ordinario di cognizione, ancorché non definitiva, il sequestro perda efficacia. Infatti, una volta che l'esistenza del credito venga esclusa all'esito d'un giudizio a cognizione piena, il legislatore presume insussistente ipso facto il requisito del fumus boni iuris. Siffatta conclusione, ovvia nel caso in cui il credito a garanzia del quale venne concesso il sequestro sia escluso in toto all'esito del giudizio di merito, deve trovare applicazione anche nel caso in cui quel credito venga riconosciuto in misura inferiore a quella ipotizzata dal provvedimento di concessione del sequestro. Una sentenza di merito la quale accolga la domanda in misura inferiore al petitum, infatti, altro non è se non un provvedimento che dichiara inesistente il credito per la parte eccedente quella concretamente accertata. Anche in tal caso, dunque, troverà applicazione il principio generale dell'art. 669-novies c.p.c. con la conseguenza che il sequestro perde efficacia se con sentenza anche non passata in giudicato è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso (Cass. III, n. 41078/2021). La norma dell'art. 669-novies c.p.c. è il frutto di una disciplina del codice di procedura civile strettamente e indissolubilmente legata alla strumentalità originaria delle misure cautelari che era, per tutti i provvedimenti, quella «strutturale» o «forte». Si prevedeva, in sostanza, per ogni provvedimento cautelare un regime di stretta strumentalità rispetto al successivo giudizio di merito che doveva essere instaurato nel breve termine previsto dalla norma dell'art. 669-octies c.p.c. o dal giudice. Di conseguenza, le disposizioni della norma in commento prevedevano – e tuttora prevedono – che la misura cautelare perdesse efficacia laddove il giudizio di merito non venisse iniziato o si estinguesse una volta azionato. Ma con le riforme effettuate negli anni che vanno dal 2005 al 2009, che hanno inciso sull'art. 669-octies c.p.c., il regime della strumentalità è stato radicalmente modificato ed è stato preferito dal legislatore un nesso di tipo «funzionale» piuttosto che un nesso di tipo «strutturale». Recepita, altresì, la distinzione tra provvedimenti cautelari conservativi, ossia che hanno la funzione di preservare gli effetti della sentenza di merito che sarà emanata nel prosieguo e provvedimenti anticipatori, cioè che hanno la funzione di anticipare, invece, contenuto ed effetti della sentenza di merito, il legislatore ha modificato conseguentemente il regime della strumentalità a seconda del tipo di misura cautelare chiesta ed ottenuta. Ne è derivato un quadro che prevede la conservazione della strumentalità forte o strutturale per le sole misure cautelari conservative come, ad esempio, i sequestri e il passaggio ad una strumentalità debole o attenuata per le misure cautelari anticipatorie, come, ad esempio, i provvedimenti d'urgenza. La norma dell'art. 669-novies c.p.c. è rimasta però invariata sicché, a mente delle disposizioni novellate dell'art. 669-octies c.p.c., essa continua ad applicarsi nella sua originaria formulazione alle sole misure cautelari conservative, le uniche che tuttora possono perdere efficacia laddove non venga tempestivamente iniziato il giudizio di merito o se, una volta iniziato, si estingua. È per questo motivo che nei prossimi paragrafi l'esposizione del contenuto della norma in commento sarà diviso tra regime dei provvedimenti cautelari conservativi cui si applica strettamente il contenuto della norma e provvedimenti cautelari anticipatori che non soffrono del regime della inefficacia disciplinato dall'art. 669-novies c.p.c. Le ipotesi di inefficacia: mancato inizio del giudizio di merito.A norma dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'art. 669- octies , ovvero se, successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia. Date le modifiche normative apportate negli ultimi anni all'art. 669-octies c.p.c. e al regime di strumentalità, la disposizione in parola deve ritenersi applicabile ai soli provvedimenti cautelari conservativi concessi ante causam. È opportuno, rinviando per un commento più dettagliato alla norma di riferimento ossia all'art. 669-octies c.p.c., ricordare brevemente in questa sede il contenuto della riforma della strumentalità dei provvedimenti cautelari che ha inciso in vario modo sull'art. 669-octies c.p.c. e sul relativo regime. Infatti, la norma dell'art. 669-octies c.p.c. è stata oggetto di una importante riforma, effettuata con l. n. 80/2005 che ha aggiunto a quelli esistenti altri tre commi, con i quali è stata disciplinata, quanto alle misure cautelari concesse ante causam , la distinzione tra provvedimenti cautelari di carattere anticipatorio e provvedimenti cautelari di natura conservativa, riconoscendo soltanto ai primi un'autonomia rispetto al giudizio di merito. La distinzione tra provvedimenti cautelari conservativi e anticipatori origina da un'interpretazione dottrinale, secondo la quale i provvedimenti anticipatori sono quelli che anticipano in tutto o in parte il contenuto della decisione di merito a fronte di un pericolo di intempestività della tutela stessa, mentre i provvedimenti cautelari conservativi sono quelli che sono diretti a preservare, con diversi strumenti e metodi, una situazione di fatto al fine di evitare l'infruttuosità della tutela di merito. Come visto subart. 669-octies c.p.c. – al cui Commento si rinvia – la riforma effettuata con la citata l. n. 80/2005 era stata anticipata, rispetto al processo societario poi abrogato dall'art. 24 del d.lgs. n. 3/2005, ed essa ha inciso sulla strumentalità dei provvedimenti cautelari anticipatori, ove per strumentalità si deve far riferimento, sotto il profilo teorico, alla preordinazione del provvedimento cautelare all'emanazione di un provvedimento ulteriore di cui il primo, ossia il provvedimento cautelare, tende ad assicurare la fruttuosità, ovvero la tempestività, a seconda della natura. Mentre nel modello procedimentale delineato dagli artt. 669-bisss.. c.p.c. si era costruita una configurazione rigidamente strutturale del nesso di strumentalità, stabilendo sempre e comunque l'onere, per la parte che avesse richiesto e ottenuto un provvedimento cautelare ante causam, di instaurare il giudizio di merito entro un determinato termine, a pena di inefficacia dello stesso provvedimento, l'onere in parola è stato espunto, dall'attuale art. 669-octies, comma 6, c.p.c., per le sole misure cautelari anticipatorie. Per queste ultime, pur restando sempre possibile l'instaurazione del giudizio di merito su iniziativa della parte interessata, vale la regola per cui sono idonee a rimanere efficaci di per sé, indipendentemente da questa attivazione, così realizzando un risultato immediato di tutela dei diritti, sia pur sempre provvisorio e inidoneo ad acquisire gli effetti del giudicato sostanziale. Per queste misure vi è, di conseguenza – come già visto – un allentamento del nesso di strumentalità tra tutela cautelare e tutela di merito così come originariamente configurato dal legislatore. Il nesso rimane esistente ma in una prospettiva meramente funzionale, cioè diretta ad assicurare determinati diritti dal pregiudizio cui sono esposti nelle more del tempo necessario per la tutela giurisdizionale di essi, anche in mancanza di un collegamento con un successivo giudizio di merito o con un giudizio di merito già pendente. Secondo una parte della dottrina, l'impatto di questa riforma del 2005 sulle misure cautelari di natura anticipatoria è stato addirittura più dirompente perché ne avrebbe fatto venir meno la caratteristica della strumentalità, trasformandole in un modello generalizzato, rapido e sommario di tutela giurisdizionale dei diritti, del tutto alternativo rispetto al processo di cognizione ordinario, anche se non idoneo ad essere invocato in altri processi o ad acquisire la forza e l'efficacia del giudicato sui diritti tutelati. Ma a parere di altri interpreti la riforma avrebbe inciso anche sulla provvisorietà dei provvedimenti cautelari anticipatori che sarebbe ormai del tutto assimilabile a quella tipica dei provvedimenti di natura anticipatoria ma non cautelare finché risulta pendente il giudizio merito, perché questi provvedimenti sarebbero caratterizzati da una stabilità limitata che perdura sino all'eventuale revoca o sostituzione ad opera dell'eventuale pronuncia di merito. Nonostante le differenze nelle opinioni dei commentatori della riforma della strumentalità in relazione agli effetti che la stessa ha provocato sui caratteri dei provvedimenti cautelari per i quali trova applicazione, le ragioni alla base della riforma in questione sono evidentemente il segno di una volontà del legislatore diretta a diminuire il contenzioso giudiziario che giocoforza subisce una riduzione per effetto dell'allentamento del nesso di strumentalità in relazione ai provvedimenti cautelari anticipatori. Viene, peraltro, ottenuto anche un effetto di una più celere realizzazione degli interessi delle parti, indipendentemente da un accertamento dei diritti che sia riconducibile al giudicato sostanziale e ai suoi effetti. In ogni caso, quanto alle misure conservative, vale il principio giurisprudenziale (pronunciato con riferimento al testo originario delle due disposizioni normative) secondo cui alla stregua degli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., l'estinzione del giudizio di merito, così come il suo mancato tempestivo inizio, comportano automaticamente la perdita di efficacia del provvedimento cautelare emesso ante causam e la facoltà, per chi ne abbia ottenuto l'attuazione, di ottenere il ripristino della situazione precedente, salvi i casi di impossibilità materiale o giuridica; tuttavia, tale disciplina normativa non implica che il diritto a tutela del quale è stata disposta la misura cautelare ormai caducata non possa essere ulteriormente fatto valere in un successivo giudizio di merito a cognizione piena (Cass. II, n. 15349/2010). Si è, inoltre, precisato che la declaratoria di inefficacia sopravvenutaex art. 669- noviesc.p.c. va adottata all'esito di un giudizio di cognizione che si svolge nelle ordinarie forme contenziose, dall'ufficio di appartenenza del giudice che ha emesso il provvedimento, nell'ordinaria composizione monocratica, non essendo necessaria la designazione di un magistrato diverso da quello che ha emesso il provvedimento, trattandosi di giudizio diretto ad accertare la persistente attualità ed efficacia del provvedimento adottato, ai fini dell'eventuale pronuncia di ulteriori provvedimenti necessari al ripristino della situazione quo ante, all'esito di valutazione di mere vicende processuali sopravvenute e non già di una revisio prioris instantiae (Cass. II, n. 17866/2005). Sotto il profilo dei provvedimenti ripristinatori, la Corte di Cassazione ha evidenziato che, a seguito della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, l'esecuzione dei detti provvedimenti ripristinatori o restitutori va svolta nelle forme ordinarie del processo esecutivo, sia perché l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., stabilisce in modo esplicito che il giudice provvede al riguardo con ordinanza o sentenza esecutiva, sia perché alla fattispecie non è applicabile la sola disciplina dell'art. 669-duodecies c.p.c. che, attribuendo al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare, il controllo della sola attuazione delle misure relative ad obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, e stabilendo che ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito, non attiene alla rimozione degli effetti della misura divenuta inefficace (Cass. III, n. 712/2006). In ogni caso, laddove il provvedimento cautelare perda efficacia e la sua esecuzione abbia determinato la modificazione di una situazione, alla dichiarazione di inefficacia può accompagnarsi l'adozione delle disposizioni necessarie per il ripristino della situazione precedente, soltanto se esso non trovi ostacoli di natura materiale o giuridica, e, quindi, ove si tratti del ripristino di un contratto, soltanto se, al momento in cui il provvedimento di ripristino deve essere emesso, non sia ancora decorso il periodo di potenziale durata del rapporto originario (Cass. III, n. 9054/2002). In sede di giurisprudenza di merito, si è affermato che, poiché l'inefficacia del provvedimento cautelare determinata dalla mancata instaurazione del procedimento di merito nel termine perentorio previsto dall'art. 669-octies c.p.c. può derivare solo come epilogo di un procedimento appositamente instaurato, destinato a sfociare, a seconda delle circostanze, in un'ordinanza contenente le disposizioni ripristinatorie della situazione pregressa, ovvero, in caso di contestazioni, in un vero e proprio giudizio contenzioso da definire con sentenza, con la conseguenza che, qualora il processo instaurato ex art. 669-octies c.p.c. sia dichiarato interrotto e non venga riassunto, il provvedimento cautelare rimane efficace (Trib. Napoli 2 marzo 2008). Mancato inizio del giudizio di merito nel caso di provvedimento di accoglimento di natura anticipatoria. Ai sensi dell'art. 669- octies , comma 6, c.p.c., le disposizioni dettate dai commi precedenti della norma nonché dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. non trovano applicazione con riguardo ai provvedimenti di urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito nonché ai provvedimenti emanati a seguito di denuncia di nuova opera e di danno temuto, ferma restando in capo a ciascuna parte la facoltà di iniziare il giudizio di merito. Il primo fondamentale problema interpretativo che si pone, e che incide direttamente sull'ambito applicativo del regime della c.d. strumentalità attenuata, è quello della individuazione della nozione di «provvedimento anticipatorio». Secondo una teoria più restrittiva, avrebbero carattere anticipatorio soltanto i provvedimenti che producono subito effetti almeno parzialmente uguali a quelli che deriverebbero dalla pronuncia di accoglimento della relativa azione di merito. Secondo altri, invece, corrisponderebbe meglio alla ratio deflattiva del contenzioso giudiziario che ha ispirato la riforma, ritenere anticipatori anche quei provvedimenti che, pur non avendo un contenuto almeno in parte identico o simile a quello che potrebbe avere la pronuncia di accoglimento della domanda di merito, consentano di ottenere un risultato pratico equivalente a quello conseguibile con la sentenza. Si è da altri evidenziato, in una prospettiva estensiva, che a tal fine non avrebbe senso confrontare gli effetti del provvedimento cautelare con l'efficacia di accertamento propria della decisione di merito, in quanto il primo non ha la funzione di andare a determinare in modo vincolante una regola di condotta ma soltanto di realizzare una situazione di fatto idonea a tutelare la parte beneficiaria della misura nell'attesa della eventuale tutela di merito. Sulla base di una tale premessa, si è sottolineato che il risultato concreto che si vuole ottenere richiedendo la misura cautelare può, in mancanza di un adempimento spontaneo della controparte, essere prodotto attraverso la tutela esecutiva di cui all'art. 669duodeciesc.p.c., sicché, onde verificare se una misura cautelare ha natura anticipatoria, va piuttosto effettuato un confronto tra la situazione determinatasi a seguito dell'attuazione del provvedimento cautelare e quella che deriverebbe dall'esecuzione forzata della decisione di merito. Sotto il profilo pratico, alla stregua di quanto dimostrato anche da alcuni orientamenti già emersi in sede giurisprudenziale nella vigenza dell'art. 24 del d.lgs. n. 5/2003, sul processo societario, significative possono essere le conseguenze dell'adesione all'indirizzo più restrittivo ovvero a quello maggiormente estensivo in ordine al novero dei provvedimenti cautelari di natura anticipatoria. Si è giustamente rilevato come sia emblematica a riguardo la disputa sorta in ordine alla natura dell'istanza cautelare di revoca degli amministratori delle s.r.l. proposta ai sensi dell'art. 2476, comma 3, c.c. che, per i fautori di una nozione ampia di misura cautelare anticipatoria, è volta ad ottenere un provvedimento di tale natura rispetto alla pronuncia di accoglimento dell'azione sociale di responsabilità in quanto strumentale all'assicurazione del risultato pratico della stessa poiché evita che la permanenza in carica dell'amministratore nel corso del giudizio nel quale si controverte della sua responsabilità determini ulteriori danni patrimoniali in capo alla società a causa delle irregolarità nella gestione. Tra i fautori di una ricostruzione ampia della nozione di provvedimento anticipatorio si è affermato che anche il sequestro giudiziario di beni, misura cautelare di regola di carattere conservativo, potrebbe essere considerata di natura anticipatoria laddove anticipi per la parte beneficiaria il risultato pratico che deriverebbe da una conclusione positiva per la stessa del giudizio di merito, ad esempio attribuendole la custodia delle azioni sequestrate e così l'anelato diritto di voto in un'importante assemblea della società. Con decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149 il Governo, in attuazione della legge delega n. 206/2021, ha provveduto a varare la riforma del processo civile. Con tale riforma sono state modificate alcune norme della disciplina dei provvedimenti cautelari e, in particolare, adesso l'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. prevede che le disposizioni della norma e dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., non si applicano oltrechè ai provvedimenti d'urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, e ai provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o danno temuto, anche “ai provvedimenti di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari adottati, ai sensi dell'articolo 1137, quarto comma, del codice civile”, sicché ciascuna delle parti può iniziare il giudizio di merito. Il penultimo comma dell'art. 669-octies c.p.c., nella nuova formulazione, prevede, conseguentemente, che l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia dei provvedimenti di cui al sesto comma, “né dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni o società”, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa. Conformemente alle previsioni della legge delega viene modificato anche l'art. 1137 c.c. con l'eliminazione dell'inciso contenuto nell'ultima parte dell'ultimo comma che prevedeva l'esclusione dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. Per quanto riguarda le connesse modifiche alla disciplina dell'inefficacia dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni di associazioni, fondazioni, società o condominio, contenute nel già ricordato penultimo comma dell'art. 669-octies c.p.c. bisogna dire che secondo quanto riportato nella Relazione illustrativa, la modifica in commento rappresenta la logica attuazione di un criterio che consenta di conferire stabilità al provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni, società, ovvero condominio, prevedendosi, appunto, che esso non perda efficacia in caso di estinzione del giudizio, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa e che i provvedimenti di sospensione delle deliberazioni dell'assemblea condominiale non perdano, appunto, efficacia in mancanza di instaurazione del giudizio di merito. Attualmente, ai provvedimenti cautelari con cui il giudice sospende l'esecuzione delle deliberazioni assunte dagli organi di società, art. 2378, comma 4, c.c. o di associazioni, art. 23, ultimo comma, c.c., non è attribuita efficacia anticipatoria della sentenza di merito, con la conseguenza che essi perdono efficacia laddove il giudizio di merito, in funzione del quale essi sono necessariamente proposti, si estingua. L'intervento di riforma, pertanto, ha uno scopo deflattivo del contenzioso; ciò perché spesso l'attore, dopo aver ottenuto nell'ambito del giudizio di merito il provvedimento cautelare con il quale viene disposta la sospensione dell'esecuzione della deliberazione, non ha realmente interesse ad ottenere la decisione di merito, se non quello di garantire che gli effetti – sicuramente anticipatori – del provvedimento cautelare ottenuto, siano stabilizzati dalla pronuncia di merito idonea, questa sì, al passaggio in giudicato. Il legislatore della riforma, quindi, con l'intervento in questione intende coordinare il regime dell'efficacia di questi provvedimenti cautelari equiparandolo a quello previsto dall'art. 669-octies c.p.c. per le misure cautelari «anticipatorie» che – come già visto supra – non necessitano di un collegamento strumentale «forte» con il giudizio di merito (e che, pertanto, rimangono in vita ove il processo si estingua e non richiedono, ove ottenute ante causam, la necessaria instaurazione entro i termini previsti dalla legge o dal giudice del giudizio di merito ad esse collegato). Per quanto riguarda, poi, i provvedimenti di sospensione dell'esecuzione delle delibere condominiali, la delega – come detto – prevede che la legge di attuazione stabilisca che essi non perdono efficacia in caso di estinzione del giudizio anche laddove la relativa domanda sia stata proposta in corso di causa e che i provvedimenti cautelari di sospensione delle deliberazioni dell'assemblea ex art. 1137 c.c. non perdono efficacia laddove non sia successivamente instaurato il giudizio di merito. L'obiettivo della legge delega rispetto alla previsione in commento è senz'altro quello di garantire una maggiore semplificazione e celerità del procedimento oltreché una deflazione del contenzioso derivante dalla materia condominiale. In sostanza, il condomino che dissenta rispetto alla deliberazione assembleare e che la abbia conseguentemente impugnata ottenendo in sede giudiziale un provvedimento di sospensione dell'efficacia della stessa, potrà usufruire della novella «strumentalità attenuata» del provvedimento in questione che continuerà a spiegare i suoi effetti e a mantenere la sua efficacia anche se il giudizio si estingua, pur se chiesta e ottenuta in corso di causa; ovvero laddove il condomino scelga di chiedere il provvedimento cautelare e ottenere l'istanza di sospensione della delibera prima di instaurare il giudizio di merito, non dovrà successivamente instaurarlo a pena di inefficacia della misura cautelare. Ovviamente, il provvedimento di sospensione può comunque essere oggetto di impugnazione tramite reclamo cautelare e, in base alle regole generali, il giudizio di merito può essere instaurato senz'altro ad opera di altri condomini e del condominio. Ma, comunque, ottenuta la sospensione dell'efficacia esecutiva della delibera il condominio avrà la scelta tra astenersi del tutto dall'eseguirla laddove non intenda proseguire per il merito, ovvero adottare una nuova delibera non viziata. La logica posta alla base della riforma in questione è evidente; il legislatore intende garantire che sia impedita l'esecuzione della delibera assembleare condominiale illegittima. Una volta ottenuto il provvedimento di sospensione sono, alla stregua di quanto accade per tutti i provvedimenti cautelari anticipatori, garantiti gli effetti provvisori del provvedimento e, pertanto, la delibera non può essere eseguita senza necessità che venga instaurato successivamente il giudizio di merito. Secondo le regole generali, il provvedimento di sospensione rimarrà provvisoriamente in vita senza necessità di una rigida strumentalità «forte» e, pertanto, senza necessità che per il mantenimento della sua efficacia sia necessario instaurare il giudizio di merito nei termini previsti dalla legge o dal giudice a pena di inefficacia. È dominante in dottrina la tesi per la quale nessun potere di qualificazione in ordine alla natura anticipatoria o conservativa del provvedimento emanato ante causam spetta al giudice della cautela, poiché la stessa dipende direttamente dalla legge, con la conseguenza che nessuna rilevanza spiegherà per la parte beneficiaria l'eventuale fissazione del termine per l'inizio del giudizio di merito a fronte della concessione di un provvedimento anticipatorio, in quanto prevarrà in ogni caso il regime legislativo previsto per le misure a strumentala attenuata. Nella situazione speculare, in cui il giudice abbia omesso di fissare il termine per l'instaurazione del giudizio di merito pur avendo concesso una misura anticipatoria, parimenti troverà applicazione la previsione dell'art. 669-octies, comma 2, c.p.c.Il giudice deputato a stabilire se un provvedimento cautelare è anticipatorio o conservativo sarà, piuttosto, quello eventualmente investito della declaratoria di inefficacia dello stesso all'interno del procedimento ex art. 669-novies c.p.c. Secondo la dottrina dominante, il giudice della cautela non avrebbe alcun potere di qualificare il provvedimento dato che la natura dello stesso dipende direttamente dalla legge e, ragionando diversamente, ossia consentendo al giudice della cautela di stabilire quale sia l'efficacia del provvedimento si verificherebbe una violazione del principio della riserva di legge (Olivieri 2005, 3). Non ha rilevanza, pertanto, per colui che ha chiesto e ottenuto il provvedimento cautelare il fatto che il giudice abbia fissato il termine per iniziare il giudizio di merito laddove il provvedimento concesso sia di natura anticipatoria atteso che per questo provvedimento il regime è quello della strumentalità attenuata e che, pertanto, deve prevalere il regime previsto per legge rispetto all'erronea indicazione del termine da parte del giudice della cautela (Luiso, Sassani 2006, 223; Saletti 2006, 31; Dalmotto 2006, 1260). L'insussistenza dell'onere di instaurazione del giudizio di merito entro un termine perentorio a fronte della concessione di una misura cautelare di natura anticipatoria lascia in ogni caso aperta la possibilità per la parte interessata di dare inizio allo stesso. Nessun termine è a tal fine espressamente previsto dalla norma in esame, ma si è esattamente osservato che, di fatto, l'instaurazione della causa di merito può essere impedita dall'operare dei c.d. stabilizzatori di diritto sostanziale, posto che, ad esempio, nell'ipotesi di concessione di un provvedimento cautelare anticipatorio la sospensione del termine di prescrizioneexart. 2945, comma 2, c.c. opera soltanto sino alla conclusione del procedimento cautelare. Non è necessario, di conseguenza, proporre reclamo sul punto per impedire che, anche laddove l'instaurazione del giudizio di merito sia necessaria in base alla legge, e contro l'opinione espressa dal giudice della cautela, il provvedimento assunto si traduca in una sostanziale autorizzazione alla non instaurazione del giudizio in questione. Ciò perché l'art. 669-octies, comma 2, c.p.c. prevede che, laddove il giudice non abbia fissato il termine per l'inizio del giudizio di merito, questo debba comunque essere instaurato entro sessanta giorni. La norma, quindi, nel fissare in via sussidiaria un termine, nel caso che non sia stato fissato dal giudice, non distingue se tale termine serva nell'ipotesi in cui l'omissione dipende dalla dimenticanza del giudice ovvero da un provvedimento negativo motivato sul punto. Pertanto, il termine sussidiario previsto dall'art. 669-octies, comma 2, c.p.c. opera sia che si verifichi una mera omissione del giudice, sia che il giudice abbia erroneamente qualificato il provvedimento e ritenuto non operante il termine. La giurisprudenza sul principio da ultimo affermato è costante nel senso appena esposto. Infatti, si rileva che, al fine dell'individuazione del mezzo di impugnazione contro la decisione pronunciata in sede di contestazione inerente al procedimento esecutivo, assume rilievo decisivo la qualificazione espressa o implicita data dal giudice del merito al rapporto controverso, con la conseguenza che è esperibile l'appello ove l'azione sia stata qualificata come opposizione all'esecuzione indipendentemente dalla esattezza dell'inquadramento effettuato (Cass. III, n. 8103/2007; Cass. III, n. 11764/2006). La soluzione in questione che, a rigore di logica, appare non esatta perché dovrebbe essere rilevante sempre la corretta qualificazione del provvedimento e non, in base all'apparenza, la qualificazione erronea che ne ha dato il giudice del merito, è tuttavia condivisibile perché risponde alla necessità di garantire la certezza. Nel vigore dell'attuale disciplina, si ricorda comunque come la giurisprudenza di merito abbia più volte affermato che il procedimento, anche a seguito di contestazione dell'altra parte, può seguire le forme camerali più veloci. Si è sostenuto, infatti, che il procedimento promosso per la declaratoria di inefficacia di misura cautelare, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., in caso di contestazione della parte resistente, viene definito nelle forme della camera di consiglio, senza necessità di restituzione del fascicolo al capo dell'ufficio e deve essere deciso con sentenza dal collegio (Trib. Trani 4 luglio 2000). Nello stesso senso, si è statuito che, ove tra le parti vi sia contestazione sull'inefficacia della misura cautelare concessa ante causam, il relativo giudizio deve svolgersi nelle forme della camera di consiglio e spetta al collegio la competenza a decidere la controversia (Trib. Piacenza 5 settembre 1995). Con la conseguenza che la sentenza in questione può essere impugnata con i mezzi di impugnazione ordinari per il grado di giudizio e non già tramite reclamo cautelare. In questo senso, nella giurisprudenza di merito, si è statuito che, presentato ricorso ex art. 669-novies c.p.c. per ottenere la declaratoria di inefficacia di un provvedimento cautelare ed in presenza di contestazioni da parte del resistente, qualora il giudice investito del ricorso pronunci erroneamente un'ordinanza e non, come avrebbe dovuto, una sentenza, tale provvedimento, ad onta della sua forma di ordinanza, ha nondimeno natura di sentenza in senso sostanziale ed esso deve, di conseguenza, ritenersi soggetto ad appello, come la sentenza di cui tiene luogo, mentre il reclamo proposto dalla parte soccombente deve ritenersi inammissibile (Trib. Monza 15 luglio 1999). È, peraltro, discussa in dottrina la natura dell'azione di merito eventualmente instaurata dalla parte interessata, ed in specie da quella soccombente nel procedimento cautelare, a seguito della concessione della misura cautelare a strumentalità attenuata. La risoluzione di questo problema è molto importante da un punto di vista pratico, in quanto dalla stessa derivano conseguenze importanti in ordine al riparto dell'onere della prova nel giudizio instaurato con la proposizione della medesima. Secondo alcuni, infatti, la domanda proposta dalla parte soccombente in sede cautelare costituirebbe una domanda di accertamento negativo, con la conseguenza che ricadrebbe sull'attore l'onere di dimostrare l'inesistenza, modificazione o estinzione dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere dalla parte beneficiaria della misura cautelare. Per altri la domanda di merito proposta da colui contro il quale è emanato il provvedimento cautelare sarebbe invece una provocatio ad probandum a seguito della proposizione della quale si realizzerebbe una situazione analoga a quella che si ha con la proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo, nella quale in tema di onere della prova sussiste una formale inversione dei ruoli delle parti, con la conseguenza che a tal fine, ad esempio, l'opponente è sostanzialmente equiparabile al convenuto. Ai sensi dell'art. 669-octies, comma 7, c.p.c.l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia delle stesse, anche qualora siano state emanate in corso di causa. Nel silenzio del legislatore, che si è limitato a chiarire che l'estinzione del giudizio di merito eventualmente instaurato non determina l'inefficacia della misura cautelare c.d. a strumentalità attenuata, si è posto il problema dell'estensione di una tale regola anche alle altre ipotesi di chiusura in rito della causa di merito instaurata a seguito della concessione del provvedimento anticipatorio. L'orientamento prevalente è nel senso della necessità di verificare, a tal fine, se il motivo della chiusura in rito è specifico del processo di merito o è comune anche a quello cautelare, concernendo i presupposti processuali dello stesso: in quest'ultimo caso gli effetti della misura cautelare emanata ante causam non potranno sopravvivere alla pronuncia di rito conclusiva del giudizio di merito. Secondo una diversa posizione, tuttavia, pure autorevolmente affermata in dottrina, la misura cautelare anticipatoria sarebbe in ogni caso insensibile alla sentenza che decide in rito la causa di merito eventualmente instaurata, salva la possibilità per la parte interessata di dedurre il vizio di rito che avrebbe potuto incidere sulla concessione della stessa in sede di istanza di revoca o modifica ex art. 669-decies. L'art. 669-octies, comma 5, si inserisce all'interno di una norma che presuppone l'accoglimento della misura cautelare. Desso espressamente esclude l'applicabilità dell'art. 669-novies c.p.c. innovando il sistema previgente al fine di rendere stabile, ancorché ovviamente inidonea al giudicato, la misura cautelare di tipo anticipatorio se e fino a che essa non venga sostituita da una sentenza del medesimo o di diverso segno, affrancando, così l'efficacia della cautela dalla successiva verifica in sede di cognizione che resta necessitata per le sole misure cautelari non anticipatorie. (Cass. II, n. 18535/2022). Mancato inizio del giudizio di merito nel caso di provvedimento di accoglimento di natura conservativa. Per i provvedimenti cautelari di natura conservativa pronunciati ante causam, l'art. 669-octies, comma 1, c.p.c.continua a sancire l'onere per la parte interessata di instaurare il giudizio di merito entro un determinato termine, peraltro elevato dal legislatore della riforma del 2005 da trenta a sessanta giorni. Una tale riforma è stata accolta favorevolmente dalla dottrina, che aveva evidenziato l'eccessiva esiguità del precedente termine di trenta giorni che poteva anche essere ulteriormente ridotto dal giudice, così costringendo la parte interessata ad instaurare precipitosamente il giudizio di merito. Sarebbe stato più opportuno prevedere, tuttavia, anche l'obbligo per il giudice di rispettare un termine minimo nonché un coordinamento con l'esito dell'eventuale reclamo proposto con l'inizio del giudizio di merito. Il mancato inizio rappresenta la fattispecie più semplice tra quelle disciplinate dalla norma. Oltre a porsi la questione per le sole misure cautelari conservative, si configura l'ipotesi del mancato inizio del giudizio di merito, con conseguente dichiarazione di inefficacia della misura cautelare sia laddove la parte interessata ometta puramente e semplicemente di instaurare il giudizio proponendo la relativa domanda, sia laddove la parte proponga tardivamente la domanda di merito, cioè superando il termine di sessanta giorni posto dall'art. 669-octies c.p.c. o il diverso termine fissato dal giudice nel provvedimento che comunque non può essere superiore a sessanta giorni. Ad ogni buon conto, si è precisato che l'inefficacia del provvedimento cautelare ante causam non anticipatorio, verificatasi in conseguenza del mancato inizio del giudizio di merito entro il termine perentorio di cui all'art. 669-octies, comma 2, c.p.c., non determina alcuna conseguenza processuale sul giudizio di merito comunque intrapreso che, dunque, prosegue naturalmente senza maturazione di decadenze di sorta (Cass. I, n. 8513/2024). Che cosa accade se il giudice erroneamente fissa un termine superiore a sessanta giorni per l'instaurazione del giudizio di merito? In dottrina, si è opinato che sia meglio escludere la sanzione della inefficacia del provvedimento cautelare, considerando, peraltro, che la competenza per la relativa dichiarazione spetterebbe, a norma dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento di cui si discute; sarebbe più opportuno ritenere che si tratti di un errore processuale da far valere con lo strumento del reclamo cautelare. Laddove tale reclamo non venga proposto il vizio non potrà più essere oggetto di censura e il giudizio di merito si considererà tempestivamente instaurato (Merlin 2015, 428). Sembra questa anche la soluzione sposata dalla giurisprudenza di merito in una fattispecie del genere. Si è, infatti, stabilito che il giudice che ha pronunciato ante causam il provvedimento cautelare fissando un termine superiore a trenta giorni (nel vigore della precedente previsione della norma dell'art. 669-octies c.p.c.) per l'inizio del giudizio di merito, è competente a dichiarare l'inefficacia, non potendo questa, in mancanza di tempestivo reclamo, essere dichiarata dal giudice del merito innanzi al quale il giudizio sia stato instaurato nel termine erroneamente fissato nel provvedimento (Pret. Bari 5 agosto 1994). Per quanto riguarda l'individuazione del momento in cui il giudizio di merito può dirsi instaurato, valgono al riguardo le regole generali dettate in tema di litispendenza e, pertanto, per poter ritenere pendente il giudizio è necessaria la notifica dell'atto di citazione alla controparte rispetto al processo ordinario di cognizione o, nel caso in cui la competenza per il giudizio di merito spetti al giudice del lavoro, il processo si può ritenere pendente al momento del deposito del ricorso nella cancelleria del giudice stesso. Se, quindi, il riferimento pacifico per considerare la lite pendente nel processo civile interno è la norma dell'art. 39, ultimo comma, c.p.c., per quanto riguarda il giudizio di merito di competenza di un giudice straniero o di arbitri il discorso va modificato. Infatti, con riferimento al giudice straniero sarà necessario verificare in quale momento si determini la pendenza della lite nel diritto processuale estero, mentre per l'arbitrato – con riserva di ulteriori approfondimenti nel prosieguo – può ricordarsi come la l. n. 25/1994 abbia stabilito che la parte, laddove la controversia sia oggetto di compromesso o clausola compromissoria, deve notificare all'altra parte un atto in cui dichiara la propria intenzione di promuovere il giudizio arbitrale, così proponendo la domanda e procedendo alla nomina degli arbitri. Ai fini dell'instaurazione del giudizio di merito devoluto ad arbitri, perché si possa considerare rispettato il termine perentorio previsto dalla norma dell'art. 669-octies c.p.c. è necessaria la notifica tempestiva della domanda arbitrale. Ai sensi dell'art. 669-octies, comma 3, c.p.c., il termine per l'instaurazione del giudizio di merito decorre dalla pronuncia in udienza del provvedimento cautelare o dalla successiva comunicazione dello stesso. Si è, tuttavia, discussa anche l'idoneità di atti equipollenti alla comunicazione ex art. 136 c.p.c.; in proposito si riscontrano due diversi orientamenti, l'uno restrittivo e l'altro, invece favorevole a riconoscere l'equipollenza di altre forme rispetto alla comunicazione ex art. 136 c.p.c. per far decorrere il termine in questione. La dottrina ha precisato che occorre valutare se nella fattispecie concreta vi sia un atto equipollente alla comunicazione ex art. 136 c.p.c., ossia idoneo a raggiungere la legale conoscenza del provvedimento per le parti del procedimento e, conseguentemente idoneo a far decorrere il termine per l'instaurazione del giudizio di merito. Per verificare il rispetto del termine previsto dall'art. 669-octies, comma 1, c.p.c. per l'instaurazione del processo di merito, bisogna controllare se lo stesso è soggetto o meno alla sospensione feriale dei termini processuali. In giurisprudenza, si è precisato che il termine per l'inizio del giudizio di merito dopo la concessione del provvedimento cautelare decorre dalla comunicazione di cancelleria dell'avvenuto deposito del provvedimento cautelare, non rilevando l'eventuale conoscenza in fatto del provvedimento stesso e, inoltre, trattandosi di giudizio ordinario, il suddetto termine è soggetto alla sospensione feriale (Trib. Napoli 4 luglio 2001); nello stesso senso, si è puntualizzato che il termine per l'instaurazione del giudizio di merito seguente all'emissione di provvedimento cautelare è soggetto alla sospensione feriale dei termini processuali, essendo negata questa sospensione solo alla fase cautelare e non anche al conseguente giudizio di merito (Trib. Roma 24 luglio 1998). Ancora prima si era detto che il termine stabilito dal giudice per l'instaurazione del giudizio di merito in ipotesi di concessione ante causam del provvedimento cautelare, è soggetto a sospensione nel periodo feriale: nella fattispecie venne dichiarata l'inefficacia del provvedimento rilasciato ante causam nella parte in cui il ricorrente aveva provveduto alla notifica dell'atto di citazione introduttivo del relativo giudizio di merito oltre la scadenza del termine in questione prorogato in misura corrispondente al periodo di sospensione feriale (Pret. Torino 22 dicembre 1993). È indifferente che a promuovere il giudizio di merito sia la parte vittoriosa ovvero quella soccombente in sede cautelare, non prevedendo l'ordinamento un onere specifico di instaurazione del processo di merito a carico della parte risultata vittoriosa. Tuttavia, secondo gli interpreti, non è sufficiente una domanda di accertamento negativo del diritto alla cui tutela è diretta la misura cautelare ottenuta. Nell'ipotesi in cui venga proposta, per l'appunto, una domanda di mero accertamento negativo del diritto per poter conservare l'efficacia del provvedimento cautelare, si ipotizza per il beneficiario la possibilità di proporre domanda riconvenzionale anche dopo la scadenza del termine perentorio per l'instaurazione del giudizio di merito (Verde, Di Nanni, 263). Un'ulteriore questione concerne l'eventuale inefficacia della misura cautelare rispetto alla quale il successivo processo di merito sia stato sì tempestivamente iniziato, ma la domanda di merito non sia coincidente con quella avanzata in sede di domanda del provvedimento cautelare. La risposta potrebbe essere quella dell'inefficacia della misura cautelare ovvero la revoca ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. La giurisprudenza ha generalmente sposato la tesi dell'inefficacia. Si è affermato, infatti, che perde efficacia il provvedimento cautelare emesso ex art. 700 c.p.c. (trattavasi ovviamente di fattispecie anteriore alla attenuazione della strumentalità per i provvedimenti cautelari anticipatori) diretto ad ottenere la consegna di documentazione necessaria a fini probatori nell'azione ex art. 67, comma 2, della l.fall., ove non si instauri il giudizio di merito necessario ad ottenere la condanna alla consegna di detti documenti ma si proceda, invece, con l'azione revocatoria fallimentare: quest'ultima è azione costitutiva, mentre la domanda diretta a ottenere la consegna dei documenti è azione di condanna. Si tratta, quindi, di un giudizio diverso da quello di cui all'art. 669-novies c.p.c. e, soprattutto, non legato da alcun rapporto di strumentalità in senso tecnico rispetto all'azione cautelare esercitata (Trib. Milano 15 novembre 2007). Per una fattispecie similare sempre conclusasi con dichiarazione di inefficacia, si può confrontare una pronuncia che ha affermato che l'ipotesi di domanda di merito diversa da quella azionata in sede cautelare, che determina l'inefficacia del provvedimento cautelare per il venir meno del rapporto di strumentalità, è da equipararsi all'ipotesi in cui la domanda di merito, originariamente non diversa da quella indicata nel ricorso introduttivo, sia divenuta tale in corso di causa (Trib. Biella 8 marzo 1996). In dottrina, vi sono opinioni discordanti. Si è sostenuto che sarebbe applicabile, appunto, la revoca ex art. 669-decies c.p.c. tutte le volte in cui si verifica una modificazione della domanda proposta in sede di giudizio di merito rispetto a quella prospettata in sede di istanza per il provvedimento cautelare (Olivieri 1991, 701). Si è ritenuto che, invece, dovrebbe questa diversità comportare l'automatica caducazione del provvedimento cautelare se per tale diversità viene del tutto meno la strumentalità e di conseguenza il nesso funzionale tra il provvedimento concesso in sede cautelare e la futura pronuncia di merito (Merlin 2015, 429). Si è, però, evidenziato come vi siano casi non facilmente inquadrabili all'interno della semplice diversità tra domanda cautelare e domanda di merito. Rientrano in questa ipotesi tutti i casi in cui tra la domanda cautelare e la domanda di merito vi sia una diversità ma non tale da interrompere del tutto ma soltanto parzialmente il nesso di strumentalità. In tali casi, le soluzioni sono disparate perché si potrebbe ipotizzare comunque una caducazione del provvedimento cautelare per essere lo stesso diverso, pur se parzialmente, dalla domanda di merito, ovvero ipotizzare una sua riduzione di efficacia nei limiti della proposta domanda di merito. Parte della dottrina propone soluzioni non rigide ma adattabili al caso concreto, senza dover predicare in ogni caso una caducazione totale del provvedimento cautelare (in tal senso, v. Recchioni 2005, 621; Carratta 2013, 293). Si è, ad esempio, rilevato che, se la domanda di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale sia a livello sostanziale diversa dalla domanda di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale, non sembra che il passaggio dall'una all'altra domanda debba necessaria comportare il venir meno del provvedimento cautelare che è stato chiesto in funzione della domanda di risarcimento (Merlin 2015, 430). Altro problema riguarda l'ipotesi in cui la domanda di merito sia proposta non già dal richiedente il provvedimento cautelare bensì dal destinatario che, ovviamente, proporrà una domanda di accertamento negativo del diritto vantato dal richiedente. Sembra di dover aderire alla tesi che richiede, ai fini del mantenimento dell'efficacia del provvedimento cautelare, che il ricorrente in sede cautelare si attivi comunque o instaurando un nuovo giudizio di merito diretto a far valere la stessa domanda proposta in sede sommaria, o proponendo domanda riconvenzionale nel giudizio instaurato dal destinatario della misura, pena l'inefficacia del provvedimento cautelare concesso. La dottrina si è espressa nel senso della necessità di instaurare un autonomo giudizio o di proporre domanda riconvenzionale (Merlin 2015, 430; v. anche Guaglione, 176, sull'inquadramento dell'azione del destinatario nella azione di accertamento negativo). Si è, altresì, precisato che se il beneficiario della misura opta per la soluzione di proporre domanda riconvenzionale nel giudizio instaurato dal destinatario della misura, potrà godere del termine di decadenza della domanda riconvenzionale che potrà essere più lungo di quello previsto dall'art. 669-octies c.p.c. per la strumentalità (Verde, Di Nanni, 263; contra, Carratta 2013, 295). Resta da riferire di un'ipotesi di mancato inizio del giudizio di merito non contemplata dall'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. e evidenziata dalla dottrina (Merlin 2015, 431). L'ipotesi è quella che il richiedente il provvedimento cautelare rimanga inerte non già nella fase «finale» del procedimento cautelare, quella diretta all'instaurazione del successivo giudizio di merito ma, piuttosto, nella fase procedimentale, che va dalla pronuncia del decreto inaudita altera parte ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c. e l'udienza che il giudice deve fissare per l'attivazione del contraddittorio tra le parti. È opportuno ricordare brevemente l'ipotesi, rinviando poi al commento subart. 669-sexies c.p.c. per i dovuti approfondimenti della fase procedimentale del rito cautelare uniforme. Basti, quindi, segnalare che a norma del già ricordato art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento, il giudice provvede – invece che con ordinanza all'esito del contraddittorio – con decreto motivato, assunte, ove occorra sommarie informazioni. In questo caso, deve però garantire la successiva instaurazione del contraddittorio e, a tal fine, deve, come già anticipato, fissare con lo stesso decreto l'udienza di comparizione delle parti innanzi a sé in un termine non superiore a quindici giorni, dando, contemporaneamente, all'istante, un termine perentorio non superiore ad otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto. La norma è sufficientemente chiara nel richiedere presupposti specifici per l'attivazione del procedimento e della decisione inaudita altera parte. Si tratta di un procedimento eccezionale, da seguire solo laddove siano integrati gli elementi specificamente previsti dalla disposizione normativa. In particolare, lo specifico presupposto richiesto dalla norma per procedere senza contraddittorio (contraddittorio che va comunque ripristinato il prima possibile) è il pericolo che la convocazione della controparte possa costituire un pregiudizio per l'attuazione del provvedimento cautelare. Orbene, nell'ipotesi in cui il destinatario della misura cautelare non provveda, entro il termine perentorio di otto giorni, o nel termine tre volte superiore concesso ove la notifica debba essere eseguita all'estero, a notificare il ricorso e il decreto, ci si domanda se ciò comporti una ulteriore ipotesi di inefficacia pur se non prevista espressamente dall'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. La soluzione preferibile sembra proprio quella positiva, trattandosi sia di un'attività che il destinatario della misura deve compiere in un termine perentorio superato il quale non v'è ragione di ritenere che il decreto inaudita altera parte possa mantenere la sua efficacia. La mancata notifica del decreto cautelare emesso inaudita altera parte ex art. 669 -sexies, comma 2, c.p.c., comporta l'inefficacia della cautela, che può essere dichiarata anche d'ufficio, senza la possibilità di concedere un termine per la rinnovazione della notifica stessa (Trib. Napoli 20 febbraio 2001). Nello stesso senso, si è precisato che la perentorietà del termine che, in caso di concessione di una misura cautelare inaudita altera parte, deve essere assegnato all'istante, ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c. per la notificazione del ricorso e del decreto, impone di ritenere che la sua inosservanza provochi l'inefficacia del concesso provvedimento (Trib. Verona 21 settembre 1993). La stessa soluzione è stata predicata nel caso di mancato rispetto del termine perentorio per la notifica del decreto emanato inaudita altera parte, ma si è precisato che il provvedimento cautelare in tal caso va revocato e non dichiarato inefficace con il subprocedimento di cui all'art. 669-novies c.p.c. (Trib. Torino 21 aprile 1994). Il provvedimento cautelare emanato con decreto inaudita altera parte è stato dichiarato inefficace in giurisprudenza anche in una ipotesi in cui il giudice adìto ha concesso un termine per la notifica superiore a otto giorni, affermando altresì che in tale ipotesi il provvedimento non è soggetto a reclamo ma solo alla speciale procedura ex art. 669-novies, comma 2, c.p.c. (Trib. Roma 29 novembre 2002). Mancato inizio del giudizio di merito estero o del procedimento straniero. Ai sensi dell'art. 669-octies, comma 1, ultima parte, c.p.c., l'ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell'inizio della causa di merito, deve fissare un termine perentorio, non superiore a sessanta giorni per l'inizio del giudizio di merito «salva l'applicazione dell'ultimo comma dell'articolo 669-novies». Il richiamo è, pertanto, alla disposizione della norma in commento, secondo cui se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad un arbitrato italiano o estero, il provvedimento cautelare, oltreché nei casi previsti dall'art. 669-novies, commi 1 e 3, c.p.c., perde altresì efficacia in due ipotesi specificamente previste dalla norma: 1) se la parte che l'aveva richiesto non presenta domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali; 2) se sono pronunciati sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o lodo arbitrale che dichiarino inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento era stato concesso. Per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e per le disposizioni di ripristino la norma prevede che si applichi integralmente l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. L'interpretazione che sembra più consona al dato testuale ritiene che la norma dell'art. 669-octies c.p.c., con l'inciso in parola, abbia voluto imporre l'osservanza del termine perentorio anche per l'inizio della causa di merito laddove essa sia soggetta a clausola compromissoria o compromesso ovvero sia da attribuire alla giurisdizione di un giudice straniero. La questione non è nuova, essendosi posta, in realtà, anche nella vigenza della disciplina specifica del sequestro ex art. 680 c.p.c. Infatti, all'epoca si era posto il problema se il sequestro potesse mantenere la sua efficacia allorché l'arbitrato non fosse già stato instaurato al momento della decisione in primo grado rispetto al giudizio di convalida. La giurisprudenza formatasi in tema di sequestro aveva chiarito che quando la competenza a conoscere della causa di merito appartiene agli arbitri, non è necessario, per evitare la perdita di efficacia del sequestro concesso dal giudice ordinario, che il giudizio arbitrale sia iniziato nel termine di quindici giorni dal compimento del primo atto di esecuzione del sequestro, prescritto dal vigente art. 680 c.p.c.; anche in questa ipotesi, tuttavia, il sequestro non può essere convalidato se il giudizio di merito davanti agli arbitri non risulti ancora instaurato almeno al momento della decisione di primo grado, ciò denunciando concretamente l'insussistenza del periculum in mora. Né la mancata instaurazione del giudizio arbitrale potrebbe essere giustificata in considerazione della pendenza, tra le stesse parti, di una causa pregiudiziale, non essendo tale circostanza preclusiva della proponibilità del giudizio dipendente ma potendo, eventualmente, solo implicarne la sospensione (Cass. I, n. 7056/1982). Nello stesso senso, si era osservato che, pur non operando il citato termine di quindici giorni, la causa di merito non può comunque essere instaurata senza limiti di tempo perché, anche in difetto di una espressa previsione legislativa, la convalida del sequestro non può essere pronunciata se al momento della decisione di primo grado non risulti ancora instaurato il giudizio di merito, dato il carattere provvisorio e strumentale della misura cautelare (Cass. I, n. 2820/1979). Il significato del rinvio effettuato dalla norma in commento all'art. 669-octies, comma 1, c.p.c. sembra – non tanto chiaramente – deporre per l'inefficacia del provvedimento cautelare laddove il procedimento di merito nelle ipotesi di competenza del giudice straniero o degli arbitri, non inizi, appunto, nel termine perentorio di cui all'art. 669-octies c.p.c. (Tommaseo, 102). Leggendo, infatti, il testo di entrambe le norme, sembra che l'unico significato possibile da attribuire al rinvio sia per l'appunto questo; ma di certo non è apprezzabile la tecnica legislativa adoperata che crea numerosi problemi interpretativi data la scarsa chiarezza del dettato. Per quanto riguarda l'inizio del procedimento arbitrale, si è sempre ritenuto che esso dovesse farsi coincidere con il momento dell'accettazione di tutti gli arbitri, sicché il termine di centottanta giorni per la pronuncia del lodo dovesse decorrere da tale accettazione. Successivamente alle modifiche operate all'art. 669-octies c.p.c. dalla l. n. 25/1994 sull'arbitrato ci si era posti, invero, il problema se anche ai fini del termine in questione fosse possibile ritenere coincidente l'inizio della procedura arbitrale con l'accettazione di tutti gli arbitri e si era rilevato come la soluzione in questione non apparisse idonea a risolvere diversi problemi. In particolare, l'accettazione degli arbitri non è nella disponibilità delle parti e il procedimento di nomina può essere molto complicato e necessitare per il suo compiuto perfezionamento di termini molto più lunghi rispetto ai soli sessanta giorni previsti dall'art. 669-octies c.p.c. (così Proto Pisani 1991, 23). La dottrina che si era occupata della questione aveva proposto di risolvere il problema ritenendo che il termine di sessanta giorni previsto dall'art. 669-octies c.p.c. o il termine inferiore fissato ad hoc dal giudice adìto si dovesse ritenere rispettato se, per quella data, quello delle parti che avesse esigenza di conservare il provvedimento cautelare avesse compiuto tutto ciò che era in suo potere per iniziare la procedura arbitrale, in pratica nominando il proprio arbitro e formulando i relativi quesiti (Vaccarella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 370; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 493). Con riferimento all'arbitrato amministrato, si era suggerita come soluzione che agli effetti del rispetto del termine in parola fosse sufficiente il deposito della domanda arbitrale che è talvolta previsto nei regolamenti delle camere arbitrali (così Carpi 1259). Il riferimento contenuto nell'art. 669-quinquiesc.p.c., secondo cui se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali, o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito, risolve la questione relativa alla concedibilità di un provvedimento cautelare a tutela di diritti compromessi per arbitrato irrituale. Restava, tuttavia, da risolvere il profilo della pendenza del procedimento ai fini del termine in questione nel caso di arbitrato affidato ad arbitro unico. La questione è stata risolta dal legislatore con le modifiche apportate dalla l. n. 25/1994 all'art. 669-octies, comma 5, c.p.c. secondo cui, «nel caso in cui la controversia sia oggetto di compromesso o clausola compromissoria, la parte, nei termini di cui ai commi precedenti, deve notificare all'altra un atto nel quale dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri». La norma in sostanza conferma quanto la dottrina aveva evidenziato, cioè che è necessario compiere tutto quello che è in suo potere fare, ossia notificando, entro il termine previsto dall'art. 669-octies c.p.c., tramite ufficiale giudiziario la domanda in cui manifesta la sua volontà di adire l'arbitro o gli arbitri rispetto alla controversia per cui si è stipulato un accordo compromissorio e, laddove ciò sia previsto dal testo dell'accordo, nominare anche l'arbitro invitando l'altra parte a nominare il proprio. La giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che la notifica della domanda di arbitrato determina l'inizio del procedimento arbitrale. La Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato il principio in questione; si è detto che a seguito delle modifiche operate anche all'art. 669-octies, comma 1, c.p.c. dalla l. n. 25/1994, si deve ritenere che il procedimento arbitrale si instauri con la notificazione della domanda di accesso all'arbitrato, e non anche con la costituzione del collegio arbitrale, con la conseguenza che, determinatosi l'effetto della pendenza del giudizio con la notifica in questione, il giudizio si radica fin da tale momento tra i soggetti sottoscrittori della clausola compromissoria (Cass. II, n. 21177/2019; Cass. I, n. 17099/2013; Cass. I, n. 5457/2003; Cass. I, n. 10922/2002). Per quanto concerne specificamente l'art. 669-novies, comma 4, n. 2), c.p.c., bisogna chiedersi che cosa accada se viene emanata una sentenza straniera o un lodo arbitrale che rigettino la domanda di merito. La lettera della norma equipara l'ipotesi della sentenza straniera di rigetto a quella di rigetto interna, affermando che il provvedimento cautelare viene meno indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza stessa, e pertanto la sentenza straniera di rigetto della domanda di merito provoca immediatamente l'inefficacia del provvedimento cautelare che sia stato concesso dal giudice italiano. La regola appare condivisibile oltreché ragionevole, visto che il rigetto effettuato con sentenza straniera, al pari del rigetto della domanda di merito interna, blocca il rapporto di strumentalità con il giudizio di merito, né è necessario che il giudice chiamato ad accertare l'inefficacia della misura cautelare sia onerato del dover accertare che la sentenza straniera abbia tutti i requisiti per il riconoscimento nel nostro ordinamento di cui all'art. 64 della l. n. 218/1995, ciò perché tale sentenza straniera è un fatto estintivo «oggettivo» della misura cautelare, pacificamente individuato come tale dalla norma dell'art. 669-novies c.p.c. e, di conseguenza, a nulla vale l'accertamento ulteriore dei requisiti di riconoscibilità della sentenza straniera nell'ordinamento interno (Merlin 2015, 446). In tal senso, in giurisprudenza di merito si è rilevato che deve dichiararsi l'inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. del sequestro conservativo concesso ante causam in esito alla definizione del giudizio di merito in seguito a sentenza definitiva della competente autorità giurisdizionale straniera (Trib. Roma 25 marzo 1995). Il riferimento contenuto nell'art. 669-novies c.p.c. al fatto che non sia necessario il passaggio in giudicato della sentenza straniera per dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare, deve ritenersi applicabile anche al lodo pronunciato da arbitri ma ancora assoggettato alla impugnazione per nullità davanti alla corte d'appello, ciò perché il lodo straniero che rigetta la domanda di merito, pur se non riconosciuto con l'apposita procedura disciplinata dal nostro codice di rito ed anche se non riconoscibile, provoca comunque l'inefficacia della misura cautelare concessa dal giudice interno. Estinzione del giudizio di merito. Il giudizio di merito, oltre a non essere attivato dopo la concessione della misura cautelare, potrebbe estinguersi per vicende successive. Com'è noto, queste vicende consistono, a norma degli artt. 306 ss. c.p.c., nella rinuncia agli atti del giudizio o nella inattività delle parti. Il discorso vale, anche in quest'ultimo caso, per le sole misure cautelari a strumentalità forte, essendo espressamente esclusa l'inefficacia dei provvedimenti cautelari anticipatori per questa ipotesi dall'art. 669-octies c.p.c. (al cui Commento si rinvia). Il problema della perdita di efficacia del provvedimento cautelare conseguente all'estinzione del giudizio di merito si pone con riferimento alla estinzione del giudizio di primo grado perché, ai sensi dell'art. 338 c.p.c. l'estinzione del giudizio di impugnazione fa sì che diventi irrevocabile la sentenza impugnata che, pertanto, ha già prodotto i suoi effetti sul provvedimento cautelare. L'unica ipotesi in cui, in effetti, può porsi il problema dell'estinzione del giudizio di merito anche in fase di impugnazione è, come è stato rilevato, nel caso in cui il provvedimento cautelare sia stato concesso durante il giudizio di impugnazione in contrasto con il contenuto della sentenza di primo grado (Vaccarella, Capponi, Cecchella, 271). Certamente non è necessario che il provvedimento dichiarativo dell'estinzione diventi definitivo ex art. 308 c.p.c. perché si abbia la perdita di efficacia del provvedimento cautelare ai sensi della norma in commento (Attardi 1991, 246). Ci si è posti il problema della mancanza del provvedimento formale dichiarativo dell'estinzione, cosa che può verificarsi anche quando si siano realizzati i presupposti per l'estinzione stessa. Ciò può accadere, ad esempio, nel caso di mancata riassunzione del processo nel termine previsto dalla legge o dal giudice. In sostanza il problema deriva dalla necessità di coordinare la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare che – come visto – spetta al giudice che ha concesso la misura, con l'accertamento e la relativa dichiarazione della estinzione del processo che deve essere pronunciata dal giudice del merito. I giudici in questione potrebbero, infatti, non coincidere trattandosi di giudici persona fisica in ipotesi differenti pur laddove si tratti di uffici giudiziari identici, cosa anche questa non formalmente indispensabile. Non è indispensabile che l'ufficio giudiziario sia lo stesso perché ai sensi dell'art. 669-ter c.p.c. non è escluso che, laddove vi siano competenze concorrenti, la domanda per l'instaurazione del giudizio di merito possa essere proposta ad un ufficio giudiziario diverso rispetto a quello che ha pronunciato la misura cautelare e vi è comunque una deroga esplicita prevista dal ricordato art. 669-ter c.p.c. per l'ipotesi in cui la causa di merito sia di competenza del giudice di pace perché, in questo caso, non avendo tale giudice potere di emanare provvedimenti cautelari, la competenza per la cautela è assegnata al tribunale (Merlin 2015, 432, nota 16). Peraltro, si è segnalato come la competenza del giudice della cautela, così come individuato dal presidente del tribunale, non debba necessariamente coincidere con la competenza per il giudizio di merito e quindi ben potrebbe verificarsi l'ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia emanato da un giudice persona fisica e invece la relativa causa di merito sia attribuita ad un altro giudice persona fisica pur all'interno dello stesso ufficio giudiziario (Saletti 1991, 362; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 585). In questa ipotesi, ci si chiede se il giudice che deve pronunciarsi sulla validità del provvedimento cautelare deve anche accertare incidentalmente l'avvenuta estinzione del processo, ovvero se la parte interessata a far dichiarare l'inefficacia, prima di proporre la relativa istanza, debba ricorrere al giudice del merito per chiedere che sia formalmente accertata e dichiarata l'intervenuta estinzione del giudizio. La seconda soluzione viene giustamente definita eccessiva dalla dottrina perché il giudice adìto ai sensi dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. sarebbe in tal caso costretto ad onerare la parte della necessità di ricorrere al giudice del merito anche nell'ipotesi in cui l'estinzione sia pacifica o addirittura non contestata (Merlin 2015, 433). È, pertanto, preferibile demandare l'accertamento dell'estinzione del processo di merito direttamente al giudice che deve pronunciarsi sulla validità del provvedimento cautelare tramite il procedimento sommario previsto dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., lasciando invece al giudice del merito il compito di accertare e dichiarare l'estinzione solo nel caso in cui in contemporanea della questione si occupi anche quest'ultimo giudice (così Merlin 2015, 433; Verde, Di Nanni, 489; Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 666; Recchioni 2015, 628; Carratta 2013, 297; Giordano 2014, 1221; Celeste, 389). La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha specificato in relazione a tale questione che nell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. si dispone che se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'art. 669-octies c.p.c., ovvero successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde efficacia; lo stesso art. 669-novies, comma 2, c.p.c. stabilisce che, in ambedue i casi di inefficacia, su ricorso della parte interessata, è dichiarata dal giudice che ha emesso il provvedimento, previa audizione delle parti, e se non vi sono contestazioni, con ordinanza avente efficacia esecutiva, con la quale sono date anche le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. Mentre in presenza di contestazioni sul punto, sul ricorso si pronuncia l'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento che decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c. Questo procedimento sconta che la fattispecie estintiva dedotta dalla parte interessata con il suo ricorso non abbia costituito oggetto di previo accertamento nel giudizio di merito come è inevitabile che sia quando il giudizio di merito non sia stato proprio iniziato o quando, scaduti i termini per farlo, il giudizio di merito, pur se tempestivamente iniziato, ma interrotto o sospeso, non sia stato riassunto o fatto proseguire. E però la disposizione, secondo la sua lettera, lascerebbe fuori dal suo ambito applicativo i casi in cui il giudizio di merito, anche se iniziato tardivamente o tardivamente riassunto o proseguito penda e la questione dell'estinzione del processo per fatti inerenti al suo inizio o al suo successivo decorso davanti al giudice del merito abbia costituito oggetto di eccezione, perché in questi casi l'estinzione non potrebbe che essere dichiarata dal giudice del merito. Secondo i giudici di legittimità, ragionando sulla formulazione della norma deriva che il giudice del cautelare, richiesto di dichiarare l'inefficacia del suo precedente provvedimento, in assenza di contestazioni sul fatto estintivo, ha il potere di pronunciare con ordinanza l'inefficacia della misura cautelare, mentre in caso di contestazioni sul fatto estintivo l'ufficio cui il giudice appartiene si pronuncerà sulla questione con sentenza, dichiarando, ove abbia ritenuto fondato il ricorso, che la misura cautelare è divenuta inefficace (Cass. S.U., n. 12103/2012). Con riferimento all'ipotesi che venga richiesta al giudice che lo ha emesso la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e nelle more il giudice del processo di merito debba decidere in primo grado sull'eccezione di estinzione, si è ritenuto che sia necessario sospendere il procedimento relativo alla cautela attendendo la decisione del giudice di merito sull'eccezione di estinzione, spettando solo a quest'ultimo la dichiarazione di estinzione (v., amplius, Merlin, 426). La proposizione dell'eccezione di estinzione del processo per inattività delle parti non costituisce un presupposto per il verificarsi dell'effetto estintivo, bensì l'elemento costitutivo di un'ulteriore e distinta fattispecie che consente la rinuncia implicita agli effetti dell'estinzione già verificatasi attraverso la prosecuzione del giudizio e la mancata tempestiva proposizione dell'eccezione in questione (Trib. Palermo 15 giugno 2005). Si è anche precisato in giurisprudenza che, ove al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare sia richiesto di dichiararne l'inefficacia ex art. 669-novies c.p.c., questo giudice deve sospendere il procedimento in attesa che il giudice della corte di merito, in cui sia proposta l'eccezione di estinzione della causa stessa, decida in primo grado sull'eccezione di estinzione (Pret. Vallo Lucania 27 novembre 1998). Ci si domanda quale sia la sorte del procedimento iniziato per ottenere la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., laddove il giudizio ordinario prosegua anche soltanto ai fini della decisione sul reclamo proposto contro l'ordinanza dichiarativa dell'estinzione o dell'impugnazione ordinaria contro la sentenza dichiarativa dell'estinzione stessa. Sembra condivisibile l'opinione di chi ha affermato che in questo caso il provvedimento cautelare perde comunque efficacia, alla stregua delle altre ipotesi disciplinate dalla norma in commento, ossia l'inefficacia del provvedimento cautelare a seguito della pronuncia di sentenza o di lodo anche non irrevocabili che dichiarino l'inesistenza del diritto per tutelare il quale era stata concessa la misura in parola. Quid iuris allora rispetto all'eventuale esito del prosieguo del giudizio? Nel caso si verifichi un annullamento o una riforma in sede di impugnazione della sentenza che nega l'esistenza del diritto sostanziale a cautela del quale il provvedimento era stato emesso o che riformi la sentenza dichiarativa dell'estinzione del processo, si potrebbe utilizzare questo esito favorevole del giudizio di impugnazione come motivo d'appello contro la sentenza che ha dichiarato l'inefficacia del provvedimento cautelare in ossequio alle previsioni della norma (così Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, I, 497; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 665). Qualora si verifichi la decadenza dall'impugnazione perché decorrono i termini, la parte interessata dovrà formulare una nuova richiesta di provvedimento cautelare. Su questo profilo, era intervenuta anche la Corte di Cassazione affermando che perché si abbia la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, la dichiarazione di estinzione del giudizio di merito che sia stato iniziato successivamente alla concessione deve essere irrevocabile, mentre tale carattere può mancare soltanto per le sentenze di merito che dichiarino inesistente il diritto a tutela del quale era stato concesso il provvedimento di cui si domanda la dichiarazione di inefficacia (Cass. I, n. 26834/2008). L'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. prevede che il provvedimento cautelare perde efficacia se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'art. 669-octies c.p.c., ovvero se successivamente al suo inizio si estingue. In questa ipotesi, pertanto, ciò che viene devoluto al giudice investito della richiesta di dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare è un accertamento incidentale sulla sussistenza delle due condizioni. Mentre nel primo caso, ossia nell'ipotesi in cui il giudizio di merito non sia iniziato nel termine perentorio previsto dall'art. 669-octies c.p.c., non vi sono problemi, trattandosi unicamente di verificare se il giudizio di merito è stato tempestivamente introdotto o meno, nel secondo caso le ipotesi che si possono verificare sono due. La parte interessata alla dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare può agire davanti al giudice che ha emesso il provvedimento e dedurre l'esistenza di una causa di estinzione del giudizio di merito, ritualmente eccepita in questo giudizio, ovvero far valere la dichiarazione di estinzione adottata dal giudice del giudizio di merito. Laddove la parte interessata faccia valere, ai fini della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, la dichiarazione di estinzione emessa nel giudizio di merito, questa – secondo i giudici di legittimità – deve essere munita del carattere della irrevocabilità. Ciò perché, laddove si ritenesse che sia sufficiente la mera dichiarazione di estinzione del giudizio di merito, anche se non definitiva, per imporre la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare, non si comprenderebbe poi la salvezza di quanto disposto dall'art. 669-decies c.p.c., contenuta nell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., nel caso in cui tra le parti sorga contestazione sulla sussistenza di una delle condizioni che legittimano la dichiarazione di inefficacia. Infatti, l'art. 669-decies, comma 2, c.p.c., stabilisce che quando il giudizio di merito non sia iniziato, o sia dichiarato estinto, «la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento, esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti delle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare». La salvezza dell'applicazione delle disposizioni in commento prevista dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. – ad avviso degli ermellini – intanto si giustifica in quanto la eventuale dichiarazione di estinzione del giudizio di merito, adottata con pronuncia non ancora definitiva, non determina di per sé automaticamente la perdita di efficacia del provvedimento cautelare, producendosi tale effetto solo ove vi sia una dichiarazione definitiva di estinzione del giudizio di merito. L'esistenza di una dichiarazione di estinzione non ancora passata in giudicato legittima, invece, la possibilità di chiedere, nel concorso delle circostanze previste dall'art. 669-decies c.p.c., la modifica o la revoca del provvedimento cautelare. Nemmeno può affermarsi che la pronuncia di estinzione, laddove adottata con sentenza non definitiva, sia comunque provvisoriamente esecutiva e che possa valere ai fini della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare per estinzione del giudizio di merito; ciò perché la provvisoria esecutività che l'art. 282 c.p.c. riconosce alla sentenza di primo grado, attiene solo alle sentenze di merito e non anche a quelle che definiscono il giudizio con una pronuncia di rito che, ove tempestivamente impugnata, non può determinare la perdita di efficacia del provvedimento cautelare strumentale alla tutela del diritto fatto valere nel giudizio di merito in cui sia intervenuta tale pronuncia di estinzione (ulteriori riferimenti in Cass. I, n. 26834/2008). V'è da dire che, successivamente a tale articolata pronuncia della sezione semplice, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha sposato l'orientamento opposto affermando che la misura cautelare – nella specie trattavasi di sequestro – perde la sua efficacia in conseguenza della dichiarazione di estinzione del correlato giudizio di merito, senza che a tal fine sia necessario che la pronuncia sia divenuta inoppugnabile, dovendosi assumere la stessa a presupposto dei provvedimenti ripristinatori previsti dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. (Cass. S.U., n. 12103/2012). Ricorda tale pronuncia che, caduto l'istituto processuale del giudizio di convalida, la precedente disciplina, sotto l'aspetto delle situazione assunte a suo oggetto, è stata trasfusa nell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c.L'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. ha, a sua volta, istituito un procedimento tipo nello stabilire che il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata e convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c'è contestazione, che il provvedimento è diventato inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente; in caso di contestazione, l'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, facendo salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c.Questo procedimento «tipo» sconta la necessità che la fattispecie estintiva dedotta dalla parte interessata con il ricorso non abbia costituito oggetto di previo accertamento nel giudizio di merito, come è inevitabile che sia quando il giudizio di merito non è stato proprio iniziato o quando, scaduti i termini per farlo, il giudizio di merito, pur tempestivamente iniziato, ma interrotto o sospeso, non sia stato riassunto o proseguito. La disposizione, nel suo tenore letterale, lascerebbe fuori dal proprio ambito applicativo i casi in cui il giudizio di merito, anche se tardivamente iniziato o tardivamente riassunto o proseguito, penda e la questione dell'estinzione del processo, per fatti inerenti al suo inizio o al suo successivo decorso davanti al giudice del merito, ha costituito oggetto di eccezione, perché in questi casi l'estinzione non potrebbe essere dichiarata dal giudice del processo sul merito. Ne deriva, in base alla disposizione dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., che il giudice del cautelare, che sia richiesto di dichiarare l'inefficacia del suo precedente provvedimento di accoglimento, in assenza di contestazione sul fatto estintivo, ha il potere di pronunciare con ordinanza l'inefficacia della misura cautelare stessa, mentre, in caso di contestazioni, l'ufficio cui il giudice appartiene, si pronuncia sulla questione con sentenza, dichiarando, ove ritenga fondato il ricorso, che la misura cautelare è diventata inefficace. Tale sentenza viene definita dallo stesso art. 669-novies, comma 1, c.p.c. come provvisoriamente esecutiva, sicché essa è tale da poter essere accompagnata dalle misure dirette a restaurare la situazione giuridica e di fatto anteriore alla attuazione del provvedimento cautelare poi dichiarato inefficace (amplius Cass.S.U., n. 12130/2012, cit.). Segue. Chiusura del processo con sentenza di rito. Ci si chiede se sia possibile equiparare la sentenza di rito che chiude il processo decidendo su questioni processuali impedienti: secondo la dottrina dominante la risposta deve essere affermativa. Come anticipato, a parere di buona parte della dottrina, all'estinzione del giudizio di merito deve essere equiparata la sentenza di rito anche non passata in giudicato che chiuda il processo di merito decidendo questioni processuali impedienti (in tal senso, v. Tommaseo, 102; Proto Pisani 1991, 23; Verde, Di Nanni, 262; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 664). Secondo altri, invece, la chiusura del processo in rito andrebbe equiparata al rigetto per ragioni di merito (Attardi 1991, 252), mentre per un'altra opinione sarebbe necessario aspettare il passaggio in giudicato della sentenza di rito per poter dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare (Frus 1992, 716). Nello stesso senso della dottrina dominante, nella giurisprudenza di merito, si è sostenuto che, in caso di misura cautelare concessa ante causam, qualora il successivo giudizio di merito si chiuda con la declaratoria che la controversia è devoluta al giudizio di un collegio di arbitri rituali, deve dichiararsi l'inefficacia del provvedimento cautelare ex art. 669-novies c.p.c. in quanto, per il principio di strumentalità che connota la tutela cautelare, al rigetto nel merito deve parificarsi qualsiasi pronuncia che definisca il processo per ragioni processuali impedienti l'esame della pretesa azionata (Trib. Torre Annunziata 17 marzo 2004). Pertanto, la sentenza declinatoria di competenza pronunciata nel giudizio di merito, così come ogni altra sentenza che definisca il giudizio in rito, determina l'inefficacia della misura cautelare concessa ante causam (Pret. Monza 11 gennaio 1997). Ugualmente si è detto rispetto alla sentenza che definisce il giudizio di merito per dichiarazione di nullità del ricorso introduttivo (Pret. Roma 19 febbraio 1997). In senso contrario, però, si è precisato che non ricorre la possibilità di dichiarare l'inefficacia della misura cautelare con la sentenza che non investe il merito della controversia; pertanto, l'ordinanza con cui il giudice istruttore ha sospeso l'efficacia della sentenza di caducazione del provvedimento cautelare è corretta ed il reclamo contro quest'ultima sentenza va rigettato (Trib. Messina 7 dicembre 1995). Secondo la Corte di Cassazione, nel caso in cui il giudizio di merito, promosso a seguito dell'emissione di un provvedimento cautelare, si concluda con la dichiarazione di inammissibilità della domanda, nella specie per difetto di procura ad litem, nulla osta a che il giudice, investito dell'intera cognizione, revochi contestualmente la misura cautelare concessa ante causam, divenuta ipso iure inefficace: tale contestualità non arreca, infatti, alcuna lesione al diritto di difesa, integralmente dispiegatosi nel processo a cognizione piena, ed appare, altresì, giustificata da ragioni di economia processuale, avuto riguardo alla pendenza del giudizio di merito, che rende superfluo un nuovo ricorso al giudice, necessario, invece, nelle ipotesi contemplate dall'art. 669-novies c.p.c. (Cass. I, n. 17028/2008). Si sono formati diversi orientamenti sul modo di operare di questa causa di inefficacia del provvedimento cautelare. Secondo una dottrina, l'ipotesi in questione dovrebbe essere del tutto assimilata all'estinzione e, pertanto, la parte interessata ad ottenere la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare dovrebbe adire il giudice che ha emesso il provvedimento e potrebbe farlo anche laddove manchi una sentenza di rito che abbia chiuso il giudizio di merito per la presenza di un vizio processuale (sia insanabile che non sanato). Secondo altri, invece, questa ipotesi quanto all'operatività della causa di estinzione dovrebbe essere assimilata a quella disciplinata dall'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., ossia al rigetto per motivi di merito (v., amplius, su entrambe le soluzioni Merlin, 320; Oberto, 91). Altra questione connessa alla pronuncia di una sentenza di rigetto in rito è quella relativa alla perdita di efficacia del provvedimento cautelare; ci si domanda, cioè, se il provvedimento perda efficacia immediatamente alla chiusura in rito del processo di merito, ovvero soltanto quando la pronuncia in questione passi in giudicato e quindi solo una volta esaurito l'iter delle impugnazioni o il loro mancato esperimento nei termini di decadenza. Le soluzioni prospettabili sono o che la misura cautelare venga caducata immediatamente così come accade nell'ipotesi della sentenza di rigetto nel merito, oppure ritenere che la misura cautelare continui ad esplicare la sua efficacia fino a che sia possibile che venga riformata in sede di impugnazione. Secondo parte della dottrina, non vi è ragione di differenziare l'ipotesi del rigetto in rito da quella del rigetto in merito quanto alla permanenza dell'efficacia della misura cautelare e, pertanto, essa deve ritenersi immediatamente caducata dalla pronuncia della sentenza di rito pur se non ancora passata in giudicato (Merlin 2015, 440). Diversamente, si è sostenuto, invece, che la misura cautelare dovrebbe continuare ad esplicare i suoi effetti fino al passaggio in giudicato della pronuncia di rito (Frus, 715); soluzione intermedia quella di chi ritiene che in sede di impugnazione della sentenza di rigetto in rito il giudice sia chiamato a decidere sul se conservare l'efficacia della misura cautelare (Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 666). Chiaramente chi sposa la tesi che vuole il venir meno dell'efficacia della misura cautelare alla pronuncia della sentenza di rigetto in rito, ritiene che nella sentenza in questione il giudice debba anche prevedere la dichiarazione di inefficacia della misura cautelare, mentre bisognerà adire il giudice che aveva emanato il provvedimento solo qualora venga omessa tale dichiarazione (Merlin 2015, 440). Ulteriore questione posta in dottrina è quella relativa alla eventuale sopravvivenza della misura cautelare ove la sentenza/ordinanza di rigetto in rito comporti la possibilità di una prosecuzione del giudizio – translatio iudicii – davanti ad un altro giudice. Il nostro codice del 1940 ha consentito la prosecuzione del processo a norma dell'art. 50 c.p.c. davanti ad un diverso giudice nell'ipotesi di difetto di competenza. In questo modo è possibile trasferire il processo senza perdere gli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale, dato che, in caso di tempestiva riassunzione del processo, questi effetti vengono riportati alla domanda inizialmente proposta al giudice non munito di competenza. Se inizialmente questa disciplina prevista per il difetto di competenza non si applicava al difetto di giurisdizione, dopo successivi interventi delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U. , n. 4109/2007) e della Corte Costituzionale (Corte cost., n. 77/2007), il legislatore è intervenuto con l'art. 59 della l. n. 69/2009 che ha introdotto la c.d. translatio iudicii per difetto di giurisdizione, la cui disciplina è modellata in gran parte sugli artt. 44,45 e 50 c.p.c. relativi all'incompetenza. Se, quindi, ora è possibile trasferire il processo da giudice non munito di competenza o giurisdizione a giudice che ne sia munito, questo regime del «trasferimento» è consentito anche per le pronunce in tema di connessione e continenza, ai sensi dell'art. 39, comma 2, c.p.c. e della connessione, ex art. 40 c.p.c. Attualmente, a seguito di una declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., n. 223/2013) dell'art. 819-ter c.p.c., è possibile la prosecuzione del processo anche nei rapporti tra giudice statale ed arbitro. Ci si chiede, pertanto, quale sia la sorte del provvedimento cautelare emanato ante causam laddove il processo di merito sia iniziato innanzi a giudice incompetente o non munito di giurisdizione e poi proseguito in applicazione delle norme sulla translatio iudicii davanti al giudice competente o munito di giurisdizione per la controversia. In questo caso pare certo che non si possa predicare l'inefficacia del provvedimento cautelare fintantoché la causa non sia decisa dal giudice innanzi al quale il processo viene riassunto. Ovviamente, la misura cautelare perderà efficacia ove le parti non riassumano il processo davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione o di competenza nei termini previsti dalla legge o dal giudice (in tal senso Merlin 2015, 441; Cecchella, 1997, 116; Marelli, 787; Recchioni 2005, 652). In senso parzialmente contrario, invece, si è sostenuto che il provvedimento cautelare deve perdere efficacia laddove, pur essendo ipotizzabile la translatio iudicii, il motivo di incompetenza o difetto di giurisdizione (a titolo esemplificativo) che è posto a fondamento della pronuncia di rito si configuri anche come vizio del provvedimento stesso perché ciò comporterebbe il venir meno del nesso di strumentalità determinato anche dalla coincidenza tra giudice competente per la cautela e giudice competente per il merito (Carratta 2013, 312). Nel senso della salvezza del provvedimento cautelare, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che l'incompetenza del giudice originariamente adìto non comporta l'inefficacia del sequestro autorizzato dal giudice competente, essendo applicabile il generale principio di cui all'art. 50 c.p.c. che vuole conservati gli effetti processuali e sostanziali connessi alla domanda, pur se proposta dinanzi a giudice incompetente, sulla base della translatio iudicii (Cass. III, n. 8247/1998). Anche per i provvedimenti cautelari emanati prima dell'entrata in vigore della novella del 1990, si era osservato, nella giurisprudenza di merito, che nel caso di sentenza dichiarativa di incompetenza del tribunale a conoscere nel merito per essere funzionalmente competente il giudice del lavoro, il provvedimento cautelare, emesso prima dell'entrata in vigore della novella stessa, non perde efficacia ove il presidente del tribunale fosse stato, comunque, competente per valore e per luogo ad autorizzarlo, ex art. 672, comma 1, ultima parte, c.p.c., e questo perché trova applicazione l'art. 669-novies c.p.c. (Trib. Milano 15 giugno 1998). Segue. Mancato versamento della cauzione e mancato rispetto degli oneri connessi all'esecuzione della misura. A norma dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., il provvedimento cautelare perde efficacia se non è stata versata la cauzione di cui all'art. 669-undecies c.p.c. Quest'ultima norma stabilisce a sua volta che, con il provvedimento di accoglimento o di conferma, ovvero con il provvedimento di modifica, il giudice può imporre all'istante, valutata ogni circostanza, una cauzione per l'eventuale risarcimento dei danni. La disposizione dell'art. 669-undecies c.p.c. è chiara nello stabilire che si tratta di una facoltà concessa al giudice in funzione dell'eventuale risarcimento dei danni. Non si è in presenza di una novità, dato che uguale previsione era contenuta nell'ormai abrogato art. 674 c.p.c. con riguardo al sequestro conservativo ed è tuttora prevista dall'art. 1171 c.c. in tema di denuncia di nuova opera. Sia pur previsto da norme specifiche e per determinati provvedimenti cautelari già prima del rito cautelare uniforme, si riteneva che queste previsioni fossero estensibili a tutti i provvedimenti cautelari. Il potere discrezionale del giudice di concedere la cautela è un potere che deve essere esercitato con la necessaria prudenza e, in ogni caso, pare corretto ritenere che la cauzione si atteggi a condizione sospensiva dell'efficacia del provvedimento cautelare e non a condizione risolutiva dello stesso. Secondo la giurisprudenza di merito, pur se l'istanza di cauzione prevista dall'art. 669-undecies c.p.c. deve essere valutata non già in riferimento all'apparente fondatezza del ricorso ma alle condizioni patrimoniali delle parti, si deve valutare negativamente una richiesta di cauzione formulata in modo assolutamente generico, senza fornire elementi precisi in ordine ai costi direttamente discendenti dall'applicazione della cautela concessa (Trib. Napoli 8 marzo 2000). Presupposto indispensabile per l'imposizione della cauzione è che essa sia contestuale ad altro provvedimento di accoglimento, di conferma o di modifica della misura cautelare e, infatti, la norma non prevede la possibilità di disporre la cauzione con provvedimento autonomo, come invece era possibile vigente l'art. 674 c.p.c. in tema di sequestro conservativo. Generalmente, si ritiene che il termine fissato dal giudice per la prestazione della cauzione in questione sia ordinatorio, sicché ne sarebbe possibile la proroga con richiesta che dovrebbe essere inoltrata prima della scadenza del termine stesso. La mancata prestazione della stessa comporta, come visto, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., l'inefficacia immediata del provvedimento cautelare che deve essere dichiarata con il procedimento specifico previsto dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. Tale comma, infatti, stabilisce che il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c'è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. In caso di contestazione l'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c. (sul procedimento in questione si veda infra). Se tale previsione ha risolto il problema delle conseguenze della mancata prestazione della cauzione, non vi sono disposizioni relative alla risoluzione della questione relativa alla eseguibilità del provvedimento cautelare laddove la cauzione non sia stata prestata ma la misura non sia stata ancora dichiarata inefficace dal giudice. Non è indicato, infatti, chi sarebbe competente a verificare la mancata prestazione della cauzione e, in ogni caso, il procedimento per la dichiarazione di inefficacia previsto dalla norma in commento non comporta, per l'appunto, una automatica inefficacia della misura cautelare stessa, né ha effetto sospensivo immediato. Ci si chiede, di conseguenza, se laddove non venga versata la cauzione o venga versata in ammontare inferiore a quello previsto dal giudice, gli organi pubblici – ufficiale giudiziario o conservatore dei registri immobiliari – che dovrebbero eseguire la misura possano rifiutare di provvedervi. Secondo la dottrina, alla domanda potrebbe darsi senz'altro risposta positiva (Andrioli 1964, 170); tuttavia, si è precisato che l'accertamento potrebbe essere effettuato dall'ufficiale giudiziario laddove sia evidente che la prestazione della cauzione non sia stata eseguita, ma se ciò non è il provvedimento cautelare deve essere comunque eseguito e le questioni ulteriori, tra cui quella relativa alla inefficacia del provvedimento conseguente alla mancata prestazione della cauzione devono essere accertate in sede di cognizione (Merlin 2015, 435). E, in ogni caso, tale soluzione positiva potrebbe essere accolta ove si ritenga estensibile analogicamente alla cauzione in parola la previsione dell'art. 478 c.p.c. Quest'ultima norma prevede che, se l'efficacia del titolo esecutivo è subordinata ad una cauzione, non si può iniziare l'esecuzione forzata finché quella cauzione non sia prestata. Della prestazione si deve far constare con annotazione in calce o in margine al titolo spedito in forma esecutiva, o con atto separato che deve essere unito al titolo stesso. A norma, poi, dell'art. 155 disp. att. c.p.c., il certificato di prestata cauzione indicato nell'art. 478 c.p.c., è rilasciato dal cancelliere del giudice che ha pronunciato il provvedimento costituente titolo esecutivo (in tema, v. Merlin 2015, 435). Il mancato inserimento nel fascicolo d'ufficio del documento attestante la prestazione della cauzione nella forma del deposito giudiziario, imposta a pena di inefficacia del concesso provvedimento cautelare, quando la cauzione sia stata effettivamente prestata nelle forme consentite costituisce mera irregolarità formale, che non comporta l'inefficacia del provvedimento cautelare (App. Genova 25 marzo 2002, la quale specifica, altresì, che per la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare, nell'ipotesi di mancata prestazione della cauzione, pur in pendenza della causa di merito, è consentito rivolgersi anche al giudice che ha emesso il provvedimento, oltreché al giudice investito del merito). All'ipotesi del mancato versamento della cauzione, si è giustamente assimilato il caso del mancato rispetto degli oneri che la legge impone per l'esecuzione di alcune misure cautelari. In particolare, bisogna ricordare l'onere che l'art. 675 c.p.c. impone a colui che ha ottenuto la concessione di un sequestro, prevedendo la norma che il provvedimento che autorizza il sequestro perde efficacia se non è eseguito entro il termine di trenta giorni dalla pronuncia. L'art. 156 disp. att. c.p.c. impone, inoltre, al richiedente il sequestro di depositare una copia della sentenza in forma esecutiva nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione nella cancelleria del giudice competente per l'esecuzione, chiedendo altresì nell'ipotesi di sequestro conservativo di immobile, l'annotazione della sentenza stessa in margine della trascrizione del sequestro. La norma dell'art. 675 c.p.c. parla chiaramente di perdita di efficacia del provvedimento e, quindi, può senz'altro ritenersi che la stessa integri le previsioni di cui all'art. 669-novies c.p.c. aggiungendo un'ulteriore ipotesi di inefficacia dei provvedimenti cautelari. La giurisprudenza sul punto è stata esplicita. Da ultimo, si è evidenziato che, sebbene l'art. 669-novies c.p.c. non menzioni espressamente l'art. 675 c.p.c., l'analogia della fattispecie disciplinata da tale ultima norma con quelle previste dall'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., induce a ritenere applicabile quest'ultimo articolo anche al caso dell'inefficacia del sequestro conseguente alla mancata esecuzione nel termine dettato dall'art. 675 c.p.c. (Trib. Savona 24 luglio 2020). Sempre nel senso dell'inefficacia, si è rilevato, con riguardo all'ipotesi di sequestro giudiziario concesso dal giudice senza la nomina di un custode, in violazione dell'art. 676 c.p.c., che la parte, per evitare l'inefficacia del provvedimento ex art. 675 c.p.c., nel termine di trenta giorni deve provvedere ad attivarsi o iniziando il sequestro rivolgendosi comunque all'ufficiale giudiziario, ovvero richiedendo al giudice l'integrazione del provvedimento (Trib. Reggio Emilia 13 ottobre 2012). Sempre nello stesso senso, si è precisato che l'inefficacia del provvedimento di autorizzazione di un sequestro conservativo ai sensi dell'art. 675 c.p.c. deve dichiarata mediante il procedimento di cui all'art. 669-noviesc.p.c. (Trib. Roma 23 marzo 2007). La dottrina dominante è nello stesso senso, ossia che l'art. 675 c.p.c. aggiunga una ipotesi di inefficacia alle previsioni contenute nell'art. 669-novies c.p.c. (Merlin 2015, 436; Verde, Di Nanni, 264; Olivieri 1991, 714; Attardi 1991, 253). Per quanto riguarda l'ipotesi prevista dall'art. 156 disp. att. c.p.c., la norma prevede – come già anticipato – che il sequestrante che ha ottenuto la sentenza di condanna esecutiva prevista dall'art. 686 c.p.c. deve depositarne copia nella cancelleria del giudice competente per l'esecuzione nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione e deve procedere poi alle notificazioni previste dall'art. 498 c.p.c. Se oggetto del sequestro sono beni immobili, il sequestrante deve inoltre chiedere, nel termine perentorio di sessanta giorni previsto dal comma 1 della disposizione, l'annotazione della sentenza di condanna esecutiva in margine alla trascrizione prevista dall'art. 679 c.p.c. Si è opinato in dottrina, con riferimento all'applicazione giurisprudenziale di tale norma, che individua nel mancato assolvimento degli oneri ivi previsti una causa di estinzione del processo esecutivo e, quindi, di inefficacia del pignoramento, che deve essere fatta valere nei modi e nei termini previsti dall'art. 630 c.p.c., afferma che la sopravvenuta inefficacia riguarda il pignoramento e non già il sequestro ormai assorbito dal pignoramento stesso (Merlin 2015, 436; Samorì 1987, 973). La giurisprudenza, infatti, afferma che la conversione del sequestro conservativo in pignoramento opera ipso iure nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, iniziando in quello stesso momento il processo esecutivo di cui il sequestro stesso, una volta convertitosi in pignoramento, costituisce il primo atto, mentre l'attività imposta al sequestrante dall'art. 156 disp. att. c.p.c., da eseguirsi nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di condanna esecutiva, è attività di impulso processuale che il sequestrante, divenuto creditore pignorante, ha l'onere di compiere nel detto termine perentorio e la mancanza comporta l'inefficacia del pignoramento (Trib. Grosseto 8 luglio 2017; Trib. Latina 7 aprile 2016). Segue. Le modifiche all'inefficacia di alcuni provvedimenti cautelari contenute nella riforma del processo civile 2022. L'art. 1, comma 17, della l. delega n. 206/2021, rubricato «Disposizioni per l'efficienza dei procedimenti civili», stabilisce che in sede di attuazione della delega il Governo avrebbe dovuto prevedere che il provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni, società ovvero condominio non perde efficacia in caso di estinzione del giudizio, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa e che i provvedimenti di sospensione delle deliberazioni dell'assemblea condominiale di cui all'art. 1137 c.c. (che disciplina l'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea) non perdono efficacia ove non sia successivamente instaurato il giudizio di merito. La legge delega incideva anche sulle modalità di pronuncia della inefficacia prevedendo che la dichiarazione di inefficacia di cui alla norma in commento doveva assumere anche in caso di contestazioni la forma dell'ordinanza. Su questo profilo, v. infra. Con decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149 il Governo, in attuazione della legge delega n. 206/2021, ha provveduto a varare la riforma del processo civile. Con tale riforma sono state modificate alcune norme della disciplina dei provvedimenti cautelari e, in particolare, adesso l'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. prevede che le disposizioni della norma e dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., non si applicano oltrechè ai provvedimenti d'urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, e ai provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o danno temuto, anche “ai provvedimenti di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari adottati, ai sensi dell'articolo 1137, quarto comma, del codice civile”, sicché ciascuna delle parti può iniziare il giudizio di merito. Il penultimo comma dell'art. 669-octies c.p.c., nella nuova formulazione, prevede, conseguentemente, che l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia dei provvedimenti di cui al sesto comma, “né dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni o società”, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa. Conformemente alle previsioni della legge delega viene modificato anche l'art. 1137 c.c. con l'eliminazione dell'inciso contenuto nell'ultima parte dell'ultimo comma che prevedeva l'esclusione dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. Con riferimento alla disciplina dell'impugnazione delle delibere condominiali ex art. 1137 c.c. come modificata dalla Riforma Cartabia, la dottrina ha segnalato un problema di coordinamento con le nuove ordinanze definitorie, previste dagli artt. 183-ter e 183- quater c.p.c. e introdotte sempre dal d.l.gs. n. 149/2022. Ci si è chiesti cosa accada al giudizio di impugnazione della delibera condominiale, laddove, su istanza del condomino che si sia costituito, il giudice emetta l'ordinanza di rigetto della domanda (art. 183-quater c.p.c.), rigettando l'impugnazione perché manifestamente infondata e, successivamente, il provvedimento venga confermato in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. Poiché, infatti, l'impugnazione della delibera del condominio deve essere proposta nel termine decadenziale di cui all'art. 1137, co. 2, c.c., se, durante il tempo necessario per ottenere la pronuncia dell'ordinanza di rigetto della domanda ex art. 183-quater c.p.c., venga a scadere il termine di decadenza, l'impugnazione non potrà più essere proposta dallo stesso condomino per il formarsi di un “giudicato di mero fatto” (in arg. V. Amendolagine, Brevi riflessioni sulle ordinanze decisorie nel processo civile, in www.ius.giuffrefl.it, 22 nov. 2023). L'A. segnala come nell'ambito delle impugnazioni delle delibere condominiali sussista anche un ulteriore problema di coordinamento, ove il condomino, prima dell'inizio della causa di merito abbia proposto e ottenuto in via cautelare la sospensione della delibera assembleare. Ciò perché per rimuovere il provvedimento cautelare in parola (non avente natura anticipatoria), bisogna utilizzare la disciplina prevista dall'art. 669-novies c.p.c. nel testo riformulato nel 2022. Ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c., infatti, il giudice dovrà valutare se il ricorso sia fondato e se sussista una causa di inefficacia del provvedimento, instaurando il contraddittorio inter partes prima di decidere sull'esistenza della causa di inefficacia stessa ex art. 669-sexies c.p.c. E, in ogni caso, l'ordinanza che dichiari l'inefficacia del provvedimento cautelare può essere impugnata con reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. con conseguente moltiplicazione dei procedimenti civili pendenti (in tal senso V. Amendolagine, Brevi riflessioni, cit.). È d'uopo, invece, in questa sede parlare delle modifiche alla disciplina dell'inefficacia dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni di associazioni, fondazioni, società o condominio. Secondo quanto riportato nella Relazione illustrativa, la modifica in commento rappresenta la logica attuazione di un criterio che consenta di conferire stabilità al provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni, società, ovvero condominio, prevedendosi, appunto, che esso non perda efficacia in caso di estinzione del giudizio, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa e che i provvedimenti di sospensione delle deliberazioni dell'assemblea condominiale non perdano, appunto, efficacia in mancanza di instaurazione del giudizio di merito. Attualmente, ai provvedimenti cautelari con cui il giudice sospende l'esecuzione delle deliberazioni assunte dagli organi di società, art. 2378, comma 4, c.c. o di associazioni, art. 23, ultimo comma, c.c., non è attribuita efficacia anticipatoria della sentenza di merito, con la conseguenza che essi perdono efficacia laddove il giudizio di merito, in funzione del quale essi sono necessariamente proposti, si estingua. L'intervento di riforma, pertanto, ha uno scopo deflattivo del contenzioso; ciò perché spesso l'attore, dopo aver ottenuto nell'ambito del giudizio di merito il provvedimento cautelare con il quale viene disposta la sospensione dell'esecuzione della deliberazione, non ha realmente interesse ad ottenere la decisione di merito, se non quello di garantire che gli effetti – sicuramente anticipatori – del provvedimento cautelare ottenuto, siano stabilizzati dalla pronuncia di merito idonea, questa sì, al passaggio in giudicato. Il legislatore della riforma, quindi, con l'intervento in questione intende coordinare il regime dell'efficacia di questi provvedimenti cautelari equiparandolo a quello previsto dall'art. 669-octies c.p.c. per le misure cautelari «anticipatorie» che – come già visto supra – non necessitano di un collegamento strumentale «forte» con il giudizio di merito (e che, pertanto, rimangono in vita ove il processo si estingua e non richiedono, ove ottenute ante causam, la necessaria instaurazione entro i termini previsti dalla legge o dal giudice del giudizio di merito ad esse collegato). Per quanto riguarda, poi, i provvedimenti di sospensione dell'esecuzione delle delibere condominiali, la delega – come detto – prevede che la legge di attuazione stabilisca che essi non perdono efficacia in caso di estinzione del giudizio anche laddove la relativa domanda sia stata proposta in corso di causa e che i provvedimenti cautelari di sospensione delle deliberazioni dell'assemblea ex art. 1137 c.c. non perdono efficacia laddove non sia successivamente instaurato il giudizio di merito. L'obiettivo della legge delega rispetto alla previsione in commento è senz'altro quello di garantire una maggiore semplificazione e celerità del procedimento oltreché una deflazione del contenzioso derivante dalla materia condominiale. In sostanza, il condomino che dissenta rispetto alla deliberazione assembleare e che la abbia conseguentemente impugnata ottenendo in sede giudiziale un provvedimento di sospensione dell'efficacia della stessa, potrà usufruire della novella «strumentalità attenuata» del provvedimento in questione che continuerà a spiegare i suoi effetti e a mantenere la sua efficacia anche se il giudizio si estingua, pur se chiesta e ottenuta in corso di causa; ovvero laddove il condomino scelga di chiedere il provvedimento cautelare e ottenere l'istanza di sospensione della delibera prima di instaurare il giudizio di merito, non dovrà successivamente instaurarlo a pena di inefficacia della misura cautelare. Ovviamente, il provvedimento di sospensione può comunque essere oggetto di impugnazione tramite reclamo cautelare e, in base alle regole generali, il giudizio di merito può essere instaurato senz'altro ad opera di altri condomini e del condominio. Ma, comunque, ottenuta la sospensione dell'efficacia esecutiva della delibera il condominio avrà la scelta tra astenersi del tutto dall'eseguirla laddove non intenda proseguire per il merito, ovvero adottare una nuova delibera non viziata. La logica posta alla base della riforma in questione è evidente; il legislatore intende garantire che sia impedita l'esecuzione della delibera assembleare condominiale illegittima. Una volta ottenuto il provvedimento di sospensione sono, alla stregua di quanto accade per tutti i provvedimenti cautelari anticipatori, garantiti gli effetti provvisori del provvedimento e, pertanto, la delibera non può essere eseguita senza necessità che venga instaurato successivamente il giudizio di merito. Secondo le regole generali, il provvedimento di sospensione rimarrà provvisoriamente in vita senza necessità di una rigida strumentalità «forte» e, pertanto, senza necessità che per il mantenimento della sua efficacia sia necessario instaurare il giudizio di merito nei termini previsti dalla legge o dal giudice a pena di inefficacia. Quanto all'applicazione delle nuove norme l'art. 35 del d.lgs. n. 149/2022 prevede che le disposizioni del decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a questa data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano invece le disposizioni anteriormente vigenti. Sentenza di merito dichiarativa dell'inesistenza del diritto.Ai sensi dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., il provvedimento cautelare perde efficacia, oltre che nell'ipotesi di mancato versamento della cauzione, anche nel caso in cui con sentenza di merito, sia italiana che straniera, anche non passata in giudicato, sia dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento stesso era stato concesso; ugualmente, è a dirsi per l'emanazione di un lodo arbitrale a seguito del relativo procedimento. La regola, oramai ovviamente dettata per le sole misure cautelari a strumentalità forte, come i sequestri, si applica senz'altro anche ai provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata, come quelli d'urgenza, laddove in concreto il procedimento di merito sia stato iniziato. Quale sia il significato della disposizione in parola che prevede la perdita di efficacia del provvedimento cautelare ove appunto il giudizio di merito dichiari l'inesistenza del diritto cautelato, è chiaro. La norma – come è stato efficacemente sottolineato – riafferma il principio della prevalenza dell'accertamento a cognizione piena su qualsivoglia accertamento sommario, compreso quello cautelare. La dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato poiché pronunciata in un processo a cognizione piena ha l'effetto di far caducare il provvedimento cautelare che a tutela di quel diritto era stato concesso. Infatti, in dottrina si era precisato che la regola in parola altro non è che l'espressione del principio ricordato della prevalenza della cognizione piena rispetto alla cognizione sommaria (Proto Pisani 1991, 23). In sostanza – come si è giustamente evidenziato – la dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato nel processo a cognizione piena seguente alla concessione del provvedimento cautelare, altro non fa che venir meno il fumus boni iuris, ossia la presumibile fondatezza della pretesa (così Verde, Di Nanni, 264), che si trasforma in accertamento dell'inesistenza. Che ciò sia vero è indiscutibilmente dimostrato dal fatto che è possibile chiedere di nuovo la concessione del provvedimento cautelare al giudice dell'impugnazione, ma, laddove la parte ricorrente chieda l'emanazione del provvedimento prima dell'instaurazione del giudizio di appello, il giudizio in questione deve essere iniziato entro i termini previsti dall'art. 669-octies, comma 1, c.p.c. (Verde, Di Nanni, 265). La norma si riferisce testualmente alla sentenza dichiarativa dell'inesistenza del diritto posto a fondamento della domanda di provvedimento cautelare mentre nulla riferisce quanto alla ipotesi inversa, ossia che la sentenza di merito accolga la domanda proposta dal richiedente la misura cautelare. Ci si chiede, in tale ipotesi, quale sia la sorte del provvedimento cautelare laddove il richiedente possa avere interesse al mantenimento in vita del provvedimento, ipotesi che può verificarsi in casi del tutto limitati, ad esempio quando il provvedimento cautelare sia strumentale rispetto ad una sentenza di merito di mero accertamento (sul punto, v., amplius, Merlin 2015, 437). Partendo dal presupposto che la sentenza di accoglimento ha efficacia esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c., le ipotesi in cui il destinatario del provvedimento cautelare può essere interessato anche alla permanenza in vita del provvedimento sono molto esigue: oltre che nell'ipotesi già ricordata, lo stesso può accadere in ogni caso in cui venga pronunciata una sentenza di merito che non abbia, diversamente da quella di condanna, efficacia immediatamente esecutiva, come può capitare laddove la parte civile in sede penale ottenga una sentenza di condanna al risarcimento dei danni e alle restituzioni (Merlin 2015, 437). Stesso discorso può farsi rispetto alle sentenze costitutive. Per esse è noto che la particolarità è quella di trasformare il rapporto sostanziale fatto valere in giudizio «costituendo» la situazione giuridica soggettiva sostanziale che ne è oggetto. Per esse l'orientamento abbastanza uniforme della giurisprudenza di legittimità, salvo isolate voci difformi, è che non possa predicarsi l'applicazione dell'art. 282 c.p.c. perché sarebbero inefficaci fino al passaggio in giudicato. In tale ipotesi si è condivisibilmente affermato che il provvedimento cautelare dovrebbe sopravvivere anche all'emanazione della sentenza che accolga la domanda di merito proprio perché per esse non potrebbe predicarsi l'immediata esecutività ex art. 282 c.p.c. (Merlin 2015, 437). Volendo tirare le somme del discorso sin qui condotto, resta da chiedersi quale sia la sorte della misura cautelare laddove il diritto sia dichiarato esistente (e non inesistente, unica ipotesi disciplinata dall'art. 669-novies c.p.c.) In tale ipotesi, infatti, le soluzioni praticabili sono sostanzialmente due; o ipotizzare che la sentenza a contenuto positivo, favorevole al beneficiario del provvedimento cautelare, automaticamente assorba il provvedimento stesso che viene di conseguenza caducato, oppure ipotizzare che il provvedimento cautelare rimanga in vita, comunque, indipendentemente dall'esistenza di una sentenza favorevole e anche indipendentemente dalla sua efficacia esecutiva o meno. In dottrina, si sono sposate entrambe le soluzioni. Da un lato, si è ritenuto che la sopravvivenza del provvedimento cautelare in caso di sentenza di merito favorevole al beneficiario avrebbe l'effetto di tutelare il vincitore dall'ipotesi di modifiche successive specie nel corso del successivo giudizio di impugnazione; si fa l'ipotesi in particolare della sospensione dell'efficacia esecutiva o della esecuzione della sentenza in presenza dei motivi gravi e fondati previsti dall'art. 282 c.p.c. (ulteriori rilievi in Merlin 2015, 438). Dall'altro lato, vi è chi, invece, ritiene che il provvedimento cautelare debba essere necessariamente assorbito dalla pronuncia della sentenza di merito favorevole al vincitore non in applicazione dell'art. 669-novies c.p.c. che – come visto – non fa menzione della sorte del provvedimento cautelare in caso di sentenza favorevole, ma piuttosto perché il provvedimento stesso ha ormai terminato la sua funzione con l'emanazione della sentenza di merito (Carratta 2013, 303). Resta da domandarsi come possa tutelarsi il vincitore nel caso in cui abbia ancora necessità di tutela cautelare dopo l'emanazione della sentenza di merito favorevole, come nell'ipotesi già ricordata in cui venga sospesa l'efficacia esecutiva della sentenza da parte del giudice d'appello. In questo caso, chi ritiene che il provvedimento cautelare permanga ancora in vita, afferma che tale soluzione risolve proprio il problema di ovviare al venir meno dell'efficacia esecutiva della sentenza, anche perché diversamente sarebbe molto difficile chiedere ed ottenere una nuova misura cautelare da parte del giudice d'appello considerando che è lo stesso giudice che ha ritenuto di dover sospendere l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata (Merlin 2015, 438). Dall'altro lato ancora, chi ritiene che il provvedimento cautelare in tali ipotesi sia assorbito dalla sentenza di merito favorevole per esaurimento della sua funzione afferma che in casi del genere potrebbe ipotizzarsi una reviviscenza del provvedimento cautelare (così Carratta 2013, 303). Infine, a parere di ulteriore dottrina, il provvedimento cautelare rimarrebbe in vita a seguito della pronuncia della sentenza di merito favorevole per poi venir meno se il giudice ritiene di sospendere l'efficacia o l'esecuzione della sentenza impugnata (Recchioni 2005, 647). In giurisprudenza, si è precisato che, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., il provvedimento cautelare, nella specie un sequestro, perde efficacia, sia nel caso di dichiarazione di inesistenza, anche se con sentenza non passata in giudicato, del diritto a tutela del quale il provvedimento è stato emesso, sia nell'ipotesi inversa in cui, accogliendosi la domanda di merito, sia affermato a chi spetti la titolarità del diritto sul bene, la cui integrità il sequestro aveva la funzione di conservare per assicurare al provvedimento attributivo la sua pratica efficacia (Trib. Firenze 22 settembre 2020). Nulla dice la norma, inoltre, sull'eventuale accoglimento-rigetto parziale della domanda, ossia di cosa accada al provvedimento cautelare ove la sentenza di merito accerti la inesistenza parziale del diritto vantato. La soluzione prospettabile è quella che invece della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, il giudice possa modulare il provvedimento, eventualmente riducendone il contenuto per adattarlo al parziale accoglimento e, quindi, alla modificazione del fumus boni iuris. Ovviamente laddove ciò sia concretamente possibile. Nello stesso senso, si è espressa la dottrina dominante affermando che invece della declaratoria di inefficacia dell'intero provvedimento cautelare dovrebbe essere riconosciuta al giudice la possibilità di un intervento riduttivo nei limiti della compatibilità (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 668; Samorì, 227). Si è giustamente precisato che se non vi è una pronuncia del giudice riguardo alla riduzione, la sentenza di parziale accoglimento sostituisce comunque il provvedimento nella parte positiva, assorbendo l'effetto della cautela ma conservandolo nei limiti del suo contenuto concreto: ad esempio, si è precisato che il sequestro conservativo si converte in pignoramento per un credito inferiore rispetto a quello originariamente tutelato con la misura cautelare conservativa (Vaccarella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 372). Resta, infine, da accennare all'ipotesi in cui la sentenza di primo grado che dichiara inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento cautelare era stato emesso sia riformata in appello; in questa ipotesi torna a sorgere l'esigenza della misura cautelare, almeno rispetto alle misure cautelari conservative quali il sequestro e soltanto in ipotesi eccezionali dato che la legge prevede che la sentenza sia immediatamente esecutiva, e, pertanto si potrà chiedere una nuova misura cautelare al giudice competente ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. Su questo specifico profilo, si è sostenuto che, se nel corso del giudizio di primo grado, venga concesso il sequestro giudiziario di un bene immobile e in grado di appello venga dichiarata l'inesistenza del diritto a cautela del quale il sequestro era preordinato, la misura cautelare perde efficacia ipso iure, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., senza necessità di alcuna pronuncia espressa, mentre gli eventuali provvedimenti conseguenti alla cessazione dell'efficacia del sequestro, ivi comprese le statuizioni sulle spese di custodia, sono devolute al giudice che ha emesso la misura (Cass. III, n. 8564/2012). Con esplicito riferimento al principio di strumentalità delle misure cautelari, si è rilevato che, considerato che l'unitarietà del procedimento cautelare non consente di scindere le varie fasi dello stesso procedimento in momenti autonomi e, conseguentemente, le nuove fasi, provvedimenti, del procedimento assorbono o travolgono le precedenti, la sentenza di appello che annulla l'ordinanza di modifica del decreto di autorizzazione del sequestro, comporta sostanzialmente la caducazione degli effetti del procedimento cautelare (C. conti n. 54/1997). Per quanto riguarda la pronuncia della sentenza straniera o del lodo arbitrale, l'art. 669-novies, comma 4, n. 2), c.p.c., specifica proprio che se viene pronunciata sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o lodo arbitrale che dichiarino inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento cautelare era stato concesso, il provvedimento in questione perde efficacia. Per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e per le disposizioni di ripristino la norma richiama il proprio comma 2. Pertanto, mentre nell'ipotesi di sentenza di merito italiana che dichiari inesistente il diritto vantato, il provvedimento cautelare perde automaticamente efficacia, nell'ipotesi di sentenza straniera o lodo arbitrale dichiarativi dell'inesistenza del diritto cautelato, il procedimento è quello previsto dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. Quindi, il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non vi è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. Laddove, invece, vi sia contestazione l'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti previsti dall'art. 669-decies c.p.c. Anche nel caso di sentenza straniera o lodo arbitrale potrebbe aversi una pronuncia che in parte rigetti la domanda di merito e in parte la accolga riconoscendo l'esistenza del diritto; anche in tal caso potrà aversi una modifica del contenuto del provvedimento cautelare tale da adeguarlo al contenuto della sentenza di merito straniera o del lodo. Si è precisato che, in tale ipotesi, è il giudice italiano che ha pronunciato il provvedimento cautelare a dover modificare il contenuto del provvedimento stesso per adeguarlo al contenuto del provvedimento di merito, così come dispone l'art. 669-decies, comma 2, c.p.c. Ai sensi di tale norma, infatti, il provvedimento cautelare può essere revocato o modificato a seguito di un mutamento delle circostanze che ne avevano giustificato la concessione, le quali possono essere successivamente mutate sia per fatti nuovi sia per fatti antecedenti dei quali, tuttavia, la parte istante abbia acquisito conoscenza soltanto dopo l'emanazione del provvedimento cautelare (Picardi, 270). La norma, generalizzando quanto già previsto per i procedimenti in materia societaria dall'art. 23, comma 3, d.lgs. n. 5/2003, sembra assumere una posizione intermedia tra le opposte tesi dottrinali e giurisprudenziali circa i presupposti della revoca della misura cautelare in omaggio alla lettera dell'originario art. 669-decies (Guaglione, 500). Secondo un primo orientamento, infatti, il mutamento delle circostanze idoneo a giustificare la proposizione di un'istanza di revoca o modifica dei provvedimenti cautelari doveva essere posto in correlazione con la semplice introduzione od emersione di elementi nuovi nella valutazione del maggiore o minore grado di probabile esistenza del diritto e del periculum in mora a cautela del quale il provvedimento era stato concesso, sicché gli stessi sarebbero stati idonei a ricomprendere anche l'allegazione di fatti già esistenti al momento della concessione della misura e le prove nuove (Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 501; Proto Pisani 1991, 305; Andolina, 80; Marelli 1999, 789; Trisorio Liuzzi, 910). Per altri, l'istanza di revoca o modifica poteva essere fondata principalmente su circostanze extraprocessuali idonee ad incidere sul periculum in mora ovvero sul fumus boni iuris e non anche su quanto già deducibile nell'ambito del procedimento che aveva condotto all'emanazione del provvedimento cautelare. L'orientamento prevalente della giurisprudenza di merito aveva, tuttavia, avallato la prima impostazione maggiormente estensiva quanto al novero delle circostanze deducibili in sede di istanza di revoca e modifica (ulteriori riferimenti in Attardi 1991; Consolo 1996, 329; Merlin 2015, 372; Olivieri, 718; Basilico, 25; Cecchella, 142; Corsini, 96; Saletti 1993, 645). L'attuale formulazione letterale della norma sembra codificare una posizione intermedia perché, consentendo la deduzione in sede di istanza di revoca e modifica dei fatti anteriori al momento entro il quale gli stessi potevano essere utilmente dedotti nel procedimento cautelare ma dei quali si è acquisita la conoscenza solo successivamente non subordina, tuttavia, come avviene per la rimessione in termini, tale richiesta ad un'ignoranza incolpevole dei predetti fatti (Guaglione, 500). Si è, poi, esattamente rilevato che l'istante dovrà a tal fine fornire la prova non del momento in cui ha avuto conoscenza del fatto che giustifica la richiesta, bensì semplicemente della sopravvenienza di una tale conoscenza rispetto al momento in cui si è svolto il procedimento cautelare (Luiso, Sassani, 225), ovvero al momento in cui tali fatti potevano essere utilmente dedotti nel relativo procedimento (Balena, 364). Quanto ai presupposti dell'istanza proponibile ex art. 669-decies c.p.c. permane, in ogni caso, una diversità di posizioni tra coloro che ritengono che l'efficacia preclusiva dell'ordinanza di accoglimento non si estenda non solo ai fatti preesistenti ed ignoti ma anche alle sopravvenienze probatorie, comprese quelle risultanti dall'eventuale istruttoria svoltasi nel giudizio di merito, ad es. le nuove prove (Menchini 96; Luiso, Sassani, 226) e coloro che restringono, invece, il novero dei motivi che possono essere posti alla base della revoca ai nuovi fatti extraprocessuali, nonché a quelli concernenti la fondatezza della misura cautelare preesistenti ed ignorati nel momento entro il quale potevano essere fatti valere nel procedimento cautelare (Saletti 1991, 80). Sarebbero così irrilevanti le risultanze istruttorie del giudizio a cognizione piena, potendo essere posti a fondamento dell'istanza di revoca soltanto i fatti nuovi, anche sotto il profilo meramente soggettivo, oggetto di siffatte risultanze (Petrillo, 200). I presupposti dell'istanza di revoca o modifica del provvedimento cautelare di accoglimento divergono in senso restrittivo da quelli della riproposizione dell'istanza cautelare rigettata per motivi diversi dall'incompetenza enucleati dall'art. 669-septies c.p.c.: secondo parte della dottrina, ciò fa sorgere dubbi di legittimità costituzionale della disciplina complessiva per violazione del principio della parità delle armi tra le parti nel processo, sancito dall'art. 111 Cost. (Luiso, Sassani, 226; Dalmotto, 1283). Un problema ulteriore da affrontare in questa sede, perché collegato all'ipotesi della sentenza dichiarativa dell'inesistenza del diritto e alla sorte del provvedimento cautelare, è quello del mancato coordinamento tra l'art. 669-noviesc.p.c. e l'art. 2668 c.c. in tema di cancellazione della trascrizione delle domande giudiziali. Con riserva di approfondimento del tema nella sede appropriata e cioè subart. 669-octies c.p.c., è opportuno in questa sede riferire, sia pur brevemente, i termini della questione. La questione relativa all'utilizzabilità di un provvedimento cautelare anticipatorio (nella specie il provvedimento d'urgenza) si è posto nel tempo anche con riferimento alla cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale, ai sensi dell'art. 2668, comma 1, c.c. Tale norma stabilisce che «la cancellazione della trascrizione delle domande enunciate dagli artt. 2652 e 2653 e delle relative annotazioni si esegue quando è debitamente consentita dalle parti interessate ovvero è ordinata giudizialmente con sentenza passata in giudicato». Il riferimento normativo contenuto nell'art. 2668, comma 1, c.c. alla sentenza passata in giudicato ha fatto sì che la stessa giurisprudenza di legittimità ha negato l'ammissibilità di una cancellazione della trascrizione di domanda giudiziale ordinata con un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. Essa ha pertanto affermato che la cancellazione della trascrizione di una delle domande indicate negli artt. 2652 e 2653 c.c. può essere ordinata, quando non sia consentita dagli interessati, soltanto con sentenza passata in giudicato, con la conseguenza che, ove venga disposta a norma dell'art. 700 c.p.c. con ordinanza del giudice istruttore e della relativa causa, tale ordinanza non ha più carattere provvisorio bensì ha natura decisoria e definitiva, sostituendosi essa alla sentenza della quale non potranno più farsi rivivere gli effetti della trascrizione e, quindi, costituisce provvedimento abnorme, ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. II, n. 251/1986). Premesso che la natura della sentenza menzionata dall'art. 2668, comma 1, c.c. è senz'altro costitutiva-estintiva, bisogna tenere presente che la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale, ove disposta con un provvedimento cautelare anticipatorio, potrebbe comportare delle conseguenze non reversibili laddove ad esempio, cancellata la trascrizione in questione con un provvedimento d'urgenza, altri soggetti terzi possano conseguentemente procedere alla trascrizione del proprio atto d'acquisto con conseguente inopponibilità dell'eventuale accoglimento successivo della domanda giudiziale (Panzarola, Giordano, 274). La giurisprudenza di merito, infatti, su questa base tende a negare l'ammissibilità della cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale con provvedimento d'urgenza. Ad esempio, si è detto che sarebbe inammissibile il ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad ottenere la cancellazione di una trascrizione abusiva di una domanda giudiziale, richiedendo, a tal fine, l'art. 2668 c.c. una sentenza passata in giudicato e caratterizzandosi i provvedimenti d'urgenza per la loro provvisorietà e strumentalità, mentre la misura cautelare in tale ipotesi, ove concessa, assumerebbe carattere di sostanziale definitività (Trib. Milano 13 gennaio 2011; Trib. La Spezia 26 agosto 2004; Trib. Reggio Calabria 3 aprile 2004). Il discorso, però, si fa diverso laddove si recepisca la distinzione, già elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, tra trascrizione della domanda giudiziale effettuate ai sensi degli artt. 2652 e 2653 c.c. e trascrizione illegittima, cioè effettuata al di fuori delle ipotesi previste da tali disposizioni del codice sostanziale. Infatti, se, ai sensi dell'art. 96, comma 2, c.p.c. è previsto il risarcimento del danno a danno di chi abbia, senza la normale prudenza, trascritto una domanda giudiziale relativa ad un diritto poi rivelatosi inesistente, un simile rimedio della responsabilità c.d. aggravata non può soccorrere nelle ipotesi di trascrizione effettuata al di fuori delle ipotesi prescritte dal codice civile. La distinzione tra trascrizione «ingiusta» e «illegittima» è elaborata – come anticipato – dalla giurisprudenza di legittimità che, in alcuni suoi arresti, ha affermato che ove sia stata eseguita la trascrizione di una domanda giudiziale al di fuori dei casi di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c., sussiste l'interesse della controparte ad agire, anche in separato giudizio, per il relativo risarcimento del danno, a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza che rigetta la domanda illegittimamente trascritta; in tal caso, infatti, la cancellazione della trascrizione non è collegata al mancato accoglimento della domanda ma alla sua intrinseca illegittimità, del tutto autonoma rispetto al giudizio di merito nel cui ambito la trascrizione era stata disposta (Cass. S.U., n. 6597/2011; Cass. II, n. 13127/2010). In sostanza, recependo la distinzione ora esposta tra la trascrizione «ingiusta» ossia avente ad oggetto comunque atti compresi nell'elenco di cui agli artt. 2652 e 2653, per i quali soltanto può operare il rimedio previsto dall'art. 96, comma 2, c.p.c. e la trascrizione «illegittima» ossia avutasi per atti non compresi in tale elenco, ecco che, rispetto a quest'ultima, non potrebbe applicarsi la lettera dell'art. 2668, comma 1, c.c. che richiede, per la cancellazione della trascrizione in questione la sentenza passata in giudicato, ove non vi sia il consenso delle parti. Sulla scorta di questa distinzione, copiosa giurisprudenza di merito ammette la cancellazione della trascrizione delle domande giudiziali che siano state, per l'appunto, trascritte al di fuori dei casi previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c. Si è rilevato, ad esempio, che la trascrizione della domanda giudiziale può essere cancellata in via interinale con ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. esclusivamente quando la suddetta trascrizione sia abusiva, vale a dire fatta al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge (Trib. Busto Arsizio 9 febbraio 2010; Trib. Napoli 26 gennaio 2006; Trib. Siracusa 2 febbraio 2001). Se, quindi, si può utilizzare la ormai pacifica distinzione tra trascrizione ingiusta e trascrizione illegittima per consentire, almeno rispetto a quest'ultima, l'uso del provvedimento cautelare anticipatorio, tuttavia bisogna segnalare come una certa giurisprudenza di merito estenda l'uso della cautela innominata anche alle ipotesi in cui la trascrizione della domanda giudiziale sia infondata, sebbene ricompresa all'interno degli atti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c. Il riferimento è a quelle pronunce di merito, non molte per dire il vero, che affermano che è ammissibile ordinare con provvedimento d'urgenza alla parte di provvedere alla cancellazione della trascrizione di una domanda giudiziale (Trib. Milano 30 settembre 2002; Trib. Milano 22 febbraio 2001). Va segnalato che con ordinanza n. 117/2021 il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2652,2653 e 2668 c.c., in riferimento agli artt. 3,24 e 42 Cost., parametri che le disposizioni censurate violerebbero nella parte in cui non consentono al giudice di ordinare con provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. la cancellazione della trascrizione di una domanda giudiziale, nemmeno ove questa sia manifestamente infondata. La Corte Costituzionale ricorda di aver già dichiarato manifestamente inammissibile una questione analoga con sentenza n. 523/2002, in relazione ad una ordinanza di rimessione che censurava però isolatamente l'art. 2668 c.c. che, nel subordinare la cancellazione della trascrizione di domanda giudiziale al passaggio in giudicato della sentenza di rigetto, “è pienamente consequenziale alla scelta legislativa di fondo, per cui talune domande giudiziali devono essere trascritte ad iniziativa della parte attrice, senza alcuna delibazione, anche cautelare, circa la loro fondatezza”. In quella sede la Consulta aveva quindi rilevato una aberratio ictus dovuta alla mancata denuncia in sede di qlc. anche degli artt. 2652 e 2653 c.c. secondo i quali le domande ivi indicate “si devono trascrivere”. Il Tribunale di Roma del 2021 invece sottopone al giudizio del giudice delle leggi l'intero corpus normativo dato dalle norme sopracitate, ma le questioni vengono ugualmente dichiarate inammissibili. La Corte rileva una “tensione irrisolta” tra i valori coinvolti dalle denunciate disposizioni normative ricordando che proprio in funzione della risoluzione di tale tensione la giurisprudenza di merito ha introdotto eccezioni allo sbarramentno del giudicato ex art. 2668 c.c., in particolare tramite la distinzione fra trascrizione illegittima e trascrizione ingiusta elaborata ad altro fine da Cass. S.U n. 6597/2011. Inoltre, rileva la Corte, il sistema processuale civile, ad onta del dettato testuale delle norme che chiedono il giudicato per l'ordine di cancellazione della trascrizione della domanda, segue una tendenza chiara a “svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità dell'accertamento con il crisma del giudicato sostanziale” (Corte Cost. n. 212/2020). Questa tendenza normativa a collegare effetti sempre più incisivi alla sentenza in sé, pur se non passata in giudicato, trova riscontro nella disciplina dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c. ove si prevede che il provvedimento cautelare perde efficacia se il diritto oggetto della cautela è dichiarato inesistente con sentenza anche non passata in giudicato. Tra le varie soluzioni prospettate per risolvere la tensione derivante dal contrasto delle disposizioni normative la Corte Costituzionale propone, tra le altre, ai fini che a noi interessa, una possibile modifica che elida il segmento “passata in giudicato” contenuto alla fine del primo comma dell'art. 2668 c.c., con un effetto di allineamento tra questo e l'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., in modo che la cancellazione della trascrizione della domanda possa essere anticipata rispetto alla formazione del giudicato, senza tuttavia rinunciare, nell'ottica della tutela dell'attore, alla garanzia della cognizione piena. Tuttavia, pur segnalando l'esistenza di un reale problema sistemico, la Corte Costituzionale rileva che le questioni sollevate dal Tribunale di Roma tendono ad una pronuncia additiva che imponga una tra le varie opzioni riservate alla discrezionalità legislativa, eccedenti l'ambito della giurisdizione costituzionale. La soluzione del problema è quindi rinviata ad una auspicabile riforma legislativa (Corte Cost. n. 143/2022). La dottrina si è in più occasioni posta il dubbio relativo alla eccessiva rigidità del sistema della cancellazione della trascrizione delle domande giudiziali, evidenziando in più occasioni problemi di legittimità costituzionale in relazione al fatto che la cancellazione in questione è consentita soltanto ove si abbia una sentenza passata in giudicato, pur se la domanda giudiziale proposta sia del tutto infondata (Dittrich, 62; Conte, 930). Si è, infatti, giustamente evidenziato come il dilemma più difficile da risolvere e che maggiormente evidenzia i limiti del sistema attuale è quello derivante dalla trascrizione di una domanda giudiziale ictu oculi infondata ma in relazione ad atti che rientrano nell'ambito di quelli elencati dagli artt. 2652 e 2653 c.c. (Conte, 930). Il dubbio sull'eccessiva rigidità della norma dell'art. 2668, comma 1, c.c. nel richiedere necessariamente una sentenza passata in giudicato per la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale si è posto nella giurisprudenza di merito. Si è, infatti, partiti dalla premessa che è inammissibile la richiesta di disporre ai sensi dell'art. 700 c.p.c. la cancellazione di trascrizione di domanda giudiziale, potendo questa formalità essere eseguita soltanto in forza di sentenza passata in giudicato, per poi affermare che non è manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità, per violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., dell'art. 2668 c.c. nella parte in cui non prevede che la cancellazione della trascrizione di una domanda giudiziale possa essere ordinata con un provvedimento cautelare anticipatorio, nella specie art. 700 c.p.c., pur quando appaia probabile l'infondatezza della domanda giudiziale (Trib. Verona 9 marzo 2001). In particolare, il Tribunale, rispetto alla non manifesta infondatezza della questione, afferma che, pur configurandosi la trascrizione della domanda giudiziale come cautela contro atti di disposizione giuridica di beni immobili, onde essa ha funzione cautelare, conservativa e di salvaguardia contro il terzo avente causa dal convenuto che trascriva il suo titolo posteriormente, la norma dell'art. 2668 c.c. non risulta coordinata né con l'art. 669-novies c.p.c., né con la restante normativa sul procedimento cautelare. In particolare, secondo il rimettente, la disciplina della trascrizione presenta una serie di incongruenze, perché essa, pur costituendo una forma di autotutela cautelare, non è soggetta, anche a contraddittorio instaurato, ad alcun vaglio del giudice, che non deve e non può confermarla in applicazione dell'art. 669-sexies c.p.c., non può né revocarla né modificarla, ex art. 669-noviese 669-decies c.p.c.; inoltre, essa sfugge alla regola del contraddittorio e viola il principio della parità fra le parti poiché, se la tutela cautelare mira ad evitare che la durata del processo vada a danno della parte che ha ragione, «l'irremovibile trascrizione della domanda giudiziale altera l'equilibrio tra le posizioni, privilegiando la condizione dell'attore». La Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2668 c.c. nella parte in cui dispone che la cancellazione della trascrizione delle domande giudiziali indicate negli artt. 2652 e 2653 c.c. è ordinata giudizialmente con sentenza passata in giudicato. Secondo il giudice delle leggi, il fatto che sia esclusa la possibilità che la cancellazione della trascrizione sia assoggettata alla disciplina del procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis e seguenti c.p.c., anche quando nel corso del processo la domanda trascritta appaia infondata, non consente di dichiarare l'incostituzionalità della previsione normativa perché la particolare funzione della trascrizione della domanda giudiziale, che ha natura sostanziale e non mira a tutelare la parte di un giudizio di merito, non è riconducibile alla tutela cautelare e, pertanto, l'estensione all'istituto della trascrizione delle domande giudiziali della disciplina del procedimento cautelare uniforme, per come strutturato, potrebbe avvenire unicamente per il tramite di un intervento legislativo opportunamente modulato e non certo attraverso una pronuncia additiva della Corte (Corte cost., n. 523/2002). Se, pertanto, la Consulta nega, allo stato attuale che si possa asserire la natura cautelare della disciplina della trascrizione delle domande giudiziali essendo una tale opzione riservata alla scelta legislativa, non può però dimenticarsi che la natura cautelare della trascrizione delle domande giudiziali è stata affermata nel tempo da autorevole dottrina. Si è opinato, infatti, che la disciplina della trascrizione delle domande giudiziali sarebbe, per come è configurata attualmente, senz'altro pericolosa perché essa non presuppone alcuna valutazione da parte del giudice del fumus boni iuris della domanda dell'attore e deriva dalla semplice richiesta della parte stessa. La situazione è complicata – secondo tale opinione – dalla disciplina del rito cautelare uniforme e dal fatto che il legislatore non ha coordinato la disciplina della trascrizione delle domande giudiziali con l'art. 669-novies c.p.c. visto che l'art. 2668 c.c. pretende, per la cancellazione, una sentenza passata in giudicato, mentre per la dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c., è sufficiente la pronuncia di una sentenza che dichiari l'inesistenza del diritto (Proto Pisani 2019, 613). Se, pertanto, dovesse farsi strada la tesi della natura cautelare della trascrizione delle domande giudiziali, il legislatore dovrebbe intervenire per rendere coerente il sistema disciplinato dall'art. 2668 c.c. con la disciplina dell'art. 669- novies c.p.c., prevedendo, pertanto, che anche la semplice sentenza dichiarativa dell'inesistenza del diritto comporti la inefficacia del concesso provvedimento cautelare; tuttavia una simile soluzione potrebbe essere predicata solo ove si sovvertisse l'attuale configurazione della funzione della trascrizione delle domande giudiziali che, secondo la Corte Costituzionale, in linea con quanto affermato da autorevole dottrina, esplicherebbe una funzione di pubblicità-notizia a tutela soprattutto dei terzi (v., amplius, il commento subart. 669-octies c.p.c.). Mancata richiesta di exequatur della sentenza straniera o del lodo arbitrale.Ai sensi dell'art. 669-novies, comma 4, n. 1), c.p.c., il provvedimento cautelare, oltre che nei casi previsti dai commi 1 e 3 della norma, perde efficacia se la parte che l'aveva richiesto non presenta domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali. Va, innanzitutto, precisato che il termine in questione nel nostro ordinamento era previsto soltanto fino alla l. n. 25/1994. Adesso l'art. 825 c.p.c. conferma quanto già disciplinato con la legge citata che ha reso il deposito un onere per la parte che vuole far eseguire il lodo nel territorio della Repubblica, con la conseguenza che tale onere può essere esercitato in qualsiasi tempo, senza che la legge indichi alcun termine di decadenza. Peraltro, non vi sono Convenzioni internazionali relativi a lodi o sentenze estere che pongano termini di decadenza per la proposizione della domanda di esecutorietà; non si riscontrano, ad esempio, nella Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, ratificata con l. n. 804/1971, né nella Convenzione di New York del 10 giugno 1958, ratificata con l. n. 62/1968 (in termini, v. Proto Pisani 1991, 24). Il riferimento contenuto nella disposizione in parola alla proposizione della domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale nei termini che siano previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali si riferisce all'ipotesi della sentenza che dichiari l'esistenza del diritto oggetto della domanda di merito. In tale caso, soltanto il mancato inizio del procedimento diretto alla dichiarazione di esecutorietà provoca l'effetto di impedire che la sentenza produca effetti nell'ordinamento interno e impedisce, pertanto, la conservazione dell'efficacia del provvedimento cautelare. Tuttavia, abbiamo già visto come non risultino termini decadenziali per la domanda di esecutorietà e come quindi la disposizione in commento abbia una scarsa rilevanza da un punto di vista applicativo. Bisogna, invece, far riferimento alla disposizione dell'art. 156-bis disp. att. c.p.c., a norma della quale se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o è compromessa in arbitri, il sequestrante deve, a pena di perdita di efficacia del sequestro conservativo ottenuto, proporre domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo entro il termine perentorio di sessanta giorni, decorrente dal momento in cui la domanda di esecutorietà è proponibile. Tale dichiarazione di esecutorietà produce, dice la norma, gli effetti di cui all'art. 686 c.p.c. e diventa applicabile il precedente art. 156 disp. att. c.p.c. Quindi, dopo la dichiarazione di esecutorietà il sequestro conservativo, a norma dell'art. 686 c.p.c., si converte in pignoramento (la norma testualmente prevede che ciò accade nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva). Sempre dopo la dichiarazione di esecutorietà sorgono gli oneri fissati dall'art. 156 disp. att. c.p.c., e pertanto il sequestrante deve depositare copia della sentenza di condanna esecutiva nella cancelleria del giudice competente per l'esecuzione nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione e procedere alle notificazioni previste dall'art. 498 c.p.c.; se oggetto del sequestro sono beni immobili, il sequestrante deve chiedere, sempre nello stesso termine perentorio, l'annotazione della sentenza di condanna esecutiva in margine alla trascrizione prevista dall'art. 679 c.p.c. Secondo parte della dottrina, la previsione dell'art. 156- bis disp. att. c.p.c. dovrebbe trovare applicazione a tutti i provvedimenti cautelari concessi in funzione di un procedimento arbitrale o di un procedimento straniero di merito, con la conseguenza che la misura cautelare dovrebbe perdere efficacia se la parte vittoriosa nel giudizio di merito non proponga la domanda di esecutorietà in Italia nel termine di sessanta giorni. Il motivo di questa applicazione è che, diversamente opinando, la parte vittoriosa potrebbe spostare senza termini il momento in cui la sentenza abbia efficacia esecutiva e l'efficacia parallela del provvedimento cautelare (Sassani, in Consolo, Luiso Sassani 1991, 494; Frus, 719). In senso contrario, però, si è sostenuto che la disposizione dell'art. 669-novies c.p.c. è chiara nel non imporre una subordinazione del provvedimento cautelare alla proposizione della domanda di esecutorietà entro alcuni termini, bensì stabilisce al contrario che il provvedimento cautelare perde efficacia ove siano previsti già termini di decadenza per la proposizione di tale domanda dalla legge o dalle convenzioni internazionali. La norma non si preoccupa affatto, invece, di porre rimedio all'ipotesi sopra accennata – e peraltro poco probabile – della procrastinazione da parte del vincitore nel giudizio di merito della proposizione della domanda di riconoscimento della sentenza al fine di conservare l'efficacia della misura cautelare (Merlin 2015, 444; Carratta 2013, 315; Cecchella 1997, 125). Per quanto riguarda l'ipotesi in cui la sentenza straniera o il lodo straniero siano di accoglimento parziale e quindi riconoscano solo parzialmente l'esistenza del diritto vantato e oggetto della misura cautelare interna, la soluzione dovrebbe essere quella già predicata a proposito della sentenza interna che riconosca parzialmente il diritto vantato e, pertanto, si dovrebbe avere una parziale dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare che rimarrebbe per il resto efficace e ciò senza necessità di una specifica domanda di esecutorietà. Trasferimento dell'azione civile in sede penale.Non costituisce causa di inefficacia del provvedimento cautelare l'eventualità che l'azione civile sia trasferita in sede penale. Il problema si è posto a causa del dato testuale dell'art. 75, comma 1, c.p.p. a norma del quale l'azione civile proposta dinanzi al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a che in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L'esercizio di questa facoltà comporta, ai sensi della norma, rinuncia agli atti del giudizio e il giudice penale provvede anche sulle spese del procedimento civile. Dalla lettura della norma in questione, ci si era posti il dubbio se il riferimento all'estinzione del processo a seguito del trasferimento in sede penale dell'azione civile potesse comportare l'inefficacia del provvedimento cautelare eventualmente concesso nel procedimento civile, alla stregua di quanto previsto dall'art. 669-novies c.p.c., secondo cui l'estinzione del giudizio di merito comporta l'inefficacia della misura cautelare. Si è, tuttavia, rilevato che si tratta di fenomeni diversi perché l'estinzione prevista dall'art. 75 c.p.p. per il giudizio civile trasferito in sede penale è una estinzione diversa da quella considerata dalla norma processualcivilistica, la quale fa riferimento all'ipotesi in cui l'istante abbandoni del tutto il giudizio di merito, togliendo di conseguenza la ragione dell'esistenza in vita del provvedimento ad esso collegato (n tal senso, v. Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 667). Si è giustamente rilevato che, invece, vi sono diverse norme che inducono a ritenere esattamente il contrario. In primo luogo, il riferimento è all'art. 78, commi 1 e 2, c.p.p. che, sotto la rubrica «Formalità della costituzione di parte civile», stabilisce che la dichiarazione di costituzione di parte civile è depositata nella cancelleria del giudice che procede o presentata in udienza e deve contenere, a pena di inammissibilità alcuni requisiti elencati nelle lettere da a) ad e) della disposizione. Tale dichiarazione di costituzione di parte civile se presentata fuori udienza deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti e produce effetto per ciascuna di esse dal giorno nel quale è eseguita la notificazione. L'istante, pertanto, non abbandona il giudizio di merito, bensì lo coltiva, trasferendolo in sede penale. L'affermazione trova riscontro nel disposto dell'art. 669-decies, comma 2, c.p.c. a norma del quale è revocabile e modificabile la misura cautelare anche nell'ipotesi in cui l'azione civile sia stata trasferita in sede penale; da ciò si ricava che, se modificabile e revocabile anche se trasferita in sede penale, essa deve ritenersi efficace (Samorì, 225; Saletti 1991, 385; De Matteis, 493). La giurisprudenza di merito ha affermato, al riguardo, che il sequestro conservativo disposto a tutela di un diritto fatto valere in sede civile non perde la sua efficacia in caso di estinzione conseguente al trasferimento dell'azione nel processo penale (Trib. Roma 15 febbraio 1995). Competenza per la dichiarazione di inefficacia.Il dato testuale dell'art. 669-novies c.p.c. non è univoco nell'indicare il giudice competente per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, essendo apparentemente disciplinate in modo diverso le ipotesi previste dalla norma ai commi 1 e 4 rispetto all'ipotesi disciplinata dal comma 3. Il complesso della disciplina risultante dalla disposizione normativa sembra indurre a ritenere che la competenza per la dichiarazione di inefficacia spetta al giudice della cautela, inteso come ufficio giudiziario. Non così, invece, nei casi in cui l'inefficacia deriva direttamente dalla sentenza che rigetta la domanda in merito o in rito e che può contenere la dichiarazione di inefficacia del provvedimento senza necessità che ad essa provveda il giudice della cautela. La dottrina ha, pertanto, precisato che la domanda per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare deve essere diretta al giudice competente individuato ai sensi delle norme di riferimento, ossia gli artt. 669-ter, 669-quater e 669-quinquies c.p.c. nelle ipotesi in cui l'inefficacia derivi: 1) dalla mancata instaurazione del giudizio di merito o dalla estinzione dello stesso, anche nelle ipotesi in cui questo doveva svolgersi o si è estinto presso il giudice straniero o l'arbitro; 2) dalla mancata richiesta di esecutorietà del lodo arbitrale o della sentenza estera; 3) dalla dichiarazione della inesistenza del diritto vantato contenuta nella sentenza straniera o nel lodo arbitrale; 4) nel caso di mancato versamento della cauzione (Verde, Di Nanni, 264; Cecchella, 122; Merlin 1996, 421; contra, Consolo, Luiso, Sassani 1991, 490; Attardi 1991, 246). Quanto all'ultimo motivo, pur se contenuto nel comma 3 della norma che – come detto in principio – sembra disciplinare in modo diverso le ipotesi di competenza per la dichiarazione di inefficacia, è stato correttamente assimilato alle ipotesi precedentemente citate, insieme con i casi previsti dagli artt. 156 e 156-bisdisp. att. c.p.c. che – come già visto – disciplinano l'inefficacia del sequestro conservativo per il mancato rispetto dei termini ivi previsti (Proto Pisani 1991, 24). Pur in questo quadro generale, non mancano ipotesi dubbie, dato che l'art. 669-novies c.p.c. non è affatto chiaro nell'indicare la competenza per la dichiarazione di inefficacia. Uno dei casi dubbi è quello relativo alla dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare che sia stato concesso prima della causa di merito quando il giudizio di merito venga instaurato tardivamente rispetto al termine assegnato dal giudice o previsto dall'art. 669-octiesc.p.c. In questa ipotesi, infatti, la competenza per la dichiarazione di inefficacia potrebbe essere attribuita sia al giudice della cautela, ossia a quello che ha concesso il provvedimento di cui si discute, sia al giudice del giudizio di merito che, sia pur tardivamente, è stato instaurato. In giurisprudenza di merito, nei casi concreti che si sono posti con riferimento a questa prima ipotesi dubbia, si è rilevato che il giudice che ha pronunciato ante causam il provvedimento cautelare fissando un termine superiore a 30 giorni per l'inizio del giudizio stesso, è competente a dichiarare l'inefficacia, non potendo questa, in mancanza di tempestivo reclamo, essere dichiarata dal giudice del merito innanzi al quale il giudizio sia stato instaurato nel termine erroneamente fissato nel provvedimento (Pret. Bari 5 agosto 1994). Anche in tempi più recenti, è stato ribadito il principio che il giudice del giudizio di merito tardivamente instaurato è funzionalmente competente a dichiarare l'inefficaciaex art. 669- noviesc.p.c. dei provvedimenti emessi ante causam su eccezione del convenuto (Trib. Firenze 8 giugno 2016). Ugualmente si è detto che, qualora il giudizio sul merito sia instaurato dal ricorrente vittorioso in fase cautelare, la competenza a decidere sull'efficacia del provvedimento in seguito a contestazione sulla ritualità del giudizio introdotto spetta al giudice adìto per il merito e non al giudice che ha emesso il provvedimento (nel caso di specie veniva contestata la corrispondenza tra azione di merito instaurata e domanda cautelare: Trib. Verona 4 agosto 2001). Contra, invece, si è affermato che la competenza a dichiarare l'inefficacia della misura cautelare concessa ante causam per la tardiva instaurazione della causa di merito, spetta non al giudice della causa stessa ma al giudice che ha emesso la misura cautelare da dichiarare inefficace (Trib. Modena 26 marzo 1998). Nello stesso senso, si è sostenuto che è competente il giudice delegato al procedimento cautelare e, in caso di opposizione il tribunale, a dichiarare l'inefficacia della misura cautelare, sia nel caso di rituale ma tardiva instaurazione del giudizio di merito che nel caso in cui tale giudizio sia stato instaurato tempestivamente ma irregolarmente, per vizio della notificazione della citazione (Trib. Verbania 26 ottobre 1995). Un'altra questione di dubbia risoluzione concerne la determinazione del giudice competente a dichiarare che il provvedimento cautelare è diventato inefficace in caso di proposizione del reclamo. Se la misura cautelare originariamente rigettata è stata poi concessa dal giudice del reclamo, allora la competenza per la dichiarazione di inefficacia deve spettare de plano al giudice del reclamo che è il giudice che ha concesso la misura cautelare (in tal senso, v. Proto Pisani 1991, 25). La questione si complica laddove il provvedimento cautelare sia stato concesso in prime cure e poi sia stato modificato o revocato in sede di reclamo. Il problema coinvolge sia la determinazione in generale del giudice competente a dichiarare l'inefficacia, sia la natura stessa del reclamo se mezzo di gravame di tipo rescindente o mezzo di impugnazione a carattere sostitutivo. Infatti, se si sposa la prima tesi, quella che qualifica il reclamo come mezzo di gravame rescindente, la soluzione deve essere quella della competenza del giudice della cautela per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare poi modificato o revocato; se, invece, si sposa la seconda tesi, quella che qualifica, a mio parere correttamente, il reclamo come un mezzo di impugnazione a carattere interamente sostitutivo e devolutivo e non meramente rescindente, allora la competenza a dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare modificato o revocato spetta al giudice del reclamo. Nel senso che, anche in caso di modifica o revoca, la competenza resta attribuita al giudice della cautela, in giurisprudenza di merito si è affermato che l'art. 669-novies c.p.c. riserva la competenza a statuire sull'istanza di inefficacia della misura cautelare al giudice che ha emesso il provvedimento. Non pare dubbio che l'espressione letterale rimandi all'indicazione di cui all'art. 669-sexies c.p.c., ovvero al «giudice che provvede con ordinanza di accoglimento» e che tale attribuzione non debba mutare anche in caso di modifica del provvedimento stesso all'esito del giudizio di reclamo. Pur nella ipotesi che il provvedimento conclusivo del procedimento ex art. 669-novies c.p.c. sia stato adottato con sentenza, in caso di contestazioni, e che sia stata declinata la competenza, non si ravvisa un contenuto di decisorietà della statuizione e non sarebbe ipotizzabile il ricorso d'ufficio al regolamento di competenzaexart. 45 c.p.c. Nella materia dei sequestri, peraltro, dice sempre la stessa pronuncia, l'art. 669-novies c.p.c. non esaurisce le ipotesi di inefficacia e va integrato con altre disposizioni, inerenti a comportamenti omissivi della parte in favore della quale la misura è stata concessa (art. 675 c.p.c. e 156 disp. att. c.p.c. in tema di sequestro conservativo) o al sopraggiungere di altre cause estintive (art. 75 c.p.p. sugli effetti della rinuncia agli atti in caso di trasferimento dell'azione in sede penale); di conseguenza, deve ritenersi che, pur avendo dettato una disciplina complessiva e tendenzialmente organica, la disposizione dell'art. 669-novies c.p.c. non risulti esaustiva né siano tassativi i casi in essa indicati (Pret. Roma 20 febbraio 1997). In senso del tutto opposto, in linea con la ricostruzione del giudizio di reclamo come un mezzo di impugnazione a carattere devolutivo e sostitutivo, si è precisato che in ipotesi di contestazione dell'inefficacia del provvedimento cautelare reso dal collegio in sede di reclamo, la competenza per la relativa pronuncia spetta al medesimo collegio e il giudizio si svolge nelle forme della camera di consiglio (Trib. Salerno 26 febbraio 1998). Motivando, invece, la soluzione sulla base di ragioni diverse, si è opinato che, nella pendenza del procedimento di reclamo, competente a dichiarare l'inefficacia del provvedimento autorizzativo del sequestro giudiziario per il motivo di cui all'art. 675 c.p.c. è, per ragioni di economia processuale, il giudice del reclamo (Trib. Cagliari 6 ottobre 1997). Un ulteriore problema di determinazione della competenza a dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare si è posto con riferimento alle ipotesi in cui il motivo di inefficacia si produce senza però comportare l'estinzione del giudizio, cosa che, ad esempio, può capitare quando non venga versata la cauzione che sia stata concessa nel corso del giudizio di cognizione. Ci si domanda se in tali ipotesi la competenza per la dichiarazione di inefficacia spetti al giudice della cautela o al giudice del giudizio di merito. In dottrina, si è opinato che la competenza spetterebbe al giudice del merito per ragioni di economia processuale e non per altre motivazioni (Cecchella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 375). In giurisprudenza, si è affermato che in tale ipotesi la soluzione sarebbe quella di riconoscere la competenza ad entrambi i giudici, sia quello cha ha concesso il provvedimento cautelare, sia quello del merito (Trib. Genova 25 marzo 2002). Ci si chiede, peraltro, quale sia il giudice competente laddove la causa di merito, pur se tardivamente, venga comunque instaurata. In giurisprudenza, si è affermato che il procedimento previsto dall'art. 669-novies c.p.c. per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, e in particolare l'obbligo di fissare un'udienza di comparizione delle parti, non opera ogni qual volta non sia ancora concluso il procedimento cautelare ovvero sia stato iniziato il giudizio di merito (nella fattispecie, il convenuto aveva chiesto, in pendenza del procedimento cautelare, che venisse dichiarata l'inefficacia del sequestro concesso con decreto emanato inaudita altera parte, in quanto non eseguito entro il termine di trenta giorni dalla pronuncia: Trib. Palmi 9 luglio 1998). Se, secondo altre sentenze, la competenza per la dichiarazione di inefficacia spetterebbe comunque al giudice del merito (Trib. Catania 28 maggio 2002; Trib. Napoli 11 giugno 1998), invece, in senso contrario si è affermato che la sopravvenuta inefficacia dei provvedimenti di sequestro conservativo per tardiva instaurazione del giudizio di merito non può essere fatta valere nello stesso giudizio di merito ma soltanto con l'autonomo procedimento previsto dal codice di procedura civile (Trib. Torino 20 giugno 1995). Sempre nello stesso senso, si è statuito che è competente il giudice delegato al procedimento cautelare a dichiarare l'inefficacia della misura cautelare, sia nel caso di rituale ma tardiva instaurazione del giudizio di merito, che nel caso in cui tale giudizio sia stato instaurato tempestivamente, ma irregolarmente, per vizio della notificazione dell'atto di citazione (Trib. Verbania 26 ottobre 1995). Quanto all'ipotesi della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare laddove vi sia contestazione, l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. ultima parte, afferma che in caso di contestazione l'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c. In dottrina, con riferimento all'applicazione di tale disposto normativo si è affermato che giudice competente, in caso di contestazione, sarebbe il capo dell'ufficio giudiziario che non dovrebbe designare un altro giudice, come diversamente accade ai sensi dell'art. 669-ter, ultimo comma, c.p.c., per l'emanazione del provvedimento cautelare. La questione sorge perché all'interno dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., si utilizzano due espressioni in contrasto tra di loro, affidando al giudice che ha emesso il provvedimento la dichiarazione di inefficacia della misura e all'ufficio giudiziario che cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento la competenza a dichiarare con sentenza l'inefficacia del provvedimento laddove vi siano contestazioni tra le parti. L'unico senso che, secondo la dottrina, può darsi a questa contrapposizione, per sciogliere il nodo del giudice competente in caso di contestazioni tra le parti, è che il giudice che ha emesso il provvedimento è competente alla dichiarazione di inefficacia se non vi sono, appunto, contestazioni; in caso di contestazioni deve rimettere gli atti al capo dell'ufficio giudiziario cui egli stesso appartiene perché decida lui stesso o designi un altro giudice utilizzando i criteri per l'assegnazione della causa di merito (in tema, v. Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 491; contra, Montesano, Arieta, 143). Secondo altra parte della dottrina, la richiesta di dichiarazione di inefficacia dovrebbe sempre comunque essere indirizzata al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare che poi provvederà a rimettere gli atti al capo dell'ufficio giudiziario in caso di contestazione (Merlin 1996, 422; Auletta, 1482). Infine, secondo altre tesi, competente a dichiarare l'inefficacia, stante la contraddittorietà della norma, sarebbe comunque il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare anche nel caso di contestazione (Proto Pisani 1991, 24; Cecchella, 134). In particolare, l'unico senso logico che si potrebbe assegnare alla norma sarebbe quello di prevedere la rimessione al capo dell'ufficio giudiziario nelle ipotesi, ormai residuali, di competenza del collegio e non del giudice monocratico (Cecchella, 134). In quest'ottica, ma con opinione che pare condivisibile, si è affermato che la norma prevederebbe una sorta di deroga alle regole del riparto di competenza tra giudice monocratico e collegiale; in sostanza, ove sorga contestazione tra le parti sulla inefficacia del provvedimento cautelare, anche se la causa di merito non appartiene alla competenza del collegio, la norma stabilirebbe una competenza collegiale rispetto alla decisione sull'inefficacia (v., amplius, Attardi 1991, 274). Anche dall'esame della giurisprudenza di merito, si ricava un panorama non univoco sull'interpretazione della norma in commento in parte qua. Si è ritenuto, infatti, competente a pronunciare la sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare per mancato inizio della causa di merito il tribunale (nella stessa composizione) che sarebbe stato competente a conoscere la causa di merito; con la conseguenza che se la causa di merito è devoluta per legge alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, collegiale deve essere anche la decisione sulla sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare (Trib. Roma 14 maggio 2003). Nello stesso senso, si è affermato che il ricorso per la declaratoria di inefficacia della misura cautelare concessa ante causam, debba essere presentato all'ufficio individuato dagli artt. 669-ter, 669-quater e 669-quinquies c.p.c., mentre il magistrato cui affidare la trattazione del procedimento deve essere designato dal capo dell'ufficio ex art. 669-ter, comma 4, c.p.c. (Trib. Milano 8 novembre 1995). Diversamente, si è opinato che ove tra le parti vi sia contestazione sulla inefficacia di una misura cautelare rilasciata ante causam , lo stesso giudice della cautela deve procedere all'istruzione del giudizio secondo le regole della cognizione ordinaria (Trib. Milano 10 maggio 1994; nello stesso senso della competenza ai fini della declaratoria di inefficacia del giudice che ha emesso il provvedimento, v. Pret. Torino 22 dicembre 1993). Non è mancato, tuttavia, chi ha affermato che competente a dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare è il giudice del merito che appartiene allo stesso ufficio giudiziario del giudice che ha emesso la misura cautelare (Trib. Milano 7 marzo 2003). Infine, si registra chi ritiene che, nelle cause di competenza del tribunale, ove tra le parti vi sia contestazione sulla inefficacia della misura cautelare concessa ante causam, spetta al collegio la competenza a decidere la relativa controversia (Trib. Piacenza 5 settembre 1995). Altra giurisprudenza di merito si è espressa sempre nel senso della competenza del collegio ma in ipotesi di contestazione dell'inefficacia del provvedimento cautelare reso dal collegio in sede di reclamo (Trib. Salerno 26 febbraio 1998). Un'ultima questione postasi con riferimento alla competenza per la dichiarazione di inefficacia è relativa al caso in cui l'inefficacia derivi da una sentenza di rigetto, sia per motivi di rito che di merito, emanata dal giudice italiano, abbiamo già detto che, in tale ipotesi, la dichiarazione è contenuta nella stessa sentenza. Ci si domanda, in particolare, se tale dichiarazione di inefficacia possa essere contenuta nella sentenza anche laddove essa sia pronunciata da un giudice che non ha competenza per la cautela, come il giudice penale o il giudice di pace. In tale ultima ipotesi, la dottrina si divide tra chi ritiene che in questo caso comunque debba essere contenuta nella sentenza anche se il giudice non ha, appunto, competenza cautelare (Proto Pisani 1991, 24), e chi invece ritiene che in tale caso la dichiarazione di inefficacia debba essere pronunciata dal giudice che ha emesso il provvedimento cautelare (Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 492). Rimane aperto il quesito sulla competenza del giudice per la cautela nel caso in cui nella sentenza venga omessa la dichiarazione di inefficacia; in questo caso sarà possibile rivolgersi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare utilizzando il procedimento che disciplina in via generale l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. (su cui, v. oltre nel testo); non sussistendo un potere officioso del giudice è necessario che la parte si attivi e che la pronuncia si abbia su suo impulso, sia quella relativa alla dichiarazione di inefficacia che agli eventuali provvedimenti di ripristino. Procedimento per la dichiarazione di inefficacia.Secondo quanto dispone l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., nella versione modificata dalla riforma 2022, il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. In caso di contestazione l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c. Nella versione della norma ante riforma 2022 laddove non fosse stato osservato il termine perentorio per iniziare il giudizio di merito o questo si fosse estinto, il giudice doveva dichiarare con ordinanza l'inefficacia del provvedimento, in contraddittorio tra le parti; in caso di contestazione del convenuto iniziava la successiva fase di merito davanti all'ufficio giudiziario cui apparteneva il giudice che aveva emanato la misura cautelare. Questa fase di merito si svolgeva a cognizione piena con la possibilità di proposizione di domande ripristinatorie o dirette al risarcimento del danno e si chiudeva con una sentenza che dichiarava l'inefficacia della misura cautelare, impugnabile e definita provvisoriamente esecutiva dalla norma. Il procedimento disciplinato dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. ha una struttura bifasica in quanto è caratterizzato da una prima fase sommaria che si definisce con ordinanza e da una successiva fase di merito che si attiva quando vi sia contestazione da parte del convenuto. Sia ora come in precedenza, quando si verifica un motivo di inefficacia della misura cautelare la parte che è interessata a tale dichiarazione deve proporre un ricorso con cui chiede la fissazione dell'udienza per la discussione della questione. Adesso però, se non vi è contestazione da parte del convenuto il giudice pronuncia una ordinanza con efficacia esecutiva e pronuncia i provvedimenti ripristinatori mentre scompare dal dettato della norma la possibilità, prima prevista, di passaggio alla fase di merito in caso di contestazione del convenuto, con conseguente definizione con sentenza. I primi dubbi interpretativi riguardano la natura del procedimento, cioè se esso possa ritenersi ancora contenzioso o se, piuttosto, sia divenuto un procedimento di volontaria giurisdizione. Sembra doversi aderire a quelle interpretazioni dottrinali che ritengono non modificata la natura contenziosa del procedimento, alla stregua del necessario rispetto del principio del contraddittorio relativamente alla ragione della dichiarazione di inefficacia del provvedimento. Non si chiarisce nemmeno se il provvedimento possa o meno essere pronunciato in caso di contumacia del convenuto; ritengo che la contumacia non consenta l'emanazione del provvedimento in ogni caso. Si è altresì sottolineato come la norma nulla dica quanto alla forma del provvedimento di rigetto che dovrebbe comunque essere una ordinanza (Triolo, 1 e ss.). Si è evidenziato inoltre come la relazione ministeriale al decreto delegato giustifichi la modifica con una doppia esigenza, una sistematica diretta ad uniformare la natura dei provvedimenti cautelari che regolano situazioni giuridiche, l'altra semplificativa, perché la disciplina sinora in vigore era ritenuta fonte di appesantimento dell'attività giurisdizionale; tuttavia l'osservazione non sarebbe realistica perché non tiene conto del fatto che la durata del giudizio diretto a decidere la questione de'l'inefficacia del provvedimento cautelare concesso prima dell'inizio della causa di merito poteva essere molto più contenuto di quello ipotizzato dal legislatore della delega. Si sarebbe potuto infatti utilizzare il rito sommario di cognizione, processo a cognizione piena e destinato concludersi con un provvedimento avente le stesse caratteristiche della sentenza (Vaccari, 2023).
Alcune questioni procedimentali Nel senso della reclamabilità dell'ordinanza dichiarativa dell'inefficacia si è espressa la Corte di Cassazione, affermando che l'ordinanza che dichiara l'inefficacia del provvedimento cautelare concesso ante causam, pronunciata in assenza dei presupposti di legge, deve ritenersi reclamabile e pertanto non ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. Secondo i giudici di Piazza Cavour, è irragionevole negare una possibilità di riesame nei casi, che possono ben verificarsi, in cui l'ordinanza sia emanata in assenza dei presupposti di legge. E tale riflessione apre la strada alla ragione che è alla base della reclamabilità dell'ordinanza in questione e che va ravvisata nell'art. 24, commi 1 e 2, Cost. Infatti, non sarebbe conforme al detto precetto costituzionale escludere la reclamabilità dell'ordinanza perché questa esclusione ridurrebbe, senza un motivo plausibile, la tutela giudiziale dei diritti nella fase cautelare. Peraltro – aggiungono gli ermellini – è ben possibile che il provvedimento, anche se adottato in forma di ordinanza, abbia in realtà contenuto sostanziale di sentenza, perché ad esempio il giudice prende cognizione di una contestazione insorta tra le parti e la risolve impiegando una forma impropria. In tal caso, però, si applica il principio che dà prevalenza alla sostanza sulla forma e quindi il provvedimento resta soggetto alle impugnazioni proprie delle sentenze (cioè all'appello trattandosi di provvedimento emesso in primo grado). Con la conseguenza che, anche se nella fattispecie fosse applicabile il principio in questione, non potrebbe comunque essere proposto il ricorso straordinario in cassazione (Cass. I, n. 4113/1997). Nella giurisprudenza di merito, ma con riferimento alla seconda ipotesi procedimentale, quella a cognizione piena per l'opposizione della controparte, si è affermato che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., stando alla lettura testuale della norma così come integrata dalla sentenza della Corte cost., n. 253/1994, non è proponibile contro qualsiasi provvedimento attinente alla materia cautelare ma soltanto contro le ordinanze con le quali vengono concessi o negati provvedimenti cautelari; in particolare non è reclamabile il provvedimento reso nella procedura di cui all'art. 669-novies c.p.c. con cui, in presenza di contestazione dell'altra parte costituita, il giudice ha ritenuto che la questione debba essere decisa con sentenza (Trib. Verona 19 giugno 2003). I rapporti con la previsione dell'art. 669-decies c.p.c. Resta da riempire di contenuto concreto la formula riportata nell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. secondo cui è fatta salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'art. 669-decies c.p.c. (al cui commento, ad ogni buon conto, si rinvia). Per far ciò, è necessario fare una breve digressione sulla portata della norma relativa alla revoca e modifica dei provvedimenti cautelari. L'art. 669-decies c.p.c. è stato in gran parte riformato dalla l. n. 80/2005 che ne ha, da un lato, significativamente modificato il comma 1, e, da un altro, ha introdotto un nuovo comma volto ad individuare il giudice competente a conoscere dell'istanza nell'ipotesi di concessione del provvedimento cautelare prima dell'instaurazione del giudizio di merito. La riforma ha, in particolare, cercato di risolvere talune questioni che si erano poste nell'interpretazione della disposizione in esame come configurata dalla novella del 1990, e, in particolare, con riferimento ai presupposti dell'istanza di revoca o modifica del provvedimento cautelare; al concorso tra l'istanza di revoca ed il reclamo cautelare, pure introdotto dalla stessa l. n. 353/1990; alla possibilità di proporre l'istanza di revoca o modifica di una misura cautelare emanata ante causam prima dell'instaurazione del giudizio di merito. In generale, diversamente dallo strumento impugnatorio costituito dal reclamo, la revoca e la modifica non sono strumenti aventi la funzione di criticare la cautela concessa, bensì quella di far valere eventuali mutamenti delle circostanze in base alle quali era stato emanato il provvedimento cautelare onde evitare che lo stesso diventi anacronistico e sopravviva alla propria originaria funzione. Il provvedimento cautelare può essere revocato o modificato a seguito di un mutamento delle circostanze che ne avevano giustificato la concessione, le quali possono essere successivamente mutate sia per fatti nuovi sia per fatti antecedenti dei quali, tuttavia, la parte istante abbia acquisito conoscenza soltanto dopo l'emanazione del provvedimento cautelare. La norma, generalizzando quanto già previsto per i procedimenti in materia societaria dall'art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 5/2003, sembra assumere una posizione intermedia tra le opposte tesi dottrinali e giurisprudenziali circa i presupposti della revoca della misura cautelare in omaggio alla lettera dell'originario art. 669-decies c.p.c. Secondo un primo orientamento, infatti, il mutamento delle circostanze idoneo a giustificare la proposizione di un'istanza di revoca o modifica dei provvedimenti cautelari doveva essere posto in correlazione con la semplice introduzione od emersione di elementi nuovi nella valutazione del maggiore o minore grado di probabile esistenza del diritto e del periculum in mora a cautela del quale il provvedimento era stato concesso, sicché gli stessi sarebbero stati idonei a ricomprendere anche l'allegazione di fatti già esistenti al momento della concessione della misura e le prove nuove (Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 501; Proto Pisani 1991, 305; Andolina 80; Marelli, 789; Trisorio Liuzzi, 910). Per altri, l'istanza di revoca o modifica poteva essere fondata principalmente su circostanze extraprocessuali idonee ad incidere sul periculum in mora ovvero sul fumus boni iuris e non anche su quanto già deducibile nell'ambito del procedimento che aveva condotto all'emanazione del provvedimento cautelare (Attardi 1991, 254; Consolo 1996, 329; Olivieri, 718; Basilico, 25; Cecchella 1997, 152; Corsini, 96). L'orientamento prevalente della giurisprudenza di merito aveva, tuttavia, avallato la prima impostazione maggiormente estensiva quanto al novero delle circostanze deducibili in sede di istanza di revoca e modifica. Si era, infatti, osservato che i mutamenti delle circostanze in base ai quali può disporsi la revoca e la modifica dei procedimenti cautelari comprendono anche circostanze endoprocessuali quali le nuove istanze istruttorie (Trib. Udine 14 dicembre 1994; Trib. Foggia 12 luglio 1993; Trib. Bari 25 marzo 1993; contra, Trib. Napoli 11 maggio 2000). L'attuale formulazione letterale della norma sembra codificare una posizione intermedia perché, consentendo la deduzione in sede di istanza di revoca e modifica dei fatti anteriori al momento entro il quale gli stessi potevano essere utilmente dedotti nel procedimento cautelare ma dei quali si è acquisita la conoscenza solo successivamente non subordina, tuttavia, come avviene per la rimessione in termini, tale richiesta ad un'ignoranza incolpevole dei predetti fatti. L'istante dovrà, a tal fine, fornire la prova non del momento in cui ha avuto conoscenza del fatto che giustifica la richiesta, bensì semplicemente della sopravvenienza di una tale conoscenza rispetto al momento in cui si è svolto il procedimento cautelare, ovvero al momento in cui tali fatti potevano essere utilmente dedotti nel relativo procedimento. Quanto ai presupposti dell'istanza proponibileex art. 669- deciesc.p.c., permane in ogni caso una diversità di posizioni tra coloro che ritengono che l'efficacia preclusiva dell'ordinanza di accoglimento non si estenda non solo ai fatti preesistenti ed ignoti ma anche alle sopravvenienze probatorie, comprese quelle risultanti dall'eventuale istruttoria svoltasi nel giudizio di merito, ad es. le nuove prove (Luiso, Sassani, 226; Menchini, 96), e coloro che restringono, invece, il novero dei motivi che possono essere posti alla base della revoca ai nuovi fatti extraprocessuali, nonché a quelli concernenti la fondatezza della misura cautelare preesistenti ed ignorati nel momento entro il quale potevano essere fatti valere nel procedimento cautelare (Saletti 1991, 80). Sarebbero così irrilevanti le risultanze istruttorie del giudizio a cognizione piena, potendo essere posti a fondamento dell'istanza di revoca soltanto i fatti nuovi, anche sotto il profilo meramente soggettivo, oggetto di siffatte risultanze (Petrillo, 200). Dal combinato disposto dell'art. 669-decies, comma 1, c.p.c. nella parte in cui prima di individuare i presupposti che consentono al giudice istruttore di modificare o revocare la misura cautelare su istanza di parte pone la clausola di riserva «salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies» c.p.c. e dell'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c. ai sensi del quale le circostanze ed i motivi sopravvenuti sino al momento in cui viene proposto il reclamo devono essere fatti valere in una tale sede, si evidenzia una preferenza legislativa per il rimedio impugnatorio tesa ad evitare il concorso tra i due strumenti, della revoca e del reclamo. Sussistono, tuttavia, notevoli divergenze in ordine alla reale portata del nuovo assetto normativo. Per alcuni, infatti, la necessità di far valere le sopravvenienze o le circostanze già deducibili precedentemente e delle quali si è acquisita conoscenza in un momento in cui non potevano essere più fatte valere nel procedimento cautelare opererebbe soltanto ove il reclamo sia stato in concreto proposto (Ghirga 802; Saletti 1991, 76). Altri, invece, ritengono che l'istanza di revoca o modifica della misura cautelare può essere proposta soltanto qualora si sia conclusa la fase del reclamo o siano scaduti i termini per la proposizione dello stesso, sicché, durante la pendenza degli stessi, non sussisterebbe in capo alla parte interessata la possibilità di dedurre i mutamenti delle circostanze con l'istanza di revoca (Santagada 192; Frus 2004, 688; Guaglione, 501). Tornando all'inciso contenuto nella norma dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c., resta da chiedersi, alla luce anche dell'esame condotto sull'art. 669-decies c.p.c., a cosa intenda riferirsi la disposizione. Secondo alcuni autori, la previsione avrebbe una valenza meramente ricognitiva, limitandosi a ribadire le competenze già individuate dall'art. 669-deciesc.p.c. (Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 660; Attardi 1991, 247); a parere di altra dottrina, invece, l'inciso contenuto nell'art. 669-novies, comma 2, ultima parte, c.p.c. avrebbe il significato di attribuire al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare il potere di farlo venire meno immediatamente laddove sia adìto per la dichiarazione di inefficacia dello stesso, indipendentemente dalle eventuali contestazioni di parte, ovviamente in tutti i casi in cui tali contestazioni siano del tutto palesemente infondate. In questo senso il riferimento alla norma dell'art. 669-decies c.p.c. avrebbe il senso di rendere equivalente l'inefficacia derivante dalla contestazione pretestuosa al mutamento di circostanze che consente la revoca o la modifica del provvedimento cautelare ai sensi della relativa norma (Cecchella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 376; Proto Pisani 1991, 25). Provvedimenti di ripristino.Come visto in precedenza, l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. stabilisce che all'udienza, in mancanza di contestazioni, il giudice dichiara con ordinanza immediatamente esecutiva l'inefficacia del provvedimento cautelare e contestualmente emana le disposizioni per il ripristino dello status quo ante. A tali disposizioni per il ripristino della situazione precedente il giudice della dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare deve provvedere soltanto qualora siano stati posti in essere degli atti di attuazione o di esecuzione del provvedimento. La necessità che per provvedere al ripristino siano stati compiuti degli atti di attuazione o di esecuzione del provvedimento cautelare è pacifico in dottrina (Recchioni 2015, 749). La giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, affermato, con riferimento al giudizio di appello ma con ragionamento esteso alla dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c., che nel giudizio di appello non soltanto la richiesta di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado non configura una domanda nuova, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, e può dunque essere proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, ma detta restituzione può altresì essere disposta d'ufficio dal giudice, dato che l'art. 336 c.p.c., secondo cui la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, a seguito della sentenza di riforma, vengono meno immediatamente, al fine di scoraggiare successive impugnazioni a scopo dilatorio, sia l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l'efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, conseguentemente rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con l'ulteriore conseguenza che il giudice di appello ha il potere di adottare direttamente i provvedimenti capaci di ripristinare la situazione precedente, non diversamente da quanto accade nella situazione disciplinata dall'art. 669-novies c.p.c., in cui il giudice, nel dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare, deve dare direttamente le disposizioni necessarie a ripristinare la situazione precedente (Cass. III, n. 15220/2005; Cass. III, n. 16170/2001). Il ripristino presuppone che gli effetti pratici provocati dal provvedimento cautelare siano reversibili, cioè l'incidenza che sulla realtà concreta si è avuta per l'esecuzione – sia spontanea che coattiva – del provvedimento cautelare. Questa incidenza deve essere verificata tramite un confronto tra la realtà materiale esistente quando è stata dichiarata l'inefficacia della misura cautelare e la realtà materiale esistente quando è stato pronunciato il provvedimento. In ogni caso, il ripristino della situazione materiale non può avere ad oggetto gli effetti giuridici del provvedimento cautelare come il risarcimento in forma specifica o il risarcimento per equivalente (Recchioni 2015, 750). La giurisprudenza di merito ha precisato che verificatasi un'ipotesi di inefficacia del provvedimento cautelare il giudice deve emettere declaratoria in tal senso e adottare d'ufficio i più opportuni provvedimenti ripristinatori: nella specie l'ordine di trasmissione di copia degli atti di causa al conservatore dei registri immobiliari affinché questi provveda alla cancellazione della trascrizione di un sequestro conservativo (Trib. Verona 21 settembre 1993). La Cassazione ha specificato, a sua volta, che nel caso di perdita di efficacia di un provvedimento d'urgenza la cui esecuzione abbia determinato la modificazione di una situazione, alla dichiarazione di inefficacia può accompagnarsi l'adozione delle disposizioni necessarie per il ripristino della situazione precedente, soltanto se esso non trovi ostacoli di natura materiale o giuridica, e quindi ove si tratti del ripristino di un contratto soltanto se, al momento in cui il provvedimento di ripristino deve essere emesso, non sia ancora decorso il periodo di potenziale durata del rapporto originario (applicando questo principio, la Suprema Corte ha confermato la pronunzia del giudice di merito che aveva ritenuto precluso il ripristino di un rapporto di locazione di immobile urbano anticipatamente cessato in forza del provvedimento ex art. 700 c.p.c. dichiarato inefficace, in considerazione del fatto che la locazione sarebbe nel frattempo cessata alla scadenza legale: Cass. III, n. 9054/2002). Che quindi il ripristino dipenda anche dalla situazione nel frattempo venutasi a creare ossia nell'ipotesi di impossibilità materiale o giuridica (Cass. II, n. 15349/2010) è confermato da una pronuncia che in materia di proprietà industriale e intellettuale ha affermato che ripristinare la situazione anteriore all'esecuzione di un provvedimento di descrizione significa adottare i provvedimenti idonei a neutralizzare tutte le conseguenze delle operazioni divenute inefficaci: e la reversibilità della situazione di fatto determinatasi a seguito dell'esecuzione del provvedimento è condizione necessaria e sufficiente per l'adozione delle disposizioni volte a ripristinare la situazione precedente (Cass. III, n. 147555/2011; Trib. Venezia 3 giugno 2004). Quanto alle restituzioni conseguenti alla dichiarazione di inefficacia, si è precisato che la corte d'appello deve disporre anche d'ufficio le restituzioni ex art. 669-novies c.p.c., ove non abbia provveduto il tribunale all'esito dell'accertamento nel merito dell'insussistenza del diritto oggetto di cautela, dovendosi escludere che l'eventuale istanza proposta dalla parte abbia natura di domanda riconvenzionale ovvero che sia configurabile un giudicato sull'irripetibilità in caso di omessa pronuncia del primo giudice, tanto più che l'art. 669-novies, comma 3, ultimo periodo, c.p.c., dispone che in tale evenienza è ammissibile il ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento perché provveda ad adottare le relative misure (Cass. IV, n. 18676/2014). Una parte della dottrina ha affermato che potrebbe essere utilizzato il procedimento senza contestazione e quindi semplificato previsto dall'art. 669-novies, comma 2, prima parte c.p.c., anche per chiedere ed ottenere la liquidazione del risarcimento dannoexart. 96, comma 2, c.p.c. e, pertanto, per lite temeraria derivante dall'esecuzione del provvedimento cautelare poi dichiarato inefficace (Cecchella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 374; contra, Tommaseo, 103; Verde, Di Nanni, 268). Secondo altri, invece, si potrebbe chiedere ed ottenere tale pronuncia in sede restitutoria solo ove, per l'appunto, sia impossibile materialmente o giuridicamente ripristinare lo status quo ante e quindi in ogni ipotesi in cui la misura cautelare poi dichiarata inefficace abbia prodotto degli effetti irreversibili a carico dell'istante; ciò è possibile nei limiti di compatibilità con la natura semplificata e sommaria del procedimento in esame perché se questo accertamento rendesse necessarie indagini complesse, queste non si potrebbero conciliare, per l'appunto, con tale natura sommaria (Montesano, Arieta, 145; Merlin 1992, 366). Ci si è posti la questione dell'operatività della inefficacia anche a prescindere dalla attivazione del procedimento in parola. Più specificamente, si è sostenuto in dottrina che l'inefficacia del provvedimento cautelare opera in modo automatico e potrebbe essere fatta valere dalla parte interessata incidentalmente in qualsiasi processo in cui venga in considerazione, senza che sia necessaria una previa dichiarazione di inefficacia ottenuta ai sensi del procedimento previsto dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c.L'operatività automatica della inefficacia ha dei vantaggi innegabili, perché, ad esempio, comporta la liberazione del custode dagli obblighi inerenti alla custodia dei beni assoggettati a sequestro giudiziario (in tema, v. Attardi 1991, 253). Una volta che venga meno il provvedimento cautelare perché viene rigettata la domanda di merito per inesistenza del diritto sostanziale, le disposizioni relative al ripristino dello status quo ante e l'eventuale risarcimento del danno devono essere domandate al giudice della causa di merito. Ci si è domandati, tuttavia, se in caso di omissione di pronuncia sul punto, il risarcimento del danno possa essere chiesto autonomamente al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare. La risposta deve essere negativa e, quindi, non si può chiedere in via autonoma il risarcimento del danno al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare ove in sede di giudizio di merito sia stato dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale la misura era stata concessa. Ciò perché a norma dell'art. 96, comma 2, c.p.c. il «giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare [...] su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza». Pertanto, la norma afferma chiaramente che la valutazione della mancanza della «normale prudenza», presupposto specifico della condanna al risarcimento dei danni, deve essere compiuto in via contestuale dallo stesso giudice che ha accertato l'inesistenza del diritto per il quale il provvedimento cautelare era stato eseguito (in tal senso Merlin 2015, 457). Ci si interroga su quale sia la ragione giuridica alla base dell'obbligo di ripristino della situazione antecedente all'attuazione del provvedimento cautelare. Si è precisato, in dottrina, che tale fondamento non risiede nell'accertamento dell'esistenza del diritto in capo alla controparte del provvedimento cautelare o dell'inesistenza del diritto in capo al beneficiario perché il suo presupposto è esclusivamente la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare (Recchioni 2015, 753). Già nella vigenza delle norme abrogate dall'entrata in vigore del rito cautelare uniforme si riconosceva che: a) nelle ipotesi in cui il provvedimento d'urgenza avesse perso efficacia, la parte ingiustamente escussa fosse legittimata a promuovere le azioni di ripetizione o di ripristino di cui agli artt. 2033 e 2037 c.c., in tal modo attuando, con il loro fruttuoso esperimento, la restitutio in integrum capace di porre rimedio all'ingiustificato impoverimento del proprio patrimonio; b) che le azioni in questione potessero prescindere dall'accertamento negativo dell'esistenza del diritto cautelato, essendo sufficiente, ai fini della dimostrazione dell'inesistenza della causa solvendi, la prova della sopravvenuta inefficacia del provvedimento d'urgenza; c) che questa inefficacia, anche se non espressamente dichiarata, comportasse la pronuncia del ripristino dello status quo ante, consentendo al giudice l'art. 683, comma 3, c.p.c., suscettibile di applicazione analogica, di ordinare insieme con il decreto di inefficacia del provvedimento cautelare, anche la cancellazione della trascrizione del sequestro e, più in generale, la restituzione al sequestrato del godimento della res; d) che, in sintesi, qualora fossero stati compiuti, in ottemperanza al provvedimento cautelare, atti di esecuzione, sorgesse la necessità di rimuoverne gli effetti e di attuare il ripristino della situazione precedente tramite la proposizione di apposita domanda. In giurisprudenza, si era precisato che, quale conseguenza della sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, dovesse essere ripristinata la preesistente situazione patrimoniale, indipendentemente dal suo accertamento come situazione giuridica attribuita e tutelata dalla legge con carattere di definitività, onde l'impossibilità di qualificare in termini di risarcimento del danno in forma specifica questa rimessione in pristino (Cass. I, n. 1838/1973). L'entrata in vigore della novella del 1990 e dell'art. 669-novies c.p.c. in particolare non ha modificato i termini della questione, sicché si è ribadito che: a) la parte che ha ingiustamente subito il provvedimento cautelare ha il diritto di essere posta nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se questo provvedimento non fosse stato emesso; b) che, per quello che riguarda l'oggetto e i limiti dell'intervento del giudice al riguardo, la norma dell'art. 669-novies c.p.c. parla di «disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente» con ciò significando che tale intervento è diretto a far caducare gli effetti prodotti dalla misura cautelare, ristabilendo la situazione esistente al momento dell'emissione della stessa, per cui, laddove il provvedimento in questione abbia concretamente determinato questa situazione, a seguito di spontanea ottemperanza del soggetto passivo o anche di coattiva attuazione della statuizione, mutamenti reversibili o suscettibili di ripristino, oggetto del suddetto intervento sono le circostanze di fatto presenti al momento della dichiarazione di inefficacia, da «confrontare» con quelle che esistevano al momento dell'emissione della misura, non anche le conseguenze giuridiche che possono essersi prodotte sulla situazione o rapporto sostanziale cautelato, come, ad esempio, i risarcimenti in forma specifica e per equivalente che il titolare ha diritto di conseguire in base alla normativa sostanziale medesima (Cass. I, n. 14755/2001). Con specifico riferimento alle modalità di attuazione delle disposizioni relative al ripristino della situazione precedente, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che tali previsioni vanno attuate secondo le specifiche forme dettate dal libro III del codice di procedura civile e non utilizzando la disciplina attuativa dell'art. 669-duodecies c.p.c. La necessità di seguire le forme dell'esecuzione forzata (già autorevolmente affermato da Proto Pisani 1991, 367) dipende dal fatto che le disposizioni di ripristino contenute nell'ordinanza che dichiara l'inefficacia del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c. non rivestono né natura né struttura e nemmeno funzione dei provvedimenti cautelari stessi e consistono, pertanto, in disposizioni adatte a disciplinare in modo definitivo il rapporto controverso (Recchioni 2015, 757). Nel medesimo senso, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, a seguito della declaratoria di inefficacia della misura cautelare, l'esecuzione dei conseguenti provvedimenti ripristinatori o restitutori va svolta nelle forme ordinarie del processo esecutivo, sia perché l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. esplicitamente stabilisce che il giudice provvede al riguardo con ordinanza o con sentenza «esecutiva», sia perché non è applicabile alla fattispecie la disciplina dell'art. 669-duodecies c.p.c., che, attribuendo al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il controllo della sola attuazione delle misure aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, e stabilendo che ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito, non attiene alla rimozione degli effetti della misura cautelare divenuta inefficace (Cass. III, n. 712/2006). Un'altra questione connessa alla esecuzione dei provvedimenti di ripristino contenuti nell'ordinanza dichiarativa della inefficacia del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c. è se sia possibile ricomprendere nell'ambito di tali provvedimenti ripristinatori anche un eventuale risarcimento dei danni che siano stati arrecati al titolare del diritto dall'esecuzione della misura cautelare; il problema ovviamente si pone in modo stringente tutte le volte in cui i danni in questione siano irreversibili o si mostrino solo parzialmente reversibili. La dottrina ha affermato, al riguardo, che è necessario tenere conto della disposizione dell'art. 96, comma 2, c.p.c. che pone la ben nota regola della responsabilità per lite temeraria disponendo che «il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza». Trattasi di una norma eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica ad altre ipotesi che non siano quelle ivi contemplate tra le quali, come visto, è ricompreso l'accertamento dell'inesistenza di un diritto per il quale è stato eseguito un provvedimento cautelare. Oltre al requisito di tipo oggettivo ossia la specifica ricorrenza di una delle ipotesi disciplinate dalla previsione, l'applicazione di questa forma di responsabilità presuppone anche un elemento soggettivo ossia la mancanza della normale prudenza, requisito che si ritiene essere sia in misura quantitativa che qualitativa di rilevanza inferiore rispetto alla malafede e alla colpa grave richieste dall'art. 96, comma 1, c.p.c. Con specifico riferimento ai provvedimenti cautelari e alla loro esecuzione senza la normale prudenza la giurisprudenza applica la responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c. solo all'ipotesi della inesistenza del diritto per il quale è stato eseguito il provvedimento cautelare insieme con l'inosservanza delle regole di condotta che governano la cautela e che corrispondono all'agire dell'uomo di media diligenza. La responsabilità aggravata di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c. a carico di colui che ha eseguito una misura cautelare relativamente a un diritto che il giudice accerti inesistente ovvero per un importo che sia risultato sproporzionato rispetto a quello accertato, presuppone che la parte abbia agito senza la normale prudenza. Stabilire se, in concreto, ricorra l'elemento soggettivo di tale comportamento doloso comporta un apprezzamento di fatto riservato alla valutazione del giudice del merito, insindacabile se correttamente e congruamente motivato (Cass. II, n. 21263/2009). Pertanto, tenendo ferma la responsabilità prevista dall'art. 96, comma 1, c.p.c. a carico di chi abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, è dovuto il risarcimento del danno subito a causa dell'esecuzione del provvedimento cautelare allorché il creditore o l'attore abbiano agito senza la normale prudenza, in ossequio al disposto dell'art. 96, comma 2, c.p.c. (Recchioni 2015, 758). Anche secondo altra parte della dottrina, il riferimento al «ripristino della situazione precedente» contenuto nell'art. 669-novies c.p.c. comprende non solo le restituzioni conseguenti alla misura cautelare dichiarata inefficace ma anche l'eventuale risarcimento del danno derivante dalla esecuzione del provvedimento in questione (v., amplius, Proto Pisani 1991, 356; Oberto, 107; Cecchella 1997, 138; Carratta 2013, 321). In giurisprudenza, sui rapporti tra la condanna di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c. e la condanna di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c., si è sostenuto che la parte la quale, a causa dell'esecuzione di una misura cautelare, abbia subito danni, può far valere il relativo diritto al risarcimento nel procedimento di reclamo in cui impugni la misura cautelare soltanto nel caso previsto dall'art. 96, comma 1, c.p.c., cioè ove lamenti che la parte istante abbia agito con dolo o colpa grave nel domandare la cautela, perché ad esempio ne mancavano le condizioni, o nell'eseguirla, come nell'ipotesi di sequestro conservativo se il sequestro sia stato eseguito su bene non suscettibile di pignoramento e non, invece, nel caso di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c., posto che il suddetto procedimento non può costituire la sede in cui può avere luogo un accertamento pieno della inesistenza del diritto cautelato (Cass. III, n. 8738/2001). Con riferimento all'attenuazione dell'elemento soggettivo, la Suprema Corte ha affermato che rispetto all'ipotesi di responsabilità aggravata del litigante temerario di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c., la responsabilità per danni derivanti da un procedimento esecutivo o cautelare, di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c., così come la responsabilità di cui all'art. 82 del r.d. n. 1127/1939, sono disciplinate in base ad una più attenuata valutazione dell'elemento soggettivo, individuato nell'avere il procedente agito senza la normale prudenza e, quindi, con colpa anche lieve (Cass. I, n. 2398/1995). Sempre con riferimento alla materia dei brevetti per invenzioni industriali, i giudici di legittimità hanno affermato anche in altre occasioni che la responsabilità prevista dall'art. 82, comma 2, del r.d. n. 1127/1939 (nel testo anteriore alle modifiche apportate con l'art. 25 del d.lgs. n. 198/1996) a carico di chi, agendo con colpa, ha ottenuto un sequestro divenuto inefficace o revocato perché senza causa, è riconducibile nell'ambito dell'art. 96, comma 2, c.p.c. e altro non esige che l'assenza di normale prudenza nel richiedere la misura cautelare a tutela del diritto poi riconosciuto come inesistente. Sicché la prova della colpa dell'agente, versandosi in tema di responsabilità aquiliana, incombe su colui che chiede il risarcimento dei danni e la valutazione dell'assolvimento di tale onere è rimessa al giudice del merito (Cass. I, n. 12545/2004). In ogni caso, la pronuncia relativa al risarcimento del danno per aver eseguito senza la normale prudenza un provvedimento cautelare il cui diritto «cautelato» venga poi dichiarato inesistente, presuppone, per l'appunto, che il diritto a tutela del quale la misura è stata concessa sia accertato come inesistente; ne deriva che a ciò non può provvedere il giudice adìto per la dichiarazione di inefficacia ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c., mentre dovrà provvedervi il giudice del processo a cognizione piena ossia il giudice che può accertare l'inesistenza del diritto cautelato. Sull'impossibilità per il giudice adìto per la dichiarazione di inefficacia di conoscere della domanda di risarcimento del danno proposta ai sensi dell'art. 96, comma 2, c.p.c., si è espressa anche parte della dottrina (Recchioni 2015, 760; Tommaseo 1991, 103; Merlin 1996, 14). Secondo il dominante e consolidato orientamento della Suprema Corte, la decisione sulla responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 2, c.p.c., è devoluta esclusivamente, sia rispetto alla valutazione dell'an che rispetto alla determinazione del quantum al giudice cui spetta di conoscere il merito della causa (che, nell'ipotesi di inizio o compimento dell'esecuzione forzata in mancanza di titolo esecutivo è il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stata iniziata o compiuta l'esecuzione stessa: Cass. III, n. 14653/2015). L'esclusione della possibilità di proporre l'istanza di risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata in un giudizio diverso da quello dal cui esito si deduca l'insorgenza di questa responsabilità è prevista dalla legge non soltanto nelle specifiche ipotesi previste dall'art. 96, comma 2, c.p.c. – che contempla anche condotte caratterizzate da colpa lieve a causa del maggior pregiudizio potenzialmente derivante dagli atti di natura cautelare ed esecutiva imprudentemente posti in essere – ma anche nell'ipotesi generale di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c., che subordina la condanna al risarcimento alla sussistenza della malafede o della colpa grave. Questa esclusione trova fondamento nello stretto collegamento che intercorre tra la valutazione del presupposto della responsabilità processuale e la decisione di merito e nella esigenza doppia di riservare il giudizio sull'elemento soggettivo (ossia sul carattere colposo della condotta processuale della parte) allo stesso giudice che decide sul merito della domanda che si afferma essere stata proposta in modo colposo, ma anche scongiurare il rischio di un contrasto pratico di giudicati (Cass. II, n. 26004/2010). Ne deriva – secondo la Suprema Corte – che la regola contenuta nella norma dell'art. 96 c.p.c., nell'affermare lo stretto collegamento tra l'accertamento di merito e la valutazione del presupposto della responsabilità processuale, non configura sul piano processuale una regola sulla competenza, ma disciplina un fenomeno endoprocessuale consistente nell'esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare una istanza collegata e connessa all'agire o al resistere nel giudizio. Questa istanza non può essere ritenuta esercitabile fuori del processo in cui la condotta che ha generato la responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell'evoluzione propria dello specifico processo da cui la responsabilità aggravata ha avuto origine (per tutte, v., da ultimo, Cass. III, n. 21944/2017). La natura della pronuncia di inefficacia.Un ultimo quesito interpretativo delle disposizioni relative alla dichiarazione di inefficacia della misura cautelare concerne la natura della pronuncia in questione, ossia se essa possa ritenersi meramente dichiarativa, ovvero costitutiva. Laddove si ritenga la natura meramente dichiarativa della pronuncia ciò significherebbe che le cause di inefficacia disciplinate dall'art. 669-novies c.p.c. operino automaticamente e determinino, appunto, l'inefficacia del provvedimento anche prima della dichiarazione del giudice; se, invece, se ne ritenesse la natura costitutiva, la causa di inefficacia non potrebbe operare fintantoché non intervenga il provvedimento del giudice in tal senso. In dottrina, si è evidenziato come la risoluzione del quesito possa essere utile, ad esempio, ai fini della responsabilità penale che sia a carico del destinatario del provvedimento cautelare con riferimento ad alcune specifiche figure di reato, quali quelle disciplinate dall'art. 388, commi 2 e 3, c.p. La norma disciplina la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice; il comma 2 stabilisce che la pena prevista dalla norma al comma 1 si applica a chi eluda un provvedimento del giudice civile che prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito; il comma 3 stabilisce che la pena prevista dalla disposizione si applica a chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice che prescriva misure inibitorie o correttive a tutela di diritti di proprietà industriale (per questo esempio, v. Merlin 2015, 457). Rilevanza pratica riveste la soluzione del quesito anche rispetto alla responsabilità civile che è posta a carico del custode di un bene che sia stato sottoposto a sequestro (Attardi 1991, 253). La soluzione preferibile sembra quella che ravvisa nella pronuncia del giudice relativa all'inefficacia una pronuncia meramente dichiarativa e non costitutiva, favorendo così la soluzione che vuole l'operatività ipso iure della causa di inefficacia sul provvedimento cautelare. La giurisprudenza dominante è nel senso della natura dichiarativa della pronuncia e, di conseguenza, dell'operatività automatica della causa di inefficacia del provvedimento cautelare. La magistratura di vertice, in particolare, ha affermato che, se nel corso del giudizio di primo grado venga concesso il sequestro giudiziario di un bene immobile, e in grado di appello venga dichiarata l'inesistenza del diritto a cautela del quale il sequestro era preordinato, la misura cautelare perde efficacia ipso iure, ex art. 669-novies, comma 3, c.p.c., senza necessità di alcuna pronuncia espressa, mentre gli eventuali provvedimenti conseguenti alla cessazione dell'efficacia del sequestro, ivi comprese le statuizioni sulle spese di custodia, sono devolute al giudice che ha emesso la misura (Cass. III, n. 8564/2012). Nello stesso senso, si è specificato che la declaratoria di inefficacia di un sequestro giudiziario, pronunciata d'ufficio dal giudice allorché sia dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale il sequestro era stato concesso, non incorre nel vizio di ultrapetizione, in quanto meramente ricognitiva di un effetto derivante ex lege, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 3, c.p.c., non avendo rilievo che la misura sia già stata eseguita o che l'inefficacia non sia stata espressamente richiesta dalla parte interessata (Cass. II, n. 8906/2013). Ancor più chiaramente, la Cassazione ha affermato che in base all'art. 669-novies c.p.c.la declaratoria di inesistenza del diritto cautelato comporta l'inefficacia automatica del provvedimento cautelare di modo che la pronuncia del giudice sul punto ha mera funzione dichiarativa. Ai fini della legittimità di tale pronuncia, è indifferente che la parte interessata abbia avanzato una richiesta più o meno formale in tal senso (atteso che il giudice, anche quando sia diverso da quello che ha emanato il provvedimento, procede ex officio e l'eventuale richiesta di parte ha funzione meramente sollecitatoria). Ne consegue che è corretto che la declaratoria di inefficacia venga emanata dal giudice d'appello che conferma la sentenza di primo grado ove il giudice di questo grado abbia omesso di provvedere sul punto. Infatti, una interpretazione diversa, tale da richiedere, in questa ipotesi, l'intervento del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, darebbe luogo ad una violazione del principio generale di economicità processuale e contrasterebbe con l'informalità del procedimento di declaratoria dell'inefficacia scelto dal legislatore (Cass. IV, n. 13292/1999). In senso contrario, in giurisprudenza di merito, si è ritenuto che sia inammissibile, per il principio del ne bis in idem , la reiterazione in grado di appello della medesima domanda di sequestro conservativo già accolta ante causam, ciò pure se la domanda di merito è stata dichiarata inammissibile in primo grado, perché a tale pronuncia non segue automaticamente l'inefficacia della misura cautelare che va invece disposta espressamente in sentenza, ovvero, in mancanza, richiesta allo stesso giudice che l'ha concessa, con il procedimento previsto dall'art. 669-novies c.p.c. (App. Napoli 6 ottobre 2005). Anche il dato testuale sembrerebbe confermare la soluzione nel senso della natura dichiarativa della pronuncia e non costitutiva, visto che è lo stesso art. 669-novies c.p.c. a parlare di dichiarazione del giudice della inefficacia del provvedimento cautelare. Con la conseguenza che, dal momento del verificarsi della causa di inefficacia, il provvedimento cautelare è privo, appunto, di effetti e non può essere posto a fondamento di eventuali atti di esecuzione da parte del beneficiario, mentre, da parte del destinatario non è più ravvisabile alcun vincolo al rispetto del provvedimento stesso. Se, quindi, si conclude definitivamente nel senso della natura dichiarativa della pronuncia in questione, si deve concordare con quell'opinione che ritiene che l'accertamento della inefficacia sopravvenuta del provvedimento possa essere compiuto incidentalmente in qualunque giudizio in cui rilevi tale inefficacia, come ad esempio l'opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. (Attardi 1991, 253; Merlin 2015, 459). Se si concorda con tale opinione resta, da risolvere il problema se la dichiarazione e le azioni di restituzione e ripristino si possano chiedere in via principale in un autonomo giudizio di primo grado. Secondo la dottrina che si è occupata della questione la risposta non può che essere positiva (Merlin 2015, 459; Tommaseo, 103). Sequestro conservativo ex art. 316 dopo sentenza pena di patteggiamento e inefficacia nel processo civile.L'art. 316, comma 1, c.p.p. stabilisce che, «se vi è fondata ragione di temere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato, il pubblico ministero, in ogni stato e grado del processo di merito, chiede il sequestro conservativo dei beni mobili o immobili dell'imputato o delle somme o cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento». Sulla base di quanto previsto dall'art. 669-quater, comma 6, c.p.c. – al cui commento nello specifico si rinvia – è il giudice civile che sia competente per materia o valore del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare che spetta di pronunciarsi sulla concessione delle misure stesse ove l'azione civile sia promossa o trasferita in sede penale. Nel disporre ciò la norma fa «salva l'applicazione del comma 2 dell'articolo 316 del codice di procedura penale». La salvezza dell'applicazione dell'art. 316, comma 2, c.p.p. ha posto il dubbio relativo al significato della previsione, in particolare rispetto alla competenza del giudice civile e penale sulla concessione del sequestro conservativo previsto dalla norma del c.p.p. richiamata. Secondo parte della dottrina, in base alla previsione normativa dell'art. 669- quater , comma 6, c.p.c., ci sarebbe la competenza concorrente di tutti e due i giudici, sia quello civile che quello penale (Cecchella, in Vaccarella, Capponi, Cecchella, 358; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 604). Secondo altra dottrina, questa deroga non sarebbe giustificabile perché la competenza a conoscere del merito spetterebbe in concreto al giudice penale cui peraltro è devoluta anche l'azione civile; ne deriverebbe che in modo opportuno l'art. 669-quater c.p.c. rinvierebbe alla norma dell'art. 316, comma 2, c.p.p. secondo cui «se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato, la parte civile può chiedere il sequestro conservativo dei beni dell'imputato o del responsabile civile, secondo quanto previsto dal comma 1», e implicitamente al comma 3 che afferma che «il sequestro disposto a richiesta del pubblico ministero giova anche alla parte civile». Una pronuncia di merito ha affermato, in linea con l'opinione dottrinale della competenza concorrente di entrambi i giudici, sia civile che penale, che la competenza del giudice penale ad emettere il sequestro conservativo richiesto dalla parte lesa costituitasi parte civile non né esclusiva, ma concorrente con quella prevista, in via generale, per tutti i provvedimenti cautelari, dagli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. (Trib. Roma 21 luglio 1993). Questa pronuncia ha avuto vita breve, tuttavia, perché è stata poi riformata in sede di reclamo cautelare. Il collegio ha, infatti, affermato che spetta al giudice penale la competenza a concedere il sequestro conservativo su istanza della parte lesa costituitasi parte civile (in applicazione di questo principio, il Tribunale ha accolto il reclamo proposto contro l'ordinanza ora ricordata con cui il giudice dello stesso Tribunale aveva concesso un sequestro conservativo dopo il trasferimento dell'azione civile in sede penale: Trib. Roma 20 ottobre 1993). Conforme a tale ultima pronuncia una successiva con cui si è ribadito che spetta alla competenza esclusiva del giudice penale la pronuncia sul sequestro conservativo ante causam proposto da soggetto leso costituitosi parte civile nel processo penale, rientrando tale ipotesi nell'eccezione espressamente prevista dall'ultimo periodo dell'art. 669-quater, comma 6, c.p.c. (Trib. Firenze 25 novembre 1996). Va, tuttavia, segnalato che la Corte di Cassazione, nell'unico precedente che consta sul tema, ha affermato che ai sensi del combinato disposto degli artt. 669-ter, comma 3, e 669-quater, comma 6, c.p.c., nonché dell'art. 316 c.p.p., nell'ipotesi di azione civile esercitata o trasferita in sede penale, la competenza a conoscere della richiesta di sequestro conservativo avanzata dalla parte spetta tanto al giudice penale competente per il merito, tanto al giudice civile, competente per materia o per valore, con sede nel luogo dove deve essere eseguito il provvedimento cautelare (Cass. III, n. 199/2003). Di conseguenza, ove il sequestro conservativo in parola sia richiesto in via autonoma, prima che venga esercitata l'azione civile ovvero prima della formulazione del capo di imputazione o venga proposta nel corso dell'azione civile, per essa sarebbe competente il giudice individuabile ai sensi degli artt. 669-ter, comma 1, e 669-quater, comma 1, c.p.c. La proposizione dell'azione in sede penale, sia perché proposta fin dall'inizio in quella sede, sia perché ivi trasferita, dovrebbe comportare a questa stregua l'inefficacia del sequestro conservativo che sia stato concesso perché comporterebbe una rinuncia agli atti con estinzione del giudizio civile, in applicazione dell'art. 75, comma 1, c.p.p. e conseguentemente ne deriverebbe l'applicazione delle cause di inefficacia previste dall'art. 669-novies c.p.c. (Samorì, 215). In senso contrario, rispetto all'orientamento dottrinale da ultimo richiamato sull'inefficacia del sequestro conservativo per la proposizione dell'azione in sede penale o perché proposta sin dall'inizio in sede penale, o perché trasferita in quella sede, si è rilevato in giurisprudenza di merito che, a seguito dell'esercizio in sede penale dell'azione civile, il giudice civile adìto ante causam per l'emissione di un sequestro conservativo, non perde la competenza al rilascio del suddetto sequestro (sicché, in applicazione di questo principio, il Tribunale adìto ha rigettato il reclamo proposto contro l'ordinanza con cui altro giudice dello stesso tribunale aveva concesso un sequestro conservativo ritenendo la propria competenza: Trib. Roma 24 gennaio 1995). Quanto all'inefficacia del sequestro conservativo in parola, si consideri che l'efficacia di tale provvedimento cautelare viene meno con la pronuncia di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere che non sia più impugnabile e, in questo caso, è possibile cancellare la trascrizione del sequestro di beni immobili che sia stata effettuata in precedenza, che viene eseguita a cura del pubblico ministero o su istanza di parte proposta tramite incidente di esecuzione (in tema, si confronti quanto previsto dall'art. 317, comma 4, c.p.p.). Tale norma dispone che «gli effetti del sequestro cessano quando la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere non è più soggetta ad impugnazione. La cancellazione della trascrizione del sequestro di immobili è eseguita a cura del pubblico ministero. Se il pubblico ministero non provvede, l'interessato può proporre incidente di esecuzione». Invece, laddove venga pronunciata una sentenza di patteggiamento non viene meno l'efficacia del sequestro conservativo che sia stato concesso dal giudice penale. In tema, si può confrontare la giurisprudenza di legittimità, in sede penale, secondo cui il sequestro conservativo effettuato sui beni dell'imputato non perde efficacia laddove il processo penale si concluda senza l'assoluzione di questi con sentenza di proscioglimento o non luogo a procedere definitiva (ex art. 317 c.p.p.), ma con una sentenza di condanna (o anche di mero patteggiamento della pena) che non dia luogo alla formazione di un titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c., ma che renda necessaria la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum del risarcimento in sede civile, purché la riassunzione del processo in tale sede abbia luogo nei termini previsti per l'esercizio dell'azione di merito in caso di misura cautelare conservativa concessa ante causam. In particolare, si è precisato che il sequestro conservativo disposto sui beni dell'imputato, una volta che il processo sia definito con sentenza di patteggiamento perde efficacia solo ove l'azione risarcitoria, già esercitata in sede penale, non venga tempestivamente riassunta in sede civile e quindi iniziata nei termini previsti dall'art. 669-octies c.p.c. (Cass. pen. I, n. 22062/2011). In sostanza, l'art. 317, comma 4, c.p.p., che disciplina le ipotesi di inefficacia del sequestro conservativo concesso dal giudice penale, deve – secondo i magistrati di legittimità – essere interpretata secondo i presupposti propri delle misure cautelari. Nella giurisprudenza penale, è certo che il sequestro conservativo esplica una funzione cautelare a tutela dei diritti che originano dalle statuizioni civili di condanna al risarcimento del danno anche in forma generica, ex art. 539 c.p.p. e delle statuizioni della futura sentenza civile di condanna al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento. In questi casi, la Suprema Corte ha affermato che la conversione del sequestro conservativo in pignoramento si verifica solo all'esito del passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile che, acquisita la certezza del danno nel processo penale, proceda alla liquidazione del danno stesso, realizzando i presupposti perché la misura cautelare si converta nell'atto esecutivo (Cass. III, n. 18536/2007; Cass. III, n. 10029/2006). Di conseguenza, anche se non si verifica una conversione immediata del sequestro conservativo in pignoramento, in questi casi il sequestro mantiene il suo effetto di garanzia. A seguito della sentenza di applicazione della pena, ugualmente, il sequestro conservativo non viene meno ma segue l'azione civile; con la conseguenza che non può ricondursi l'effetto estintivo del sequestro conservativo a vicende processuali quali il patteggiamento che, a norma dell'art. 444, comma 2, c.p.p., a causa della scelta dell'imputato estromette in modo forzoso dal processo penale la parte civile imponendole, anche in deroga all'art. 75, comma 3, c.p.p., di proseguire l'azione risarcitoria nella sede propria. Sicché il sequestro conservativo si converte in pignoramento soltanto in forza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria o di condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile che sono il titolo; ma il fatto che il sequestro conservativo non possa di diritto convertirsi in pignoramento non implica che esso non conservi la sua funzione di garanzia quando il processo penale, invece di concludersi con una sentenza irrevocabile di proscioglimento o di non luogo a procedere viene definito con una sentenza irrevocabile con cui si applica la pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. Tuttavia, non può ritenersi in tali ipotesi che il sequestro conservativo mantenga illimitatamente i suoi effetti nel tempo, data la natura cautelare di esso che è funzionale e collegata ad una pronuncia sul merito della domanda risarcitoria. Sicché, analogamente a quanto prevede il codice di procedura civile per le azioni cautelari proposte ante causam o le azioni cautelari collegate a domande per cui sopravvenga un difetto di giurisdizione ai sensi dell'art. 669-novies, ultimo comma, c.p.c., in caso di applicazione di pena, il sequestro conservativo è destinato a diventare inefficace soltanto ove l'azione risarcitoria, già esercitata in sede penale, non sia iniziata nei termini previsti dall'art. 669-octies c.p.c. Sulla scorta di tali affermazioni, gli ermellini hanno affermato che il sequestro conservativo sui beni dell'imputato non perde automaticamente la sua efficacia laddove il processo penale si concluda con una sentenza di condanna generica, e con la rimessione delle parti davanti al giudice civile ex art. 539, comma 1, c.p.p., dovendo il giudizio proseguire in sede civile per la determinazione del quantum dell'importo dovuto alla parte civile; a maggior ragione, esso dunque non perde efficacia in caso di sentenza di condanna generica, con riconoscimento di provvisionale ai sensi dell'art. 539, comma 2, c.p.p.; in tal caso il sequestro conservativo si converte in pignoramento nei limiti della condanna provvisionale ma conserva i suoi effetti per l'importo residuo (Cass. III, n. 21481/2016). BibliografiaAA.VV., Il processo cautelare, in La riforma del processo civile, vol. 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