Codice di Procedura Civile art. 669 terdecies - Reclamo contro i provvedimenti cautelari (1).Reclamo contro i provvedimenti cautelari (1). [I]. Contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare è ammesso reclamo nel termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore (2). [II]. Il reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al collegio, del quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato. Quando il provvedimento cautelare è stato emesso dalla corte d'appello, il reclamo si propone ad altra sezione della stessa corte o, in mancanza, alla corte d'appello più vicina (3). [III]. Il procedimento è disciplinato dagli articoli 737 e 738. [IV]. Le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento. Il tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti. Non è consentita la rimessione al primo giudice (4). [V]. Il collegio, convocate le parti, pronuncia, non oltre venti giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile [1773 n. 2] con la quale conferma, modifica o revoca [669-decies] il provvedimento cautelare. [VI]. Il reclamo non sospende l'esecuzione [669-duodecies] del provvedimento; tuttavia il presidente del tribunale o della corte investiti del reclamo, quando per motivi sopravvenuti [669-decies1] il provvedimento arrechi grave danno, può disporre con ordinanza non impugnabile [1773 n. 2] la sospensione dell'esecuzione o subordinarla alla prestazione di congrua cauzione [119; 86 att.]. (1) La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995. (2) Comma così sostituito, in sede di conversione, dall'art. 23 lett. e-bis) n. 4.1 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80, con effetto dal 1° marzo 2006. Ai sensi dell'art. 2 3-quinquies d.l. n. 35, cit., le modifiche si applicano ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006. Il testo precedentemente in vigore, recitava: «[I]. Contro l'ordinanza con la quale, prima dell'inizio o nel corso della causa di merito, sia stato concesso un provvedimento cautelare, è ammesso reclamo nei termini previsti dall'articolo 739, secondo comma.». Precedentemente la Corte cost., con sentenza 23 giugno 1994, n. 253, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui non ammetteva il reclamo ivi previsto, anche avverso l'ordinanza con cui sia fosse stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare. (3) Comma così modificato dall'art. 108 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999. (4) Comma inserito, in sede di conversione, dall'art. 2 3 lett. e-bis) n. 4.2 d.l. n. 35, cit., con effetto dal 1° marzo 2006. Ai sensi dell'art. 2 3-quinquies d.l. n. 35, cit., le modifiche si applicano ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006. InquadramentoInserendo l'art. 669-terdecies c.p.c. all'interno del corpus normativo dedicato ai procedimenti cautelari e ponendo fine a taluni abusi verificatisi in precedenza, il legislatore del 1993 ha codificato il principio del doppio grado di giudizio cautelare, introducendo così uno strumento di controllo della misura cautelare affidato ad un giudice diverso da quello che l'aveva concessa – competente a decidere il reclamo proposto avverso i provvedimenti emanati dal giudice singolo del tribunale è, infatti il collegio, del quale non può fare parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato – e superando tutte quelle preoccupazioni, forse eccessive, timorose di un'ampia dilatazione dei tempi del procedimento cautelare. La norma in commento costituisce il punto di approdo di quell'indirizzo dottrinale che aveva sostenuto la necessità di colmare una lacuna del sistema previgente, che era privo di qualsiasi mezzo di gravame contro i provvedimenti cautelari – diversamente dalla maggior parte degli ordinamenti europei – nonostante la sempre maggiore diffusione ed incisività della tutela urgente cautelare nell'àmbito della tutela giurisdizionale. L'istituto si colloca, in particolare, all'interno di una serie di rimedi previsti in via generale dal legislatore della riforma – la revoca e modifica, l'inefficacia e la sospensione dell'esecuzione o dell'efficacia esecutiva della misura cautelare – in un'ottica opposta rispetto a quella della disciplina previgente, imperniata sulla tendenziale stabilità del provvedimento cautelare. Il reclamo realizza un controllo esterno che si attua – nella forma dell'impugnazione del provvedimento, e segnatamente sull'ordinanza di concessione dell'originaria misura cautelare – al di fuori del giudizio di merito e, quindi, ad opera di un giudice (collegiale) sempre diverso sia dal giudice che ha reso la cautela sia dal giudice (istruttore) della causa di merito. Al riguardo, si sta sempre più affermando l'opinione secondo cui il reclamo cautelare, pur non dirigendosi verso pronunce idonee alla cosa giudicata sostanziale, presenta la struttura base di un'impugnazione e, in particolare, può qualificarsi come un'impugnazione sostitutiva a critica illimitata, tendenzialmente aperta a nuove allegazioni ed anche a nuove prove, e non un mero strumento di controllo degli errores in procedendo e in iudicando compiuti nella fase anteriore. In sede di reclamo – disciplinato nelle forme del procedimento in camera di consiglio – si era dell'opinione che potessero dedursi non soltanto gli errori compiuti dal giudice della prima fase, ma anche le circostanze ed i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo che dovevano essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento; stante l'assenza di specifiche preclusioni normative, in sede di reclamo, sembrava che potessero compiersi per la prima volta attività quali l'allegazione di fatti e la rilevazione di eccezioni, anche in senso stretto – purché giustificati da sopravvenienze in fatto o circostanze non dedotte precedentemente per causa non imputabile – nonché dedotti e disposti nuovi mezzi di prova utili per la definizione del procedimento. Tale opzione ermeneutica risulta, peraltro, confermata dalle scelte legislative successive, atteso che – delimitando in senso più ampio il suo oggetto cognitivo – l'odierno comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c., introdotto dalla l. n. 80/2005, nella parte in cui prevede che «le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento», non soltanto cerca di delineare più armoniosamente rispetto al passato il concorso tra revoca e reclamo delle misure cautelari, ma costituisce anche un'espressa presa di posizione legislativa sulla problematica del perimetro del sindacato del giudice del reclamo cautelare e, a monte, sulla ricostruzione della natura di un tale mezzo di gravame. Non sussistono, quindi, più dubbi sulla deducibilità con il reclamo cautelare sia degli errores in procedendo che degli errores in iudicando commessi dal primo giudice, sia delle circostanze sopravvenute rispetto al momento entro cui le stesse potevano essere fatte valere nel procedimento cautelare: il reclamo cautelare è stato, pertanto, configurato in termini di nuovo giudizio piuttosto che di revisio prioris instantiae chiusa alle nuove allegazioni, alle sopravvenienze ed ai nuovi mezzi di prova. L'ultimo periodo del comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c. chiarisce, infine, che, all'esito del reclamo cautelare, non è consentita la rimessione al primo giudice, in tal modo privilegiando le ragioni dell'economia processuale rispetto a quella di assicurare, sempre e comunque, un doppio grado di giurisdizione: la precisazione legislativa è espressione della scelta di attribuire al reclamo cautelare la natura di gravame di carattere devolutivo, nel quale la controversia cautelare è integralmente demandata al giudice del reclamo e decisa dallo stesso con una pronuncia di portata sostitutiva rispetto alla prima. I provvedimenti oggetto di reclamo.Questione preliminare da risolvere è, innanzitutto, quella di circoscrivere l'àmbito di operatività del rimedio, ossia individuare i provvedimenti che possono essere oggetto di reclamo. Passando, quindi, in rassegna i provvedimenti reclamabili, si può, fin d'ora, evidenziare che la l. n. 80/2005 ha adoperato un'espressione più ristretta di quella un tempo contenuta nell'art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003 per le controversie societarie – abrogato, poi, dall'art. 54, comma 5, della l. n. 69/2009, per i giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009 – dove si prevedeva che, «contro tutti i provvedimenti in materia cautelare è dato reclamo a norma dell'articolo 669-terdecies del codice di procedura civile ...». Nondimeno, alla luce della più recente formulazione della norma del rito uniforme, è opinione comune che trattasi di un rimedio di carattere generale, praticabile ogni qual volta si registri la presenza di provvedimenti, comunque resi nel procedimento cautelare, che presuppongano l'esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice, purché strumentali all'efficacia della misura. I provvedimenti cautelari di rigetto. Prendendo le mosse dall'articolo in commento – salvo poi passare ad analizzare gli altri provvedimenti previsti dal codice di rito, dal codice civile e dalle leggi speciali – si rileva che il comma 1, nella sua formulazione originaria, ammetteva l'esperibilità del reclamo soltanto avverso «l'ordinanza con la quale, prima dell'inizio o nel corso della causa di merito, sia stato concesso un provvedimento cautelare» (peraltro, anche l'ultimo comma dello stesso disposto faceva riferimento all'esecuzione del solo provvedimento positivo, preoccupandosi allorché lo stesso arrecasse grave danno). Quindi, l'attenzione del legislatore della riforma si era focalizzata sulla posizione del soggetto passivo della misura cautelare, al fine di ampliare le limitatissime possibilità difensive offertegli dal sistema previgente e, in quest'ottica, era stata prevista, inizialmente, la reclamabilità della sola ordinanza di accoglimento del ricorso cautelare, emessa prima o nel corso della causa di merito, proprio a tutela del destinatario passivo della misura. Al contempo, non si effettuava alcuna distinzione tra l'adozione della misura cautelare ante causam o nel corso della causa, anche qualora la cautela fossa stata concessa da un giudice diverso da quello davanti al quale pendeva la causa di merito, come, ad esempio, nelle ipotesi del giudice di pace, del giudice straniero o dell'arbitro (l'espressione «nel corso del» andava intesa anche come «pendente il»). Una parte della giurisprudenza di merito, che aveva avuto modo di pronunciarsi sul punto, era giunta alla conclusione della ragionevolezza dell'esclusione del reclamo avverso i provvedimenti negativi (Trib. Sassari 1 ottobre 1994; Trib. Catania 21 luglio 1993, secondo il quale il reclamo previsto dalla nuova disciplina generale delle misure cautelari poteva avere per oggetto soltanto provvedimenti cautelari positivi, mentre non risultavano reclamabili i provvedimenti negativi, fossero essi di rigetto della domanda cautelare, oppure di rigetto dell'istanza di revoca o di modifica di provvedimenti cautelari precedenti; ad avviso di Trib. Avellino 16 luglio 1993, non era ammissibile il reclamo avverso l'ordinanza di rigetto parziale dell'istanza cautelare per la parte non accolta; a parere di Trib. Milano 9 luglio 1993, l'ordinanza di rigetto della misura cautelare non era reclamabile ancorché relativa all'istanza proposta in via riconvenzionale e contenuta nello stesso provvedimento che aveva accolto l'istanza proposta in via originaria). In fondo, non si lasciava il ricorrente del tutto sprovvisto di tutela, poiché, una volta vistosi respingere l'istanza cautelare, la poteva ripresentare ai sensi e per gli effetti dell'art. 669-septies, comma 1, seconda parte, c.p.c., alla luce delle blande preclusioni relative alla riproposizione della medesima istanza (v., tra le altre, Trib. Milano 15 aprile 1993, secondo il quale era inammissibile il reclamo contro il provvedimento negativo di tutela cautelare, anche per il chiaro riferimento che l'art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c. faceva all'attuazione del provvedimento stesso ed alla possibilità che esso arrecasse gravi danni; anche ad avviso di Trib. Padova 24 giugno 1993, era manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.; in quest'ultimo senso, v., altresì, Trib. Bari 7 dicembre 1993). In proposito, si era ritenuta manifestatamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale: ciò con riferimento all'art. 3 Cost., in relazione all'art. 669-septies c.p.c., il quale non consentiva che avverso il procedimento di rigetto fosse ammesso reclamo, dato che la diversificata disciplina del reclamo trovava la sua ragionevole giustificazione nella diversa posizione giuridica che contraddistingueva chi non otteneva la misura cautelare e chi, invece, ad essa restava assoggettato con i conseguenti effetti immediati sul piano sostanziale; nonché con riferimento all'art. 24 Cost., nella parte in cui non consentiva che, avverso il procedimento di rigetto, fosse ammesso il reclamo, stante che il principio della tutela giurisdizionale di tutte le posizioni giuridiche soggettive non comportava l'immediata impugnabilità di provvedimenti interinali aventi un'efficacia extraprocessuale e, per converso, l'inammissibilità del reclamo nel caso considerato trovava la sua giustificazione nell'esigenza di funzionalità dell'amministrazione della giustizia, altrimenti esposta al rischio di essere gravata dalla proposizione di un numero imprevedibile di reclami avverso i provvedimenti cautelari di rigetto. Per giustificare la scelta selettiva di tale articolo, si era sostenuto l'argomento in base al quale le preclusioni, previste dall'art. 669-septies, comma 1, seconda parte, c.p.c., erano formulate in modo tutt'altro che rigido, sicché sarebbe bastata una diversa illustrazione dell'istanza in punto di diritto a superare la barriera preclusiva posta dalla norma; in tal modo, il ricorrente, ottenuta una decisione di rigetto, pur non potendo disporre dello specifico mezzo del reclamo, avrebbe avuto a disposizione, comunque, un facile strumento per riproporre l'istanza volta ad ottenere il provvedimento cautelare, ricorrendo ad un mero «mutamento di facciata» delle proprie argomentazioni; tutto sommato, bastava poco per «mascherare» la domanda superando la barriera preclusiva e ripresentarla nuovamente (in questi termini, v. Trib. Torino 21 aprile 1994, secondo il quale il mancato accoglimento della domanda cautelare per ragioni di ordine processuale ne consentiva l'incondizionata riproposizione). Non si nascondeva, peraltro, la preoccupazione di moltiplicare i procedimenti prima di decidere la causa nel merito, in quanto, ad esempio, qualora l'intervento del giudice collegiale avesse dichiarato nuovamente infondata la domanda cautelare sotto il profilo del fumus boni iuris, difficilmente l'attore riusciva a dimostrare il suo buon diritto; in buona sostanza, si aveva la paura, da un lato, di ingolfare gli uffici con un reclamo pressoché continuo, privilegiando la funzionalità del sistema giudiziario alle (sia pur importanti) esigenze difensive e, dall'altro lato, di «sommarizzare» i procedimenti attraverso un'anticipazione di tutela giurisdizionale che potesse in qualche modo turbare la serenità del giudizio di primo grado. Al contrario, altri giudici di merito avevano messo in luce la discriminazione operata dall'art. 669-terdecies c.p.c. tra la posizione del ricorrente, in capo al quale poteva formarsi una sorta di giudicato sul provvedimento di rigetto dell'istanza cautelare – o, comunque, il formarsi di un assetto quasi irreversibile di interessi – e quella del resistente, che poteva liberamente impugnare il provvedimento concessivo della cautela; si dava ingresso o meno al reclamo secundum eventum litis e, di fatto, si escludeva che lo stesso giudice potesse pronunciarsi nuovamente su una domanda riproposta negli identici termini ed in costanza della medesima situazione di fatto per eliminare un proprio eventuale precedente sbaglio (in pratica, alla parte ricorrente rimasta soccombente, si offriva, in principio, soltanto la risicata chance di riproporre l'istanza avanti allo stesso giudice, allegando, però, l'avvenuto mutamento delle condizioni di fatto e di diritto). Ecco, quindi, che alcuni magistrati sensibili hanno ritenuto non manifestamente infondata, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui non prevedeva la possibilità di reclamo avverso l'ordinanza che rigettava l'istanza cautelare (Trib. Bologna 21 luglio 1993); e ciò non solo in relazione al provvedimento di diniego della misura cautelare, ma anche in combinato disposto con l'art. 669-septies c.p.c., per il giudicato destinato a formarsi su di un provvedimento di rigetto di un'istanza cautelare, come tale discriminatorio rispetto alla possibilità di reclamo sempre ammissibile da parte del resistente con il provvedimento positivo (v. anche Trib. Tolmezzo 17 febbraio 1994; Trib. Verona 28 gennaio 1994). D'altronde, la disciplina di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., non consentendo il reclamo contro provvedimenti cautelari di rigetto, dava luogo ad una situazione di notorio allungamento dei tempi del processo civile e ad un effettivo «raffreddamento» della tutela cautelare, che si risolveva in uno sbilanciamento della strumentazione di tutela dei diritti, in contrasto con gli artt. 3,24, comma 1, Cost. e anche dell'art. 101, comma 2, Cost. relativo al principio della soggezione del giudice solo alla legge ivi contemplato, laddove assicurava il reclamo solo contro le decisioni di accoglimento e non contro quelle di rigetto, così consentendo che si accumulassero sul giudice di primo grado e incidessero sulla formazione del suo convincimento destinato al giudizio di merito, o anche solo all'esame di ulteriori istanze di cautela, differenti opportunità delle parti di ottenere da un giudice diverso solo pronunce sfavorevoli al diritto cautelato (Trib. Roma 19 novembre 1993). Sollecitata sul punto, la Corte Costituzionale è intervenuta tempestivamente, ed a più riprese (v., in sequenza, Corte cost., n. 253/1994; Corte cost., n. 323/1994; Corte cost., n. 197/1995), ritenendo la fondatezza della questione sottoposta al suo vaglio e dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui limitava l'esperibilità del reclamo ai soli provvedimenti concessivi di tutela cautelare ed escludeva quelli che rigettavano la domanda tesa ad ottenere tale cautela. In particolare, i giudici della Consulta hanno sostenuto che la mancata previsione del reclamo, in favore della parte che subisca la situazione assunta come lesiva del proprio diritto e che abbia chiesto, senza successo, una cautela anticipatoria o conservativa, realizza un'amputazione del diritto di difesa, poiché attribuisce maggiori possibilità di far valere le proprie ragioni a chi resiste alla richiesta di provvedimento cautelare rispetto a chi tale richiesta propone. Inoltre, la sperequazione determinata dalla reclamabilità dei soli provvedimenti di accoglimento non può nemmeno considerarsi compensata dalla prevista riproponibilità dell'istanza cautelare al medesimo giudice in caso di mutamento delle circostanze o di deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto, giacché, tra i rimedi della reclamabilità e della riproponibilità, non vi è rapporto di equivalenza in termini di garanzia, operando gli stessi su piani diversi, non sovrapponibili ma complementari, sicché la disponibilità del secondo rimedio non esclude la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti, propria del primo (in ordine al possibile concorso tra il predetto gravame e la riproposizione dell'azione cautelare, si rinvia al commento dell'art. 669-septies c.p.c.). Alla luce dei principi che devono necessariamente informare il processo civile, come quelli di piena eguaglianza delle parti dinanzi al giudice e di equivalenza dei mezzi processuali esperibili dalle parti medesime, la mancata previsione della revisio prioris istantiae, in cui si concreta il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., in favore della parte che subisca la situazione assunta come lesiva del proprio diritto e che abbia chiesto senza successo una cautela anticipatoria o conservativa – reclamo consentito, invece, solo in caso di provvedimento concessivo della tutela cautelare – realizza un pregiudizio del diritto di difesa; e ciò senza alcuna giustificazione, stante la posizione simmetricamente equivalente delle parti nei confronti dell'ordinamento processuale, poiché il provvedimento, positivo o negativo che sia, incide comunque sulla sfera personale o professionale di entrambe le parti, arrecando pregiudizi agli interessi dell'una o dell'altra in misura non valutabile astrattamente. Né vi è, poi, possibilità logica di ritenere a priori più probabile il fondamento giuridico dei provvedimenti di rigetto rispetto a quelli di accoglimento; né, infine, appare giustificato prestare una considerazione privilegiata allo status quo, ciò essendo contrario alla stessa garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti (la dottrina si è mostrata sostanzialmente favorevole alla conclusione raggiunta dai magistrati della Consulta: tra i tanti, Arieta 1994, 2041; Capponi 2005; Cicchitti, 606; Consolo 1994, 409; De Lorenzo, Foscolo, Re, Napoli, 839; Frus 1995, 577; Grasso, 607; Guarnieri 1994, 669; Laboragine, 420; Mammone, 659; Masoni, 957; Tommaseo 1994, 948; Vaccarella 1995, 511). Pertanto, a seguito della nota sentenza additiva del giudice delle leggi, è legittimo proporre reclamo avverso l'ordinanza di rigetto della domanda cautelare, eliminando la possibilità di un gravame condizionato dal tipo di pronuncia, sulla scorta dell'avvertita necessità di un'equa distribuzione fra le parti di oneri e doveri processuali e di un apprezzamento della pari valenza degli interessi di cui le contrapposte parti sono portatrici. L'intervento della Corte Costituzionale trova ora consacrazione legislativa mediante la riformulazione del comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c.ad opera della l. n. 80/2005 che, in ossequio al principio della parità delle armi, ammette espressamente il reclamo «contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare», quest'ultimo da intendersi esteso, secondo la giurisprudenza prevalente – confortata da una pronuncia del giudice delle leggi del 1995, che aveva sciolto in senso affermativo questo dubbio – anche qualora il rigetto del ricorso è stato motivato da ragioni di incompetenza o preliminari di rito. In altri termini, si è affermato – a chiare note – che il reclamo è un mezzo di controllo che riveste carattere generale, senza possibilità di distinguere a seconda delle ragioni, processuali o di merito, e la stessa ampiezza di rimedi è stata ammessa, altresì, nei confronti dei provvedimenti in materia possessoria. A seguito dell'intervento dei giudici della Consulta, si era, semmai, posta la questione della disciplina del concorso fra riproposizione dell'azione cautelare e reclamo (Consolo 1994, 409). Secondo la giurisprudenza di merito (Trib Verona 21 giugno 1994), l'istanza potrà essere riproposta ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c. soltanto qualora si deducano nuove circostanze comprovanti l'insorgenza di una situazione di pericolo prima inesistente o fatti nuovi o ragioni di diritto non dedotte, oppure non deducibili nella precedente richiesta cautelare o nella successiva fase di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. Resta, comunque, fermo – v., funditus, infra – che l'ordinanza di rigetto di istanza di provvedimento cautelare pronunciata dal giudice, ai sensi dell'art. 669-septiesc.p.c., secondo il rito della c.d. procedura uniforme di cui agli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies c.p.c., essendo reclamabile, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., nel testo risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253/1994 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non ammetteva il reclamo anche contro l'ordinanza di rigetto del provvedimento cautelare, non può essere impugnata in cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., perché questa norma ammette il ricorso (oltre che per i provvedimenti sulla libertà personale) solo per i provvedimenti decisori non altrimenti impugnabili (v., ex plurimis, Cass. II, n. 11066/1994; conforme, Cass. I, n. 8044/1999, ad avviso della quale il ricorso introduttivo di un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., presentato in data successiva al 1° gennaio 1993, soggiace alla disciplina di cui agli artt. 669-septies e 669-terdecies c.p.c., con la conseguenza che il provvedimento negativo eventualmente pronunciato dal giudice adìto è soggetto, rispettivamente, al rimedio del reclamo, per effetto della sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 253/1994, o a quello dell'appello, nell'ipotesi in cui il giudice abbia deciso nel merito, con provvedimento dalla sostanziale natura di sentenza, e non anche a quello del ricorso per cassazione). I provvedimenti cautelari inaudita altera parte. Restava, e resta aperto, il problema se il rimedio del reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. sia esperibile anche nei confronti del provvedimento di rigetto, nel rito o nel merito, emesso nella forma – non dell'ordinanza, ma – del decreto inaudita altera parte, ossia senza attivare il contraddittorio. Nella giurisprudenza, non esiste unanimità di vedute, in quanto alcuni ammettono il rimedio de quo per consentire un effettivo controllo da parte di un giudice diverso da quello che ha disatteso l'istanza cautelare, mentre altri negano l'ingresso del reclamo sulla base della libera riproponibilità della domanda cautelare. Rimane inteso che il provvedimento con il quale il giudice, implicitamente rigettando l'istanza di emissione di provvedimento inaudita altera parte, fissi la data di comparizione delle parti, non è suscettibile di reclamo (Trib. Roma 17 dicembre 1996); di contro, è ammissibile il reclamo avverso l'ordinanza con cui era stato revocato il decreto inaudita altera parte emesso in sede cautelare (Trib. Trieste 13 settembre 1994; cui adde Trib. Roma 6 marzo 1999, ad avviso del quale l'ordinanza con cui il giudice, ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., revoca o modifica il decreto cautelare concesso inaudita altera parte, ha pur sempre natura cautelare e non può essere appellata, ma solo reclamata ex art. 669-terdecies c.p.c.). Diverso è, invece, il caso in cui, con lo stesso decreto, il giudice abbia concesso la cautela ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. – al cui commento si rinvia – perché qui la fase cautelare non si è esaurita e la verifica dei relativi presupposti è oggetto dell'apposita udienza fissata per la conseguente conferma, modifica o revoca; del resto, ammettendo il reclamo omisso medio al collegio, si registrerebbe un'inutile duplicazione qualora il giudice originariamente adìto, di lì a poco, revochi il provvedimento melius re perpensa (tra le pronunce di merito, v. Trib. Velletri 2 maggio 2017, ad avviso del quale il reclamo avverso un decreto reso inaudita altera parte – costituente mera apertura di una fase cautelare destinata, invece, a concludersi con la pronuncia di un'ordinanza all'esito della valutazione delle contrapposte ragioni delle parti – rappresenta una «evidente strumentalizzazione dell'istituto» ex art. 669-terdecies c.p.c.; Trib. Venezia 28 febbraio 2007, secondo cui tale soluzione dipende, in primo luogo, sotto il profilo letterale, dalla circostanza che l'art. 669-terdecies c.p.c. prevede la reclamabilità delle sole «ordinanze» con le quali è stato concesso o negato il provvedimento cautelare, così implicitamente escludendo la possibilità di impugnazione avverso il «decreto» provvisorio previsto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., senza profili di irragionevolezza in tale scelta legislativa, essendo il decreto, per sua natura, suscettibile di rivalutazione in udienza entro un termine brevissimo, ossia quindici giorni, incompatibile con la previsione di un reclamo intermedio; Trib. Torino 21 novembre 2003; secondo Trib. Roma 29 novembre 2002, nell'ipotesi in cui il giudice adìto emetta provvedimento cautelare inaudita altera parte, concedendo un termine per la notifica superiore a otto giorni, e la notifica avvenga oltre tale termine, seppure entro quello fissato dal giudice, il provvedimento deve essere dichiarato inefficace, ed il provvedimento con il quale il giudice adìto dichiari l'inefficacia del proprio provvedimento emesso inaudita altera parte per notifica oltre il termine di otto giorni, sebbene in quello maggiore concesso dal giudice stesso, non è soggetto a reclamo ma solo alla speciale procedura ex art. 669-novies, comma 2, c.p.c.; Trib. Piacenza 9 marzo 2001, rilevando che, avverso il provvedimento cautelare adottato con decreto inaudita altera parte, sia inammissibile il reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., ha precisato che tale norma ammette il reclamo solo contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1994, negato un provvedimento cautelare e, inoltre, nell'attuale quadro normativo, il procedimento cautelare deve concludersi nel contraddittorio delle parti, sicché, anche in ipotesi di accoglimento con decreto, senza contraddittorio, il giudice deve provocare in tempi immediati il medesimo contraddittorio per provvedere, con ordinanza, alla revoca, modifica o conferma della misura cautelare e, contro tale ordinanza, è esperibile il reclamo; nel passato, Trib. Roma 8 luglio 1998 aveva sostenuto che il pretore non potesse rigettare o dichiarare inammissibile il ricorso in via d'urgenza senza convocazione della controparte, essendo previsto o l'accoglimento dell'istanza senza contraddittorio, ma con obbligo per il giudice di fissare l'udienza di comparizione delle parti innanzi a sé per la conferma, modifica o revoca del provvedimento adottato, oppure l'accoglimento o il rigetto, ma dopo il contraddittorio, e che il provvedimento pretorile che avesse respinto o dichiarato inammissibile inaudita altera parte il ricorso d'urgenza non era suscettibile di indagine e di valutazione da parte del giudice del reclamo, che doveva disporne la revoca; in senso conforme, sul presupposto che non fosse consentito il rigetto senza contraddittorio dell'istanza proposta in via d'urgenza, essendo previsto o l'accoglimento senza contraddittorio, ma con obbligo per il giudice di introdurre la fase della revisione per la conferma, modifica o revoca del provvedimento adottato, o l'accoglimento o il rigetto, ma dopo il contraddittorio, Trib. Roma 27 marzo 1998 ha considerato inammissibile il reclamo verso il decreto di rigetto dell'istanza ex art. 700 c.p.c. emesso dal pretore inaudita altera parte per difetto del requisito del periculum in mora). In altri termini, si è esclusa la reclamabilità dei decreti cautelari emanati inaudita altera parte secondo quanto previsto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., in quanto, in tal caso, il controllo dei provvedimenti emessi con tali decreti viene effettuato nell'àmbito dell'udienza fissata dal giudice nel contraddittorio delle parti, attraverso la pronuncia dell'ordinanza con cui il giudice, all'esito di tale udienza, conferma, modifica o revoca i suddetti provvedimenti, salva l'ipotesi in cui, nel pronunciare il decreto cautelare, il giudice ometta di fissare l'udienza di comparizione delle parti dinanzi a sé entro un termine non superiore a quindici giorni e di assegnare alla parte ricorrente un termine perentorio non superiore ad otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto stesso, essendo stata, in tale ipotesi, disapplicata la disciplina prevista dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. e, quindi, impedito il controllo del provvedimento emesso con decreto nella successiva udienza nel contraddittorio tra le parti (Trib. Torino 28 aprile 2010). Anche il giudice contabile si è espresso in questi ultimi termini, ribadendo che, con sentenza n. 253/1994 della Corte Costituzionale, è stato dichiarato illegittimo l'art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui non ammette il reclamo ivi previsto anche avverso l'ordinanza con cui sia stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare e, quindi, l'unico atto di esercizio del potere cautelare soggetto a reclamo è l'ordinanza, sia nel caso in cui sia stato concesso un provvedimento cautelare, sia nel caso in cui sia stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare, conseguendone che deve ritenersi inammissibile il reclamo proposto avverso il decreto emanato nel giudizio cautelare, inaudita altera parte, ex art. 669-sexies c.p.c. (C. conti Liguria 28 dicembre 1995). Sia pure in un diverso àmbito, gli stessi giudici di legittimità (Cass. III, n. 8847/1999) avevano chiarito che il provvedimento con il quale il pretore, adìto ai sensi dell'art. 704, comma 2, c.p.c., in pendenza del giudizio petitorio per il rilascio di un immobile, abbia ordinato la reintegrazione nella detenzione qualificata dello stesso, con decreto reso inaudita altera parte – disponendo la comparizione delle parti innanzi a sé per l'eventuale conferma, modifica o revoca del provvedimento – non fosse suscettibile di impugnazione per regolamento di competenza, ammissibile unicamente nei confronti di quei provvedimenti che, ancorché emessi in forma diversa dalla sentenza, abbiano effetti sostanziali di carattere definitivo. Sarebbe, infatti, incoerente deferire ad altri il controllo di un provvedimento interlocutorio e provvisorio che deve essere necessariamente riesaminato, entro brevissimo tempo e nella pienezza del contraddittorio, dallo stesso giudice che lo ha emesso, a parte l'ipotesi patologica, gravemente lesiva della parte incisa dal provvedimento, in cui il magistrato, conferendo al decreto (ontologicamente precario) una certa definitività, abbia omesso di fissare alcuna udienza, precludendo così l'instaurazione del contraddittorio (sia pure differito) per la successiva conferma, modifica o revoca della misura cautelare accordata, e lo stesso dicasi qualora all'udienza fissata non abbia adottato alcun provvedimento (v., però, Trib. Trani 2 marzo 1999, ad avviso del quale è consentito il reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il decreto d'urgenza reso inaudita altera parte che ometta di fissare l'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c., impedendo così l'instaurazione del contraddittorio con la successiva conferma, modifica o revoca della misura accordata; secondo Trib. Messina 4 novembre 1995, il provvedimento cautelare adottato con decreto, non confermato, revocato o modificato, al quale ha fatto seguito un provvedimento di rinvio per «l'ulteriore corso», deve intendersi definitivo e, in quanto tale, reclamabile). In dottrina, prevale la tesi (Tarzia 1993, 396; Frus 1995, 577; contra, Laboragine 2001, 420), secondo la quale non è consentito un reclamo per saltum, essendo a sua volta reclamabile soltanto l'ordinanza resa a conferma, modifica o revoca in sede di riesame dallo stesso giudice del decreto, e ciò all'evidente scopo di evitare proliferazioni di reclami. Tuttavia, il richiamo – nel testo novellato del comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c. – alla forma della «ordinanza» del provvedimento impugnabile, se, per un verso, conferma l'irreclamabilità del decreto di accoglimento reso inaudita altera parte, ai sensi del comma 2 dell'art. 669-sexies c.p.c., per altro verso, non esclude la condivisibilità della tesi favorevole alla reclamabilità del decreto di rigetto de plano , ossia non seguito dalla successiva instaurazione del contraddittorio (ad avviso di Trib. Milano 15 maggio 2001, il reclamo proposto ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso il decreto di rigetto emesso dal giudice inaudita altera parte, per ritenuta insussistenza del requisito del periculum in mora, è ammissibile e determina la devoluzione al collegio dell'intera controversia; in senso conforme, v., altresì, Trib. Lecce 13 settembre 2000; Trib. Roma 23 luglio 1996; a parere di Trib. Ravenna 24 settembre 1994, nel procedimento cautelare, è ammissibile il reclamo avverso il provvedimento di rigetto per ragioni di rito emesso nella forma del decreto inaudita altera parte, impedendosi così che sull'istanza sia chiamato a pronunciarsi una seconda volta il medesimo giudice che ha emesso il provvedimento negativo; Trib. Torino 11 agosto 1994; e ancora, nel nuovo procedimento cautelare, anche l'inammissibilità della domanda cautelare proposta ante causam deve essere sempre disposta con ordinanza, previa instaurazione del contraddittorio tra le parti, per cui ove, invece, il giudice adìto provveda immediatamente in tal senso, con decreto emesso inaudita altera parte, tale decreto può essere impugnato ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., v. Trib. Roma 23 luglio 1996, precisando, però, che il giudice del reclamo deve limitarsi a revocare il decreto, e non può esaminare né l'ammissibilità, né il contenuto della domanda cautelare, in quanto la fase di primo grado non si è svolta ritualmente; originale la posizione assunta da Trib. l'Aquila 31 ottobre 2002, il quale ha ritenuto che, anche nell'ipotesi di omessa fissazione dell'udienza per la conferma, revoca o modifica nel contraddittorio tra le parti del decreto cautelare emesso inaudita altera parte, non è ammesso il reclamo cautelare, potendo in tale situazione la parte interessata sollecitare il giudice, ex art. 289 c.p.c., per la fissazione dell'udienza di comparizione delle parti). Sempre sul presupposto dell'inammissibilità del rigetto del provvedimento cautelare con decreto inaudita altera parte, dovendo tale rigetto esser sempre disposto con ordinanza resa in contraddittorio tra le parti, altre pronunce hanno sostenuto, invece, che, avverso il provvedimento di rigetto adottato con decreto inaudita altera parte, è inammissibile il reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., spettando alla parte il potere di instaurare il contraddittorio o di riproporre la richiesta cautelare a prescindere da mutamenti nelle circostanze o da nuove ragioni di fatto o di diritto (Trib. Roma 30 aprile 1999; Trib. Roma 28 marzo 1997, secondo cui il provvedimento cautelare negativo emesso inaudita altera parte deve essere considerato adottato al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, sicché non può esperirsi avverso di esso il procedimento di reclamo, mentre è richiedibile la tutela in via d'urgenza, anche ex novo, per le stesse ragioni e senza alcuna preclusione; Trib. Roma 26 marzo 1993, ad avviso del quale, ai sensi del comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c., il gravame è ammissibile solo contro l'ordinanza che, prima dell'inizio o nel corso della causa di merito, ha concesso la cautela, per cui i provvedimenti cautelari emanati inaudita altera parte ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. non sono reclamabili, conseguendone che non è ammesso il reclamo per paralizzare l'efficacia del decreto concessivo, che non esaurisce la prima fase cautelare). Chiarendo meglio i concetti, si è puntualizzato (Trib. Napoli 8 gennaio 1996) che la «convocazione della controparte» di cui all'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., si appalesa come un'esigenza imprescindibile per l'emissione di un provvedimento cautelare, in armonia con i valori enunciati dall'art. 101 Cost., e soprattutto dall'art. 24, comma 2, Cost., guarentigia difensiva che può essere provvisoriamente sacrificata solo allorché la realizzazione del contraddittorio nella forma normale potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento (o perché l'urgenza del provvedere sia tale da non consentire neppure quel minimo di dilazione necessario alla convocazione della controparte o perché mettere sull'avviso quest'ultima significherebbe offrirle la possibilità di sottrarsi agli effetti del provvedimento medesimo); ma, anche in quest'ultimo caso, la garanzia del contraddittorio non è di certo eliminata, atteso che il luogo di controllo del decreto emesso inaudita altera parte è l'udienza in contraddittorio contestualmente fissata dal giudice, nella quale la controparte potrà far valere le sue difese in rito e nel merito e, all'esito delle stesse, ottenere in tempi davvero contenuti la modifica o la revoca del provvedimento cautelare emesso in sua assenza; qualora il giudice provveda su istanza di provvedimento d'urgenza invocato nell'atto introduttivo del giudizio, senza disporre, invece, la comparizione delle parti, la relativa decisione ha natura di decreto, che è soggetta al controllo in sede di successiva comparizione delle parti, nella forma dell'ordinanza, che è impugnabile con reclamo. I provvedimenti di modifica o revoca della misura cautelare. Altrettanto discussa è la configurabilità del rimedio in esame avverso il provvedimento che pronuncia sull'istanza di modifica o revoca della misura cautelare di cui all'art. 669-decies c.p.c. (al cui commento, ad ogni buon conto, si rinvia). In senso favorevole (e maggioritario), si sono espressi quei giudici secondo i quali la modifica-revoca costituiscono, pur sempre, la manifestazione dell'originario potere cautelare, il che sottopone il relativo provvedimento all'applicazione del doppio grado di giurisdizione cautelare (Trib. S. Angelo dei Lombardi 5 marzo 2002, precisando che il reclamo investe il collegio del potere di compiere gli atti di istruzione necessari al controllo del sopravvenuto mutamento delle circostanze che hanno indotto al provvedimento contestato; secondo Trib. Torino 20 novembre 2001, è ammissibile il reclamo nei confronti di un'ordinanza che ha rigettato l'istanza di revoca di un provvedimento cautelare; Trib. Piacenza 15 dicembre 2000; Trib. Milano 20 giugno 1997; Trib. S. Maria Capua Vetere 5 novembre 1996, precisando che il collegio deve, peraltro, limitarsi a verificare la sussistenza dei «mutamenti nelle circostanze», che giustificano in via esclusiva la pronuncia di revoca; Trib. Nocera Inferiore 11 gennaio 1996; Trib. Marsala 25 settembre 1995, con riferimento specifico all'ordinanza di revoca di una misura cautelare precedentemente concessa, in ragione dell'assimilabilità della revoca al provvedimento di rigetto; Trib. Roma 27 giugno 1995, aggiungendo che il giudice del reclamo deve limitarsi a sindacare la valutazione compiuta dal giudice della revoca, e cioè verificare se effettivamente siano intervenuti i «mutamenti delle circostanze», senza poter procedere ad un riesame complessivo delle ragioni poste a base della decisione cautelare; Trib. Pesaro 22 settembre 1994, sul rilievo che l'ordinanza di revoca pronunciata ex art. 669-decies c.p.c. si risolve nel diniego della cautela richiesta in origine). D'altronde, il rimedio previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. è azionabile contro qualsiasi forma di esercizio del potere cautelare (Trib. Ravenna 26 maggio 2000, con riferimento al provvedimento che respinge l'istanza di revoca del sequestro per l'inidoneità della fideiussione offerta); per reagire alla revoca di un provvedimento cautelare, si deve utilizzare lo strumento ad hoc del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. e non proporre un nuovo ricorso che, dopo il consolidamento della revoca, postula necessariamente la deduzione di nuove ragioni di fatto e/o di diritto (Trib. Lucca 13 ottobre 1999); è, pertanto, ammissibile il reclamo avverso tutti i provvedimenti resi a seguito di istanza di revoca o di modifica della misura cautelare, in quanto l'art. 669-terdecies c.p.c. predispone un rimedio generale contro ogni forma di esercizio del potere cautelare (Trib. Padova 12 novembre 1998). Al riguardo, si è puntualizzato (Trib. Torre Annunziata 31 gennaio 2001) che va considerato ammissibile il reclamo avverso il provvedimento di revoca o modifica di un provvedimento cautelare; invero, la revoca o la modifica del provvedimento cautelare sono ulteriori espressioni dello stesso potere cautelare, fondato sulla cognizione degli stessi elementi (valutazione del fumus e del periculum), mirato allo stesso scopo (predisposizione di una tutela adeguata o valutazione di una sua non necessità); essi producono, nei confronti delle parti, gli stessi identici effetti di un provvedimento di accoglimento o di rigetto; non si può dubitare della medesima esigenza di garanzia di chi subisce un provvedimento ampliativo della misura cautelare, rispetto a chi subisce la sua concessione in prima istanza, o di chi subisce una revoca o una modifica in peius rispetto a chi si vede negare una richiesta cautelare. In definitiva, la revoca e la modifica costituiscono rimedi autonomi per apposite fattispecie sopravvenute; il controllo del collegio deve essere consentito, in linea con un'interpretazione adeguatrice ai valori costituzionali: se tra questi non esiste il principio del doppio grado di giurisdizione, è anche vero che la tutela cautelare è stata costruita dalla Corte Costituzionale come l'ineliminabile garanzia di effettività della tutela giurisdizionale dei propri diritti di cui all'art. 24 Cost. In ordine all'attenta ricostruzione della funzione del reclamo reso sui provvedimenti di revoca o modifica, è da ritenere che l'àmbito di cognizione del giudice del reclamo sia limitato alla verifica di eventuali errores in procedendo, nonché alla sussistenza dei presupposti della revoca o modifica, cioè dei «mutamenti delle circostanze» (e poi ovviamente alla congruità del provvedimento rispetto a questi ultimi); ciò impedisce, quindi, la possibilità di porre nuovamente in discussione il fumus ed il periculum, come originariamente valutati dal giudice che ha concesso la cautela. Anche parte della dottrina (Olivieri, 719; Gasperini, 769; Micangeli, 239) ritiene reclamabili i provvedimenti di modifica ed impositivi di una cauzione, in quanto integranti una concessione ex novo, così ampliando la sfera dei provvedimenti reclamabili, e ammettendo, in particolare, il reclamo dei provvedimenti di modifica e di revoca, sia di accoglimento che di rigetto. In senso sfavorevole, si posizionano, invece, quei giudici che fanno leva soprattutto sul dato letterale che esclude l'esperibilità del suddetto rimedio – esclusivo delle sole misure che concedono, e ora anche negano, una cautela – per non appesantire troppo il procedimento cautelare (nel senso dell'inammissibilità del reclamo avverso l'ordinanza pronunciata in sede di revoca e modifica di un provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., v. Trib. Milano 29 agosto 2002; Trib. Palermo 4 luglio 1997; Trib. Torino 29 marzo 1995; Trib. Milano 16 gennaio 1995, aggiungendo che resta, in ogni caso, all'istante la possibilità di riproporre l'istanza del provvedimento revocato; Trib. Napoli 25 novembre 1994). In particolare, si è statuito (Trib. Messina 29 novembre 2005) che l'ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare di revoca non è reclamabile, posto che tale provvedimento – diversamente da quello di accoglimento dell'istanza, che cioè disponga la revoca o la modifica della precedente cautela – nulla aggiunge alla situazione preesistente e non comporta un esercizio del potere cautelare del giudice del merito che possa considerarsi effettivamente nuovo e diverso rispetto a quello già esplicatosi con la pronuncia del provvedimento originario; diversamente, si finirebbe con il consentire una costante e reiterata reclamabilità dell'ordinanza cautelare di cui si chiede la revoca, con la possibilità anche di eludere le preclusioni poste dall'art. 669-terdecies c.p.c. Si è osservato, in proposito, che non varrebbe a confutare tale assunto l'osservazione che un quid novi, nel provvedimento di diniego della revoca, sarebbe comunque rappresentato dall'esito negativo della necessaria valutazione in ordine alla sussistenza di «mutamenti nelle circostanze» ed alla conducenza di questi al fine della revoca del precedente giudizio cautelare, con la conseguenza che ad esso andrebbero anche rapportati il fondamento ed i limiti stessi di un nuovo esame in sede di reclamo; sul punto, si obietta: a) che la valutazione relativa alla (in)sussistenza di rilevanti mutamenti nelle circostanze attiene esclusivamente alla motivazione del provvedimento e non si riflette nel suo contenuto performativo, non si traduce cioè in statuizioni idonee ad innovare la precedente situazione cautelare; b) che, in concreto, può essere spesso assai difficile stabilire se, e in che misura, il diniego della revoca sia motivato dalla negazione della sussistenza di mutamenti nelle circostanze capaci di modificare il convincimento giuridico posto a base del provvedimento originario o da un convincimento differente – magari subordinato e, quindi, assorbito – da quello posto a base del provvedimento cautelare che si chiede di revocare (in sostanza, non è agevole distinguere fino a che punto il reclamo sia motivato da una consentita critica della valutazione dell'incidenza delle circostanze nuove e non, invece, da un non consentito nuovo sindacato del convincimento giuridico posto a base dell'ordinanza); c) che, seguendo tale via argomentativa, si rischia di ridurre il problema dell'esperibilità del reclamo ad una quaestio facti inammissibile, in quanto contraria alla certezza del diritto, e pericolosa, perché inevitabilmente foriera di disparità di trattamento. Si deduce, altresì, come non pare possa utilmente essere invocato il principio della parità delle armi, valorizzato da Corte cost., n. 253/1994, per l'estensione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. al provvedimento di rigetto della domanda cautelare, atteso che, pur ammettendo la reclamabilità dell'opposto provvedimento di accoglimento dell'istanza di revoca o modifica dell'ordinanza cautelare – per il quale, invero, non valgono le obiezioni sopra svolte, atteso che un tale provvedimento, a differenza dell'altro, incide sulla preesistente situazione cautelare, eliminandola o modificandola – nondimeno la posizione di chi abbia a dolersi della revoca o modifica non può, a ben vedere, considerarsi esattamente speculare, ai fini in discorso, a quella di chi abbia a dolersi del diniego di tale revoca o modifica; ciò sarebbe se entrambe le posizioni avessero a rapportarsi alla situazione cautelare preesistente; se, invece, esse si rapportano – come sembra più corretto – alla situazione anteriore all'emissione dell'originaria misura cautelare, la specularietà delle due posizioni, in realtà, viene meno oppure può correttamente apprezzarsi su altro piano; chi si vede negata la revoca della misura, infatti, è sempre colui il quale resiste alla sua adozione e non si trova in posizione diversa da chi ha subìto la misura, ed è quest'ultima la posizione alla quale occorre (ed è sufficiente) garantire parità delle armi rispetto alla parte che chiede la misura; chi, viceversa, subisce la revoca della misura si trova nella (prima inedita) situazione di chi si veda rigettata la domanda di cautela, ed è questa nuova posizione che giustifica la reclamabilità della revoca (proprio per ristabilire la parità delle armi), laddove nuova, invece, non è la situazione di chi si veda rigettata la richiesta di revoca. Ai fini dell'ammissibilità del reclamo avverso il provvedimento di revoca, che l'art. 669-terdecies c.p.c. non prevede, non è, dunque, risolutivo – ad avviso della suesposta tesi negativa – il richiamo alla sentenza del giudice delle leggi del 1994, in quanto quest'ultimo ha esteso la reclamabilità dei provvedimenti cautelari ai provvedimenti di diniego della cautela in relazione al principio generale di uguaglianza dei mezzi di difesa nel processo e non, invece, in base ad un principio del doppio grado di giurisdizione nel processo cautelare; non è condivisibile l'equiparazione tra provvedimento di revoca e provvedimento di rigetto, perché, con il primo, si accerta esclusivamente la permanenza di quelle circostanze già individuate ed eventualmente vagliate dal giudice del reclamo, mentre, con il secondo, si individuano i requisiti negativi che impediscono la concessione della cautela; la reclamabilità del provvedimento di revoca va esclusa in considerazione dell'evidente volontà del legislatore di non appesantire il procedimento cautelare con la proposizione di ricorrenti istanze di revoca e di reclami anche avverso i relativi provvedimenti di diniego (Trib. Roma 26 maggio 1995). Una corretta impostazione della problematica, alla luce del principio della parità delle armi, dovrebbe, in realtà, effettuarsi distinguendo la pronuncia positiva da quella negativa, nonché la modifica, specie se ampliativa, dalla revoca. Ad ogni buon conto, la novella dell'art. 669-decies c.p.c. ha chiarito due aspetti non del tutto espliciti nella precedente formulazione della norma, atteso che, da un lato, ha specificato la competenza sulla modifica e sulla revoca del provvedimento cautelare e, dall'altro, ha delineato i motivi di revoca o modifica del provvedimento cautelare (Barberio, 2637; Corsini 2000, 87). Per quanto riguarda la competenza per l'emissione di un'ordinanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare, è ormai stabilito che il giudice istruttore della causa di merito, ancorché il provvedimento sia emesso ante causam, sia l'unica autorità giudiziaria competente a modificare o privare di effetti il provvedimento precedentemente emesso (anche, quindi, se per decisione di un altro giudice). La regola trova la sua naturale eccezione nell'ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia oggetto di reclamo, poiché, in questa ipotesi, essendo già investito della decisione sulla riforma del provvedimento un altro organo giurisdizionale – il collegio o un'altra sezione della corte d'appello – la permanenza di tale competenza in capo al giudice di merito potrebbe cagionare un conflitto di giudicato. Tuttavia, ancorché sia stata definita l'esclusiva competenza del collegio (o di un'altra sezione della corte d'appello, investita del reclamo), anche sulla modifica/revoca del provvedimento cautelare in presenza di circostanze nuove oppure in presenza di fatti anteriori successivamente conosciuti, non è stato previsto se, in ipotesi di rigetto dell'istanza di modifica o revoca, sia competente a decidere su un'ulteriore istanza l'organo giudiziario investito del reclamo oppure, di nuovo, il giudice istruttore (a cui potrebbe essere riproposta l'istanza). Attualmente, la posizione della giurisprudenza sembra prevalentemente assestata sulla competenza del giudice del reclamo (Trib. Lucca 13 ottobre 1999; Trib. Padova 12 novembre 1998; Trib. Milano 20 giugno 1997; Trib. Roma 27 giugno 1995; cui adde Trib. Taranto 25 giugno 2014, ad avviso del quale l'espressione utilizzata dalla norma de qua sta ad indicare soltanto che, pendendo il reclamo, anche la domanda di modifica e di revoca della misura cautelare adottata può trovare ingresso davanti al giudice superiore, tanto anche in virtù del potere di revisione totale della misura cautelare attribuito al giudice del reclamo, da intendersi, quindi, esteso anche alla domanda di sua modifica o revoca per circostanze sopravvenute). Si registrano, però, anche opinioni contrarie, ossia nel senso che la competenza a decidere in ordine all'istanza di revoca e/o modifica del provvedimento cautelare appartiene sempre ad un giudice monocratico, e ciò anche nell'ipotesi in cui il giudizio di merito non sia iniziato (Trib. Roma 25 gennaio 2005; Trib. Milano 29 agosto 2002; Trib. Palermo 4 luglio 1997; Trib. Roma 26 maggio 1995; Trib. Torino 29 marzo 1995; Trib. Milano 16 gennaio 1995). I provvedimenti che dichiarano l'inefficacia della misura cautelare. Non è pacifica nemmeno l'esperibilità del reclamo nei confronti dei provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c. – al cui commento, comunque, si rinvia – dai più negata vertendosi nella fase procedimentale rivolta alla caducazione dell'efficacia del provvedimento cautelare, specie se conseguenza necessitata dall'assenza di contestazioni che la relativa ordinanza presuppone (per una panoramica della dottrina sul punto, Frus 2005, 797; Recussi, 240). Invero, il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., stando alla lettura testuale della norma in questione così come integrata dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1994, non è proponibile contro qualsiasi provvedimento attinente alla materia cautelare, ma soltanto contro le ordinanze con le quali vengono concessi o negati provvedimenti cautelari; in particolare, non è reclamabile il provvedimento reso nella procedura di cui all'art. 669-novies c.p.c. con cui, in presenza di contestazione dell'altra parte costituita, il giudice ha ritenuto che la questione debba essere decisa con sentenza (Trib. Verona 19 giugno 2003). Si è ribadito (Trib. Napoli 25 novembre 1994) che non è ammissibile il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso il provvedimento negatorio della revoca richiesta con il ricorso di cui all'art. 669-novies c.p.c.; il rimedio del reclamo è, infatti, predisposto contro il provvedimento cautelare, mentre, nella seconda fattispecie, si esulerebbe da tale previsione normativa, vertendosi nella fase procedimentale rivolta alla caducazione degli effetti dei sequestri. In una particolare fattispecie, si è rilevato (Trib. Santa Maria Capua Vetere 10 dicembre 1996) che il collegio, adìto in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., non è competente a decidere sul ricorso incidentale proposto dalla resistente, che domanda la dichiarazione di inefficacia del provvedimento di sequestro conservativo concesso dal giudice di prime cure, affermando che la misura cautelare non è stata eseguita dalla controparte nel termine di cui all'art. 675 c.p.c.; per effetto dell'intervenuta abrogazione dell'art. 683 c.p.c. e dell'operatività del disposto di cui all'art. 669-quaterdecies c.p.c., la disciplina dettata all'art. 669-novies c.p.c. trova applicazione anche con riferimento alla fattispecie in esame; la competenza a dichiarare, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il sequestro conservativo è divenuto inefficace a seguito della scadenza del termine previsto dalla legge per la sua esecuzione, pertanto, è riservata al giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata; soltanto qualora sorgano contestazioni, poi, la decisione sarà pronunciata con sentenza dall'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha disposto il sequestro; le invocate ragioni di economia processuale invocate non appaiono idonee ad offrire fondamento ad un'interpretazione priva di esplicito supporto normativo che, attribuendo la competenza a decidere circa la sopravvenuta inefficacia del sequestro al collegio, investito con reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. per altra causa, potrebbe anche comportare la lesione dei diritti di difesa delle parti. Una pronuncia di merito isolata ammette il reclamo avverso la pronuncia di inefficacia di provvedimento cautelare ante causam emanata in mancanza dei presupposti di legge (ad avviso di Taranto 12 gennaio 1998, nell'ipotesi in cui la cautela concessa ante causam sia divenuta, per qualsivoglia motivo, inefficace, il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. resta un mezzo alternativo e concorrente, rispetto al procedimento ex art. 669-novies c.p.c., per porre nel nulla il provvedimento cautelare e, in particolare, costituisce l'unico strumento processuale esperibile dalla parte, rimasta soccombente in prima istanza, per conseguire, in uno alla revoca della cautela concessa, anche la condanna della controparte, al rimborso delle spese dell'intera procedura cautelare); e nello stesso senso, appare anche una pronuncia di legittimità (secondo Cass. I, n. 4113/1997, l'ordinanza che, a norma dell'art. 669-novies c.p.c., decide sull'efficacia di un provvedimento cautelare non è ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento a carattere non decisorio, ma, pur in difetto di espressa previsione normativa, è reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., non essendo coerente con la ratio della l. n. 353/1990 escludere dall'area della reclamabilità un'ordinanza che riguarda l'efficacia di un provvedimento avverso la cui concessione, o diniego, è espressamente prevista la responsabilità di reclamo, ed essendo, la predetta reclamabilità, conforme al dettato dell'art. 24 Cost.). Secondo alcuni autori (Tarzia, Ghirga, 423), restano estranei alla reclamabilità i provvedimenti, seppur resi con ordinanza, in cui sia dichiarata l'inefficacia del provvedimento cautelare ex art. 669-novies c.p.c., tra cui quello per mancato versamento della cauzione e per la dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato, se non pronunciati nella stessa sentenza. I provvedimenti che disciplinano l'attuazione della misura cautelare. Particolarmente vivace si presenta il dibattito avente ad oggetto la reclamabilità dei provvedimenti resi in sede di attuazione delle misure cautelari (sul versante dottrinale, per tutti, Delle Donne 2012, 2353). Sul rilievo che non attiene alla legittimità originaria del provvedimento concessorio, è stato negato, da alcuni, l'ingresso del rimedio del reclamo avverso le ordinanze emanate per risolvere difficoltà o contestazioni insorte in sede di attuazione ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Si è, in particolare, affermato (Trib. Lucca 21 marzo 2003) che non è ammesso il reclamo avverso il provvedimento negativo sull'istanza di riduzione di un sequestro conservativo – pur ragionando nell'ordine di idee dell'estensibilità al sequestro suddetto della previsione ex art. 496 c.p.c. in tema di pignoramento, e pur tenuto conto della reclamabilità dei provvedimenti cautelari negativi, nonché di quelli concernenti modifica o revoca delle misure cautelari – giacché si tratta di provvedimento che attiene al momento dell'attuazione, e non a quello dell'esercizio della tutela cautelare (ad avviso di Trib. Pisa 29 agosto 1994, il provvedimento di rigetto del ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c., e conseguentemente il diniego di determinazione delle modalità di attuazione di un provvedimento cautelare già concesso, rende tamquam non esset l'ordinanza di accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., comportando così la superfluità del reclamo). È inammissibile il reclamo avverso il provvedimento con il quale il giudice istruttore del giudizio di merito determina le modalità di attuazione della misura cautelare avente ad oggetto obblighi di consegna, di rilascio, di fare o di non fare; si appalesa evidente la struttura unitaria del procedimento cautelare, che richiede, sin dalla formulazione iniziale della stessa ordinanza, che siano dettate contestualmente le modalità attuative; qualora le stesse difettino, è possibile utilizzare lo strumento offerto dall'art. 669-duodecies c.p.c., il cui esito non rappresenta un quid novi rispetto al contenuto della tutela cautelare, ma tende unicamente alla sua integrazione, che è necessario attivare ogniqualvolta non siano state determinate le modalità più opportune per la soddisfazione delle accertate esigenze cautelari; ne consegue che, ritenuto il carattere integrativo del provvedimento originario, come tale partecipe della stessa natura ed assoggettato alla medesima disciplina, lo stesso è inoppugnabile ex art. 669-terdecies c.p.c.; invero, il reclamo al collegio è ammesso solo avverso l'ordinanza che abbia concesso o meno il provvedimento cautelare e non contro l'ordinanza emessa in fase di attuazione, la cui natura è meramente ordinatoria, limitandosi a risolvere solo difficoltà di ordine materiale, che possano sorgere in sede di concreta attuazione del comando contenuto nel provvedimento cautelare; la diversità della natura dei due provvedimenti, di cognizione (ancorché sommaria) quello cautelare, e di esecuzione quello in esame, giustifica la difformità dei rimedi previsti, per contestare la validità dell'uno o dell'altro, evidentemente corrispondente alle diverse impugnazioni previste per il titolo esecutivo (sentenza) e contro i provvedimenti di esecuzione materiale dello stesso, mentre, diversamente opinando, si concretizzerebbe una disarmonia sul piano sistematico; quindi, il carattere ordinario dell'ordinanza ex art. 669-duodecies c.p.c. mal si concilia con la possibilità di una sua impugnazione, secondo i rimedi previsti per la diversa ordinanza che decide nel merito della pretesa cautelare (così Trib. Napoli 2 febbraio 2001: nella specie, si trattava di un'inibitoria, in materia di modelli di utilità, concessa ante causam). In senso conforme a quest'ultima impostazione, si è ritenuto che, poiché l'art. 669-terdecies c.p.c. consente il reclamo esclusivamente contro l'ordinanza con la quale sia stato concesso o negato un provvedimento cautelare, non sono reclamabili le decisioni emesse ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., trattandosi di pronunce prive di qualsivoglia contenuto decisorio, volte esclusivamente a precisare le modalità di esecuzione di un provvedimento cautelare già emesso (Trib. Modena 21 settembre 2011; Trib. Camerino 12 marzo 2009; Trib. Torino 2 dicembre 2005); nell'avallare tale orientamento, si è anche osservato che i provvedimenti di attuazione non hanno natura cautelare, bensì natura esecutiva, evidenziando che, proprio perché la cautela è una sola, ed il provvedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. ne è soltanto l'appendice esecutiva, deve escludersi che anche il relativo provvedimento «accessorio» sia reclamabile (Trib. Bologna 20 novembre 2007; secondo Trib. Salerno 6 maggio 2005, eventuali doglianze riguardanti l'ordinanza di attuazione della misura, essendo ormai chiusa la fase cautelare, devono essere fatte valere nel successivo giudizio di merito). Altre pronunce ritengono, al contrario, esperibile il reclamo avverso l'ordinanza emanata in sede di attuazione in forma specifica: ad avviso di un magistrato capitolino (Trib. Roma 23 luglio 2003) – sia pure in una fattispecie antecedente alla riforma realizzata dalla l. n. 80/2005 – tenuto conto del principio di unità del procedimento cautelare, deve escludersi che il provvedimento di attuazione della cautela emesso all'esito del procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. non sia soggetto a reclamo ai sensi del successivo art. 669-terdecies c.p.c., considerando, in particolare, che, in pendenza del reclamo, la competenza ad esaminare eventuali profili sopravvenuti e ad apportare eventuali modifiche al provvedimento reclamato spetta allo stesso giudice del reclamo, come si evince dagli artt. 177 c.p.c., in materia di ordinanze per le quali la legge predisponga uno speciale mezzo di reclamo, e dall'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., il quale stabilisce che, in sede di reclamo, il collegio pronuncia ordinanza non impugnabile con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare (nel senso che il provvedimento con cui, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., vengano disposte le modalità di attuazione di un provvedimento cautelare precedentemente adottato è suscettibile di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., aggiungendo che la proposizione, ai sensi dell'art. 617, comma 2, c.p.c., di un'opposizione agli atti esecutivi attraverso un provvedimento, ex art. 669-duodecies c.p.c., di attuazione di provvedimento cautelare precedentemente emesso non pregiudica la cognizione, da parte del giudice competente, del reclamo proposto, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento attuativo, v. anche Trib. Bari 29 febbraio 1996). Nella stessa ottica, si è ritenuta reclamabile l'ordinanza di rigetto dell'istanza per l'attuazione del provvedimento di reintegra nel posto di lavoro; il provvedimento d'urgenza che dispone la reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato è un provvedimento complesso e frazionabile, suscettibile di attuazione forzata nella parte in cui, ricostituendo retroattivamente il rapporto di lavoro con tutte le conseguenze economiche, retributive e previdenziali, impone la reiscrizione nel libro paga e matricola e consente l'ingresso del lavoratore in azienda per l'esercizio dei diritti sindacali, mentre è incoercibile l'obbligo del datore di lavoro di reinserirlo nell'attività dell'azienda, offrendogli personale collaborazione per l'espletamento della prestazione lavorativa (Trib. Latina 5 dicembre 1997: nella specie, il provvedimento reclamato era stato qualificato revoca dell'ordine di reintegra; contra, Trib. Roma 17 aprile 1997, il quale reputa inammissibile il reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. avverso il provvedimento positivo, emanato dal tribunale ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. in sede di determinazione delle modalità di esecuzione dell'ordine di reintegrazione precedentemente concesso). E ancora, si è affermato che la richiesta di determinazione delle modalità per attuare l'ordinanza di accoglimento emessa ex art. 700 c.p.c., ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., decidendo questioni circa la conformità o meno al titolo esecutivo delle opere che la parte vittoriosa chiede che siano eseguite, risolve questioni riservate alla fase di merito: pertanto, il provvedimento di diniego del ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c., quando risolva questioni di merito, è reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (Trib. Pisa 10 agosto 1994). Nella stessa lunghezza d'onda, si è affermata (Trib. Savona 16 gennaio 2013) la reclamabilità dei provvedimenti di attuazione delle misure cautelari, in quanto, in caso di modalità di attuazione dettate con ordinanza successiva avente ad oggetto un facere, l'ordinanza resa ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. risulta integrativa del provvedimento cautelare originario e, come tale, è partecipe, quindi, della stessa natura ed è assoggettata alla medesima disciplina; in ragione del principio di unicità del procedimento cautelare – che esclude una diversità di essenza tra la cognizione propria del momento concessorio e quella propria del momento attuativo, rendendo normale la compenetrazione tra concessione e attuazione – deve ritenersi, in linea di principio, ammissibile il reclamo avverso provvedimenti emessi in sede di attuazione del procedimento cautelare, salvo che si tratti di provvedimenti di carattere meramente ordinatorio (Trib. Reggio Calabria 11 aprile 2011); anche i provvedimenti di attuazione di una misura cautelare sono suscettibili di reclamo, poiché, nonostante la formulazione apparentemente limitativa dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c. – che pure sembrerebbe circoscrivere lo strumento del reclamo alla censura dei soli provvedimenti che accolgono o rigettano le richieste cautelari – ogni provvedimento di natura cautelare, ivi compresi quelli di attuazione, deve ritenersi reclamabile (Trib. Trani 23 gennaio 2007). In proposito, gli ermellini (Cass. II, n. 10758/2019) sono propensi a ritenere che il provvedimento emesso dal giudice monocratico, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., per regolare l'attuazione delle misure cautelari sia impugnabile mediante reclamo al collegio anche relativamente alla pronuncia sulle spese, aggiungendo che, contro tale provvedimento, invece, è inammissibile il ricorso per cassazione, essendo esso privo del carattere della decisorietà e, quindi, non idoneo al giudicato (in tal senso, si poneva anche Cass. III, n. 4497/2009, la quale aveva ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso i provvedimenti negativi emessi all'esito della fase promossa per l'attuazione di provvedimenti cautelari, in quanto avverso questi ultimi era, invece, ammesso il reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., anche nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 35/2005, convertito nella l. n. 80/2005 ed a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 253/1994; in senso conforme, v. anche Cass. III, n. 25543/2009, secondo cui non è ravvisabile il carattere della decisorietà nei provvedimenti emessi dal giudice, in forma diversa dalla sentenza, per regolare l'attuazione delle misure cautelari, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., né nelle pronunce rese in sede di reclamo avverso detti provvedimenti, avendo questi ultimi natura strumentale ed essendo, conseguentemente, gli stessi inidonei ad assumere efficacia di cosa giudicata, sia dal punto di vista formale, che da quello sostanziale, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione proposto, avverso i medesimi, ex art. 111 Cost.). I provvedimenti che impongono una cauzione. È stato, invece, ammesso il rimedio del reclamo nei confronti delle ordinanze che, concedendo la richiesta misura cautelare, impongano una cauzione ex art. 669-undecies c.p.c. – al cui commento si rinvia – oppure la fissino in una somma eccessivamente elevata, stante la funzione di «controcautela» della stessa cauzione, oppure contro quelle ordinanze che non contengano alcuna cauzione o la determinino in un importo troppo esiguo. In particolare, si è sostenuto (Trib. Genova 29 dicembre 1994) che, qualora, dopo la concessione anteriormente all'inizio del giudizio di merito di sequestro conservativo a favore di una parte, nel corso del giudizio di merito, il giudice istruttore ha imposto a carico del sequestrante una cauzione «per l'eventuale risarcimento danni in relazione alle spese di custodia» dei beni sequestrati, va considerato ammissibile il reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. proposto avverso il suddetto provvedimento, in quanto l'ordinanza che impone la cauzione ha natura di ordinanza di modifica dell'originario provvedimento cautelare di sequestro autorizzato ante causam e, come tale, può dunque essere adottata anche dal giudice istruttore del giudizio di merito e reclamabile al collegio (in senso conforme, v. Trib. Ancona 17 novembre 1993, secondo cui il sequestrante che si duole dell'imposizione di una cauzione ritenuta illegittima ed iniqua può proporre reclamo avverso il provvedimento cautelare che l'ha disposta; contra, Trib. Lanciano 26 luglio 2002, ad avviso del quale è inammissibile il reclamo nei confronti del provvedimento di revoca del sequestro conservativo pronunciato ai sensi dell'art. 684 c.p.c.). I provvedimenti sulla competenza e sulla giurisdizione. Stante la caratteristica del reclamo come mezzo di riesame pieno, mediante il quale far valere sia motivi che attengono al merito del provvedimento impugnato, sia alla sua legittimità, ivi compresa l'incompetenza, la dottrina si è attestata nel ritenere improponibile il regolamento di competenza avverso la statuizione (implicita o esplicita) sulla competenza contenuta nell'ordinanza di accoglimento della misura cautelare ex art. 669-octies c.p.c. (Salomone, 1407; Segreto, 928). Invero, a fronte del diniego di un provvedimento cautelare fondato sull'incompetenza del giudice adìto, la mancanza di definitività, tipica di tali provvedimenti, impedisce che l'interessato possa utilmente ricorrere al regolamento di competenza, essendo il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. l'unico strumento correttamente esperibile (v., tra le tante, Trib. Bologna 30 luglio 1998; contra, isolata, Trib. Catania 27 agosto 1994, secondo la quale è inammissibile il reclamo avverso il provvedimento con il quale il giudice, adìto ex art. 700 c.p.c., dichiara l'incompetenza dell'ufficio giudiziario al quale appartiene; più sensibile Trib. Verbania 11 ottobre 1994, il quale ha optato per la rimessione ai giudici della Consulta, ritenendo non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c., in relazione agli artt. 3, comma 1, e 24, commi 1 e 2, Cost., nella parte in cui non prevede la reclamabilità del provvedimento di rigetto della domanda cautelare per incompetenza). Dello stesso avviso l'unanime giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l'ordinanza emessa in sede di procedimento cautelare, anche in pendenza del processo, quale che sia il contenuto del provvedimento, non è impugnabile con il regolamento di competenza, ma unicamente con il reclamo introdotto dall'art. 669-terdecies c.p.c.; i provvedimenti cautelari, infatti, non sono idonei, per loro natura, ad acquistare efficacia definitiva se non tempestivamente impugnati, ma sono caratterizzati dalla provvisorietà e dalla strumentalità, essendo destinati a rifluire nel provvedimento che definisce la controversia in atto tra le parti e non tollerano, perciò, altro mezzo di impugnazione se non lo speciale reclamo introdotto con la riforma del codice di rito, anche quando contengano statuizioni sulla competenza (Cass. IV, n. 13348/1999, relativamente ad un caso nel quale avanti al tribunale era stato instaurato giudizio di impugnazione dell'esclusione di un socio da una cooperativa e davanti al pretore quello stesso socio aveva chiesto un provvedimento attinente ad un rapporto di lavoro esistente con la società, precisando, altresì, che la declaratoria di litispendenza si doveva nella sostanza considerare una declinatoria di competenza, per la pretesa sussistenza della competenza del giudice del merito; Cass. I, n. 3660/1997; Cass. I, n. 4536/1997, con riferimento all'ordinanza di accoglimento o reiezione dell'istanza di revoca del sequestro conservativo dietro cauzione di cui all'art. 684 c.p.c., sul rilievo che quest'ultimo aveva la stessa natura e consistenza dell'originario provvedimento cautelare e, quindi, con caratteristiche di provvisorietà e modificabilità necessariamente estese alla soluzione delle questioni pregiudiziali, come quella sulla competenza; Cass. I, n. 7448/1996, relativamente all'ordinanza resa dal pretore sulla domanda di provvedimento cautelare declinatoria della competenza; Cass. IV, n. 490/1996, circa il provvedimento emesso in sede cautelare nella materia del lavoro, sia prima del giudizio di merito, sia nella pendenza di esso, con il quale il giudice aveva dichiarato la propria incompetenza; Cass. I, n. 1720/1996: nella specie, trattandosi di provvedimento emesso dal giudice adìto in un procedimento cautelare soggetto alle nuove disposizioni dell'art. 74 della l. n. 353/1990, si era dichiarato inammissibile il ricorso promosso da Michael Jackson contro il provvedimento con il quale il pretore di Roma aveva concesso ad Al Bano la tutela cautelare ravvisando il plagio di una sua opera musicale; Cass. IV, n. 822/1994, giustificando l'opzione del reclamo sul presupposto che il provvedimento cautelare assolve unicamente la funzione di dare immediata attuazione alla tutela giurisdizionale mediante l'eliminazione del pregiudizio che possa derivare dalla durata del processo a cognizione piena, ed è caratterizzato, oltre che dalla strumentalità, dalla provvisorietà, atteso che non è idoneo a regolare il rapporto in via definitiva, essendo destinato a rimanere assorbito o superato da altri provvedimenti che possono essere successivamente emessi nel corso del giudizio, anche nel medesimo grado). D'altronde, segnatamente dopo la sentenza della Corte cost., n. 253/1994 – la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui non ammette il reclamo ivi previsto anche avverso l'ordinanza con cui sia stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare – deriva che sono reclamabili, ai sensi della menzionata norma, non soltanto i provvedimenti concessivi, ma anche quelli che negano il provvedimento cautelare; tra questi ultimi, devono ritenersi compresi anche quelli che declinano la competenza, nei confronti dei quali, pertanto, non è ammissibile la proposizione dell'istanza di regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c., riservata solo ai provvedimenti che hanno carattere di decisione irretrattabile sulla competenza (Cass. I, n. 10767/1995). Ad avviso degli stessi giudici della Consulta (Corte cost., n. 197/1995), non appare dubbio che, con la sentenza n. 253/1994 – con la quale, in base al riconosciuto carattere di generale mezzo di controllo (derivante direttamente dagli artt. 3 e 24 Cost.) rivestito, in materia di provvedimenti cautelari, in quanto revisio prioris instantiae demandata ad altro giudice, dal reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., tale articolo è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui non ammette il reclamo anche avverso l'ordinanza con cui la domanda di provvedimento cautelare sia stata rigettata – il giudice delle leggi aveva inteso estendere il reclamo contro ogni provvedimento di diniego dell'invocata tutela, senza possibilità di distinguere a seconda delle ragioni (di merito e di rito, ivi comprese quelle attinenti alla competenza) del diniego stesso. Se, infatti, si ritenesse che, anche dopo la suddetta sentenza del giudice delle leggi, il provvedimento di rigetto, per incompetenza, della domanda cautelare fosse ancora sottratto al reclamo, la preesistente disparità di trattamento – che la Corte Costituzionale aveva inteso eliminare – tra il soggetto inciso dalla misura cautelare ed il soggetto che si fosse respingere la richiesta, sarebbe residuata, in quanto, contro il provvedimento concessivo della misura il reclamo sarebbe stato comunque ammissibile, a norma dell'art. 669-terdecies c.p.c., anche per contestare la competenza. Né, a giustificare tale disparità, sarebbe valso addurre il diverso grado di stabilità che il comma 1 dell'art. 669-septies c.p.c. attribuiva all'ordinanza di incompetenza rispetto all'ordinanza di rigetto in senso stretto, consentendo senza limiti la riproposizione della domanda solo nella prima ipotesi, giacché – come pure nella sentenza n. 253/1994 si era chiarito – la disponibilità del rimedio della riproponibilità dell'istanza cautelare non escludeva la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti, propria di quello della reclamabilità. Nello stesso ordine di concetti, si è considerato ammissibile il reclamo avverso l'ordinanza che dichiara il difetto di giurisdizione. In tal senso, quasi concorde si è mostrata la giurisprudenza di merito (v., tra le altre, Trib. Napoli 14 maggio 1997, secondo cui, avverso i provvedimenti di accoglimento o di rigetto della misura cautelare è ammesso il reclamo al giudice processualmente sovraordinato anche per motivi attinenti alla giurisdizione; Trib. Napoli 7 settembre 1994, ad avviso del quale è ammissibile il reclamo proposto avverso l'ordinanza di rigetto del ricorso cautelare per difetto di giurisdizione ordinaria). In particolare, si è considerato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione nei procedimenti cautelari e possessori, potendosi esperire, nei confronti dei provvedimenti emessi all'esito dei relativi giudizi, il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., con il quale è possibile riproporre (anche) la questione di giurisdizione ed ottenere una pronuncia nei tempi brevi propri del processo cautelare, evitando così che il provvedimento cautelare in genere e quello possessorio possano restare inutilmente sospesi in attesa della decisione sul regolamento preventivo di giurisdizione, in contrasto, quindi, con le esigenze di speditezza dei predetti procedimenti (Trib. Napoli 29 agosto 1997; di diverso avviso, lo stesso ufficio giudiziario partenopeo che, in altra pronuncia, ha opinato, invece, ammissibile il regolamento di giurisdizione nei procedimenti cautelari e possessori, stante che tale regolamento è rimedio di carattere generale praticabile nel corso di ogni procedimento di natura giurisdizionale, e tale è anche il giudizio cautelare, e la previsione della reclamabilità del provvedimento possessorio non osta all'ammissibilità del regolamento di giurisdizione, stante la diversità dei due istituti, resa oltremodo evidente dalla circostanza che la pronuncia del reclamo promana pur sempre dal giudice di merito e non è definitiva, aggiungendo che l'esigenza di speditezza del procedimento – che si vorrebbe frustrata dalla praticabilità del regolamento – è stata assicurata dalla nuova previsione del potere attribuito al giudice a quo di sospendere il giudizio in luogo della pregressa operatività ipso iure della sospensione del procedimento, già conseguente alla proposizione del regolamento: così Trib. Napoli 30 luglio 1997). Altrettanto articolata è stata la risposta della giurisprudenza di legittimità. Si è, al riguardo, affermato che, a norma dell'art. 669-terdecies c.p.c., nel testo risultante dalla sentenza della Corte cost., n. 253/1994, avverso i provvedimenti di accoglimento o di rigetto della misura cautelare è ammesso il reclamo al giudice processualmente sovraordinato, anche per motivi attinenti alla giurisdizione; ne consegue che, avverso detti provvedimenti, è inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, sia perché trattasi di provvedimenti di natura provvisoria e strumentale contro i quali, non essendo consentito il ricorso ex art. 111 Cost., non può neppure ammettersi quello per regolamento, non potendo logicamente ritenersi che il giudice di legittimità possa in tal senso risolvere a norma del citato art. 111 Cost., sia perché la definizione del relativo procedimento nei tempi rapidissimi fissati dall'art. 739 c.p.c. fa venir meno l'esigenza di una pronta decisione sulla questione della giurisdizione al di fuori di tale procedimento (Cass. S.U., n. 125/2000). D'altronde, il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile in riferimento ai procedimenti cautelari, poiché, non essendo consentito, neanche ex art. 111 Cost., il ricorso per cassazione contro i provvedimenti conclusivi dei relativi procedimenti, non può ammettersi che la questione di giurisdizione sia sottoposta per altra via alla cognizione della Corte di Cassazione; alla luce della nuova disciplina dei procedimenti cautelari introdotta con la l. n. 353/1990, contro i provvedimenti di natura provvisoria e strumentale emessi a conclusione degli stessi, sia in caso di concessione della misura cautelare, sia in caso di rigetto del ricorso – a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c. da parte della sentenza della Corte cost., n. 253/1994 – è ammesso il reclamo ad un giudice processualmente sovraordinato, cioè un mezzo di impugnazione con cui la parte interessata può ottenere in tempi brevi anche il riesame della questione di giurisdizione (Cass. S.U., n. 27538/2008: nella specie, era stato dichiarato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nella pendenza di un procedimento instaurato, a seguito del ricorso ex art. 700 c.p.c. dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria, dall'Agenzia giornalistica radiotelevisiva e finalizzato a sentire ordinare al Ministero delle Comunicazioni di consentire l'esercizio della radio-telediffusione in àmbito locale; Cass. S.U., n. 20128/2005; Cass. S.U., n. 12705/1998; Cass. S.U., n. 5902/1997; Cass. S.U., n. 3125/1997, specificando che il regolamento preventivo di giurisdizione è inammissibile non solo qualora il procedimento cautelare sia stato introdotto ante causam, ma anche nelle ipotesi in cui esso sia stato instaurato in pendenza del processo di merito, o contestualmente a questo, atteso che in ogni caso il provvedimento emesso all'esito del procedimento cautelare è soggetto a reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c.; Cass. S.U., n. 191/1997; Cass. S.U., n. 5442/1996; Cass. S.U., n. 4220/1996; Cass. S.U., n. 2465/1996). Di contro, si è ritenuto (Cass. S.U., n. 7131/1998) ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione nei procedimenti possessori, quando esso venga proposto prima di qualsivoglia decisione sul merito con lo scopo di accelerare e di anticipare le questioni di giurisdizione tramite la definitiva individuazione del giudice cui sia devoluta la controversia; in altri termini, la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione non è preclusa dalla circostanza che il giudice adìto per il merito abbia provveduto su una richiesta di provvedimento cautelare, pur se, ai fini della pronuncia, abbia risolto in senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione, oppure sia intervenuta pronuncia sul reclamo avverso il provvedimento cautelare, in quanto il provvedimento reso sull'istanza cautelare non costituisce sentenza e la pronuncia sul reclamo mantiene il carattere di provvisorietà proprio del provvedimento cautelare (Cass. S.U., n. 3167/2011; Cass. S.U., n. 14070/2003). I provvedimenti adottati nel corso del procedimento monitorio. Proseguendo nella rassegna dei provvedimenti contemplati nel codice di procedura civile, la giurisprudenza ha avuto modo, concordemente, di dichiarare l'inammissibilità del reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. avverso i provvedimenti emanati nel corso della procedura monitoria, nei confronti dell'ordinanza che si pronuncia sull'istanza di sospensione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto ex art. 649 c.p.c., oppure sull'istanza di concessione della stessa clausola ex art. 642 c.p.c., non avendo questi ultimi provvedimenti – sia positivi che negativi – natura cautelare ed essendo revocabili dal medesimo decidente (v., ex multis, Trib. Savona 22 luglio 2019; Trib. Arezzo 15 novembre 2011; Trib. Parma 23 giugno 2006; Trib. Venezia 4 aprile 2000; Trib. Arezzo 28 luglio 1999, aggiungendo che tale provvisoria esecuzione poteva essere tuttavia revocata, e tale potere di revoca trovava fondamento nel principio generale di revocabilità dei provvedimenti presi nel corso di procedimenti con contraddittorio differito, principio generale di cui espressione diretta era, da ultimo, l'art. 669-sexies c.p.c.; Trib. Bologna 2 maggio 1995; Trib. Roma 8 maggio 1995; Trib. Genova 9 settembre 1994, giustificando sul rilievo per cui l'ordinanza di provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto ha natura non di provvedimento cautelare ma di condanna con riserva, preceduta da un accertamento giurisdizionale sommario, sicché il reclamo non può essere proposto sia perché il provvedimento è previsto dal codice di procedura civile, sia perché non ha natura cautelare, sia perché il suo regime processuale è incompatibile; Trib. Lecce 10 novembre 1993). In buona sostanza, si mette in evidenza, in primo luogo, che i provvedimenti che accordano o sospendono la provvisoria esecuzione in forza delle complementari disposizioni di cui agli artt. 648 e 649 c.p.c. sono espressamente definiti dalla legge non impugnabili e, quindi, in forza dell'art. 177, comma 3, n. 2), c.p.c. anche non revocabili né modificabili; pertanto, limitandosi ad una stretta interpretazione letterale, soltanto la sentenza di merito conclusiva del giudizio potrebbe scalfire tali decisioni prese in limine litis ed a seguito di istruttoria sommaria; le corrispondenti ordinanze di rigetto rimarrebbero, invece, ex littera legis, sempre riproponibili senza filtri di inammissibilità, salva la pratica difficoltà di convincere il medesimo decidente a modificare la già assunta decisione. Tale soluzione, tuttavia, non è apparsa sorretta da argomentazioni insuperabili e crea un'evidente asimmetria sistematica differenziando i rimedi tra le decisioni di accoglimento e quelle di rigetto in dispregio di acquisiti principi (Conte, 1400); infatti, l'interpretazione letterale presta il fianco all'obiezione di applicarsi ad una disposizione concepita quando il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. non era contemplato tra gli istituti processuali; la «non impugnabilità» doveva allora ragionevolmente limitarsi, da un lato, a vietare l'immediata impugnazione con i mezzi tipici delle sentenze e, dall'altro lato, a dotare i provvedimenti di una relativa stabilità endoprocedimentale fino alla definizione del giudizio; entrambe queste finalità non appaiono, però, incompatibili con l'estensione in funzione di garanzia ed a tutela di un effettivo diritto di difesa, del reclamo cautelare quale rimedio generale di revisione delle decisioni sommarie esecutive; in altri termini, impregiudicato il regime di stabilità interno al giudizio di ogni pronuncia sull'esecutività del titolo, e così protetto il processo dal rischio di un'eccessiva frammentazione, non si rinvengono difficoltà ad ampliare la fase che conduce alla decisione medesima aggiungendo alla valutazione del giudice unico anche quella, successiva ed eventuale, del collegio. Dal punto di vista sistematico, la medesima tesi negativa è fondata, invece, sull'esclusione dei provvedimenti de quibus dal novero delle misure cautelari con conseguente impossibilità di applicazione del reclamo exart. 669-terdecies c.p.c.: pur superato, quindi, l'ostacolo letterale all'ingresso nella disciplina del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo della disposizione propria del processo cautelare, sarebbe quest'ultima a non consentire di essere applicata nel diverso àmbito dei provvedimenti sommari esecutivi; tuttavia, anche sotto questo profilo, si è osservato (Cea, 286) che l'art. 669-quaterdecies c.p.c. delimita l'àmbito di applicazione del processo cautelare uniforme «ai provvedimenti delle sezioni II, III, IV del medesimo capo» nonché «ai provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali in quanto compatibili»: sono così regolati, ex littera legis, i sequestri, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, i provvedimenti d'urgenza, mentre le misure cautelari extravaganti, la cui individuazione è rimessa agli operatori giuridici, sono disciplinate, invece, in via indiretta previo vaglio di compatibilità da effettuarsi per ogni singola disposizione. In particolare, è stato considerato inammissibile il reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza del giudice istruttore che rinvia all'udienza di trattazione la pronuncia sull'istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, anche se conseguente alla ritenuta impossibilità di provvedere nell'udienza di prima comparizione (allora) prevista dall'art. 180 c.p.c.; è, inoltre, manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 180 e 648 c.p.c. in relazione all'art. 24 Cost., in quanto, pur dovendosi ritenere legittima la pronuncia nella prima udienza di comparizione prevista dall'art. 180 c.p.c. di provvedimenti relativi all'istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto (o di sospensione della provvisoria esecuzione già concessa), perché il relativo provvedimento non attiene all'istruzione del merito della causa, ma tende ad eliminare o ridurre la ricaduta, sull'attore che ha ragione, degli effetti negativi collegati alla durata del processo ed a scoraggiare opposizioni meramente dilatorie, il rinvio della pronuncia non equivale a rigetto dell'istanza in questione; ma, se anche volesse riscontrarvisi una pronuncia negativa, il relativo provvedimento non è soggetto al reclamo exart. 669-terdecies c.p.c., perché, pur partecipando esso di elementi di natura cautelare, deve escludersi l'applicabilità delle disposizioni sul c.d. procedimento cautelare uniforme disciplinato dagli artt. 669-bis ss. c.p.c., sia in ragione di un argomento testuale dato dal mancato richiamo nell'art. 669-quaterdecies c.p.c. ad altri provvedimenti previsti dal codice di procedura civile, sia a causa dell'incompatibilità con la specifica disciplina contenuta negli artt. 140 e 648 c.p.c., che si presenta per alcuni tratti parallela (instaurazione del contraddittorio insita nella prima norma) e per altri contrastante (non impugnabilità del provvedimento espressamente sancita dall'art. 648 c.p.c.); la sollevata questione di costituzionalità di dette due norme in relazione all'art. 24 Cost. per presunta violazione del principio di tutela giurisdizionale dei diritti appare manifestamente infondata, perché la prima norma (art. 180 c.p.c.) consente, di per sé, la decisione sull'istanza di concessione della provvisoria esecuzione, mentre la non impugnabilità del relativo provvedimento prevista dall'art. 648 c.p.c. si inserisce in un quadro di scelte legislative coerenti e razionali che, nel differenziarsi da quelli analoghi previsti dai recenti artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c., revocabili per effetto del loro contenuto decisorio e anticipatorio, trova giustificazione nella suscettibilità ad essere riassorbito con la sentenza definitiva (così Trib. Lamezia-Terme 29 marzo 1996). Inoltre, si è ritenuto inammissibile il reclamo contro il provvedimento che dichiara l'estinzione del giudizio di opposizione avverso decreto ingiuntivo; l'estinzione, infatti, in una causa la cui decisione è riservata al tribunale in composizione monocratica, anche se è stata pronunciata in forma di ordinanza, riveste natura sostanziale di sentenza e, quindi, è impugnabile solo con l'appello e non attraverso il reclamo ex artt. 669-terdecies,178 e 308 c.p.c. (Trib. Torino 14 dicembre 2007). Nello stesso ordine di concetti – in altro procedimento speciale analogo a quello monitorio – si è evidenziato che, sul presupposto per cui la nuova disciplina sui procedimenti cautelari non si applica all'ordinanza immediata di rilascio con riserva delle eccezioni del conduttore-convenuto di cui all'art. 665 c.p.c., atteso che tale ordinanza non ha natura cautelare, ma costituendo provvedimento di condanna con riserva delle eccezioni del convenuto, deve considerarsi inammissibile il reclamo proposto avverso l'ordinanza medesima (Trib. Piacenza 21 dicembre 2000; Trib. Lucca 18 gennaio 1993). Anche i giudici della Consulta si sono allineati a tali conclusioni: invero, si è ritenuta non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 648 c.p.c., nella parte in cui prevede la non impugnabilità, e quindi la non revocabilità e non modificabilità, dell'ordinanza che concede la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto (Corte cost., n. 306/2007; in argomento, v. anche Corte Cost., n. 137/1984, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 648, comma 2, c.p.c., nella parte in cui dispone che, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, il giudice istruttore, se la parte che ha chiesto l'esecuzione provvisoria del decreto offre cauzione per l'ammontare delle eventuali restituzioni, spese e danni, debba, e non già possa, concederla soltanto dopo avere delibato gli elementi probatori di cui all'art. 648, comma 1, c.p.c. e la corrispondenza dell'offerta cauzione all'entità degli oggetti indicati nel comma 2 dello stesso art. 648; Corte cost., n. 65/1996, che ha dichiarato non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 648 c.p.c., nella parte in cui prevede la non impugnabilità, e conseguentemente la non revocabilità e la non modificabilità, dell'ordinanza che concede la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto; Corte cost., n. 428/2002, che ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 648 c.p.c., nella parte in cui non consente la revocabilità dell'ordinanza concessiva della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto, in quanto, da un lato, l'art. 186-ter c.p.c. non costituisce un valido tertium comparationis, in considerazione della non coincidenza della disciplina, quanto alla revocabilità dell'ordinanza concessiva della provvisoria esecutività, giustificata dalla diversità di funzione e di natura dell'ordinanza-ingiunzione e del decreto ingiuntivo, e, dall'altro, rientra nella discrezionalità del legislatore, non sindacabile dal giudice delle leggi, disciplinare il provvedimento concessivo della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo in modo tale da indurre l'opponente ad una particolare esaustività dell'atto di opposizione, e perseguire, attraverso la differente disciplina della revocabilità, fini diversi attraverso due strumenti – l'ordinanza-ingiunzione ed il decreto ingiuntivo – strutturalmente, per molteplici aspetti, identici). Diversamente da quanto deciso dal giudice delle leggi, la maggior parte della dottrina aveva prontamente segnalato che, in seguito alla previsione di proporre reclamo exart. 669-terdecies c.p.c. avverso i provvedimenti di sospensione resi ai sensi dell'art. 624 c.p.c., l'assenza della possibilità di proporre reclamo avverso i provvedimenti resi in materia di provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto si poneva in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza (così, tra gli altri, De Cristofaro 2006, 171, ove in particolare si fa riferimento ai provvedimenti resi sull'inibitoria richiesta ex art. 649 c.p.c.). È apparso evidente che, così impostato il ragionamento, l'applicazione del reclamo dipende comunque dalla qualificazione cautelare delle ordinanze ex artt. 648 e 649 c.p.c., nonché, ampliando l'orizzonte dell'indagine e prescindendo dalle riforme, di tutti gli istituti caratterizzati dalla struttura ambigua e da una pluralità di funzioni; in quest'ottica, si è tentato (Ungaretti, 986) di enfatizzare proprio i riferimenti più o meno marcati alla natura e funzione cautelare degli istituti in discorso, ovvero le esplicite definizioni delle ordinanze de quibus quali «provvedimenti cautelari e provvisori» sottoposti al prudente apprezzamento del giudice del merito. In fondo, il procedimento monitorio è un modo di introduzione del giudizio alternativo al processo ordinario di cognizione che consente al ricorrente, in possesso di prova scritta del diritto, di ottenere, inaudita altera parte, un provvedimento di condanna per evitare la stabilizzazione definitiva del quale è il debitore ingiunto che deve instaurare un processo di opposizione secondo le regole dettate dal libro II del codice di rito; il legislatore utilizza, quindi, la tecnica della provocatio ad opponendum al fine di favorire dal punto di vista della tutela dichiarativa il formarsi del giudicato, ovvero della preclusione pro iudicato, senza eccessivo dispiego di energie processuali allorquando non vi siano serie contestazioni sulla situazione giuridica soggettiva oggetto di causa. L'elemento che caratterizza il decreto ingiuntivo è costituito, però, dalla struttura del procedimento teleologicamente orientato a consentire, in ogni caso ed a prescindere dall'accertamento, il rapido formarsi di un titolo suscettibile di essere dotato di esecutività; è dal punto di vista della tutela esecutiva, perciò, che il procedimento monitorio si lascia apprezzare, potendo facoltizzare in tempi rapidi l'esecuzione forzata e spostare l'onere della durata dell'eventuale processo di cognizione sull'ingiunto (sulla natura non di impugnazione, ma di ordinario giudizio di cognizione riguardo al procedimento per opposizione a decreto ingiuntivo, v., da ultimo, Cass. S.U., n. 927/2022). Il ricorrente, infatti, può raggiungere l'obiettivo fin dalla fase monitoria secondo la duplice modalità prevista dall'art. 642 c.p.c.: da un lato, con la mera allegazione dei documenti tassativamente indicati, peraltro ex se titoli esecutivi, mediante la deduzione di elementi idonei a comprovare la sussistenza di un periculum in mora ovvero la produzione di generica «documentazione» sottoscritta dal debitore, e, dall'altro lato, con l'unica peculiarità che, in questa seconda ipotesi, il decidente può discrezionalmente anche negare l'esecutività o ritenere opportuno il versamento di una cauzione. L'istante può conseguire, inoltre, lo stesso risultato in un secondo momento, a contraddittorio instaurato, qualora, stante la prova documentale dei fatti costitutivi, le difese dell'opponente non sono fondate su «prova scritta o di pronta soluzione», a prescindere, quindi, da ogni valutazione in termini di periculum; nella stessa sede, però, l'ingiunto, il quale abbia invece opposto il decreto esecutivo, può corrispondentemente domandarne la sospensione dimostrando «gravi motivi» in contrario, che attengono non soltanto ai potenziali danni da esecuzione forzata ma anche alla legittimità della concessione del decreto e, soprattutto, alla fondatezza dei motivi di opposizione. In quest'ottica, allora, la struttura procedimentale sembra prevedere due fasi decisionali a cognizione sommaria, dove la seconda si estrinseca, impregiudicata la propria natura esecutiva, nell'ordinanza di concessione o di sospensione dell'esecutorietà soltanto in funzione dell'interesse della parte richiedente a mutare la vis executiva del titolo; non è apparso corretto, quindi, ricondurre tout court le ordinanze in commento nel genus delle misure cautelari, sia per la pluralità di funzioni assolte «insieme» a quella cautelare, sia per la struttura stessa del procedimento preordinato ad individuare, in realtà, chi debba farsi carico della durata del processo (Luiso 2007, 151). Non sembra, tuttavia, che la formale (e labile) distinzione tra provvedimenti cautelari e non possa essere utile ai fini dell'individuazione dei controlli applicabili al caso di specie (Olivieri); nell'ottica della tutela giurisdizionale dei diritti risulta, infatti, preferibile classificare i provvedimenti sommari in base alla loro forza di resistenza, rectius ai rapporti degli stessi con l'accertamento con forza di giudicato, per tentare poi una armonizzazione della disciplina di quelli effettivamente equivalenti nel pieno rispetto dei valori del giusto processo e del principio di eguaglianza; è apparsa, quindi, questa la corretta via per uniformare la disciplina di procedimenti omogenei innalzando per tutti il livello delle garanzie senza pregiudizio per alcuno. La legittimità e ragionevolezza delle disposizioni in commento è stata difesa, invece, indugiando sia sulle differenze strutturali con le misure propriamente cautelari, sia sulla mancanza di alcuni elementi tipici della tutela d'urgenza quali la strumentalità e la provvisorietà (Caponi, 707): sotto il primo profilo, però, la disciplina del processo cautelare uniforme è stata sensibilmente modificata, proprio prevedendo la non necessità di instaurazione del giudizio di merito a seguito della concessione di un provvedimento idoneo ad anticipare gli effetti esecutivi della sentenza; l'efficacia esecutiva della decisione anticipatoria, sotto il secondo profilo, è scissa dall'ineluttabilità dell'accertamento, che rimane una fase successiva ed eventuale rispetto alle valutazioni sommarie. Non si può ignorare, inoltre, che, dal punto di vista dell'interesse ad agire, l'utilità che le parti conseguono dall'accoglimento della domanda cautelare o della richiesta di un provvedimento esecutivo è la medesima tanto che, a contrario, il possesso di un titolo di pari efficacia esclude la possibilità di ricorso alla tutela urgente; ma, allora, venuta meno la strumentalità necessaria, divenuta la provvisorietà del titolo potenzialmente definitiva pur senza giudicato e constatata l'equivalenza degli effetti dei provvedimenti, gli argomenti sistematici utilizzati per separare e differenziare l'àmbito dei provvedimenti cautelari dal contesto della sommarietà sembrano dissolversi. Prendono nuovo vigore, invece, le istanze di tutela che esigono di far salvo il diritto della parte soccombente di fruire di un gravame davanti ad un giudice diverso e collegiale; e ad ulteriore conferma che la formalità dell'argomentazione deve lasciare il campo alla sostanza delle garanzie, va anzi sottolineato che parte autorevole della dottrina (Luiso 2007, 151) ha assimilato i provvedimenti di cui si discute alle condanne con riserva delle eccezioni, id est sentenze immediatamente impugnabili da parte del soccombente e la cui esecutività può essere sospesa dal giudice dell'impugnazione diverso e collegiale rispetto a quello a quo. Tale qualificazione, però, lungi dallo spostare i termini del problema, chiarisce che il nucleo della questione di cui si tratta consiste proprio nell'assenza di mezzi di controllo sull'ordinanza emessa in prime cure, a differenza di quanto avviene in altre ipotesi equivalenti sotto il profilo della potenziale lesione dei diritti del soccombente, siano essi provvedimenti cautelari o meno ma pur sempre sommari; da ciò non parrebbe tecnicamente censurabile l'estensione del reclamo cautelare exart. 669-terdecies c.p.c. ad ogni ipotesi di decisione sommaria esecutiva applicando, a latere debitoris, i principi del giusto processo e del diritto di difesa ai sensi dell'art. 24 Cost., dai quali discende che «l'alterità del giudice dell'impugnazione rappresenta un fattore di maggiore garanzia», che non è compensato nemmeno «dalla possibilità di riproposizione dell'istanza per il decisivo rilievo che tra i due rimedi non vi è rapporto di equivalenza» (così Corte cost., n. 197/1995). Da ultimo, si segnala che un magistrato capitolino (Trib. Roma 27 agosto 2024), mediante lo strumento del rinvio pregiudiziale di cui all'art. 363-bis c.p.c., introdotto dalla c.d. riforma Cartabia, ha rimesso alla Corte di Cassazione la questione interpretativa relativa all'ammissibilità del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso le ordinanze di rigetto delle istanze presentate a norma degli artt. 648 o 649 c.p.c. a fronte di orientamenti giurisprudenziali di merito palesemente discordanti (v., ad esempio, Trib. Roma 29 novembre 2022, ad avviso del quale l'ordinanza di rigetto prevista dall'art. 649 c.p.c., subordinata alla sola verifica dell'esistenza di “gravi motivi”, ha natura prettamente cautelare, per cui sarebbe irragionevole ed ingiustificato escludere l'applicabilità della clausola generale di reclamabilità di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., considerato, inoltre, il carattere espansivo delle norme sul procedimento cautelare uniforme - espressione di principi generali dell'ordinamento - l'assenza di un divieto normativo e l'esigenza di garantire il pieno diritto di difesa). I provvedimenti contenenti ordinanze anticipatorie. Si è negato l'ingresso del reclamo proposto avverso un'ordinanza di pagamento di somme non contestate emessa ai sensi dell'art. 186-bis c.p.c. – introdotto con la l. n. 353/1990 – atteso che tale provvedimento non ha natura cautelare, ma semplicemente anticipatoria della pronuncia di merito; a tale provvedimento, pertanto, non sono applicabili le norme previste degli artt. 669-bis ss. c.p.c., e deve in particolare escludersi la reclamabilità dell'ordinanza stessa ex art. 669-terdecies c.p.c., anche perché il legislatore del 1990 ha espressamente individuato come unico rimedio contro l'ordinanza la revocabilità ai sensi degli artt. 177 e 178 c.p.c. (Trib. Milano 28 febbraio 1994). Del pari, si è precisato che l'ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. successiva alla chiusura dell'istruzione non ha natura cautelare e, quindi, non è reclamabile (Trib. Venezia 14 settembre 1995). I provvedimenti di istruzione preventiva. Un'importante decisione dei giudici della Consulta (Corte cost., n. 144/2008) ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., gli artt. 669-quaterdecies e 695 c.p.c., nella parte in cui non prevedono che il provvedimento di rigetto dell'istanza per l'assunzione dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c. sia suscettibile di reclamo in sede cautelare. Ciò contrariamente all'orientamento della giurisprudenza di merito, che si era pronunciata per l'inapplicabilità (v., tra le altre, Trib. Monza 2 febbraio 2002, secondo cui il provvedimento con cui è stata disposta la descrizione, assunto ai sensi dell'art. 697 c.p.c. inaudita altera parte, non è suscettibile né di conferma ex art. 669-sexies c.p.c. né di reclamo exart. 669-terdecies c.p.c., perché il procedimento che lo concerne si esaurisce con la concessione, mentre ogni doglianza relativa all'attuazione del provvedimento concesso può essere formulata soltanto nell'àmbito del giudizio di merito). Si riteneva, infatti, inammissibile il reclamo proposto contro l'ordinanza che disponeva l'accertamento tecnico preventivo, in quanto, da un lato, tale ordinanza era espressamente definita dall'art. 695 c.p.c. come «non impugnabile», e, dall'altro lato, l'art. 669-quaterdecies c.p.c., nel disporre che, ai procedimenti di istruzione preventiva, si applicasse la sola disposizione ex art. 669-septies c.p.c., impediva di ritenere applicabile la disposizione relativa al reclamo, ossia l'art. 669-terdecies c.p.c. (Trib. Alessandria 26 maggio 2007); parimenti, non si dava ingresso al reclamo avverso il provvedimento con il quale il tribunale respingeva la domanda presentata in corso di causa per una consulenza tecnica preventiva (Trib. Ascoli Piceno 21 novembre 2000; Trib. Napoli 11 dicembre 1999: nella specie, trattavasi di revoca di un già adottato provvedimento ammissivo). In generale, si escludeva il reclamo, a norma dell'art. 669-terdecies c.p.c., avverso i provvedimenti di istruzione preventiva previsti nella sezione IV del capo III del libro IV del codice di procedura civile, poiché detti provvedimenti erano in generale sottratti alla disciplina del processo cautelare uniforme, ad essi applicabile soltanto per quanto riguardava la previsione dell'art. 669-septies c.p.c. (Trib. Messina 21 agosto 1999). In particolare, si riteneva inammissibile il reclamo proposto avverso il provvedimento di rigetto di un'istanza di istruzione preventiva, poiché lo stesso doveva ritenersi proposto in carenza di una previsione normativa che abilitasse la parte a sperimentarlo e, per di più, contro un provvedimento espressamente dichiarato dalla legge inoppugnabile (Trib. Catanzaro 7 settembre 1998); parimenti, si considerava inammissibile il reclamo proposto avverso l'ordinanza di rigetto di un'istanza per testimonianza a futura memoria, in quanto l'istituto del reclamo era escluso per i procedimenti di istruzione preventiva disciplinati dalla sezione IV del capo del codice di procedura civile relativo ai procedimenti cautelari, nel nuovo testo introdotto dalla l. n. 353/1990, in quanto diretti a salvaguardare – non un diritto sostanziale, bensì – il diritto processuale alla prova (Trib. Roma 25 febbraio 1995). Gli stessi giudici di legittimità (Cass. I, n. 4940/1996) avevano affermato che, in tema di accertamento tecnico preventivo, avverso il provvedimento ammissivo della prova preventiva – il quale non è impugnabile, ex art. 695 c.p.c., richiamato dal successivo art. 696 c.p.c., e contro il quale non è esperibile il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., non espressamente richiamato dall'art. 669-quaterdecies c.p.c., senza che l'esclusione del reclamo faccia sorgere dubbi di legittimità costituzionale – poteva essere proposto regolamento di competenza. In effetti, l'art. 669-quaterdecies c.p.c. riserva un peculiare trattamento all'istruzione preventiva, menzionandola unicamente per sancirne l'applicabilità del solo art. 669-septies c.p.c. relativo al provvedimento negativo – che non preclude la riproponibilità dell'istanza – ma nulla disponendo in ordine all'estensibilità del reclamo e, al contempo, non prendendo alcuna posizione sul punto. I giudici della Consulta si sono, però, basati essenzialmente sul principio di ragionevolezza, che deve caratterizzare anche la disciplina del processo civile: invero, l'istruzione preventiva può essere vista come una forma di tutela cautelare – peraltro, azionabile anche davanti al giudice di pace – e, quindi, ne condivide la ratio ispiratrice, che è quella di evitare che la durata del processo si risolva in pregiudizio della parte che dovrebbe veder riconosciute le proprie ragioni. Essendo reclamabili i provvedimenti di rigetto di istanze volte ad ottenere altre tipologie di misure cautelari e considerando che è reclamabile il diniego di sequestro giudiziario probatorio di cui all'art. 670, n. 2), c.p.c., la non reclamabilità delle ordinanze che respingono i ricorsi per istruzione preventiva dà luogo ad una «incoerenza interna» alla disciplina della tutela cautelare. D'altronde, anche se, nell'istruzione preventiva, deve pur sempre essere assicurato un diritto processuale alla prova e non un diritto sostanziale controverso, si possono verificare eventi che pregiudichino la stessa possibilità di avvalersi, in sede di cognizione, di un determinato mezzo di prova e, conseguentemente, di ottenere l'invocata tutela del proprio diritto sostanziale (si pensi alla deposizione di un teste chiave, affetto da grave malattia che minacci seriamente la sua vita, o all'ispezione di un edificio prossimo al crollo, con imminente pericolo di mutamento definitivo dello stato dei luoghi). Una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Padova 21 settembre 2018) circoscrive l'esperibilità del reclamo anche in queste ipotesi: si è, infatti, affermato che la reclamabilità del provvedimento di rigetto nei procedimenti di istruzione preventiva va ricollegata alla sussistenza o meno di ragioni di urgenza nell'assunzione preventiva del mezzo istruttorio; infatti, sarebbe irragionevole nel procedimento ex art. 696 c.p.c. non consentire l'impugnazione laddove ragioni di urgenza rischino di rendere non più utilmente esperibile l'assunzione della prova nel futuro giudizio di merito; il discrimine per valutare se l'ordinanza di rigetto sia o meno impugnabile non è rappresentato, quindi, dal fatto che si sia in presenza di un ricorso ex art. 696 c.p.c. o piuttosto che artt. 669-bis ss. c.p.c., poiché l'unico requisito è relativo alla presenza o meno di elementi di urgenza. Appare, comunque, discriminante il non aver ricompreso nella declaratoria di incostituzionalità il provvedimento di accoglimento delle suddette istanze di istruzione preventiva, in quanto un trattamento secundum eventum litis non è giustificabile, atteso che anche tali provvedimenti potrebbero pregiudicare la parte – ad esempio, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa – e, quindi, essere meritevoli di gravame, non essendo sufficiente rilevare l'inesistenza di un qualsiasi danno sul presupposto che l'ammissibilità e la rilevanza delle prove assunte prima del processo sarebbero comunque oggetto di libera valutazione da parte del giudice della causa di merito. Comunque, in materia di procedimento di consulenza tecnica preventiva, il mancato accoglimento dell'istanza è reclamabile anche in relazione alla sola statuizione sulle spese processuali, ma non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento privo, anche con riferimento alle disposizioni sulle spese, dei caratteri della definitività e della decisorietà (Cass. III, n. 23976/2019). Resta inteso (secondo Trib. Palermo 8 marzo 2019) che, per quanto l'art. 699 c.p.c. preveda testualmente che l'istanza di istruzione preventiva possa anche essere proposta in corso di causa, senza null'altro aggiungere, un'interpretazione che ambisca ad essere aderente alla natura dell'istituto e conforme alla scansione attuale del processo civile induce necessariamente a concludere che l'interesse della parte all'assunzione anticipata del mezzo possa sussistere fino all'udienza ex art. 184 c.p.c.; una volta, infatti, che la parte abbia articolato, per il tramite delle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., le proprie istanze istruttorie e che l'udienza di assunzione sia stata celebrata, viene meno la possibilità stessa di qualificare l'istanza ex art. 696 c.p.c. come «preventiva», vale a dire come diretta all'anticipazione di un accertamento in funzione di un'istruzione da assumersi. Inoltre, non possono costituire oggetto di reclamo exart. 669-terdecies c.p.c. i provvedimenti con i quali non venga adottata alcuna statuizione attinente al riconoscimento definitivo della fondatezza o meno del ricorso cautelare proposto, ma si disponga l'espletamento di incombenti istruttori ritenuti indispensabili ai fini della decisione in àmbito cautelare, in virtù dell'applicazione dell'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. (Trib. Salerno 30 maggio 2003: fattispecie nella quale era stata dichiarata l'inammissibilità del reclamo proposto avverso l'ordinanza con la quale – sul presupposto della necessità di accertare la causa delle infiltrazioni idriche provenienti dall'immobile sovrastante quello della ricorrente e di individuare le eventuali opere da realizzare – il giudice designato aveva disposto la consulenza tecnica d'ufficio). Per completezza, va segnalato che - a ben vedere - il giudice delle leggi aveva limitato limita il suo intervento alle sole ipotesi di provvedimenti negativi rispetto alle istanze istruttorie di cui agli artt. 692 c.p.c. (assunzioni di testimoni) e 696 c.p.c. (accertamento tecnico ed ispezione giudiziale), restando aperto il problema dell'estensione della sentenza della Consulta alla consulenza tecnica preventiva ai fini conciliativi di cui al nuovo art. 696-bis c.p.c., sulla cui natura cautelare è aperta la discussione (v., peraltro, in senso negativo, Trib. Mantova 3 luglio 2008, ad avviso del quale è inammissibile il reclamo contro l'ordinanza che rigetta il ricorso ex art. 696-bis c.p.c., non avendo tale provvedimento natura cautelare); tale dubbio è stato, di recente, risolto da Corte Cost., n. 202/2023, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 669-quaterdecies e 695 c.p.c., nella parte in cui non consentono di proporre il reclamo, previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che rigetta il ricorso per la nomina del consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite ex art. 696-bis c.p.c. (sempre i giudici dellaConsulta, con la sent. n. 222/2023, hanno dichiarato, peraltro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 696-bis, comma 1, primo periodo, c.p.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui dopo le parole “da fatto illecito” non prevede “o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrli in conformità dell'ordinamento giuridico”). Si evidenzia, infatti che, fermo restando che, nel nostro ordinamento, il doppio grado di giudizio non è costituzionalmente prescritto nel processo civile, a venire in rilievo è la compatibilità costituzionale della mancata previsione di qualsivoglia strumento di controllo avverso un provvedimento, qual è il diniego di nomina del consulente tecnico a fronte del ricorso di cui all'art. 696-bis c.p.c., avverso il quale non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione, poiché esso non decide su un diritto soggettivo o su uno status nel senso dinanzi indicato e che, tuttavia, incide sulla tutela dell'interesse giuridico del ricorrente ad accedere alla definizione concordata di una possibile controversia, previa risoluzione, con l'ausilio del consulente nominato dal giudice, delle questioni tecniche in fatto controverse tra le parti. Questo interesse della parte, inoltre, come attestato dalla previsione dell'istituto in esame quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie in tema di responsabilità sanitaria, è coerente con quello generale dell'ordinamento, rilevante anche sul piano costituzionale, alla ragionevole durata dei processi, risultato ex aliis al quale si può pervenire soprattutto mediante una riduzione del numero delle cause demandate alla decisione degli uffici giudiziari; da qui discende, pertanto, che la perdita del diritto della parte ricorrente alla chance di svolgere, mediante la nomina di un consulente ai sensi dell'art. 696-bis c.p.c., un approfondimento tecnico nell'àmbito di un procedimento mirato ad evitare l'instaurazione di un lungo e dispendioso giudizio contenzioso, deve essere presidiato da uno strumento di gravame, quale è il reclamo del provvedimento di rigetto. Va, infine, considerato che il legislatore ha scelto di collocare l'istituto della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, ex art. 696-bis c.p.c., nella sezione IV, capo III, titolo I, libro IV del codice di procedura civile dedicata ai provvedimenti di istruzione preventiva, precisando che la relativa disciplina processuale è modellata su quella dell'accertamento tecnico preventivo per la quale, a propria volta, l'art. 696, comma 3, rinvia all'art. 695 c.p.c.; quest'ultima norma, tuttavia, in combinato disposto con l'art. 669-quaterdecies c.p.c. è stata da tempo dichiarata costituzionalmente illegittima proprio nella parte in cui non contempla il rimedio del reclamo cautelare contro gli altri provvedimenti di diniego emessi a fronte di un ricorso in tema di istruzione preventiva, ovvero l'assunzione di testimoni e l'accertamento tecnico preventivo, sicchè la mancata previsione del medesimo strumento di controllo anche nei confronti della misura con la quale il giudice disattenda il ricorso della parte volto alla nomina di un consulente tecnico ex art. 696-bis c.p.c.si traduce in una diseguaglianza nei mezzi di tutela contemplati per provvedimenti che, per scelta ex ante del legislatore, sono tutti ricondotti nel più ampio genere dell'istruzione preventiva. I provvedimenti in materia possessoria. Abbiamo visto che il comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c., nella sua formulazione originaria, ammetteva l'esperibilità del reclamo soltanto avverso «l'ordinanza con la quale, prima dell'inizio o nel corso della causa di merito, sia stato concesso un provvedimento cautelare»: orbene, una volta entrata in vigore la miniriforma del codice di rito del 1993, che avvicinava (ma non assimilava del tutto) i procedimenti possessori a quelli cautelari, i giudici di merito si sono sùbito posti il problema in ordine all'applicazione del reclamo nell'àmbito dei primi, offrendo, però, soluzioni antitetiche. Da una parte, si era sostenuto che i provvedimenti interdittali, emessi a conclusione della fase sommaria, non avendo natura cautelare in senso stretto, non potevano essere impugnati con il reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., anche sulla base della coincidenza dell'oggetto delle due fasi del giudizio possessorio (Trib. Palermo 14 marzo 1996; Trib. Macerata 15 marzo 1995, sul rilievo della diversità concettuale e giuridica tra il provvedimento cautelare, che ha lo scopo di assicurare gli effetti del futuro giudizio di merito, e l'interdetto possessorio, volto ad impedire le modifiche dello status quo, per cui la natura del procedimento possessorio – articolato in due fasi, interdittale e di merito, aventi sostanzialmente lo stesso oggetto – era, infatti, tale per cui, ove il tribunale annullasse, in sede di reclamo, l'ordinanza del pretore, e quest'ultimo concludesse la fase di merito confermando il provvedimento interdittale poi annullato, l'organo collegiale sarebbe stato chiamato a decidere, in sede di appello, per la seconda volta sull'identico oggetto; Trib. Palermo 14 marzo 1995; Trib. Alessandria 3 febbraio 1995, evidenziando che l'ordinamento era uniformato al principio generale della non reclamabilità dei provvedimenti sommari, con funzione esecutiva e privi di carattere di strumentalità; Trib. Caltagirone 10 gennaio 1995, il quale, sul presupposto che la domanda introduttiva del procedimento possessorio implicava, già di per sé, indipendentemente dall'esplicazione di qualsiasi altra formalità, una richiesta di tutela nel merito possessorio, da esaudire, peraltro, con un'unica fase sommaria, all'esito della quale il pretore emetteva un provvedimento, avente forma di ordinanza e sostanza di sentenza, ha statuito che, nei confronti di tale provvedimento, fosse ammissibile solo l'appello; Trib. Nola 7 dicembre 1994; Trib. Napoli 5 ottobre 1994 aveva chiarito che l'art. 703, comma 2, c.p.c., nel testo novellato, non richiamava tutte le norme del nuovo rito cautelare uniforme, bensì soltanto quelle che regolavano il modus procedendi del giudice nella fase sommaria, al fine dell'adozione del provvedimento immediato, mentre risultavano escluse dal rinvio, e quindi non trovavano applicazione nel procedimento possessorio, tutte le norme estranee a tale àmbito, ed in particolare quelle volte ad attribuire alle parti facoltà ed oneri di carattere processuale, sicché l'istituto del reclamo del provvedimento cautelare, previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., non rientrava fra le norme richiamate ed applicabili al nuovo rito possessorio; Trib. Ivrea 2 maggio 1994 si era posto nel senso dell'irreclamabilità dell'ordinanza resa dal pretore in esito alla prima fase, stante che la stessa non aveva la caratteristica di «strumentalità» propria delle misure cautelari, per cui, data l'identità dell'oggetto del giudizio nelle due fasi del procedimento, la reclamabilità dell'interdetto possessorio si sarebbe sostanziata in un'anticipazione dell'appello, violando il principio di autonomia di giudizio e del doppio grado di giurisdizione; Trib. Bologna 9 dicembre 1993; Trib. Nocera Inferiore 30 novembre 1993; Trib. Napoli 20 ottobre 1993; ad avviso di Trib. Fermo 8 ottobre 1993, era vero che l'art. 703 c.p.c. novellato richiamava in materia possessoria la disciplina dettata dagli artt. 669-bis ss. c.p.c., ma detto richiamo doveva riferirsi a quelle norme che riguardavano esclusivamente la decisione del giudice sul ricorso presentato ai sensi del comma 1 del citato art. 703, sicché, attesa la loro autonomia, non poteva estendersi ai provvedimenti possessori la normativa riguardante i procedimenti cautelari, ivi compreso il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c.; Trib. Roma 26 marzo 1993 aveva precisato che, ai procedimenti possessori, fossero inapplicabili anche gli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. relativi alla competenza, e gli artt. 669-septies e 669-octies c.p.c. «attesa la natura unitaria del procedimento che rende superflua la fissazione di un termine per l'inizio di un giudizio di merito»; Trib. Roma 14 marzo 1993). Dall'altro, si era optato per l'esperibilità del rimedio del reclamo in forza del richiamo operato dall'art. 703, comma 2, c.p.c. alle norme, in quanto compatibili, del procedimento cautelare uniforme (Trib. Messina 17 dicembre 1997; Trib. Asti 10 giugno 1996; Trib. Napoli 18 aprile 1996; Trib. Firenze 20 dicembre 1995; Trib. Rimini 13 dicembre 1995; Trib. Chiavari 31 agosto 1995; Trib. Bergamo 21 aprile 1995; Trib. Torino 3 aprile 1995; Trib. Pescara 27 dicembre 1994; Trib. Ariano Irpino 14 novembre 1994; Trib. Reggio Calabria 14 ottobre 1994, sottolineando che nessun ostacolo di ordine logico e/o giuridico impediva l'applicabilità dell'art. 669-terdecies c.p.c. agli interdetti possessori; ad avviso di Trib. Piacenza 4 marzo 1994, l'ordinanza pretorile, emessa all'esito della fase sommaria del giudizio possessorio, era reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., perché, al termine di ogni giudizio sommario e, quindi, anche di quello possessorio, doveva sussistere sempre la possibilità di un controllo del provvedimento adottato da parte di un giudice diverso da quello che lo aveva emanato; Trib. Macerata 22 dicembre 1993; secondo Trib. Roma 15 dicembre 1993, era ammissibile il reclamo contro un provvedimento ex art. 703 c.p.c., poiché non solo non era dato ravvisare valide argomentazioni dalle quali potessero desumersi l'irreclamabilità del provvedimento impugnato, ma esistevano elementi di ordine testuale, logico e sistematico che imponessero all'interprete di ritenere la piena ammissibilità del reclamo anche in relazione ai provvedimenti possessori; Trib. Como 4 dicembre 1993; ad avviso di Trib. Alba 29 ottobre 1993, l'ordinanza di accoglimento della domanda possessoria emanata dal pretore, al termine della fase sommaria, risultava reclamabile al tribunale sia nel caso che essa fosse da costruire come conclusiva del procedimento, sia che essa fosse da considerare come provvedimento temporaneo e urgente, da confermare, modificare o revocare nella successiva fase di merito; Trib. Milano 9 luglio 1993; Trib. Agrigento 3 giugno 1993; Trib. Milano 15 marzo 1993). Sollecitati sul punto, nel 1994, i giudici della Consulta (Corte cost., n. 253/1994) sono intervenuti tempestivamente, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui limitava l'esperibilità del reclamo ai soli provvedimenti concessivi di tutela cautelare, escludendo quelli che rigettavano la domanda tesa ad ottenere tale cautela (v., funditus, supra); al riguardo, si è evidenziato che la mancata previsione del reclamo, in favore della parte che subisca la situazione assunta come lesiva del proprio diritto e che abbia chiesto senza successo una cautela anticipatoria o conservativa, realizzava un'amputazione del diritto di difesa, in quanto attribuiva maggiori possibilità di far valere le proprie ragioni a chi resisteva alla richiesta di provvedimento cautelare rispetto a chi tale richiesta proponeva; inoltre, la sperequazione determinata dalla reclamabilità dei soli provvedimenti di accoglimento non poteva nemmeno considerarsi compensata dalla prevista riproponibilità dell'istanza cautelare al medesimo giudice in caso di mutamento delle circostanze o di deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c., giacché tra i rimedi della reclamabilità e della riproponibilità non vi era rapporto di equivalenza in termini di garanzia, operando gli stessi su piani diversi, non sovrapponibili ma complementari, sicché la disponibilità del secondo rimedio non escludeva la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti, propria del primo. Lo stesso giudice delle leggi (Corte cost., n. 501/1995), un anno dopo, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui tale norma, come integrata dalla sentenza del 1994 di cui sopra, allora escludeva la reclamabilità dell'ordinanza che aveva rigettato la domanda di provvedimento possessorio. E dopo un altro anno, l'opzione interpretativa volta a ritenere applicabile il reclamo nei confronti dell'interdetto possessorio è stata nuovamente avallata dalla stessa Corte regolatrice (Corte cost., n. 203/1996), la quale ha dichiarato manifestatamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 669-septies e 669-octies c.p.c., denunciati nella parte in cui prevedevano che il giudizio possessorio di merito si svolgesse soltanto in caso di accoglimento della richiesta tutela interdittale; si sono considerate, infatti, del tutto erronee le premesse da cui muoveva e le conclusioni cui era pervenuto il giudice a quo, poiché l'assunto circa la non reclamabilità del provvedimento di rigetto dell'interdetto era stato smentito dalla sopravvenuta sentenza del 1995 della Corte Costituzionale – come corollario della sentenza del 1994 – mentre l'asserita abolizione della fase di merito del procedimento possessorio, ma solo nel caso di provvedimento di rigetto, appariva estranea alla ratio della riforma, oltre che contraria agli indizi normativi di cui agli artt. 704 e 705 c.p.c., per cui il giudizio a cognizione piena non poteva essere escluso, meno che mai secundum eventum litis; quantomeno immotivato, infine, si appalesava anche l'altro assunto circa l'applicabilità dell'art. 669-octies c.p.c. nel procedimento possessorio, avendo la medesima Corte già chiarito la «selettività» del rinvio al procedimento cautelare uniforme, operato dall'art. 703, comma 2, c.p.c. Di lì a poco, si è ribadito (Corte cost., n. 359/1996) che l'istituto del reclamo nel nuovo procedimento cautelare di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. aveva portata applicativa generale ed estesa anche ai procedimenti possessori. Successivamente, la stessa Corte regolatrice (Corte cost., n. 126/1998) ha chiarito che il procedimento possessorio, pur dopo la riforma della procedura civile attuata con la l. n. 353/1990, rimaneva un procedimento a struttura bifasica, constando di una fase sommaria e di una di merito, introdotte entrambe dall'unica domanda iniziale al pretore, dovendosi leggere in senso selettivo – rispetto alle sole norme compatibili (ivi inclusa quella del reclamo, ormai generalizzato per effetto di pronunce della Corte Costituzionale di cui sopra) – il richiamo al procedimento cautelare uniforme contenuto nell'art. 703, comma 2, c.p.c.; pertanto, secondo tale interpretazione, si rivelava manifestamente infondata la questione di costituzionalità dedotta contro la norma suindicata per violazione dell'art. 24 Cost., e lo era parimenti in relazione agli artt. 3,25 e 101 Cost., nella parte in cui, attraverso il rinvio alle norme del procedimento cautelare e, quindi, alla possibilità di doversi pronunciare anche su reclamo, si poteva verificare una situazione di incompatibilità a conoscere della medesima questione nel merito ordinario; infatti, valeva il principio secondo cui, nel processo civile, il giudizio di merito non era descrivibile come valutazione operata sulla medesima res iudicanda, sì da dover ravvisare, nel precedente giudizio espresso sulla domanda cautelare in prima battuta, o sul reclamo, ragioni di incompatibilità per decidere il giudizio di cognizione piena. Restava, tuttavia, irrisolto il problema del rimedio impugnatorio applicabile, laddove, congegnato tradizionalmente il procedimento possessorio come bifasico, il giudice, a conclusione della fase c.d. interdittale, avesse accolto o respinto il ricorso possessorio, ma senza rimettere le parti davanti a sé per la trattazione della causa di merito, così concludendo definitivamente il giudizio. In tal caso, si riteneva comunemente che tale provvedimento avesse natura di sentenza, indipendentemente dalla diversa definizione (in particolare, con ordinanza) datagli dal giudice, ed era, quindi, ordinariamente impugnabile mediante l'appello; parimenti, risultava precluso lo strumento del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. allorquando lo stesso giudice, in prima battuta, provvedeva al regolamento delle spese processuali, senza fissare l'udienza di prosecuzione per il c.d. merito possessorio, non residuando così margini per la trattazione della causa in sede possessoria (Cass. S.U., n. 24071/2004; Cass. II, n. 22897/2004; Cass. II, n. 7155/2004; Cass. II, n. 2910/2001; Cass. II, n. 12562/2000; Cass. II, n. 981/1999; tra le pronunce di merito, si segnalavano: Trib. Palmi 11 ottobre 2004; Trib. Mantova 27 novembre 2003; Trib. Piacenza 16 novembre 1999; Trib. Catania 5 gennaio 1999; Trib. Modena 25 maggio 1998; Trib. Venezia 27 marzo 1998; Trib. Torino 23 gennaio 1998; Trib. Latina 11 febbraio 1997; Trib. Brindisi 2 dicembre 1996; Trib. Napoli 10 luglio 1996; Trib. Venezia 27 giugno 1996; Trib. L'Aquila 29 settembre 1993; contra, isolata, Trib. Trani 6 novembre 1996). I suddetti interventi della Corte Costituzionale hanno trovato consacrazione legislativa nella riformulazione del comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c. ad opera della l. n. 80/2005 che, in ossequio al principio della parità delle armi, ammette ora espressamente il reclamo «contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare», quest'ultimo da intendersi esteso, secondo la giurisprudenza prevalente – confortata dalla pronuncia del giudice delle leggi, che aveva sciolto in senso affermativo questo dubbio – anche se il rigetto del ricorso è stato motivato da ragioni di incompetenza o preliminari di rito. In altri termini, si è affermato – a chiare note – che il reclamo è un mezzo di controllo che riveste carattere generale, senza possibilità di distinguere a seconda delle ragioni, processuali o di merito, e la stessa ampiezza di rimedi è stata ammessa, altresì, nei confronti dei provvedimenti in materia possessoria. Quest'ultima opzione ermeneutica – accolta dalla Corte Costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto del 1995, e ribadita nel 1996 in linea con la portata applicativa generale conferita all'istituto – è stata fatta propria dalla l. n. 80/2005 anche riguardo ai procedimenti possessori, modificando espressamente sul punto la norma relativa alle domande di reintegrazione e di manutenzione nel possesso. Invero, a seguito della novella, il procedimento possessorio si articola in una prima fase sommaria instaurata con ricorso e definita con ordinanza, ed in una seconda fase, quella del c.d. merito possessorio, solo eventuale, nel senso che l'udienza di prosecuzione non è più fissata dal giudice nel provvedimento interdittale, bensì rimessa all'impulso di una delle parti – con istanza da presentarsi entro sessanta giorni dalla comunicazione di tale ordinanza o da quella a definizione del reclamo – sicché l'ordinanza de qua è impugnabile con il mezzo di gravame di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., espressamente richiamato dall'art. 703, comma 3, c.p.c., né la stessa può trasformarsi in sentenza e, quindi, impugnabile con l'appello per l'omessa indicazione dell'udienza di prosecuzione (stante la mera eventualità del c.d. merito possessorio). Pertanto, anche nella nuova impostazione post novella del 2005, il diniego di reintegra o manutenzione nel possesso è reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., integrando quella decisione che «respinge la domanda» di cui all'art. 703, comma 3, c.p.c., non sussistendo, inoltre, in tale ipotesi, a carico del giudice che abbia denegato la concessione dell'interdetto possessorio, alcuna necessità di fissare ex officio il termine per la prosecuzione del giudizio di merito, atteso che – ai sensi del comma 4 del medesimo art. 703, come modificato exl. n. 80/2005 – il carattere bifasico del procedimento possessorio è, ormai, soltanto eventuale (Cass. S.U., n. 26037/2013, precisando che ciò vale anche quando il rigetto è motivato in base al ravvisato difetto di giurisdizione del giudice ordinario). Anche in questa nuova prospettiva – riprendendo la vecchia questione di cui sopra – una parte della giurisprudenza di merito (App. Potenza 10 settembre 2019) rimane dell'opinione per cui, in tema di procedimento possessorio, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza, e sia quindi soggetto, in tale secondo caso, ai mezzi di impugnazione previsti per la sentenza, occorre avere riguardo non già alla forma adottata ma al suo contenuto, in ossequio al c.d. principio di prevalenza della sostanza sulla forma; pertanto, non essendo configurabile la natura necessariamente bifasica del procedimento possessorio, il provvedimento con il quale il giudice, a conclusione della fase interdittale, abbia respinto o accolto il ricorso possessorio senza rimettere le parti innanzi a sé per la trattazione della causa nel merito, così concludendo definitivamente il giudizio e pronunciando sulle spese, ha natura di sentenza – indipendentemente dalla diversa definizione datagli dal giudice – e, quindi, è impugnabile mediante appello e non mediante reclamo, proponibile, nella materia possessoria, soltanto avverso il provvedimento avente natura di ordinanza. È, comunque, ius receptum – v., tra le altre, Cass. II, n. 3188/2002; Cass. II, n. 3983/1998 – che il provvedimento con il quale il tribunale dichiari, nei limiti della cognizione sommaria della fase cautelare, la propria competenza sull'istanza di reintegrazione del possesso – dando disposizioni sull'acquisizione di elementi di valutazione e di giudizio relativi alla situazione dei luoghi – non sia soggetto ad impugnazione per regolamento di competenza, esperibile unicamente nei confronti di quei provvedimenti che, ancorché privi della forma di sentenza, abbiano effetti sostanziali di carattere definitivo, essendo invece previsto, avverso i provvedimenti temporanei ed urgenti che il giudice pronuncia al termine della fase a cognizione sommaria, anche per l'affermazione di competenza in essi contenuta, il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., richiamato dal nuovo testo dell'art. 703, comma 2, c.p.c. Parimenti, nel procedimento possessorio, non è ammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione prima della conclusione della fase sommaria o interdittale, e dell'introduzione della fase di merito ai sensi dell'art. 703, comma 4, c.p.c., atteso che l'art. 41 c.p.c., nello stabilire che la richiesta alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione può essere formulata «finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado», richiede, quale condizione per la proposizione del detto regolamento, che sia in corso l'esame di una causa nel merito in primo grado e che essa non sia stata ancora decisa (Cass. S.U., n. 11220/2019; v., altresì, Cass. S.U., n. 11093/2010, la quale, sul presupposto che l'ordinanza che, in sede di reclamo, rigetti la richiesta di interdetto possessorio per motivi attinenti la giurisdizione abbia natura decisoria e definitiva, ha ritenuto che la pronuncia di tale provvedimento esclude la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione). In precedenza, peraltro, si era considerato ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del procedimento possessorio, ancorché, nella fase sommaria o in sede di reclamo, sia stata risolta, in senso affermativo o negativo, una questione attinente alla giurisdizione, trattandosi di provvedimento che mantiene carattere di provvisorietà ed essendo, comunque, possibile richiedere la prosecuzione del giudizio, ai sensi dell'art. 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione della stessa questione, aggiungendo che, in difetto, però, di istanza di parte per la fissazione del giudizio di merito, non è proponibile il ricorso ex art. 41 c.p.c., in quanto l'interesse a promuovere l'accertamento sulla giurisdizione postula necessariamente la pendenza di un processo (Cass. S.U., n. 15155/2015; Cass. S.U., n. 21099/2004; Cass. S.U., n. 590/1999). Nello stesso ordine di concetti, si è statuito (Cass. II, n. 4327/2012) che l'opposizione di terzo di cui all'art. 404, comma 1, c.p.c. – in quanto mezzo di impugnazione eccezionale utilizzabile da chi non abbia assunto la qualità di parte nel processo contro le sentenze passate in giudicato, o comunque esecutive, oppure contro i provvedimenti aventi, per la loro decisorietà, contenuto sostanziale di sentenza – non è esperibile avverso l'ordinanza di reintegra nel possesso, in quanto provvedimento non avente carattere di definitività; né dall'esclusione del rimedio straordinario dell'opposizione deriva alcun pregiudizio per il diritto di difesa del terzo che si affermi possessore del bene, ove egli possa intervenire nel giudizio di merito possessorio, far valere il suo diritto di proprietà in ogni momento, o, in caso di esecuzione dell'ordinanza di reintegra, far accertare, mediante opposizione all'esecuzione, che la parte istante non ha diritto di procedere esecutivamente nei suoi confronti. In ordine, poi, al regime impugnatorio nei confronti del provvedimento possessorio adottato in sede di reclamo, avverso un provvedimento interdittale in materia possessoria ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., si è concordi nel ritenere inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, trattandosi (anch'essa) di pronuncia priva dei caratteri di decisorietà e definitività, atteso che la stessa è destinata a perdere efficacia a seguito della decisione di merito ed è, quindi, inidonea a produrre effetti di diritto sostanziale e processuale con autorità di giudicato (Cass. II, n. 17211/2010; Cass. II, n. 8446/2006; Cass. II, n. 647/2000; Cass. II, n. 1161/1999; Cass. II, n. 11285/1998; Cass. S.U., n. 3379/1998; Cass. II, n. 13124/1997; Cass. II, n. 10999/1997; Cass. II, n. 8253/1997; Cass. II, n. 8107/1997; Cass. II, n. 5118/1997; Cass. II, n. 11359/1996; Cass. II, n. 1735/1995). Poiché il reclamo risulta finalizzato all'eventuale sostituzione della già adottata decisione di rigetto o di concessione dell'invocata misura provvisoria, con altra decisione che della prima conserva gli stessi caratteri, anche i provvedimenti adottati in sede di reclamo si rivelano essi stessi strumentali e provvisori, e come tali inidonei a pregiudicare irrimediabilmente i diritti della parte soccombente, sicché non sono ricorribili ai sensi dell'art. 111, comma 2, Cost. In altri termini, l'ordinanza emessa in sede di reclamo, similmente al provvedimento reclamato, non incide su posizioni di diritto soggettivo – non essendo il possesso un diritto soggettivo, ma un potere di fatto tutelato dal diritto ex art. 1441 c.c. – ed è priva del requisito della definitività, in quanto la tutela possessoria è, per definizione, una tutela separata da quella della proprietà ed è, per sua natura, una tutela provvisoria, destinata ad essere travolta dal successivo giudizio petitorio (Cass. II, n. 1501/2018; Cass. II, n. 3629/2014; in particolare, Cass. II, n. 7565/2017 ha lucidamente spiegato che, nell'ipotesi in cui, invece, la prosecuzione del giudizio non sia stata domandata nel termine perentorio dell'art. 703, comma 4, c.p.c., può prospettarsi o che l'ordinanza acquisisca una stabilità puramente endoprocessuale ed un'efficacia solo esecutiva, come succede per le misure cautelari, che la rende inidonea al giudicato e, dunque, non decisoria, oppure che si verifichi un'estinzione del giudizio possessorio in ragione della mancata prosecuzione di esso, con conseguente preclusione esterna pro iudicato dovuta all'acquiescenza dimostrata dalla parte interessata, come, ad esempio, nel caso del decreto ingiuntivo o dell'ordinanza ingiuntiva incidentale ex art. 186-ter c.p.c.; la duplice alternativa non incide, comunque, sulla negazione del requisito di decisorietà dell'ordinanza emessa in sede di reclamo exartt. 669-terdecies e 703, comma 3, c.p.c. e, quindi, anche della sua ricorribilità per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., giacché, seguendo la prima opzione, essa potrebbe essere posta nuovamente in discussione nell'àmbito di un autonomo giudizio dichiarativo, mentre, a seguire la seconda, essa sarebbe coperta dalla preclusione pro iudicato). D'altronde, l'ordinanza sul reclamo nel procedimento possessorio a struttura eventualmente bifasica, delineata dall'art. 703 c.p.c. – come modificato dalla l. n. 80/2005 – in caso di prosecuzione del giudizio di merito, è destinata ad essere assorbita nella sentenza, unico provvedimento decisorio, mentre, in caso contrario, l'ordinanza stessa acquista una stabilità puramente endoprocessuale, inidonea al giudicato, o determina una preclusione pro iudicato da estinzione del giudizio (si faceva salva, nel regime ante 2006, soltanto l'ipotesi in cui il giudice del reclamo non si limitava a provvedere sul medesimo, ma definiva il giudizio possessorio, accogliendo o respingendo la domanda, oppure, provvedendo sulle spese ed eliminando la data della fissazione dell'udienza del giudizio di merito, esauriva implicitamente lo stesso giudizio possessorio, atteso che il provvedimento, in tal caso, aveva natura sostanziale di sentenza e, avverso la medesima, era esperibile il ricorso ordinario per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c.: v. Cass. II, n. 1459/2000; Cass. II, n. 9635/1999; Cass. II, n. 5118/1999). Resta inteso, infine, che la seconda fase, a cognizione piena – ora meramente eventuale – si conclude con un provvedimento che, definendo l'intero processo possessorio, si configura come sentenza, e, come tale, è impugnabile soltanto con il rimedio ordinario dell'appello ai sensi degli artt. 323 ss. c.p.c. I provvedimenti di sospensione del precetto. Fortemente innovativo, e ricco di ricadute pratiche, è stato l'intervento del legislatore relativamente alla possibilità di esperire il reclamo riguardo ai provvedimenti di sospensione dell'esecuzione, nell'ottica di una maggiore tutela giurisdizionale a disposizione del debitore esecutato, comprensibilmente compressa, al fine di agevolare la pronta soddisfazione coattiva del credito e scongiurare comportamenti dilatori da parte dello stesso debitore, nella tradizionale ed originaria impostazione codicistica dell'esecuzione forzata (per il relativo procedimento e le connesse problematiche, v. art. 669-quaterdecies c.p.c., al cui commento si rinvia, specie par. 3.4.). Va premesso che, con decorrenza dal 1° marzo 2006, l'art. 2, comma 3, lett. e), del d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 80/2005, ha modificato l'art. 615, comma 1, c.p.c. aggiungendo, alla fine, il seguente periodo: «Il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l'efficacia esecutiva del titolo». Successivamente, l'art. 615, comma 1, c.p.c. è stato modificato, a decorrere dal 27 giugno 2015, dall'art. 13, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83/2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132/2015, che ha introdotto l'ulteriore periodo: «Se il diritto della parte istante è contestato solo parzialmente, il giudice procede alla sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo esclusivamente in relazione alla parte contestata». Il suddetto intervento del legislatore ha riguardato esclusivamente l'opposizione all'esecuzione spiegata in via preventiva rispetto all'inizio dell'esecuzione forzata (minacciata con l'atto di intimazione), e cioè la c.d. opposizione a precetto, locuzione usata in gergo per distinguerla dall'opposizione all'esecuzione già iniziata, altrimenti detta, con specifico riferimento all'espropriazione forzata («opposizione a pignoramento»). La riforma del 2005/2006 ha interessato anche l'art. 624 c.p.c. («Sospensione per opposizione all'esecuzione») – il quale, nella formulazione previgente, stabiliva, al comma 1, che: «Se è proposta opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 secondo comma e 619, il giudice dell'esecuzione, concorrendo gravi motivi sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza» – sostituendo la citata norma con il seguente testo: «1. Se è proposta opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 e 619, il giudice dell'esecuzione, concorrendo gravi motivi, sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza. 2. Contro l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione è ammesso reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies. La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche al provvedimento di cui all'articolo 512, secondo comma». Prima delle menzionate modifiche legislative, i casi in cui l'ordinamento consentiva un controllo giurisdizionale preventivo sui titoli esecutivi era limitato agli artt. 64 legge cambiaria (r.d. 14 dicembre 1933, n. 1669) e 56 legge assegno (r.d. n. 1736/1933); rispetto agli altri titoli esecutivi – e specialmente a quelli giudiziali – si riscontrava l'assenza di una positiva attribuzione del potere sospensivo successivamente alla notifica dell'atto di precetto, dato che la sospensione ex art. 624 c.p.c., nella precedente formulazione, era disciplinata soltanto per le opposizioni del debitore o del terzo proposte dopo l'inizio dell'esecuzione forzata. Secondo un orientamento dottrinale (Andrioli, 530), il silenzio della legge non era né casuale, né immotivato, poiché al creditore doveva essere consentito di compiere il pignoramento, che aveva funzione «assicurativa» della destinazione all'espropriazione dei beni staggiti; oltre alla mancanza di previsioni legislative, si rilevava che non era concepibile la sospensione di un'esecuzione non ancora iniziata. A tale opinione dottrinale, aveva a lungo aderito la giurisprudenza di legittimità, la quale, in più di un'occasione, aveva affermato che il precetto aveva solo la funzione di preannunciare il soddisfacimento coatto della pretesa azionata, di talché un provvedimento di sospensione dell'esecuzione pronunciato prima dell'avvio dell'esecuzione – ossia dal giudice dell'opposizione a precetto – doveva considerarsi tamquam non esset (v., tra le altre, Cass. IV, n. 10354/1991, ad avviso della quale il provvedimento di sospensione dell'esecuzione emanato prima dell'inizio della medesima non può esplicare alcuna efficacia né nel procedimento in cui è stato emesso né in procedimenti futuri; in precedenza, Cass. III, n. 4555/1983 aveva affermato che un provvedimento di sospensione dell'esecuzione emesso quando l'esecuzione non fosse ancora iniziata non poteva, in quanto assolutamente privo di oggetto, spiegare alcuna concreta efficacia, né incidere su processi esecutivi futuri, e così non risultava impugnabile con istanza di regolamento di competenza). Anche i tentativi di prospettare l'illegittimità costituzionale della lacuna normativa – che non consentiva di sospendere l'efficacia esecutiva del titolo o di inibire l'inizio dell'esecuzione forzata nell'àmbito dell'opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c. – erano stati respinti dai giudici della Consulta (Corte cost., n. 234/1992, nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 623 c.p.c., «nella parte in cui non prevede che il giudice adìto nella causa di opposizione al precetto in relazione ad esecuzione per consegna o rilascio possa, prima dell'inizio dell'esecuzione, sospendere l'esecuzione medesima», aveva dichiarato inammissibile la questione; Corte cost., n. 81/1996, pur rilevando, «nel sistema così congegnato, l'impossibilità di ottenere la sospensione della esecuzione forzata – o, meglio, dell'esecutività del titolo – all'interno dell'arco di tempo che va dalla notifica del precetto all'inizio dell'esecuzione» – aveva ritenuto inammissibile la questione «postulando una scelta tra più soluzioni possibili, riservata in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore»; in precedenza, Corte cost., n. 587/1990 aveva affermato che «la sospensione dell'esecuzione prima dell'inizio di questa è consentita soltanto per i titoli esecutivi cambiari e per l'assegno, oltre che per i titoli di formazione giudiziale», come, ad esempio, ex art. 283 c.p.c.). Nel frattempo, parte della dottrina aveva criticato tale approccio ermeneutico, individuando, talvolta, nell'art. 700 c.p.c. l'unico strumento giuridico utilizzabile per impedire l'avvio dell'esecuzione e per colmare, così, il vuoto di tutela (per Oriani, 18, «Arrivati a questo punto, sarebbe senz'altro preferibile attribuire al giudice dell'opposizione a precetto il potere di inibire il pignoramento»; ad avviso di Vittoria, 139, «la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo ordinata dal giudice competente per l'opposizione a precetto e la sospensione dell'esecuzione connessa all'opposizione proposta contro l'esecuzione già iniziata, assolvono ad una stessa funzione di base, atteso che ambedue tendono ad evitare che la parte, contro cui l'esecuzione è minacciata o iniziata sulla base del titolo esecutivo, debba finire con il sopportare un'esecuzione ingiusta, nel tempo necessario alla piena cognizione delle ragioni che la stessa parte può ancora contrapporre a quella istante, ragioni che sostanziano, se riconosciute fondate, il diritto a non subire l'esecuzione forzata, perché mancherebbe nella parte istante il diritto per cui minaccia di agire o sta agendo in via esecutiva»). A seguito di tali suggerimenti, anche la Suprema Corte era giunta ad ammettere il ricorso alla tutela d'urgenza atipica, nel corso dell'opposizione a precetto o anche ante causam per ottenere l'inibitoria a procedere al pignoramento (Cass. I, n. 1372/2000 ha affermato che, in tema di procedimento di esecuzione, poiché l'esecuzione forzata ha inizio con il pignoramento, avendo il precetto la sola funzione di preannunciare il soddisfacimento coatto della pretesa azionata, un provvedimento di sospensione dell'esecuzione, richiesto e pronunciato prima del pignoramento stesso – nella specie, emesso in sede di opposizione a precetto – va considerato tamquam non esset, essendo del tutto inidoneo ad esplicare effetti nel procedimento in corso o in procedimenti futuri, sicché l'unico rimedio legittimamente esperibile da parte del soggetto destinatario del precetto risulta, in difetto di strumenti processuali tipici – attesa l'impraticabilità dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., che rende possibile la domanda di sospensione ex art. 624 c.p.c. – la richiesta di inibitoria a procedere al pignoramento ex art. 700 c.p.c.; secondo Cass. III, n. 5683/2001, il carattere residuale proprio del procedimento cautelare atipico giustifica la richiesta di interdizione dell'attivazione della procedura esecutiva, quando il risultato non può essere conseguito con gli strumenti delle opposizioni all'esecuzione; anche ad avviso di Cass. III, n. 15220/2005, la sospensione dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 624 c.p.c., può essere disposta solo dopo l'inizio del processo esecutivo – potendo la medesima esigenza essere soddisfatta anteriormente mediante ricorso all'art. 700 c.p.c. – e solo dal giudice dell'esecuzione). Va dato atto che varie obiezioni erano state mosse all'impiego del rimedio cautelare ex art. 700 c.p.c., quali: il carattere residuale e sussidiario della tutela d'urgenza; la funzione tipica dello strumento, volto a dirimere conflitti non ancora composti da provvedimenti giurisdizionali; il condizionamento all'impossibilità di far valere il diritto «in via ordinaria»; inoltre, e soprattutto, l'inammissibilità concettuale di una sospensione dell'efficacia esecutiva di un titolo giudiziale al quale la legge riconosce esecutorietà, per giunta in concorrenza con il potere sospensivo del giudice dell'impugnazione, dal quale potrebbe trarsi, peraltro, il difetto di residualità della cautela atipica (tra le pronunce di merito, v., per tutte, Trib. Mantova 16 ottobre 2020). Del resto, l'inadeguatezza dell'assetto così realizzato è stata colta dal legislatore che, con l. n. 80/2005 (di conversione del d.l. n. 35/2005), ha espressamente attribuito al giudice dell'opposizione a precetto, concorrendo gravi motivi e su istanza di parte, il potere di sospendere «l'efficacia esecutiva del titolo» (art. 615, comma 1, secondo periodo, c.p.c.). La fattispecie rappresenta un ibrido, nel senso che condivide parzialmente i caratteri dell'inibitoria ex art. 700 c.p.c. e quelli della sospensione disposta dal giudice dell'esecuzione: secondo la lettera della legge, essa agisce sull'esecutività del titolo e non già sul processo esecutivo (non ancora iniziato), ma condivide con la sospensione della procedura già iniziata sia la subordinazione alla sussistenza di gravi motivi, sia la finalità, sia i limiti – anche oggettivi (intesi come i motivi di contestazione del diritto di agire in executivis) – dell'opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c.; la formulazione della citata disposizione, dalla quale discendono eterogenee considerazioni sulla natura e sull'oggetto della misura, ha alimentato numerosi dubbi interpretativi impedendo di addivenire ad una soluzione univoca anche in ordine alla reclamabilità del provvedimento adottato dal giudice dell'opposizione pre-esecutiva (per tutti, Longo 507). Prima dell'intervento del massimo organo di nomofilachia, diverse pronunce di merito si erano espresse per l'inammissibilità del reclamo avverso l'ordinanza ex art. 615, comma 1, c.p.c. (v., tra le altre, Trib. Teramo 24 ottobre 2018; Trib. Milano 10 novembre 2015; Trib. Napoli 7 aprile 2015; Trib. Latina 9 luglio 2013; Trib. Savona 16 ottobre 2012; Trib. Milano 19 agosto 2010; Trib. Lamezia-Terme 26 marzo 2009; Trib. Milano 28 maggio 2008; parimenti, era considerato inammissibile il reclamo avverso il provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione sulla richiesta di emissione di provvedimenti indilazionabili a norma dell'art. 618, comma 2, c.p.c., così Trib. Brindisi 11 luglio 2006; contra, Trib. Roma 2 novembre 2006, secondo il quale il reclamo previsto dal combinato disposto degli artt. 624 e 669-terdecies c.p.c. avverso i provvedimenti in materia di sospensione dell'esecuzione è estensibile anche al provvedimento sospensivo previsto dall'art. 618 c.p.c.; del pari, veniva ritenuto inammissibile il reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza che negava la sospensione degli atti esecutivi richiesta dal ricorrente nell'àmbito del procedimento di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., v. Trib. Bologna 6 giugno 2007; una fattispecie particolare è stata decisa da Trib. Sciacca 27 novembre 2006, a parere del quale il rimedio previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. è proponibile, per effetto del novellato art. 624, comma 2, c.p.c., «contro l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione» e, quindi, anche avverso il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione, instaurato il contraddittorio, abbia rigettato l'istanza revocando il precedente decreto di sospensione del processo esecutivo inaudita altera parte, mentre, ritenendo non reclamabile, invece, l'ordinanza di modifica o revoca della misura cautelare già concessa con decreto, si giungerebbe all'irragionevole conclusione di negare ogni rimedio avverso la sospensione disposta inaudita altera parte, essendo indubbio, stante il chiaro tenore letterale della disposizione citata, che il reclamo è esperibile soltanto contro l'ordinanza del giudice dell'esecuzione e non anche contro il decreto pronunciato ai sensi dell'art. 625, comma 2, c.p.c.). Sono varie le argomentazioni a sostegno di tale tesi restrittiva. Il primo argomento è letterale (v., per tutte, Trib. Venezia 31 ottobre 2006, ad avviso del quale è inammissibile il reclamo sulla decisione che concede o nega la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, dal momento che l'assenza di indicazioni legislative sul punto, a fronte dell'espressa previsione della reclamabilità della decisione con la quale il giudice dell'esecuzione decide sull'istanza di sospensione dell'esecuzione, impone di valorizzare il canone interpretativo ubi lex voluit, dixit); del resto, la reclamabilità è specificamente prevista soltanto nell'art. 624 c.p.c. che, al comma 2, si riferisce genericamente alla «ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione», ma, al comma 1, fa esplicito riferimento al giudice dell'esecuzione investito di un'opposizione exartt. 615 o 619 c.p.c.; conseguentemente, il rimedio deve ritenersi operante solo in caso di esecuzione già iniziata;infatti, la modifica legislativa del 2006 ha sì inciso sull'art. 624, comma 1, c.p.c. – il quale, nel testo previgente recitava: «se è proposta opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 secondo comma» – ampliando apparentemente la portata della disposizione anche all'opposizione a precetto, ma il legislatore ha lasciato inalterata la norma nella parte in cui individua il titolare del potere di sospensione («il giudice dell'esecuzione») e l'oggetto di quest'ultima («il processo»). Inoltre, la collocazione «topografica» dell'art. 624 c.p.c. – nel titolo VI, capo I, «Della sospensione del processo» – darebbe conferma della volontà del legislatore di riservare l'applicazione della norma soltanto alla sospensione della procedura già iniziata. Si sminuisce, poi, la portata delle affermazioni dei giudici di legittimità (Cass. III, n. 5368/2006), secondo i quali la natura cautelare della sospensione dell'efficacia del titolo esecutivo è evidente, atteso che serve ad impedire che l'esecuzione sia iniziata prima che si giudichi del merito delle ragioni che sostanziano l'opposizione a precetto ed il regime di questo provvedimento deve ritenersi quello del procedimento cautelare; si sostiene, infatti, che l'affermazione non costituisce un generale principio di diritto dal quale potersi trarre l'applicabilità dell'intero rito cautelare uniforme (inclusa la reclamabilità dei provvedimenti), poiché la stessa è esclusivamente funzionale alla declaratoria di inammissibilità di un'istanza ex art. 615, comma 1, c.p.c. rivolta direttamente alla Suprema Corte dopo la sentenza di appello ed in pendenza di ricorso per cassazione. In ogni caso, anche a voler considerare la misura de qua alla stregua di un provvedimento cautelare, l'art. 669-quaterdecies c.p.c. estende il rito cautelare «ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III e V di questo capo, nonché, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali», e non già alle ordinanze rese nei procedimenti di opposizione esecutiva exartt. 615 e 617 c.p.c. (tra le prime, v. Trib. Agrigento 23 novembre 1995, secondo il quale l'ordinanza con cui il giudice dell'esecuzione provvede sulla richiesta di sospensione avanzata in sede di giudizio di opposizione all'esecuzione non è soggetta al reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. avverso le misure cautelari). Sotto il profilo sistematico, infine, non si è ravvisata alcuna disparità di trattamento rispetto al diverso trattamento normativo dell'opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c. (che l'art. 624, comma 2, c.p.c. assoggetta expressis verbis al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.): la natura latamente cautelare di un provvedimento a cognizione sommaria incidente sull'esecutività del titolo «non impone una comune disciplina quanto ai rimedi utilizzabili contro ciascuno di essi», con riguardo, ad esempio, all'ordinanza ex art. 649 c.p.c. o ai provvedimenti in materia di efficacia esecutiva della sentenza (così Trib. Roma 28 maggio 2007, il quale ha sottolineato che, contro la tesi dell'estensibilità della disposizione di cui all'art. 624, comma 2, c.p.c. a tale provvedimento militano, oltre che argomenti di ordine letterale, riferendosi il comma 2 di tale disposizione ai soli provvedimenti di cui al comma 1, anche rilievi di ordine sistematico, risultando giustificata la predisposizione di una tutela più estesa per i soli provvedimenti assunti in sede di opposizione all'esecuzione). Si registravano, tuttavia, anche decisioni di merito di segno contrario (v., tra le altre, Trib. Torino 31 agosto 2012; Trib. Nola 12 dicembre 2008; Trib. Mondovì 18 settembre 2006). Si confutano, innanzitutto, le argomentazioni basate sul dato letterale: l'art. 624, comma 2, c.p.c. concerne genericamente «l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione» senza ulteriori specificazioni, e la norma – riferibile sia all'opposizione a precetto, sia all'opposizione all'esecuzione iniziata – è inserita nel titolo VI, capo I, dedicato genericamente alla sospensione e non già alla sospensione della procedura; peraltro, ne è prova l'art. 623 c.p.c. (prima disposizione del capo I) che, nel disciplinare l'effetto dell'inibitoria pronunciata «dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» – la quale può incidere sull'efficacia esecutiva del titolo exartt. 283, comma 1, e 351, comma 3, c.p.c. – concerne il fenomeno sospensivo in senso lato, con la conseguenza che anche la portata dell'art. 624, comma 2, c.p.c. può essere intesa in accezione ampia (ad avviso di Trib. Genova 5 aprile 2007, è ammissibile il reclamo sulla decisione che concede o nega la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, decisione avente natura cautelare, posto che l'art. 624 c.p.c. si riferisce «a tutte le decisioni in tema di istanze di sospensione», senza che rilevi che un'esecuzione sia concretamente iniziata, e posto che, in caso contrario, vi sarebbe una lesione del diritto di difesa della parte interessata). Si contesta, poi, la negazione della natura cautelare del provvedimento, e la conseguente pretesa inapplicabilità degli artt. 669-terdecies e 669-quaterdecies c.p.c.: infatti, è tipicamente cautelare la funzione della sospensione (o inibizione), la quale mira inequivocabilmente ad impedire che, nelle more del processo di cognizione di opposizione, possano derivare svantaggi all'opponente, consistenti nell'avvio e nella prosecuzione di un'esecuzione forzata (v., tra le prime, Trib. Firenze 22 maggio 1995, ad avviso del quale il provvedimento di sospensione ex art. 624 c.p.c. presenta tutti i requisiti del provvedimento cautelare ed è, pertanto, reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c.; Trib. Biella 11 maggio 2006, secondo cui il reclamo previsto dal combinato disposto degli artt. 624 e 669-terdecies c.p.c. avverso i provvedimenti in materia di sospensione dell'esecuzione è estensibile anche al provvedimento sospensivo previsto dall'art. 615, comma 1, c.p.c.; per Trib. Lecco 6 luglio 2006, il provvedimento di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, ex art. 615, comma 1, c.p.c., ha natura cautelare, sicché è applicabile anche a detto provvedimento il rimedio previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., con conseguente reclamabilità dell'ordinanza). Peraltro, in tal senso, si era posta anche parte della dottrina (Pavan, 239), ad avviso della quale milita, infatti, a favore della natura cautelare del provvedimento sia la sua funzione di misura volta ad evitare, medio tempore, un pregiudizio ad una parte in danno dell'altra, sia la sua struttura, posto che il giudice è chiamato a bilanciare la presumibile fondatezza dell'istanza con i rischi che potrebbero derivare vicendevolmente alle parti dalla concessione o meno del provvedimento di sospensione. La tutela riconosciuta dall'art. 615, comma 1, c.p.c., dunque, è di tipo «cautelare anticipatorio», perché l'opponente ottiene in via provvisoria il vantaggio processuale e sostanziale al quale è tesa l'azione proposta; ciò differenzia la misura prevista nell'opposizione a precetto dal provvedimento di sospensione del processo esecutivo, il quale è «parzialmente anticipatorio», nel senso che, se non si risolve nell'eliminazione della situazione determinata dall'esecuzione illegittima e, quindi, in un'anticipazione piena di tutela, si risolve, tuttavia, in un'anticipazione parziale, perché il blocco dell'esecuzione concreta una negazione dell'ulteriore possibilità che la pretesa esecutiva continui a spiegare i suoi effetti, il che significa, appunto, un'anticipazione parziale della tutela conseguibile all'esito della cognizione piena, perché, quando l'esecuzione non fosse sospesa, la sentenza che, all'esito della cognizione piena, accerta la mancanza della pretesa esecutiva, avrebbe l'effetto di eliminare naturalmente anche le conseguenze dell'esecuzione frattanto svoltasi (così Cass. III, n. 22033/2011). Non contrasta, poi, con la ritenuta natura cautelare del provvedimento la mancata previsione di fumus boni iuris e periculum in mora quali presupposti della misura, avendo il legislatore ancorato la norma alla sussistenza di «gravi motivi»: se è certo che la valutazione debba essere svolta attraverso un sommario giudizio prognostico di fondatezza dell'opposizione proposta, non necessariamente il legislatore è tenuto ad identificare nello stesso modo le premesse applicative di una misura cautelare; del resto, potrebbe affermarsi che ricorrono i «gravi motivi» cui si riferisce l'art. 615, comma 1 c.p.c. ogniqualvolta sussista il fumus boni iuris ed il periculum in mora (così Soldi, 2036). La misura de qua, dunque, trova la sua disciplina nel rito cautelare uniforme nonostante il limite posto dall'art. 669-quaterdecies c.p.c. «agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali»; è stato lo ius superveniens, segnatamente la l. n. 80/2005 a modificare l'art. 624, comma 2, c.p.c. prevedendo – anche al di fuori delle ipotesi succitate – il «reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies» c.p.c. e, implicitamente, delle disposizioni exartt. 669-bis ss. c.p.c. compatibili con il processo esecutivo. Al riguardo, la dottrina offre soluzioni variegate: alcuni (Oriani, 220; Pavan, 242), muovendo dalla natura cautelare del provvedimento, individuano le disposizioni del rito cautelare uniforme reputate applicabili; in senso contrario, altri (Pisanu, 572) sostengono che non si può fare a meno di osservare che l'espresso richiamo dell'attuale art. 624 c.p.c. al solo art. 669-terdecies c.p.c., lungi dall'affermare in modo chiaro la natura cautelare del provvedimento di sospensione, pare piuttosto essere espressione della volontà del legislatore di rendere applicabile, in questo àmbito, il solo rimedio del reclamo e non le altre norme del rito cautelare uniforme: la citata disposizione, invero, si rivelerebbe sostanzialmente inutile laddove l'applicabilità del reclamo derivasse già dalla natura cautelare dei provvedimenti sospensivi di cui si discute; sulla superfluità di un innesto nel processo esecutivo (iniziato) delle norme del rito cautelare uniforme, si è posto chi (Vittoria, 142) ha sostenuto che la disciplina propria delle opposizioni esecutive, a processo esecutivo iniziato, non richiede integrazioni da parte di quella del procedimento cautelare uniforme perché la tutela cautelare risulti pienamente assicurabile. Anche ragioni sistematiche hanno supportano la tesi della reclamabilità; all'identità dei motivi deducibili, indifferentemente prima o dopo l'avvio della procedura, per contestare il diritto di procedere in executivis dovrebbero ragionevolmente corrispondere identici rimedi (tanto che si prospetta un'applicazione quantomeno analogica dell'art. 624, comma 2, c.p.c.); non vale a giustificare il diverso trattamento la pretesa di una più intensa tutela da riconoscersi al creditore che, in caso di un'errata sospensione della procedura, correrebbe il rischio di estinzione del processo (ex art. 624, comma 3, c.p.c.): difatti, se la sospensione dell'esecuzione può, in caso di inerzia, determinare la chiusura del processo, la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo è anche più nociva per le ragioni creditorie, perché impedisce addirittura l'inizio dell'esecuzione forzata. Inoltre, quando il legislatore ha inteso escludere rimedi impugnatori, ha espressamente sancito l'inoppugnabilità del provvedimento, come nei casi degli artt. 351, comma 1 (che concerne l'istanza di sospensione dell'esecutorietà ex art. 283 c.p.c.), 649 e 665 c.p.c. e dell'art. 5 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150; al contrario, l'art. 615, comma 1, c.p.c. non definisce «non impugnabile» l'ordinanza di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo (così Conte, ad avviso del quale, anche alla luce di un criterio, per così dire, storico, sarebbe stato molto strano che il legislatore, che ha voluto disciplinare un vuoto legislativo individuato dalla prassi, e che, medio tempore, cioè in assenza di un intervento normativo, veniva riempito con il ricorso alla tutela d'urgenza – che dava e dà luogo ad un provvedimento reclamabile – laddove avesse voluto escludere la reclamabilità dell'ordinanza di sospensione pronunciata ai sensi dell'art. 615, comma 1, c.p.c., non si fosse posto il problema di precisare che tale ordinanza era «non impugnabile»). Da ultimo, si sottolinea il valore della modifica legislativa intervenuta sul comma 1 dell'art. 624 c.p.c.: il legislatore del 2005/2006 ha rimosso il riferimento specifico all'opposizione di cui al comma 2 dell'art. 615 c.p.c. e, perciò, nonostante l'imperfetto coordinamento tra le norme ora esaminate e l'incerta tecnica legislativa adottata, a tale mutamento della norma occorre giocoforza attribuire un significato. In tal senso, si è posta la dottrina maggioritaria, offrendo rilievi oltremodo articolati (Oriani, 256: «Ebbene, qual è la natura del provvedimento? È difficile immaginare che appartenga ad un processo esecutivo che non è ancora iniziato. Appartiene allora al processo di cognizione? E dove rinveniamo il suo regime? Insomma, l'art. 624, comma 1, c.p.c.minus dixit quam voluit. È stato previsto il reclamo, perché siamo di fronte ad un provvedimento cautelare, con la conseguente applicabilità dell'art. 669-quaterdecies c.p.c. Nonostante la pessima fattura del nuovo art. 624, comma 1, c.p.c. il fatto che il comma 1 dell'art. 624 c.p.c. riguardi genericamente l'opposizione ex art. 615 c.p.c., e non più la sola opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c. consente di affermare che entrambe le lacune sono state eliminate: il provvedimento di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, per un verso, può essere condizionato al deposito di una cauzione, e, per altro verso, è reclamabile»; Conte, 1217: «È vero che questa norma disciplina propriamente la sospensione dell'esecuzione – in tal senso deporrebbe anche la rubrica dell'articolo – e, quindi, sembrerebbe non estendersi alla sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo a cui fa riferimento l'art. 615, comma 1, c.p.c. Ma è anche vero che qualcosa pur avrà voluto dire il legislatore, laddove ha ritenuto di novellare il disposto del comma 1 dell'art. 624, sopprimendo, in riferimento proprio all'art. 615 c.p.c., le parole ‘secondo comma'»; Marmiroli, 647: «Se non si ammettesse la reclamabilità del provvedimento di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, non si comprenderebbe, infatti, il senso dell'eliminazione dall'art. 624, comma 1, c.p.c. del riferimento al solo art. 615, comma 2, c.p.c.»; Pucciariello, 360: «Il legislatore è incorso in un errore compilativo di coordinamento, inequivocabile, se si pone mente al susseguirsi di novelle che hanno interessato gli artt. 615 e 624 c.p.c., si nota che il legislatore ha eliminato, dal primo periodo dell'art. 624 c.p.c., il riferimento al comma 2 dell'art. 615 con l'evidente intenzione di unificarne i regimi processuali»; Quaranta, 95: «Ove non si dovesse ritenere esperibile il reclamo difetterebbe qualsiasi strumento di reazione avverso una decisione dal contenuto assai rilevante in quanto volta a paralizzare la stessa azione esecutiva, inibendo l'avvio di qualsiasi processo esecutivo»). Pertanto, la tesi maggioritaria ricostruisce la misura de qua come un provvedimento di natura tipicamente cautelare, che presenta, quanto all'oggetto, similitudini con le inibitorie del giudice dell'impugnazione del titolo giudiziale, ma dalle quali differisce per struttura e presupposti: proprio la diversità, di natura e struttura, giustifica un diverso trattamento impugnatorio rispetto alle misure solo latamente cautelari; si supera così l'obiezione per cui l'ordinamento conosce altri provvedimenti incidenti sull'esecutorietà che sono pacificamente inoppugnabili. Secondo altra opinione, invece, nonostante la difformità lessicale nel testo di legge, la sospensione dell'esecutorietà ex art. 615, comma 1, c.p.c. non riguarda astrattamente il titolo esecutivo, bensì l'esercizio della concreta azione esecutiva minacciata con l'atto di precetto; per ammettere il reclamo, è superfluo riconoscere forzosamente alla misura una natura tipicamente cautelare ed anticipatoria – per giunta, avente un oggetto diverso rispetto alla sospensione della procedura – perché, dalla coincidenza delle contestazioni proponibili dall'opponente, prima e dopo l'inizio dell'esecuzione forzata, e dall'identità delle misure del giudice dell'opposizione pre-esecutiva o dell'opposizione all'esecuzione avviata – deve necessariamente derivare un identico trattamento, quantomeno per applicazione analogica (e costituzionalmente orientata) dell'art. 624, comma 2, c.p.c. Anche alcuni giudici di merito si sono posti in questa lunghezza d'onda: «non può che essere apprezzato il (pur confuso) intervento del legislatore che, dapprima, nel 2005, aveva introdotto, all'art. 624 c.p.c., la possibilità del reclamo con riferimento alla sola ipotesi di opposizione all'esecuzione (art. 615, comma 2, c.p.c.), poi, a seguito della l. n. 52/2006, ha eliminato dal comma 1 dell'art. 624 c.p.c. tale specifico riferimento; è evidente che, se un significato è da attribuire a tale intervento normativo – che altrimenti rimarrebbe un inutile esercizio del potere legislativo privo di conseguenze pratiche e di significato giuridico e dogmatico – esso non può che coincidere con la volontà del legislatore di assoggettare entrambi i provvedimenti a reclamo; rimane, nella norma, indubbiamente in contraddizione con quanto appena detto, il riferimento al “giudice della esecuzione”, ma questo inciso deve ritenersi un reliquato, ascrivibile ad un mero difetto di coordinamento, e non consente di sovvertire il convincimento sopra esposto, atteso che, opinando diversamente, la seconda modifica introdotta appositamente all'art. 624 c.p.c. con la l. n. 52/2006 resterebbe, appunto, completamente priva di significato, se non fosse diretta ad estendere il reclamo anche ai provvedimenti presi dal giudice dell'opposizione a precetto» (così Trib. Castrovillari 4 novembre 2014). Ulteriori argomentazioni derivano dai provvedimenti giurisprudenziali di merito di cui sopra, che prospettano una lettura «atomistica» dell'art. 624, comma 2, c.p.c. come norma di sistema volta ad assoggettare al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. tutte le sospensioni del libro III del codice di procedura civile; infine, anche da un confronto sistematico tra gli effetti della sospensione della procedura esecutiva (soggetta a reclamo) e quelli della paralisi dell'efficacia esecutorietà del titolo possono trarsi elementi a favore della reclamabilità di quest'ultimo provvedimento (in tal senso, v. Trib. Bologna 6 maggio 1998: «dal momento che il metodo della compatibilità parziale permette di situare la forza applicativa delle disposizioni salienti del rito cautelare uniforme in tutti i procedimenti congegnati per l'identico fine di neutralizzare il pregiudizio ad un diritto soggettivo perpetrabile per effetto della durata del processo ordinario, ben può riconoscersi la reclamabilità del provvedimento emesso dal giudice monocratico dell'espropriazione adìto con opposizione di terzo sull'istanza di inibitoria, risultando incontroversa la paralisi interinale o il diniego di tutela provvisoria cui è esposta l'azione di merito dell'opponente, senza che, nel sistema del processo esecutivo, sia dato ravvisare alcun impianto di specialità idoneo ad elidere la forza espansiva, di lettura primaria, del rito uniforme, suscettibile di integrare in via suppletiva ogni spazio organizzativo sinora non previsto»). In quest'ordine di concetti, il Procuratore Generale presso la Corte Cassazione, preso atto delle contrastanti soluzioni adottate dalla giurisprudenza di merito in ordine al rimedio del reclamo avverso l'ordinanza che sospenda l'efficacia esecutiva del titolo (o che, specularmente, respinga detta istanza), e rilevato che, proprio dal rilevato contrasto, sorgeva l'interesse nomofilattico allo scopo di fornire un orientamento univoco, gravido di conseguenze pratiche per gli operatori, ha ritenuto che la questione fosse di particolare importanza, sollecitando la pronuncia da parte delle Sezioni Unite della Cassazione ai sensi dell'art. 363, comma 2, c.p.c. In particolare, si prende atto dell'impossibilità per le parti di avanzare ricorso per cassazioneex art. 111 Cost. avverso quest'ultimo provvedimento: infatti, costituisce ius receptum (v., tra le altre, Cass. VI, n. 12229/2018) che è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., avverso l'ordinanza resa in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., ancorché affetta da inesistenza, nullità o abnormità, senza che ciò si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., trattandosi di provvedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale ed ininfluente nel successivo giudizio di merito, o con l'art. 6 Cedu, essendo comunque garantita una duplice fase di tutela davanti a un'istanza nazionale» (cui adde Cass.S.U., n. 1245/2004, senza che rilevi, in contrario, il fatto che vi sia stata condanna alle spese del giudizio, disponendo la parte al riguardo del rimedio di cui all'art. 669-septiesc.p.c., e aggiungendo che la suddetta inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione deve essere affermata anche quando si deduca la «abnormità» del provvedimento medesimo, perché recante statuizioni eccedenti la funzione meramente cautelare). Con specifico riferimento all'ordinanza emessa a conclusione della fase di reclamo avverso il provvedimento ex art. 615, comma 1, c.p.c., si è chiarito (Cass. IV, n. 1176/2015) che va considerata inammissibile, sia nel regime dell'art. 624 c.p.c., come riformato dalla l. n. 52/2006, quanto in quello successivo di cui alla l. n. 69/2009, il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che abbia provveduto sulla sospensione dell'esecuzione, nell'àmbito di un'opposizione proposta ai sensi degli artt. 615,617 e 619 c.p.c., nonché avverso l'ordinanza emessa in sede di reclamo che abbia confermato o revocato la sospensione o l'abbia concessa, trattandosi, nel primo caso, di provvedimento soggetto a reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., e, in entrambi i casi, di provvedimenti non definitivi, in quanto suscettibili di ridiscussione nell'àmbito del giudizio di opposizione (in senso conforme, v., altresì, Cass. VI, n. 15624/2017; Cass. VI, n. 743/2016). Ecco, quindi, che il Procuratore Generale ha avanzato ricorso, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., chiedendo l'enunciazione, nell'interesse della legge, del seguente principio di diritto, al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi: «il provvedimento con il quale il giudice dell'opposizione all'esecuzione – proposta prima che questa sia iniziata, ex art. 615, comma 1, c.p.c. – decide sulla sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, è impugnabile con il rimedio del reclamo, ex art. 669-terdecies c.p.c., come previsto dall'art. 624, comma 2, c.p.c.». Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 19889/2019), accogliendo in toto i rilievi del P.G., hanno statuito, in conclusione, che il provvedimento con cui il giudice dell'opposizione all'esecuzione, proposta prima che questa sia iniziata ed ai sensi del comma 1 dell'art. 615 c.p.c., decide sull'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo è impugnabile con il rimedio del reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. al collegio del tribunale cui appartiene il giudice monocratico – o nel cui circondario ha sede il giudice di pace – che ha emesso il provvedimento. In estrema sintesi, il massimo organo di nomofilachia ha osservato che la lettera dell'art. 624 c.p.c. rimane un dato neutro, ma la sua estensione, con la l. n. 52/2006, ad ogni ipotesi di sospensione (benché tuttora riferita al giudice dell'esecuzione) può esprimere un principio generale di immediata controllabilità dei provvedimenti di alterazione della normale consecuzione delle fasi del processo esecutivo, tra cui considerare quella, ad esso prodromica ma immancabile, tra notificazione del precetto ed inizio del processo esecutivo in senso stretto. Inoltre, oggetto dell'opposizione pre-esecutiva è la contestazione del diritto del creditore di agire in executivis: pertanto, oggetto dell'azione non è il titolo esecutivo, il quale, se giudiziale, è intangibile in quanto tale, mentre, se stragiudiziale, si risolve in un atto di parte insuscettibile di impugnazione in senso tecnico e mai prima sottoposto ad un giudice. La sospensione anteriore al pignoramento mira ad anticipare l'effetto finale proprio dell'azione di cognizione cui accede quale misura interinale, cioè la declaratoria di inesistenza (anche per fatti sopravvenuti o anche solo parziale) di tale diritto di agire in executivis. Se deve essere finalizzata all'esito finale di una tale domanda, la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo ha natura cautelare sui generis, in quanto correlata al peculiare oggetto dell'opposizione pre-esecutiva; tale qualificazione esclude l'analogia con le inibitorie dei titoli esecutivi giudiziali (artt. 351,373,649 c.p.c.), sicché non è valido argomento, al fine di negare l'irreclamabilità, la non impugnabilità elaborata o affermata per queste ultime. Tale qualificazione comporta l'applicabilità anche in via immediata dell'art. 669-terdecies c.p.c., sebbene comunque ben possa argomentarsi per un principio generale posto dall'art. 624 c.p.c.; tale qualificazione esclude l'applicazione delle norme del processo cautelare uniforme in presenza di norme speciali, sicché, in pratica, essendo la sospensione anche pre-esecutiva compiutamente regolata in ogni altro aspetto da queste ultime – trattandosi di un vero e proprio microsistema o sottosistema di norme processuali, connotato da una sua spiccata specialità in funzione della sua strutturale finalizzazione al processo esecutivo – la sola ad applicarsi di quel rito uniforme è proprio quella in tema di reclamabilità (art. 669-terdecies c.p.c.). La funzionalizzazione della sospensione pre-esecutiva all'oggetto dell'opposizione consente di interpretare la prima nel senso sostanziale di inibitoria dell'esecuzione come specificamente minacciata con quel precetto, così garantendo piena tutela cautelare prima dell'inizio dell'esecuzione; in tal modo, la sospensione pre-esecutiva concorre e coesiste con quella dell'esecuzione una volta che questa sia iniziata, ma restando i relativi analoghi poteri, purché le causae petendi delle due azioni siano identiche, mutuamente esclusivi in forza delle regole sulla litispendenza: così, fino all'inizio dell'esecuzione il potere di sospensione spetta al giudice dell'opposizione pre-esecutiva e, dopo, al giudice dell'esecuzione, il quale pure deve dare atto, ai sensi dell'art. 623 c.p.c., dell'eventuale sospensione esterna disposta dall'altro. Successivamente all'intervento del massimo organo di nomofilachia, sul versante della competenza, si è precisato (Trib. Savona 27 settembre 2019) che il provvedimento, con il quale il giudice dell'opposizione all'esecuzione, proposta prima che questa sia iniziata ed ai sensi dell'art. 615, comma 1, c.p.c., decide sull'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, è impugnabile con il rimedio del reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., davanti al collegio del tribunale cui appartiene il giudice monocratico – o nel cui circondario ha sede il giudice di pace – che ha emesso il provvedimento. I provvedimenti cautelari contemplati nel codice civile o previsti nelle leggi speciali. Venendo, infine, ai provvedimenti contemplati nel codice civile o previsti nelle leggi speciali, l'ammissibilità del reclamo dipende, in buona sostanza, dalla risposta affermativa che si dà alla questione relativa all'applicabilità sul punto della nuova disciplina sui procedimenti cautelari in generale(v., ad esempio, i provvedimenti adottati nell'interesse dei figli, così come novellati dalla c.d. riforma Cartabia: in proposito, Trib. Livorno 14 novembre 2023, ha esaminato la questione della reclamabilità, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., dei provvedimenti indifferibili di cui all'art. 473-bis.15 c.p.c., ritenendo che molteplici argomenti di ordine letterale, logico e sistematico debbano far propendere per la non applicabilità del rito cautelare uniforme e, conseguentemente, per la non reclamabilità dei suddetti provvedimenti). Si rammenta soltanto che, talvolta, è lo stesso legislatore, per superare le perplessità sorte, a sancire la reclamabilità di alcuni provvedimenti: si pensi, tra tutti, i provvedimenti adottati nel procedimento di separazione tra coniugi (v. art. 669-quaterdecies c.p.c., al cui commento si rinvia, segnatamente par. 3.7). Resta inteso, per esempio, che è inammissibile la doglianza svolta dal reclamante circa il mancato accoglimento dell'istanza di anticipazione dell'udienza fissata per la precisazione delle conclusioni, atteso che tale provvedimento, meramente ordinatorio, non di natura cautelare, è di esclusiva competenza del giudice di merito e, come tale, non è sottoponibile al sindacato del collegio ex art. 669-terdecies c.p.c. (Trib. Messina 19 marzo 2008); parimenti, è inammissibile il reclamo avverso le ordinanze del giudice di pace, non ostando rilievi di compatibilità costituzionale, perché la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non ha copertura costituzionale generalizzata (Trib. Modena 19 marzo 2008: nel caso di specie, era stato proposto al tribunale reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza con cui il giudice di pace aveva rigettato l'istanza ex art. 205 del codice della strada di sospensione inaudita altera parte della sanzione di sospensione della patente di guida). La natura del reclamo.L'ampiezza del riesame. Individuati – sia pure per rapidi flashes – i provvedimenti oggetto di gravame, la problematica si sposta nel delineare compiutamente la struttura del reclamo, l'estensione del sindacato e l'àmbito del riesame assegnato al giudice, tematiche in ordine alle quali la giurisprudenza di merito ha offerto soluzioni discordanti. Secondo alcune pronunce, la funzione del giudizio di reclamo è quella di mero controllo dell'esercizio della tutela cautelare attuata nella fase di prima istanza, sicché è esclusa l'ammissibilità nel secondo grado di alcuna attività istruttoria; attesa la sua natura di revisio prioris instantiae, il reclamo cautelare non può fondarsi né su nuove circostanze di fatto preesistenti ma non dedotte, né su nuove prove relative a circostanze già dedotte (in tal senso, v. Trib. Marsala 18 novembre 2004, ad avviso del quale, in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza di accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., non può essere contestata per la prima volta la mancata prova delle circostanze configuranti il requisito del periculum in mora, attesa la natura di revisio prioris instantiae di tale mezzo di gravame, limitato, salvo fatti sopravvenuti, alla cognizione delle domande ed eccezioni già proposte in primo grado; Trib. Lecce 13 settembre 2000, secondo cui, in sede di reclamo cautelare, non è ammessa la deduzione di nuovi elementi di fatto che non siano sopravvenuti al provvedimento reclamato; Trib. Roma 23 settembre 1997, aggiungendo che il reclamo non è la sede idonea al rilievo di eccezioni non formulate nel giudizio principale; ad avviso di Trib. Firenze 11 marzo 1997, deve ritenersi preclusa la deduzione di fatti nuovi o diversi in sede di reclamo avverso l'ordinanza di rigetto, dovendosi in tal caso ricorrere alla riproposizione dell'istanza ex art. 669-septies c.p.c.; secondo Trib. Napoli 30 aprile 1996, in sede di reclamo, avverso il provvedimento di rigetto di un'istanza cautelare, non possono essere dedotti fatti nuovi, poiché il reclamo opera su un piano diverso da quello della riproposizione dell'istanza cautelare, non sovrapponibile, dovendo riguardare situazioni cristallizzate, oggetto di giudizio da parte del primo giudice; per Trib. Milano 25 marzo 1996, posta la natura di revisio prioris instantiae del reclamo cautelare, è inibita al reclamante la prospettazione di fatti diversi da quelli già dedotti nel giudizio cautelare di prime cure e la conseguente articolazione di nuove conclusioni). Inquadrato il reclamo come mero mezzo di impugnazione di natura rescindente, con un controllo limitato agli errores in iudicando – nell'interpretazione delle norme, nella verifica del fumus boni iuris e del periculum in mora, nella valutazione degli elementi probatori tesi all'accertamento dei presupposti della cautela, ecc. – o in procedendo – competenza, nullità del provvedimento, contraddittorio, e quant'altro – compiuti dal giudice di primo grado, il giudice del riesame, ove ritenga fondate le censure denunciate, non può sostituirsi al giudice della fase cautelare nella concessione del provvedimento sulla base di altre ragioni dallo stesso non esaminate a causa dell'erroneo convincimento della fondatezza di quelle già valutate (in quest'ordine di concetti, l'allegazione di fatti sopravvenuti, o preesistenti ma non allegati, o di nuove prove, può essere oggetto della diversa ipotesi della modifica-revoca). In tale prospettiva, la struttura rigidamente impugnatoria del rimedio e la stessa nozione di controllo del provvedimento – che, appunto, implica una verifica degli eventuali errores in procedendo o in iudicando, nei quali sia incorso il giudice che ha concesso la cautela e non una verifica della giustizia del provvedimento sulla scorta di fatti o di prove sopravvenute – ha indotto a ritenere che il gravame debba avere ad oggetto solo il riesame delle condizioni di legittimità e di opportunità della concessa misura cautelare (v., tra le altre, Trib. Termini Imerese 12 febbraio 2001, secondo cui il reclamo cautelare si struttura come un rimedio diretto a censurare gli eventuali errores in procedendo ed errores in iudicando commessi dal giudice che ha emanato l'ordinanza reclamata: pertanto, il reclamante non ha la possibilità di devolvere al giudice del reclamo la cognizione di tutte le questioni che hanno costituito oggetto della precedente fase cautelare, domandando un riesame del merito di tali questioni; non può dedurre circostanze preesistenti ma non allegate in precedenza; non può indicare nuovi mezzi di prova a sostegno delle proprie ragioni; e il reclamante ha l'onere di indicare dettagliatamente i motivi di reclamo, specificando quali siano gli errori da cui sarebbe inficiato il provvedimento impugnato, pena la declaratoria di inammissibilità del reclamo qualora l'impugnazione sia diretta ad ottenere un mero riesame dei fatti allegati e degli elementi di prova allegati a sostegno del ricorso; secondo Trib. Verbania 8 aprile 1999, in materia di procedimento cautelare, la parte rimasta soccombente avanti il primo giudice non può, in sede di reclamo, produrre documentazione o allegare prospettazioni nuove, stante che il giudice del reclamo è strettamente vincolato al riesame della congruità del provvedimento impugnato sulla base degli elementi acquisiti nella prima fase del procedimento; Trib. Roma 11 ottobre 1997, precisando, però, che possono essere oggetto di censura anche i vizi attinenti esclusivamente a ragioni di competenza e ad altre ragioni di rito; v., tra le prime, Trib. Ancona 17 novembre 1993; e Trib. Napoli 25 marzo 1993, secondo cui qualora il giudice del reclamo ritenga fondate le censure denunciate, non può sostituirsi al giudice della fase cautelare nella concessione del provvedimento sulla base di altre ragioni dallo stesso non esaminate a causa dell'erroneo convincimento della fondatezza di quelle già valutate). A fronte di tale opzione ermeneutica, si contrappone un altro orientamento (maggioritario), che configura il reclamo come un nuovo e diverso giudizio cautelare, ossia un mezzo di riesame di natura devolutivo-sostitutiva, volto a far conseguire alle parti l'opportunità di un controllo a 360 gradi, ampio e completo, dando ingresso in tal modo anche ai motivi sopravvenuti, ricomprendendosi in essi anche quei «mutamenti nelle circostanze» che giustificano l'istanza tesa al (concorrente) rimedio della revoca di cui all'art. 669-decies c.p.c. (Aliotta, 195; De Cristofaro 1994, 215; Rizzuto, 216). L'indagine del giudice in sede di reclamo contro un provvedimento cautelare non è, quindi, limitata al mero controllo degli errores in iudicando e in procedendo del primo giudice, potendosi, invece, prendere in considerazione fatti, anche sopravvenuti, comunque emersi nel corso del procedimento, che possano incidere sulla valutazione dell'utilità ed attualità del provvedimento richiesto; in tal senso, assume decisivo rilievo l'ultimo comma dell'art. 669-terdecies c.p.c., laddove – sia pure ai fini dell'inibitoria e al danno causato dal provvedimento cautelare – si fa riferimento ai «motivi sopravvenuti», essendo evidente la non plausibilità della diversa opinione che porterebbe a concludere che i motivi che possono giustificare la sospensione dell'esecuzione non possano, poi, essere conosciuti in sede di decisione del reclamo (Trib. Roma 15 marzo 1996; cui adde, dello stesso ufficio giudiziario capitolino, Trib. Roma 9 giugno 1995, ad avviso del quale deve ritenersi ammissibile in sede di reclamo l'esame di motivi sopravvenuti, come tali non indicati nella prima fase, in applicazione dei principi di economia processuale e di flessibilità della misura cautelare, conseguendone che, in caso di accoglimento di reclamo avverso un provvedimento di rigetto, il tribunale non deve limitarsi a revocare l'ordinanza pretorile ma deve emettere il provvedimento positivo inizialmente richiesto). D'altronde, i poteri del giudice del reclamo sono, in realtà, gli stessi del giudice di prime cure (entrambi, quindi, giudici cautelari), stante che si consente – oltre la «revoca», nel senso di riforma, anche – la «modifica» della cautela (pur se minima) e la «conferma», pur sul presupposto di una diversa motivazione; peraltro, non parlando di «rigetto» del reclamo, si reitera così la decisione cautelare ancorché in senso conforme (in tal senso, anche una decisione del giudice contabile: secondo C. conti Puglia 10 marzo 1999, il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. è mezzo di impugnazione a struttura devolutiva-sostitutiva, ancorché limitata, piuttosto che a struttura meramente rescindente, sicché l'accertamento della mancata delibazione delle deduzioni difensive, da parte del giudice designato della conferma, modifica o revoca del decreto presidenziale sul sequestro conservativo, conduce non all'annullamento dell'ordinanza reclamata ma, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., ad una nuova decisione sulla domanda cautelare; cui adde due, quasi coeve, pronunce calabresi: Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, ad avviso del quale l'art. 669-terdecies c.p.c., nel prevedere che il collegio, nel provvedere sul reclamo, pronuncia «ordinanza non impugnabile con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare», chiaramente configura il mezzo di impugnazione come un gravame pienamente devolutivo, che attribuisce al giudice superiore il riesame del merito cautelare in funzione di rinnovazione di giudizio, con la stessa ampiezza di poteri che spettano al giudice della prima fase; e Trib. Catanzaro 25 marzo 1997, secondo cui il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. ha natura di mezzo di gravame con effetto devolutivo al giudice superiore di tutte le questioni di fatto o di diritto prospettate nella fase del rilascio della misura cautelare, e il provvedimento reso dal giudice del reclamo, pertanto, ha carattere sostitutivo ed implica il riesame della domanda cautelare nel suo complesso e non del solo provvedimento reso dal giudice di prime cure; v., in sede di prima applicazione, Trib. Milano 9 dicembre 1993, per il quale l'art. 669-terdecies c.p.c. non prevede alcun limite al riesame da parte del collegio di tutte le ragioni già prospettate dalle parti e non esaminate dal pretore del provvedimento cautelare reclamato; e ancora Trib. Torino 11 maggio 1993, aggiungendo che la realizzazione del contraddittorio, comunque attuata, con il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del destinatario della misura cautelare, è idonea a fungere da sanatoria degli eventuali vizi che siano intervenuti nella fase precedente, in quanto il giudice del reclamo ha sulla controversia i medesimi poteri attribuiti al primo giudice e può esercitarli con la più ampia conoscenza delle difese esposte per iscritto ed oralmente in ordine a tutti gli aspetti rilevanti). Anche i giudici della Consulta (Corte cost., n. 65/1998) hanno accolto tale opzione ermeneutica: il giudizio che si instaura a seguito del reclamo è, infatti, destinato a svolgersi sull'intero thema decidendum oggetto del procedimento cautelare, del quale il momento del reclamo costituisce la prosecuzione; l'integrale devoluzione della controversia al giudice del reclamo, titolare dei medesimi poteri conferiti al primo giudice, implica che il provvedimento da esso adottato venga a sostituire in toto quello reclamato, e comporta, inoltre, che il giudice del reclamo non sia limitato nella propria cognizione e nella dotazione degli strumenti decisori dai motivi dedotti dalle parti reclamanti, con la conseguenza che sarebbe inconfigurabile un giudizio di reclamo circoscritto ad un solo punto della decisione secondo l'ottica propria del giudizio di impugnazione; dunque, contrasterebbe con la logica stessa dell'istituto un intervento additivo che lo piegasse alle caratteristiche del doppio grado distogliendolo da quelle, sue tipiche, che lo connotano come sviluppo ulteriore, sia pure in una sede diversa, dell'unico procedimento cautelare. In quest'ordine di concetti, oltre i fatti e le censure già dedotti in prime cure – che vanno dall'astratta ammissibilità della cautela alla sua estensione in concreto – non risulta interdetta neanche l'introduzione di fatti preesistenti non allegati nella precedente fase, né di nuove prove, sicché la sfera delle lamentele prospettabili abbraccia un'ampia gamma di ipotesi. Peraltro, è contemplata la possibilità di ricorrere allo stesso giudice del reclamo per invocare la sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato qualora «motivi sopravvenuti» siano suscettibili di cagionare gravi danni, e ciò, anche se ai fini dell'inibitoria presidenziale, influisce nel delineare l'oggetto del riesame. Un conforto alla tesi da ultimo enunciata, a favore del reclamo quale rimedio ampiamente devolutivo e con efficacia sostitutiva – riesame ex novo della domanda cautelare e non solo del provvedimento impugnato, nell'ottica del doppio grado di giudizio, non operando le preclusioni del processo ordinario – si evince dall'attuale disposto del comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c., così come inserito dalla l. n. 80/2005, che – anche al fine di evitare sovrapposizioni di tutele, ma imponendo una lettura restrittiva dell'art. 669-septies c.p.c., peraltro già accolta in parte dalla giurisprudenza di merito – ammette la valutazione, in sede di gravame, delle circostanze e dei motivi sopravvenuti al momento dell'emanazione del provvedimento reclamato, purché giustificati da sopravvenienze in fatto o circostanze non dedotte precedentemente per causa non imputabile, nonché la possibilità di assumere sommarie informazioni ed acquisire nuovi documenti (Trib. Reggio Emilia 11 febbraio 2019, ad avviso del quale, nel nuovo procedimento cautelare, il ricorrente può colmare avanti al collegio le lacune probatorie occorse in fase monocratica, vista la natura completamente devolutiva del reclamo cautelare ed alla luce del dettato dell'art. 669-terdecies, comma 4, seconda proposizione, c.p.c., che ammette in modo esplicito la possibilità di produzione di documenti nuovi ed ulteriori utilizzabili a fini della decisione; Trib. Reggio Calabria 23 maggio 2007, secondo cui, a seguito della novella del rito cautelare uniforme di cui alla l. n. 80/2005, che ha introdotto il principio per cui anche le circostanze sopravvenute trovano ingresso nel procedimento di reclamo, deve ritenersi, a maggior ragione, ammissibile la deduzione, davanti al giudice di prime cure, con note depositate prima dell'udienza di comparizione, di motivi sopravvenuti al deposito del ricorsi). Al contempo, si è, però, precisato (Trib. Palermo 22 marzo 2019) che è vero che gli elementi fattuali (circostanze e motivi) e probatori (informazioni e documenti nuovi) suscettibili di essere posti a fondamento del reclamo possono ben essere ampliati rispetto a quelli conosciuti dal giudice a quo, sì da connotarsi, la fase di reclamo, come una vera e propria prosecuzione della fase di emissione del provvedimento cautelare, che si arricchisce di un nuovo momento decisorio caratterizzato dall'alterità soggettiva del giudice, ma tale specifica caratterizzazione non può spingersi sino a tollerare che, senza che si alleghino accadimenti o motivi sopravvenuti, le circostanze originarie di una vicenda siano modificate liberamente dalla parte reclamante, la quale, innanzi al giudice a quo, propone un fatto in un certo modo e, poi, innanzi al collegio, lo prefigura in un altro (in quest'ottica, esaminando una peculiare fattispecie, giustamente Trib. Milano 15 ottobre 2018 ha ritenuto che, in sede di procedimento di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., il giudice non possa prendere in considerazione la questione della nullità del brevetto della cui contraffazione si discute, qualora la parte interessata abbia espressamente escluso dall'oggetto del procedimento cautelare la questione della validità dello stesso brevetto, e non potendo neppure tale conclusione essere messa in discussione da una successiva richiesta di esaminare la questione sulla base di una sentenza straniera che abbia dichiarato la nullità della porzione nazionale del brevetto, sentenza della quale è noto solo il dispositivo e senza che la parte interessata abbia specificato le ragioni della nullità, ragioni che non possono essere indagate d'ufficio dal giudice). L'intento del legislatore, laddove subordina l'istanza di modifica-revoca del provvedimento cautelare all'esaurimento della fase di reclamo oppure all'espletamento dello stesso o alla scadenza dei relativi termini – v., rispettivamente, i primi due commi del novellato art. 669-decies c.p.c., al cui commento si rinvia – è, in buona sostanza, quello di dare prevalenza al reclamo rispetto alla modifica-revoca, optando sempre per la sede impugnatoria; del resto, l'intransigenza del verbo adoperato («debbono») induce a configurare un effetto preclusivo a far valere, con una successiva istanza di revoca o di modifica, le sopravvenienze maturate quando ancora pendeva il giudizio di reclamo (esigenze di simmetria nei poteri delle parti inducono, inoltre, ad accordare all'eventuale reclamante incidentale un identico ius poenitendi, permettendo, quindi, anche a lui l'allegazione di circostanze e motivi sopravvenuti). In quest'ottica, si è posta la giurisprudenza successiva alla novella del 2005: invero, l'art. 669-terdecies c.p.c., nel prevedere che il collegio, il quale provvede sul reclamo, modifica, conferma o revoca il provvedimento cautelare, configura il mezzo di impugnazione come un gravame pienamente devolutivo, capace di attribuire al giudice di secondo grado la stessa ampiezza di poteri di quello che ha emesso la decisione contestata, sicché lo strumento in questione non investe semplicemente lo stesso collegio della valutazione di singoli motivi di doglianza, bensì di tutti i presupposti di concedibilità del provvedimento richiesto, a prescindere dalle contestazioni sollevate, affinché si rivalutino in termini complessivi gli estremi di concessione della cautela invocata (Trib. Nola 7 maggio 2008; Trib. Trani 11 aprile 2008, aggiungendo, però, che, così come l'oggetto del reclamo cautelare non può essere ristretto per l'operare di un effetto devolutivo limitato, allo stesso modo non è neppure possibile applicare a tale istituto processuale le regole del giudicato parziale in tema di acquiescenza e di presunzione di rinuncia a domande ed eccezioni non riproposte in appello). In altri termini, l'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., così come modificato dalla l. n. 80/2005, ha configurato il reclamo cautelare in termini di rimedio totalmente devolutivo, teso al riesame complessivo della statuizione di prime cure sulla base della mera riproposizione dei temi di fatto e di diritto, senza altre formalità che non siano quelle strettamente necessarie al rispetto del principio del contraddittorio; ne deriva che, da un lato, è superato il divieto dello ius novorum con riferimento alle circostanze ed ai motivi integranti la causa petendi dell'originaria domanda cautelare e, dall'altro, è possibile prospettare non soltanto i fatti già dedotti dinanzi al giudice monocratico di prime cure, ma anche quelli sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo (Trib. Benevento 21 dicembre 2007; conforme, Trib. Locri 9 novembre 2006, ribadendo che le modifiche apportate dalla l. n. 80/2005 al procedimento cautelare, ed in particolare agli artt. 669-decies, comma 2, e 669-terdecies, comma 4, c.p.c., valgono a configurare il reclamo quale rimedio avente carattere interamente devolutivo e sostitutivo; ad avviso di Trib. Torino 8 novembre 2006, il procedimento di reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. ha natura impugnatoria ed effetto devolutivo, mentre il provvedimento finale ha effetto sostitutivo, cosicché il giudice del reclamo può, in dispositivo, confermare la decisione impugnata e, in motivazione, enunciare, a sostegno di tale statuizione, ragioni ed argomentazioni diverse da quelle addotte dal giudice di prima istanza, analogamente a quanto avviene nel giudizio di appello; rimane, invece, ancorato alla tradizionale impostazione Trib. Pescara 18 ottobre 2017, a parere del quale, in sede di reclamo, possono essere utilmente riproposti soltanto i motivi di opposizione regolarmente introdotti nella prima fase cautelare e vagliati con l'ordinanza reclamata). Il divieto di rimessione al primo giudice. Già prima della riforma, si era prevalentemente dell'opinione che, nel caso di reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., l'integrazione del contraddittorio non comportasse la necessità di rimettere il procedimento al giudice di prime cure, visto che il reclamo non costituiva un autonomo grado del giudizio cautelare – sì da far ritenere che la mancata rimessione al giudice di prima istanza comportasse la privazione di un grado di giudizio per i soggetti nei cui confronti era stato integrato il contraddittorio – ma una fase del medesimo procedimento, che avendo natura devolutiva-sostitutiva, era idonea a consentire il pieno esercizio dei diritti di difesa ai soggetti inizialmente pretermessi (Trib. Arezzo 19 ottobre 2006). Sempre sul presupposto che, in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., non trovasse applicazione l'art. 354 c.p.c., si era affermato che il giudice del reclamo, ove rilevasse la nullità della notificazione del ricorso introduttivo, non poteva disporre la rimessione del procedimento al primo giudice, ma doveva limitarsi a dichiarare la nullità della notifica e di tutti i successivi atti del procedimento cautelare (Trib. Belluno 22 ottobre 2002: nella specie, trattavasi di nullità per decorso del termine da questi stabilito per la notifica del ricorso stesso in quanto eseguita presso l'avvocatura distrettuale dello Stato, anziché presso la sede legale dell'ente convenuto; Trib. Roma 7 luglio 2000: nella specie, la nullità del provvedimento cautelare di accoglimento emesso in prima istanza era stata ravvisata per la notifica del ricorso direttamente alla Pubblica Amministrazione, rimasta contumace, anziché all'avvocatura dello Stato). Inoltre, in ipotesi di rilevata nullità del provvedimento cautelare per difetto o omissione di motivazione, il giudice del reclamo non poteva limitarsi a dichiarare la nullità, ma doveva pronunciare nel merito, emettendo un provvedimento che, anche in caso di conferma, sostituiva il provvedimento impugnato, essendo ben possibile, quindi, che, ad eventuali difetti o carenze di motivazione di questo provvedimento, supplisse quello di secondo grado (Trib. Roma 11 gennaio 1997). E ancora, si era ritenuta non sanabile in sede di reclamo l'originaria nullità dell'istanza cautelare ante causam per mancata indicazione della causa di merito, poiché non era consentito al giudice del reclamo, una volta ravvisata detta nullità, rimettere le parti innanzi al giudice di prima istanza, in applicazione analogica dell'art. 354 c.p.c. (Trib. Modena 16 giugno 1999). Su quest'ultimo aspetto, in posizione più articolata, si era posto chi (Trib. Napoli 30 aprile 1997) opinava che, alla mancata indicazione della domanda di merito, seguiva la nullità del ricorso, che non era sanabile attraverso l'applicazione analogica dell'art. 164 c.p.c., in quanto tale norma, dettata per l'ordinario processo di cognizione, non era compatibile con la rapidità e la semplicità che caratterizzavano il processo cautelare; pertanto, ove si accertassero vizi di nullità del ricorso introduttivo innanzi al primo giudice – quale, appunto, la mancata indicazione dell'azione di merito – il giudice del reclamo doveva limitarsi a dichiarare la sussistenza del vizio, senza possibilità né di rimettere la causa al primo giudice, né di deciderla nel merito, né di disporre la rinnovazione o l'integrazione del ricorso introduttivo del procedimento cautelare: infatti, in tal modo, lo stesso giudice avrebbe finito per arrogarsi poteri che non gli competevano privando, di conseguenza, le parti di un grado di giurisdizione; d'altronde, il reclamo costituiva un mezzo di controllo sul provvedimento cautelare adottato dal primo giudice latamente impugnatorio, la cui disciplina processuale risultava integrabile con le norme predisposte dal legislatore per gli ordinari mezzi di impugnazione, almeno in via analogica ed in quanto compatibili. Non sono mancate, tuttavia, voci discordi, ossia favorevoli alla regressione della fase cautelare in prime cure (v., tra le altre, App. Catanzaro 11 dicembre 1999, ad avviso della quale va dichiarata la nullità dell'ordinanza cautelare pronunciata in violazione del contraddittorio nella controversia relativa a diniego di trasferimento di impiegato pubblico e disposta la rimessione della causa al giudice di primo grado; Trib. Nocera Inferiore 18 novembre 1999, secondo il quale doveva essere rimessa al primo giudice la causa qualora, in sede di reclamo cautelare, nella controversia relativa alla legittimità di concorso interno nell'impiego pubblico, venisse affermata la giurisdizione del giudice ordinario negata in primo grado; su quest'ultimo punto, però, Trib. Roma 13 maggio 1999 era dell'opinione per cui l'affermazione della giurisdizione ordinaria negata dal primo giudice non comportava, in sede cautelare, l'applicazione dell'art. 353 c.p.c., che per l'ordinario giudizio di merito disponeva la rimessione della causa in primo grado). Poiché il principio del doppio grado di merito era applicabile anche nell'àmbito della procedura cautelare, il giudice del reclamo, che riformava la pronuncia di incompetenza di primo grado, doveva limitarsi a pronunciare la revoca dell'ordinanza impugnata e, poi, rimettere la causa all'organo della prima fase (Trib. Bologna 30 luglio 1998). In una fattispecie anomala, si era statuito che fosse consentito il reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il decreto d'urgenza reso inaudita altera parte che ometteva di fissare l'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c., impedendo così l'instaurazione del contraddittorio con la successiva conferma, modifica o revoca della misura accordata, ma, in accoglimento del reclamo, doveva essere dichiarata la nullità del decreto e, in applicazione analogica dell'art. 354 c.p.c., le parti dovevano essere rimesse davanti al giudice di prima istanza per la trattazione e statuizione sull'istanza cautelare (Trib. Trani 2 marzo 1999). Attualmente, alla luce dell'art. 669-terdecies, comma 4, ultima parte, c.p.c., novellato dalla l. n. 80/2005, si preclude espressamente la rimessione al primo giudice cautelare – privilegiando le ragioni di economia processuale, anche se così si potrebbe privare la parte di un grado di giudizio – e, pertanto, si attribuisce implicitamente al giudice del reclamo il potere-dovere di decidere nel merito, alla luce della generale interpretazione volta a ritenere insuscettibili di interpretazione analogica gli artt. 353 e 354 c.p.c. In altri termini, le garanzie fondamentali di rango costituzionale relative all'uguaglianza, al diritto di difesa ed al contraddittorio vengono pienamente tutelate nel procedimento di reclamo, nel quale i contendenti esercitano ampiamente sia gli stessi poteri del precedente grado, sia – come abbiamo visto – la deduzione a tutto tondo di motivi in diritto diversi o ulteriori nonché di circostanze sopravvenute perché oggettivamente nuove o perché semplicemente non dedotte in precedenza: stando così le cose, all'esito del reclamo, il giudice dell'impugnazione non può restituire il procedimento al giudice di prime cure, ma deve pronunciarsi in via definitiva sulla tutela cautelare (sul versante dottrinale, Cartuso, 932). Si conferma, vieppiù, la configurazione del reclamo tra i mezzi impugnatori di tipo devolutivo-sostitutivo – la controversia è integralmente devoluta al giudice del gravame e decisa da quest'ultimo con una pronuncia di portata sostitutiva della prima – e non come reclamo meramente rescindente (deputato al controllo degli errores della fase precedente); in quest'ottica, il reclamo si presenta come rimedio funzionalmente teso alla sostituzione ex nunc dell'ordinanza impugnata con altra ordinanza espressione dei medesimi poteri cautelari manifestati dal primo giudice, e perciò, a sua volta, dotata di un identico grado di «stabilità limitata», essendo nondimeno destinata a perdere efficacia nelle ipotesi previste dagli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c. Stando così le cose, qualora si registrino casi di nullità processuali, dovrebbe essere precluso al giudice del reclamo di chiudere il giudizio davanti a lui, o meglio, se trattasi di nullità sanabili, previa rinnovazione delle relative attività ai sensi dell'art. 162 c.p.c., il giudice del reclamo dovrà pur sempre decidere il gravame nel merito, limitando la pronuncia in rito alle sole ipotesi di vizi insanabili o non più sanabili (qui, si impone una pronuncia di carattere meramente rescindente, stante la presenza di vizi del procedimento così gravi che precludono al giudice del reclamo di confermare-modificare-revocare l'ordinanza di prime cure ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c.). Rimane fermo, tuttavia, anche nel giudizio di gravame, il principio della domanda, per cui il reclamo investe il giudice del riesame nei limiti nei quali viene chiesto il controllo, precludendogli di concedere provvedimenti cautelari più ampi di quelli richiesti nel procedimento di primo grado (v., però, Trib. Perugia 16 aprile 1999, secondo il quale la valorizzazione, in sede di reclamo, degli argomenti non sollevati nella fase monocratica non costituisce domanda nuova, anche in considerazione del fatto che il reclamo deve considerarsi alla stregua di un completo riesame delle condizioni legittimanti la misura cautelare). Ecco, quindi, l'importanza nella specificazione dei motivi del reclamo – sia pure illimitati ed anche senza le formalità di cui all'art. 342 c.p.c. – con conseguente inammissibilità dello stesso, secondo una pronuncia di merito (Trib. Padova 13 febbraio 1996), qualora il ricorrente si limiti a riportarsi a tutte le eccezioni e considerazioni svolte davanti al giudice di prime cure (ad avviso di Trib. Napoli 8 gennaio 1996, mercé la previsione del reclamo, risulta introdotta una sorta di doppio grado anche nel processo cautelare, sicché i motivi deducibili si appalesano illimitati in fatto ed in diritto, né risultano esclusi motivi sopravvenuti all'emanazione del provvedimento medesimo, aggiungendo che la struttura e la funzione del reclamo impongono di ritenere che il momento procedimentale resti disciplinato in maniera parallela al giudizio di impugnazione). Del pari, l'effetto devolutivo delle varie questioni assorbite nella decisione di primo grado va pur sempre condizionato all'onere di riproposizione nel procedimento di gravame, a pena di rinuncia ex art. 346 c.p.c. (v. anche il successivo par. 5.1.). Peculiarità rivestono i procedimenti possessori nel caso in cui il giudice, adìto a difesa del possesso, anziché concedere o negare la misura interdittale e disporre la prosecuzione del giudizio davanti a sé per il c.d. merito possessorio – alla luce di uno degli orientamenti emersi nell'interpretazione dell'art. 669-bis c.p.c. (al cui commento si rinvia), che ora devono fare i conti con le modifiche apportate dalla l. n. 80/2005 – si pronuncia sulla domanda di reintegra nel possesso, provvedendo sulle spese del procedimento e non fissando altra udienza: i giudici di legittimità, in proposito, sono propensi nel ritenere che il relativo provvedimento abbia natura sostanziale di sentenza e sia impugnabile esclusivamente con l'appello e non con il reclamo, ma la proposizione di tale rimedio non esclude che l'atto, in ragione del suo carattere impugnatorio, possa convertirsi in atto di appello, in ossequio al principio della conservazione dei mezzi di impugnazione. Nello specifico, poiché la natura di un provvedimento giudiziale, anche ai fini della sua impugnabilità, deve essere desunta – non dalla forma in cui è stato emanato né dalla qualificazione che gli è stata attribuita dal giudice che lo ha emesso, ma – dal suo effettivo contenuto in relazione alle particolari disposizioni che regolano la materia che ne forma oggetto, qualora il giudice adìto con ricorso ex art. 703 c.p.c. concluda il procedimento possessorio con ordinanza, provvedendo al regolamento delle spese processuali e senza fissare l'udienza di prosecuzione per il merito, il provvedimento adottato ha natura sostanziale di sentenza, ed è impugnabile con l'appello e non con reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies del codice di rito; reclamo il quale, se inammissibilmente proposto, non preclude il tempestivo esperimento dell'altro consentito mezzo di impugnazione avverso lo stesso provvedimento, atteso che la duplice impugnazione non sfocia in tal caso in una doppia, e come tale non consentita (per il principio del ne bis in idem), pronuncia sul merito, bensì in una di natura processuale ed in altra (sull'impugnazione ammessa) di merito (Cass. II, n. 6190/2001). Inoltre – sempre a titolo di accenno dell'estrema peculiare tematica relativa al procedimento possessorio – qualora il giudice abbia accolto l'istanza a tutela del possesso senza rimettere le parti dinanzi a sé per la trattazione della causa di merito, il provvedimento non è reclamabile, ma ha natura di sentenza impugnabile con l'appello; tuttavia, qualora il tribunale, invece di dichiarare inammissibile il reclamo proposto, lo esamini nel merito, il provvedimento, avente natura di sentenza, è ricorribile per cassazione; in tal caso, se il provvedimento impugnato è firmato dal solo presidente del tribunale, non indicato come relatore, la Cassazione dovrebbe dichiararne la nullità e rinviare il processo al tribunale – ora alla corte d'appello, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 51/1998 – per la pronuncia sull'appello, se il reclamo sia convertibile in tale mezzo di gravame, mentre, in mancanza dei requisiti per la conversione, deve dichiarare inammissibile il rimedio esperito e cassare senza rinvio la decisione impugnata; se, invece, il provvedimento impugnato è firmato dal presidente e dal giudice incaricato di redigere la motivazione, la stessa Cassazione dovrebbe limitarsi a valutare se sussistono le condizioni per la conversione del reclamo in appello e, mentre è tenuta a decidere il ricorso qualora l'indagine dia risultati positivi, in caso contrario deve dichiarare inammissibile il reclamo e cassare senza rinvio la decisione impugnata (Cass. II, n. 5898/2001). Il giudice competente.Il comma 2 dell'art. 669-terdecies c.p.c. si preoccupa di individuare il giudice competente a decidere sul reclamo, imponendo la regola della necessaria devoluzione del secondo grado cautelare ad un organo unicamente collegiale; d'altronde, anche prima dell'entrata in vigore del giudice unico ex d.lgs. n. 51/1998, sui provvedimenti del pretore decideva il tribunale in veste collegiale (v., per tutte, Cass. I, n. 2937/2008, secondo la quale il reclamo contro i provvedimenti resi dal giudice tutelare – nella specie, trattavasi della rimozione dalla carica di tutore – doveva essere proposto al tribunale in composizione collegiale e non alla corte d'appello, in conformità alla regola generale sul reclamo dei provvedimenti cautelari di cui all'art. 669-terdecies c.p.c.). Trattasi indubbiamente di una rilevante garanzia ai contendenti, in quanto si offre loro la possibilità di rivedere, prima dell'eventuale giudizio di merito, l'adozione e la portata delle misure cautelari (talvolta gravose per chi le subisce) da parte di un giudice «terzo» – diverso e tendenzialmente sovraordinato – mentre i rimedi della modifica-revoca sono pur sempre invocabili allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento cautelare (tali esigenze sono state avvertite anche nel giudizio contabile da C. conti Emilia Romagna 25 ottobre 2010, secondo cui, posto che, in applicazione dell'art. 26 del r.d. n. 1038/1933 – in base al quale, «nei procedimenti contenziosi di competenza della Corte dei Conti, si osservano le norme ed i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento» – ai fini dell'individuazione del giudice competente a decidere sul reclamo della parte privata, è possibile fare applicazione dei criteri desumibili dall'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c., il quale consente di ritenere che il reclamo sia proponibile alla medesima sezione giurisdizionale regionale in diversa composizione del collegio, poiché tale soluzione interpretativa garantisce la terzietà del giudice e soddisfa al contempo le esigenze di economia processuale e di rapida definizione della controversia; in senso conforme, C. conti II, n. 350/2007, ad avviso della quale, con l'istituto del reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., il legislatore ha inteso introdurre un rimedio che consente il controllo di un giudice diverso sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela, e tale competenza spetta allo stesso giudice di primo grado in diversa composizione, atteso che l'effettività del riesame non implica necessariamente che esista un rapporto di sovraordinazione tra giudici, ma può essere realizzata anche con i criteri dell'alterità e della collegialità). In particolare, sul reclamo proposto avverso il provvedimento cautelare pronunciato dal giudice istruttore del tribunale – o eccezionalmente dal presidente – competente a decidere è il collegio dello stesso tribunale (o anche della stessa sezione) cui tale giudice appartiene (richiamandosi il modello di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c., il presidente del collegio deve nominare il giudice relatore, che riferisce in camera di consiglio); dalla composizione di tale collegio è escluso «il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato», in un'ottica di astensione, per così dire, obbligatoria correlata al carattere bifasico del relativo procedimento; in proposito, si è, però, precisato (Cass. I, n. 7378/2023) che, nel giudizio di cognizione ordinaria, non viola l'obbligo di astensione il componente del collegio di appello (nella specie, non relatore ed estensore), il quale abbia in precedenza conosciuto e trattato la controversia, in veste di giudice relatore, nell'ambito del procedimento cautelare ante causam di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. Nello stesso senso, si è affermato (Cass. I, n. 23092/2024) la conoscenza e la trattazione di una controversia in sede di procedimento cautelare ante causam da parte di un componente del collegio non costituisce motivo di astensione o di nullità della sentenza di appello, in quanto non è assimilabile all'incompatibilità relativa alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio. Si è, al riguardo, precisato (Cass. I, n. 27924/2018; Cass. II, n. 11070/2001) che non sia deducibile come motivo di nullità di una sentenza di appello la circostanza che uno dei componenti del collegio che l'ha pronunciata precedentemente avesse conosciuto dei medesimi fatti in sede di reclamo contro l'ordinanza di rigetto di richiesta di un provvedimento di urgenza ante causam, poiché l'avere conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma degli artt. 51, comma 1, n. 4), e 52 c.p.c. e, d'altra parte, l'avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare proposto ante causam neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 326/1997; Corte cost., n. 193/1998), un'ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell'incompatibilità, alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio. Contro i provvedimenti emessi dalla corte d'appello (come giudice di gravame o di rinvio), si prevede una competenza di tipo «rotatorio» di un'altra sezione della stessa corte d'appello o, se il predetto ufficio giudiziario sia di ridotte dimensioni e consti di una sola sezione (civile), della corte d'appello più vicina, individuata «tenendo conto della distanza chilometrica ferroviaria, e se del caso marittima, tra i capoluoghi del distretto» ai sensi dell'art. 5 della l. n. 879/1980 (in argomento, v. App. Milano 20 luglio 2004, secondo cui il codice di procedura civile non prevede espressamente una disciplina propria per la forma della trattazione dei procedimenti di competenza della corte d'appello in unico grado, per cui non è incongrua un'interpretazione che riferisca il senso dell'art. 669-terdecies c.p.c. – che non opera alcuna distinzione al riguardo – al solo caso di un provvedimento cautelare emesso dal giudice dell'appello e, dunque, in sede collegiale, e non dalla corte d'appello come giudice di primo e unico grado; cui adde App. Milano 25 gennaio 1994, precisando che, per quanto l'art. 669-terdecies c.p.c. attribuisca ad altra sezione della corte – o, in mancanza, alla corte più vicina – la competenza a decidere sui reclami proposti contro i provvedimenti cautelari emessi dalla corte d'appello, tale disposizione non si applica quando la pronuncia impugnata è di un giudice monocratico, dovendosi applicare per analogia la disposizione relativa al reclamo avverso il provvedimento del giudice singolo di tribunale). Rimane il problema se la proposizione alla corte viciniore debba farsi recta via a cura direttamente del reclamante (con suo onere di calcolare il predetto collegamento, salva la verifica del giudice adìto), oppure l'organo competente debba essere individuato dall'ufficio che si è pronunciato (che provvederà, una volta ricevuto il reclamo, a rimettere con efficacia vincolante gli atti alla corte viciniore). Secondo parte della dottrina, sarebbe onere del reclamante determinare il giudice viciniore (Consolo, Luiso, Sassani, 560); secondo altri, invece, la proposizione dovrebbe avvenire alla corte già pronunciatasi, e da questa rimessa alla corte territoriale più vicina (Tommaseo, 105). Nulla dice il capoverso circa la competenza a decidere il reclamo proposto nei confronti di provvedimenti pronunciati dal tribunale in sede collegiale (nelle materie oggetto ancora di riserva di collegialità, in cui non è prevista la figura dell'istruttore, o come giudice d'appello). La giurisprudenza propende per affermare la competenza di una diversa sezione dello stesso tribunale – ovviamente, in diversa composizione, nel senso che non possono far parte i giudici che hanno emesso il provvedimento reclamato – o, in difetto, del tribunale più vicino, in analogia alla fattispecie summenzionata relativa alla corte d'appello (App. Catania 21 febbraio 2002; App. Lecce 18 dicembre 1999; App. L'Aquila 25 maggio 1999, riguardo al reclamo contro il decreto cautelare ex art. 10 della l. n. 184/1983, indicando come competente non la corte d'appello – sezione per i minorenni – ma il tribunale per i minorenni, o altro collegio dello stesso in diversa composizione, che ha emesso il provvedimento impugnato o, in mancanza, il tribunale più vicino; Trib. Milano 14 agosto 1997; Trib. Milano 21 luglio 1995; nello specifico, ad avviso di App. Roma 17 aprile 2002, nel caso in cui l'opposizione alla delibera di esclusione viene rimessa alla cognizione di un collegio arbitrale sulla relativa richiesta di sospensione, in quanto avente natura cautelare, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 669-quinquies e 818 c.p.c., deve pronunciarsi il tribunale in composizione collegiale, con la conseguenza che, in ipotesi di impugnazione del relativo decreto, viene meno l'ordinario procedimento di riesame dettato dall'art. 669-terdecies c.p.c., determinandosi, viceversa, la competenza di un'altra sezione dello stesso tribunale oppure, in mancanza, il tribunale più vicino, ma non la corte d'appello). Si registrano, tuttavia, anche opinioni discordi, ossia nel senso della competenza in capo alla corte d'appello (App. Roma 20 aprile 1998, ad avviso della quale, in assenza di uno specifico mezzo di impugnazione contro il provvedimento cautelare adottato dal tribunale nella sua composizione collegiale, è ragionevole desumere la competenza del giudice istituzionalmente sovraordinato; Trib. Napoli 3 ottobre 1995; App. Lecce 29 settembre 1995, in forza del principio della generale reclamabilità dei provvedimenti cautelari quale si desume dalla norma contenuta nel comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c.; App. Milano 12 agosto 1994; Trib. Milano 5 agosto 1994, il quale ha dichiarato l'improponibilità del reclamo proposto avverso uno di tali provvedimenti). Nel silenzio della norma, riguardo al reclamo contro i provvedimenti cautelari concessi dal tribunale in composizione collegiale, secondo la dottrina, competente per il reclamo è la stessa sezione dello stesso tribunale o il tribunale più vicino (Saletti, 377), ovvero la corte d'appello (Olivieri, 723). In ordine alle controversie di cui all'art. 409 c.p.c., è prevalso l'orientamento di merito secondo cui, per la particolarità della materia e per la specifica competenza, il reclamo avverso i provvedimenti emessi dal tribunale in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro – a seguito della soppressione della figura del pretore in forza del d.lgs. n. 51/1998, istitutivo del giudice unico di primo grado – sia esaminato dal collegio dello stesso tribunale in funzione di giudice del lavoro (ovviamente, escludendo dal collegio il giudice che ha emesso la misura cautelare). Nello specifico, l'organo giudiziario tenuto a decidere sul reclamo avverso un provvedimento cautelare emesso dal tribunale del lavoro in composizione monocratica è il tribunale del lavoro in composizione collegiale, così come stabilito in via generale dall'art. 669-terdecies c.p.c., e non la corte d'appello, in mancanza di un'espressa disposizione derogatoria del regime giuridico ordinario del giudizio di reclamo cautelare (Trib. Belluno 22 ottobre 2002, segnatamente in materia di pubblico impiego; Trib. Venezia 8 giugno 2000; App. Roma 7 giugno 2000; Trib. Brindisi 26 maggio 2000; Trib. Bari 23 maggio 2000; Trib. Terni 27 aprile 2000; App. Lecce 27 aprile 2000; Trib. Trani 11 aprile 2000; App. Catanzaro 16 marzo 2000). In particolare, il reclamo avverso il provvedimento cautelare emesso dal collegio di un'unica sezione lavoro di tribunale deve essere proposto, in applicazione analogica dell'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c., al tribunale, sezione lavoro, più vicino, per cui è inammissibile il reclamo proposto ad altro collegio della stessa sezione di tribunale (Trib. Roma 22 maggio 1997; Trib. Roma 17 aprile 1997). Parzialmente in disaccordo si pone chi (Trib. Udine 26 maggio 2000) ritiene che i reclami ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso le ordinanze emesse in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c., anche successivi al 1° gennaio 2000, vanno proposti – non in corte d'appello, bensì – davanti al tribunale del lavoro, in composizione collegiale, nonostante sia venuta meno la competenza del tribunale a decidere in composizione collegiale sulle impugnazioni contro le sentenze di primo grado emesse nelle controversie di lavoro, sicché è necessario mantenere un assetto organizzativo all'interno dello stesso tribunale che garantisca la presenza di un apposito collegio, destinato a decidere sui reclami ex art. 669-terdecies c.p.c. Anche in questa ipotesi, non sono mancate pronunce di segno contrario, ossia propense ad individuare, riguardo al reclamo avverso il provvedimento cautelare emesso dal tribunale, la competenza della corte d'appello, segnatamente la sezione specializzata addetta alle controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie, e ciò anche a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 51/1998, considerando, pertanto, inammissibile il reclamo proposto alla sezione lavoro del tribunale (App. Catanzaro 23 novembre 1999; Trib. Catanzaro 28 ottobre 1999; Trib. Napoli 20 settembre 1999; Trib. Catanzaro 20 settembre 1999). Il contrasto è stato risolto dal massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 16091/2009, sia pure esprimendo il principio di diritto nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.), optando per il primo corno dell'alternativa, ossia nel senso che l'organo giudiziario competente a decidere sul reclamo avverso un provvedimento cautelare emesso dal tribunale del lavoro in composizione monocratica è il tribunale del lavoro in composizione collegiale, così come stabilito in via generale dall'art. 669-terdecies c.p.c., e non la corte d'appello, in mancanza di un'espressa disposizione derogatoria del regime giuridico ordinario del giudizio di reclamo cautelare. Invece, nell'ipotesi di corte d'appello divisa in più sezioni, competente a decidere il reclamo avverso il provvedimento cautelare emesso dalla sezione lavoro è un'altra sezione della medesima corte, a nulla rilevando la circostanza che vi sia una sola sezione per le controversie di lavoro, poiché l'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c. fa riferimento alla sola presenza di una pluralità di sezioni e non anche di una pluralità di sezioni specializzate (Cass. IV, n. 14819/2009, ad avviso della quale l'opportunità di attribuire il reclamo in materia di controversie di lavoro ad una sezione specializzata, ma appartenente ad altra corte d'appello, piuttosto che ad altra sezione della stessa corte, è valutazione riservata al legislatore, il quale, non introducendo alcuna distinzione nella norma di riferimento, ha mostrato di voler optare per la seconda alternativa). Problemi sussistono per i provvedimenti cautelari adottati dalla sezione specializzata agraria del tribunale ex art. 26, comma 2, della l. n. 11/1971, in quanto, specie per i piccoli-medi tribunali non articolati in sezioni, non è agevole predisporre per la materia agraria un doppio collegio, per cui è apparso, talvolta, preferibile devolvere il reclamo davanti alla corte d'appello, sezione specializzata agraria, giudice sovraordinato rispetto al tribunale che si è pronunciato. In proposito, alcune pronunce si sono espresse nel senso che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso il provvedimento cautelare emesso dalla sezione specializzata agraria del tribunale debba essere proposto dinanzi allo stesso tribunale, che dovrà decidere in diversa composizione, sicché il reclamo proposto dinanzi alla corte d'appello, sezione specializzata agraria, quale giudice sovraordinato, deve essere dichiarato inammissibile (App. Roma 7 ottobre 2005; App. Venezia 17 novembre 1999, sul rilievo fondante per cui la relativa competenza spetta ad un giudice dello stesso grado di quello che ha deciso sull'istanza cautelare, conseguendone che il reclamo contro l'ordinanza della sezione specializzata agraria del tribunale deve essere proposto ad altra sezione specializzata agraria del medesimo tribunale o, in mancanza, alla stessa sezione, in diversa composizione, mentre il reclamo proposto alla corte d'appello, in tale ipotesi, deve essere dichiarato improponibile). Altre pronunce hanno, invece, sostenuto che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento cautelare emesso dalla sezione specializzata agraria del tribunale, debba essere proposto dinanzi alla corte d'appello, sezione agraria, in quanto giudice istituzionalmente sovraordinato (Trib. Roma 6 luglio 2002; Trib. Treviso 24 aprile 2001, in base alla considerazione per cui trattasi di giudice istituzionalmente deputato alla trattazione dei giudizi di impugnazione di merito, ossia la sezione specializzata agraria presso la corte d'appello; App. Bologna 17 giugno 1994: nella specie, la corte territoriale aveva rilevato d'ufficio l'incompetenza della sezione specializzata agraria presso il tribunale, che aveva concesso il sequestro giudiziario, perché il provvedimento cui ineriva la misura cautelare non rientrava nella competenza del giudice specializzato, ma in quella del tribunale ordinario). Sul punto, erano stati coinvolti i giudici della Consulta: invero, la mancata previsione del giudice competente a riesaminare i provvedimenti cautelari emessi dal tribunale in veste collegiale poteva indurre a ritenere che essi non fossero reclamabili ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., ma ciò, oltre a ledere il diritto di difesa della parte incisa dal provvedimento, si appalesava irrazionale ed arbitrario, posto che, contro i provvedimenti cautelari della corte d'appello – che pure opera in veste collegiale – lo stesso art. 669-terdecies c.p.c. ammetteva il reclamo, da proporsi ad altra sezione della medesima corte o, in mancanza, alla corte d'appello più vicina; in questa prospettiva, è stata ritenuta non manifestamente infondata – in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. – la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., laddove non prevedeva il reclamo innanzi alla corte d'appello contro i provvedimenti emessi dalla sezione specializzata agraria del tribunale (App. Lecce 3 gennaio 1996). Il giudice delle leggi (Corte cost., n. 421/1996), con una sentenza interpretativa di rigetto, ha in pratica considerato entrambe le soluzioni summenzionate compatibili con il sistema del nuovo procedimento cautelare; invero, si è ritenuta infondata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui non prevede la reclamabilità dinanzi alla corte d'appello dei provvedimenti cautelari emessi dal tribunale, sezione specializzata agraria, in quanto – posto che la ratio del nuovo procedimento cautelare è ravvisabile nell'intento di assicurare un modulo unitario ad una forma di tutela ormai pressoché generalizzata, che è da considerare espressione di un autonomo principio e che rappresenta una componente della stessa tutela giurisdizionale, rispetto alla cui piena attuazione essa svolge anche una funzione strumentale; posto che, in questa prospettiva, sintetizzata nell'endiadi «autonomia e strumentalità», vanno verificate le garanzie costituzionali, costituite dalla regola della «parità delle armi», rispetto a quel mezzo di controllo dell'operato del giudice della cautela, che è il reclamo; posto che siffatto controllo si attua come revisio prioris instantiae demandata ad un giudice diverso; e posto che è proprio in tale «alterità» del giudice e nella sua «composizione collegiale» che si realizza la garanzia voluta dal legislatore con la riduzione del regime di stabilità del provvedimento cautelare in confronto al previgente, frammentario sistema – la doverosa interpretazione «adeguatrice» (a Costituzione) della disposizione impugnata consente all'interprete, attraverso le opzioni operate dal legislatore, di scegliere almeno fra due soluzioni: la prima, attributiva della competenza (a proporre ed a decidere il reclamo avverso il provvedimento adottato dal tribunale, sezione specializzata agraria) al giudice superiore, in analogia a quanto previsto nella prima parte dell'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c., e la seconda, attributiva della competenza medesima ad un giudice diverso ma equiordinato, e cioè ad altra sezione dello stesso tribunale o, in mancanza, al tribunale più vicino, secondo quanto indicato nella seconda parte della stessa disposizione con riguardo ai provvedimenti cautelari della corte d'appello. Qualora, poi, la corte d'appello sia giudice di primo o unico grado – si pensi alle materie della delibazione o riconoscimento di sentenze straniere, antitrust, indennità di espropriazione, ecc., v. artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. (al cui commento si rinvia) – se si sostiene il permanere, in capo al singolo consigliere istruttore, della competenza cautelare, si applicheranno per il reclamo le regole prescritte per i provvedimenti emessi dal tribunale, sicché le misure cautelari saranno oggetto di riesame da parte del collegio (senza la partecipazione del suddetto consigliere); se, invece, si sostiene che la collegialità sia la veste consueta della corte in sede cautelare, competente sul reclamo sarà una diversa sezione dello stesso ufficio giudiziario o (alla stregua di un'impugnazione «circolare») la corte d'appello più vicina. Resta inteso, in ordine al c.d. foro erariale, che, poiché i criteri determinativi della competenza nel processo cautelare, salve le eccezioni espressamente previste dagli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c., sono i medesimi previsti per il merito, nella fase di impugnazione, qualora sia parte del giudizio un'amministrazione dello Stato, deve trovare applicazione il r.d. n. 1611/1933 – che prevede la competenza-territoriale del tribunale dove ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il tribunale che sarebbe competente secondo le norme ordinarie – per cui è inapplicabile al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. l'art. 7, comma 1, del r.d. n. 1611/1933, poiché il procedimento cautelare, per quanto accessorio al giudizio di merito, ha una sua autonomia strutturale e teleologica, e non può essere considerato come una mera fase del giudizio dinanzi al giudice di prima istanza (Trib. Catanzaro 30 settembre 1999; Trib. Vibo Valentia 20 ottobre 1998; Trib. Santa Maria Capua Vetere 16 ottobre 1997; Trib. Catanzaro 27 maggio 1997; Trib. Napoli 18 dicembre 1996). Per completezza, si segnala che, secondo un giudice meneghino (Trib. Milano 12 marzo 2016), sul presupposto che va considerata inammissibile la riproposizione della domanda cautelare rigettata quando è pendente il giudizio di reclamo avverso l'ordinanza di rigetto, il comportamento della parte che ripropone la domanda cautelare ad un giudice diverso da quello competente per il giudizio di reclamo integra un abuso dello strumento processuale, sanzionabile ex art. 96, comma 3, c.p.c. Il procedimento di reclamo.L'atto introduttivo. Il comma 3 dell'art. 669-terdecies c.p.c. rinvia, per quanto attiene al procedimento da seguire per il reclamo, ai procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c., mentre il comma 1 (versione 1993) anticipava che tale rimedio era ammesso «nei termini previsti dall'articolo 739, secondo comma» del codice di rito. Pertanto, il reclamo deve essere proposto nella forma del «ricorso» (e non con atto di citazione), avente la struttura di atto di impugnazione, da depositarsi, a pena di decadenza, nella cancelleria del giudice competente – come delineato nel precedente par. 4.1. – entro quindici giorni (termine così elevato dagli originari dieci a seguito dell'intervento del legislatore del 2005), anche al fine di permettere al reclamante di conoscere i motivi del provvedimento oggetto del gravame, di cui, tramite il consueto biglietto di cancelleria, può avere conoscenza del solo dispositivo. Nell'ipotesi in cui la parte diligente lamentasse la propria oggettiva impossibilità ad ottenere dalla cancelleria nei quindici giorni una copia integrale del provvedimento cautelare da notificare, non sembra che ci siano ostacoli alla rimessione in termini di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c. Comunque, l'omessa notifica del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. alla controparte, qualora non sia espressione di una voluta inerzia o disinteresse della parte, non può sortire alcun effetto preclusivo, ma deve indurre alla concessione di un nuovo termine perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., atteso che la notifica afferisce solo alla fase successiva di instaurazione del contraddittorio, mentre è il deposito del ricorso in cancelleria che sancisce il rispetto del termine breve (quindici giorni) per impugnare ed impedisce ogni decadenza (Trib. Messina 27 febbraio 2008). Si è discusso se il ricorso per reclamo debba contenere comunque, a pena di inammissibilità, i motivi del gravame: in dottrina (Cirulli, 172), si è affermato che il reclamo devolve al collegio la cognizione della controversia introdotta in via cautelare nel giudizio di primo grado nei limiti in cui il reclamante abbia proposto l'impugnazione ed il reclamato abbia riproposto eventuali capi della domanda rimasti assorbiti, secondo un meccanismo analogo a quello che opera nell'appello; pertanto, il reclamo deve contenere i motivi, ossia le censure di fatto o di diritto, in rito e/o nel merito, contro il provvedimento impugnato, non essendo ammissibile un reclamo modellato in forma di richiesta di riesame avverso le misure cautelari (personali coercitive e reali) nel processo penale; né può il giudice (diversamente da quanto prevede l'art. 309 c.p.p.) confermare, modificare o revocare la misura anche per ragioni diverse da quelle eventualmente dedotte dalle parti. Secondo la giurisprudenza, il reclamante ha l'onere di indicare dettagliatamente i motivi del reclamo, pena la declaratoria di inammissibilità del reclamo stesso, sicché non va dato ingresso a tale rimedio se diretto ad ottenere il mero riesame delle circostanze poste a fondamento della domanda cautelare, senza dedurre specifiche censure nei confronti dell'ordinanza impugnata (ad avviso di Trib. S. Maria Capua Vetere 16 agosto 2016, se è vero che il reclamo costituisce un mezzo di impugnazione di natura devolutiva non soggetto a particolari requisiti formali, è altrettanto vero che si tratta comunque di uno strumento di impugnazione con cui si chiede la modifica e/o revoca di un provvedimento giudiziale e che, quindi, non può ignorare, come nulla fosse, la circostanza che un primo giudice si è già pronunciato disattendendo le eccezioni che vengono reiterate pedissequamente come già formulate nella prima fase, senza alcuno sforzo critico ed argomentativo rispetto alle valutazioni svolte nel provvedimento impugnato; Trib. Termini Imerese 26 giugno 2002, riguardo al reclamo avverso il provvedimento di rigetto di domanda cautelare di sequestro conservativo; così anche Trib. Catania 8 gennaio 1999, il quale, sul presupposto che il reclamo sia equiparabile ad un mezzo di impugnazione, ha ritenuto che lo stesso debba contenere l'indicazione specifica dei motivi, sicché va ritenuto inammissibile qualora il reclamante si sia limitato a riportarsi a tutte le eccezioni e considerazioni svolte davanti al giudice designato; cui adde Trib.Termini Imerese 12 febbraio 2001, il quale, riguardo ad un reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso un provvedimento di reintegra nel possesso, sul rilievo che il rimedio de quo non ha natura di mezzo di gravame, essendo di rimedio volto a far valere errores in procedendo o errores in iudicando, ha considerato inammissibile il reclamo con il quale il soccombente si duole dell'accoglimento della domanda, proponendo un riesame del merito delle dichiarazioni rese dalle persone informate dei fatti, ma senza formulare censure specifiche nei confronti del provvedimento reclamato; contra, Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, ad avviso del quale il reclamo si configura come un gravame a critica libera, e non a critica vincolata, per cui è ben possibile far genericamente valere l'ingiustizia della decisione del giudice di prime cure). Per quanto concerne il mandato alle liti, si ritiene che quello rilasciato al difensore per il procedimento cautelare conferisca lo ius postulandi anche per la fase di reclamo al collegio, pur se la stessa non sia stata espressamente menzionata nel testo della procura, stante che il ricorso per reclamo cautelare non introduce un nuovo e diverso giudizio, ma rappresenta soltanto la prosecuzione dello stesso procedimento cautelare iniziato con il deposito del ricorso nella fase precedente e di cui rappresenta una fase soltanto eventuale (Trib. Ravenna 9 giugno 1997, ad avviso del quale, nell'àmbito del processo cautelare, il mandato al difensore rilasciato «per il presente procedimento ... e per il giudizio di merito» conferisce, stante l'ampiezza della previsione, lo ius postulandi anche per la fase di reclamo al collegio pure nell'ipotesi in cui la stessa non sia stata espressamente menzionata nel testo della procura; anche secondo Trib. Pesaro 22 settembre 1994, in difetto di altre indicazioni, la procura rilasciata per il giudizio di merito di primo grado è idonea per la richiesta di provvedimento cautelare e per il reclamo avverso la revoca del provvedimento stesso). Di contro, si è affermato (Trib. Salerno 11 agosto 1999) che il mandato conferito dal curatore al difensore, in seguito all'autorizzazione a stare in giudizio rilasciata dal giudice delegato, avente ad oggetto il potere di proporre ricorso ex art. 700 c.p.c., ed il connesso giudizio di merito, non comprende anche la possibilità del reclamo avverso il provvedimento di diniego dell'istanza cautelare; al contempo, il provvedimento del giudice delegato, con cui si autorizza il curatore a conferire mandato al difensore di proporre reclamo avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare, costituendo una condizione di efficacia dell'attività processuale del curatore stesso, conserva efficacia sanante con effetti ex tunc. Anche la dottrina opina che l'instaurazione del contraddittorio abbia luogo attraverso la notificazione del ricorso, per il quale non è necessaria una nuova procura alle liti (Tarzia, 398). Circa la specifica rappresentanza in giudizio in fattispecie particolari, si è ritenuto che, poiché il reclamo cautelare – quando il provvedimento cautelare si inserisce nel giudizio di merito di primo grado – appartiene allo stesso grado di giudizio cui si riferisce il provvedimento reclamato, l'Agenzia delle Entrate nei cui confronti la misura cautelare è richiesta può, ai sensi dell'art. 417-bis, comma 1, c.p.c., costituirsi in fase di reclamo avvalendosi di un proprio funzionario (Trib. Belluno 22 ottobre 2002). E ancora, nelle controversie di lavoro, in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso provvedimento di cui all'art. 700 c.p.c., il tribunale del lavoro in composizione collegiale deve essere ritenuto organo di primo grado, in quanto il reclamo rappresenta una fase eventuale del procedimento cautelare e non un'impugnazione, per cui la Pubblica Amministrazione può difendersi tramite un proprio funzionario autorizzato, ai sensi e per gli effetti dell'art. 417-bis, comma 1, c.p.c., a stare in giudizio nelle controversie di lavoro (Trib. Caltanissetta 23 settembre 2001; Trib. Padova 11 giugno 2000; Trib. Roma 15 aprile 2000, sul rilievo fondante per cui sia l'iniziale fase di trattazione del giudizio cautelare ante causam, sia quella concernente il reclamo proposto avverso il provvedimento emesso in via d'urgenza, devono farsi rientrare nel giudizio di primo grado; contra, Trib. Caltanissetta 6 maggio 2000, ad avviso del quale, poiché il reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. costituisce un rimedio lato sensu impugnatorio, a tale fase non si estende la facoltà per le Pubbliche Amministrazioni di stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti, prevista nei giudizi di primo grado dall'art. 417-bis c.p.c.). Il deposito telematico. Si è discusso se, per la proposizione del reclamo, vi sia la facoltà o l'obbligo del deposito in forma telematica, atteso che, a norma dell'art. 16-bis, comma 1, del d.l. n. 179/2012, convertito in l. n. 221/2012, a partire dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione pendenti dinanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti, che si siano precedentemente costituite, deve avvenire soltanto con modalità telematiche, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La norma viene interpretata nel senso che, tranne per gli atti introduttivi del giudizio, il legislatore impone l'obbligatorietà del deposito telematico di tutti gli atti processuali e documenti prodotti dopo la costituzione in giudizio, con la conseguenza che la cancelleria dovrebbe rifiutare il deposito in forma cartacea degli atti processuali delle parti già costituite; in pratica, mentre gli atti «introduttivi» dei procedimenti, in virtù del criterio del deposito telematico facoltativo, possono essere depositati sia fisicamente in cancelleria, sia con modalità telematica, quelli «endoprocessuali» devono essere depositati, invece, esclusivamente in telematico. In altri termini, a decorrere dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili dinanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali con modalità telematiche riguarda solo le parti precedentemente costituite, non essendo contemplato il deposito telematico degli atti introduttivi del giudizio (Trib. Torino 20 luglio 2014; Trib. Torino 15 luglio 2014, dichiarativa dell'inammissibilità del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositato telematicamente in cancelleria; Trib. Foggia 10 aprile 2014), sicché, fermi restando i casi di obbligatorietà del deposito telematico previsti dal citato art. 16-bis, è sempre in facoltà delle parti depositare telematicamente gli atti introduttivi o di costituzione in giudizio (con riferimento alla posizione del resistente, si registra l'opinione isolata di Trib. Ferrara 16 ottobre 2017, il quale ritiene che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. ha natura lato sensu impugnatoria, in quanto consiste nella censura di un provvedimento e nella richiesta ad un giudice diverso da quello che l'ha emanato, di una nuova pronuncia idonea a sostituirsi alla prima e, conseguentemente, la memoria di costituzione nel procedimento per reclamo introdotto da controparte non può avere natura di atto endoprocessuale). Il problema si pone maggiormente con riferimento agli atti che vanno ad inserirsi nei procedimenti aventi natura bifasica oppure in quelli, a carattere sommario, contraddistinti dalla presenza di «appendici» o subprocedimenti volti latu sensu al riesame del provvedimento concesso dal giudice di prima fase, come, ad esempio – per quel che qui interessa – per l'atto di proposizione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., sicché si tratta di stabilire se la fase procedimentale successiva alla prima possa considerarsi autonoma, sì da poter essere avviata anche con il deposito cartaceo dell'atto introduttivo, oppure meramente prosecutoria dell'unico giudizio instaurato con il ricorso originario, sì da imporre, viceversa, il deposito soltanto per via telematica dell'atto di sua introduzione, continuando a spiegare effetti l'originaria costituzione. Al riguardo, un magistrato di merito abruzzese (Trib. Vasto 15 aprile 2016) si è interrogato se il ricorso per reclamo cautelare rientri o meno tra i provvedimenti da depositare esclusivamente per via telematica ai sensi della previsione di cui sopra trattandosi di «atto successivo alla costituzione», o, piuttosto se vada qualificato come «atto introduttivo» e, quindi, assoggettato al diverso regime della facoltatività e non dell'obbligatorietà del deposito telematico. Si è optato per la prima soluzione, sul rilievo fondante – v. supra – per cui il ricorso per reclamo cautelare non introduce un nuovo e diverso giudizio, ma rappresenta soltanto la prosecuzione dello stesso procedimento cautelare iniziato con il deposito del ricorso nella fase precedente e di cui rappresenta una fase soltanto eventuale, e da tale natura deriverebbe la conclusione che, per il ricorso ex art. 669-terdecies c.p.c., non vi è altra forma di deposito se non quella con modalità telematiche, proprio ai sensi dell'art. 16-bis, comma 1, sopra richiamato. Questa considerazione, unita al fatto che l'opzione tra la natura cartacea e la natura informatica del documento non sta alla base di un mero problema di forma ma, piuttosto, di una questione più radicale relativa alla stessa esistenza del documento – sicché non si può fare riferimento né al principio della libertà delle forme, né a quello di tassatività delle nullità, né, tantomeno, a quello del raggiungimento dello scopo dell'atto atteso che tali principi sono relativi alla forma degli atti processuali ma non alla loro natura sostanziale – ha portato alla conclusione per cui, riguardo agli atti processuali che, per obbligo di legge, tra cui rientrerebbe, appunto, il ricorso per reclamo cautelare, vanno depositati in via telematica, ne consegue che «l'atto creato in modalità cartacea non è semplicemente nullo, ma è da considerarsi giuridicamente inesistente». Sul principio esposto nell'ordinanza de qua, si è sùbito confrontata la giurisprudenza, con risultati, però, non collimanti, nel senso che si registra una spaccatura tra chi ha escluso che il relativo procedimento costituisce un nuovo e diverso giudizio e chi, viceversa, lo ha considerato dotato di una propria autonomia. Da un lato, infatti, vi è chi afferma, in linea con tale ordinanza, che il reclamo cautelare è atto processuale depositato dal difensore di una «parte precedentemente costituita», per cui va dichiarato inammissibile se depositato con modalità diversa da quella telematica, in quanto la volontà legislativa è quella di indicare un'unica, esclusiva ed obbligatoria modalità di deposito (Trib. Torino 6 marzo 2015). Si osserva, in proposito, che il reclamo non avvia un nuovo ed autonomo giudizio, ma innesta una fase eventuale relativa al medesimo giudizio avviato con il ricorso cautelare; la decisione maturata al suo esito, inoltre, è passibile di ulteriori modifiche in caso di sopravvenienze nel corso del giudizio di merito; in tal senso, si è rilevato che «il legislatore del 1990 ha introdotto il nuovo istituto del reclamo contro i provvedimenti cautelari, configurandolo, più che come una vera e propria impugnazione, come una sorta di prosecuzione del giudizio cautelare unitario; ciò in funzione di una nuova pronuncia nell'esercizio degli stessi poteri da parte di un giudice che è diverso da quello che ha pronunciato il primo provvedimento, solo perché opera in una composizione sempre collegiale per lo più nell'àmbito dello stesso ufficio giudiziario, e tutto ciò con l'attribuzione alla nuova pronuncia della portata di sostituirsi alla prima» (così Trib. Foggia 15 maggio 2015, relativamente ad un reclamo avverso un provvedimento possessorio; cui adde Trib. L'Aquila 4 luglio 2016; Trib. Cagliari 14 gennaio 2016). In quest'ottica, l'intervenuta costituzione delle parti nel procedimento cautelare avrebbe effetti anche rispetto alla fase, meramente eventuale e successiva, del reclamo cautelare, con la conseguenza che non sarebbero richiamabili i già ricordati principi della libertà delle forme e del raggiungimento dello scopo dell'atto, atteso che il deposito non rientrerebbe nell'àmbito degli atti processuali e, pertanto, ad esso non sarebbero estensibili le previsioni dei citati principi (in argomento, Cass. S.U., n. 5160/2009 ha specificato che la circostanza che l'attività materiale di deposito degli atti in cancelleria, che è priva di un requisito volitivo autonomo, non debba essere compiuta necessariamente dal difensore o dalla parte che sta in giudizio personalmente, ma possa essere realizzata anche da persona da loro incaricata, c.d. nuncius, e che l'ordinamento processuale preveda casi, sia pure speciali, di deposito degli atti in cancelleria mediante invio degli stessi a mezzo posta, non appare compatibile con una valutazione di radicale difformità del deposito realizzato attraverso l'invio dell'atto per mezzo della posta rispetto a quello effettuato mediante consegna diretta al cancelliere). Dall'altro lato, si registrano pronunce di segno opposto (Trib. Venezia 3 luglio 2015; Trib. Asti 23 marzo 2015), sul rilievo fondante per cui il reclamo «avvia un nuovo ed autonomo giudizio»: il reclamo va, quindi, considerato atto introduttivo del relativo giudizio e può essere depositato, a scelta del ricorrente, in forma telematica o in forma cartacea; e quand'anche qualificato come proveniente da parte costituita, il relativo deposito cartaceo è, comunque, ammissibile in virtù dei principi di libertà delle forme e del raggiungimento dello scopo. Una risposta articolata viene offerta da un magistrato capitolino (Trib. Roma 8 novembre 2016), il quale – sul presupposto che il reclamo avverso i provvedimenti cautelari introduce un procedimento autonomo rispetto alla trattazione di prime cure, procedimento caratterizzato dalla collegialità dell'organo giudicante in luogo della monocraticità del primo giudice, dalla devoluzione al collegio di una disamina necessariamente successiva e distinta rispetto a quella che viene definita con il provvedimento reclamato, dall'iscrizione ex novo al ruolo generale, dal suo carattere meramente eventuale (come peraltro per il giudizio di merito) – ha ritenuto ammissibile l'introduzione con deposito cartaceo del reclamo, tenuto anche conto che l'ordinanza del giudice di prime cure può chiudere in via definitiva il procedimento introdotto con il ricorso cautelare, tanto che è prevista, in tale sede, la regolamentazione delle spese, ciò che contrasta con una considerazione di endoprocedimentalità in senso proprio del reclamo. Si ritiene che il ricorso per reclamo cautelare abbia natura di atto introduttivo del relativo giudizio, essendo il deposito di tale atto finalizzato ad introdurre un nuovo giudizio sulla domanda cautelare, con effetti sostitutivi del provvedimento impugnato, ed a consentire al reclamante di costituirsi, chiedendo la fissazione dell'udienza ed instaurando il contraddittorio, discendendone che il reclamo dà avvio ad una nuova fase di modo che non soggiace all'obbligo del deposito telematico (Trib. Trani 20 ottobre 2015; lo stesso magistrato pugliese ha sostenuto che le modalità di deposito, in vista della costituzione, rappresentano attività materiali prive di requisito volitivo autonomo, e hanno lo scopo di realizzare esclusivamente la presa di contatto tra la parte e l'ufficio, sicché l'atto raggiunge lo scopo quando superi i controlli della cancelleria e sia sottoposto all'ufficio giudiziario, pertanto, dovendosi fare applicazione del principio della strumentalità delle forme, con conseguente approccio conservativo rispetto all'esigenza di definizione del merito della lite, deve concludersi per l'ammissibilità del deposito cartaceo del reclamo cautelare, v. Trib. Trani 5 settembre 2016; cui adde Trib. Vercelli 4 agosto 2014). In quest'ultimo ordine di concetti, la prima soluzione ha destato perplessità in una parte della dottrina (Asprella 2016, 1825). In effetti, il suddetto giudice abruzzese, pur qualificando il reclamo sostanzialmente come un'impugnazione – in motivazione, si legge che «il ricorso per reclamo introduce una fase solo eventuale finalizzata al riesame della domanda cautelare e destinato a concludersi con un provvedimento che, in caso di riforma, si sostituisce a quello reso dal giudice di prime cure e produce effetti sino all'esito del giudizio di cognizione...» – afferma che esso non introduce un nuovo e diverso giudizio, ma rappresenta unicamente la prosecuzione dello stesso procedimento cautelare introdotto con il ricorso della fase precedente e di cui costituisce una fase meramente eventuale. Se, infatti, si accede a questa ricostruzione, ne consegue necessariamente l'inammissibilità del ricorso per reclamo cautelare depositato in forma non telematica ai sensi dell'art. 16-bis, comma 1, del d.l. n. 179/2012; se, invece, si sposa la tesi differente, ossia quella che vuole il reclamo come un nuovo giudizio, allora ne deriva la tesi completamente diversa della facoltatività e non dell'obbligatorietà del deposito telematico, trattandosi di atto introduttivo del giudizio e non già di prosecuzione della precedente fase. Che questa qualificazione sia indispensabile ai fini della corretta valutazione della necessità o meno del deposito telematico è riferito anche dal magistrato abruzzese: in motivazione, vi è ampio riferimento al fatto che il problema affrontato – v. supra – si può riproporre in tutti i procedimenti di natura bifasica o nei giudizi sommari che siano caratterizzati dall'esistenza di un'appendice o di un subprocedimento connesso e diretto al riesame del provvedimento del giudice di prime cure (si rinvia, ad esempio, al deposito dell'atto per l'«inizio del giudizio di merito» ex art. 669-octies c.p.c., al deposito dell'atto di «prosecuzione» del giudizio di merito possessorio ex art. 703, comma 4, c.p.c., al deposito degli atti della fase istruttoria dei giudizi di separazione o divorzio, nonché a quello degli atti introduttivi e di costituzione nel giudizio di opposizione alla fase sommaria del c.d. rito Fornero ex art. 1, comma 51, della l. n. 92/2012). E, infatti, il tribunale ha cura di precisare che, in relazione a ciascuno di tali subprocedimenti o procedimenti connessi, prima di affermare l'obbligatorietà del deposito in via telematica, è necessario appurare se la seconda fase sia «meramente prosecutoria dell'unico giudizio instaurato con il ricorso originario»; questa natura del reclamo cautelare viene dedotta da indizi formali, quali la non necessità del nuovo mandato al difensore, escludendo, invece, una soluzione diversa in virtù delle disposizioni amministrative relative all'obbligo del versamento del contributo unificato all'atto del deposito del reclamo ed all'iscrizione con un numero di ruolo differente rispetto a quello del cautelare (nello stesso senso, Trib. Torino 6 marzo 2015). Tuttavia, sposando la diversa tesi (dottrinale e giurisprudenziale) secondo cui il reclamo cautelare è un novum iudicium e non una revisio prioris instantiae, si è costretti a modificare la soluzione nel senso della facoltatività del deposito telematico, in quanto atto introduttivo di un giudizio, appunto, nuovo, sia pur funzionalmente collegato alla fase precedente, ma costruito come un gravame con funzione totalmente devolutiva oltreché con effetto sostitutivo (tra le altre, Trib. Trani 11 aprile 2008, secondo il quale, «così come l'oggetto del reclamo cautelare non può essere ristretto per l'operare di un effetto devolutivo limitato, allo stesso modo non è neppure possibile applicare a tale istituto processuale le regole del giudicato parziale in tema di acquiescenza e di presunzione di rinuncia a domande ed eccezioni non riproposte in appello»). Peraltro, indici sensibili in questo senso sono offerti dalla possibilità di effettuare anche direttamente in sede di reclamo attività assertive, come l'allegazione di fatti ed il rilievo di eccezioni anche in senso proprio, nonché attività probatorie, come l'ammissione di nuovi mezzi di prova. Si è, altresì, osservato (Agnino) che l'opzione espressa con la l. n. 80/2005 è chiaramente a favore della natura devolutivo-sostitutivo del reclamo, aperto all'allegazione dello ius novorum: coerentemente alla possibilità di allegare fatti nuovi, il novellato comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c. – riproducendo, peraltro, l'analoga previsione già introdotta dall'art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003 nell'àmbito del rito societario – dispone, infatti, che «il tribunale può sempre assumere nuove informazioni e acquisire nuovi documenti». Orbene, la diversità della formula, rispetto a quella utilizzata dall'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. – che fa riferimento agli «atti di istruzione» – non giustifica, tuttavia, una minor ampiezza dei poteri istruttori del collegio (dotato di piena potestà cautelare) rispetto a quelli esercitabili dal giudice a quo; ciò tanto più in considerazione della nuova prospettiva di poter conseguire un provvedimento ante causam idoneo, se a carattere anticipatorio, a svolgere una funzione non più soltanto cautelare, ma totalmente satisfattiva dell'interesse sostanziale perseguito dal ricorrente sia pure attraverso un accertamento a cognizione sommaria, privo dell'autorità del giudicato, ma ugualmente suscettibile di produrre effetti permanenti ove alcuna parte assuma l'iniziativa di instaurare il successivo giudizio di merito. Si è ritenuto, pertanto, che il giudice del reclamo, nel rispetto di quanto devoluto alla parte attraverso i motivi di reclamo – effetto parzialmente devolutivo, in applicazione analogica dell'art. 346 c.p.c. – abbia la possibilità di integrare eventuali lacune dell'istruttoria sulla domanda cautelare nonché, in mancanza di specifiche preclusioni, di accogliere nuove istanze istruttorie relative a circostanze sopravvenute o anche a fatti in precedenza non dedotti, procedendo al compimento di quegli atti di istruzione che reputi «indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini» della richiesta misura cautelare (e del reclamo), con applicazione analogica del comma 1 dell'art. 669-sexies c.p.c. Va segnalata, peraltro, l'esistenza di un altro formante giurisprudenziale – che sposa una tesi intermedia – secondo cui, ferma restando la qualificazione del reclamo come atto «endoprocessuale» soggetto al deposito telematico, l'eventuale deposito in cartaceo è comunque ammissibile, dovendo ritenersi egualmente conseguito, in tal modo, lo scopo di adire il giudice competente, senza pregiudizio dei diritti della parte reclamata (Trib. Torino 26 gennaio 2015; Trib. Ancona 28 maggio 2015; contra, Trib. Locri 20 ottobre 2016, il quale – sul presupposto che il reclamo avverso il provvedimento cautelare non introduce un nuovo e diverso giudizio, bensì un'ulteriore ed eventuale fase, dinanzi al collegio, facente parte integrante dell'unitario procedimento cautelare già instaurato dinanzi al primo giudice, per cui, non veicolando la costituzione della parte in giudizio, è da ritenersi assoggettato all'obbligo di deposito telematico – ha sostenuto, per un verso, che è inammissibile, in caso di deposito in forma analogica del reclamo avverso il provvedimento cautelare, la sanatoria della nullità per vizio di forma in base al principio del raggiungimento dello scopo, in quanto il principio di libertà delle forme si riferisce alla forma degli atti processuali e non alle modalità di trasmissione all'ufficio degli stessi, e, per altro verso, che la cancelleria è tenuta a non ricevere e, anzi, a rifiutare il deposito in forma cartacea degli atti processuali delle parti già costituite, salve le eccezioni di cui ai commi 8 e 9 dell'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012). Resta inteso che il deposito del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. da parte della Pubblica Amministrazione può essere effettuato in forma cartacea, visto che l'art. 16, comma 1, del d.l. n. 179/2012 prevede espressamente che, riguardo ai difensori, non si intendono i dipendenti di cui si avvalgono le Pubbliche Amministrazioni per stare in giudizio personalmente, per i quali dipendenti il deposito in forma telematica è meramente facoltativo, così come lo è quello degli atti introduttivi ai sensi del successivo art. 1-bis. Volendo riassumere i risultati fin qui raggiunti, si può rilevare che, a favore del primo orientamento (prosecuzione del medesimo procedimento cautelare), militano le seguenti circostanze: a) l'atto va depositato dal difensore di una parte già costituita nella precedente fase, a maggior ragione se il procedimento cautelare intervenga in corso di causa, tant'è che il ricorrente può omettere di indicare in ricorso la procura alle liti, b) la competenza è attribuita ad un giudice di pari grado rispetto a quello che ha emesso il provvedimento contestato, c) questi è investito del potere di svolgere attività istruttoria ulteriore «sempre» – e dunque indipendentemente dalle sopravvenienze – diversamente da quanto accade nel giudizio di impugnazione, d) la finalità perseguita è quella di ottenere il riesame della domanda cautelare, e) l'esito prodotto è quello dell'emissione di un provvedimento che, in caso di riforma, si sostituisce a quello reso dal giudice di prime cure e produce effetti sino all'esito del giudizio di cognizione, salva la revoca o la modifica per fatti sopravvenuti (sul piano dell'interpretazione della norma processuale in esame, sono stati ritenuti irrilevanti l'obbligo del versamento del contributo unificato al momento del deposito del reclamo e l'iscrizione del ricorso con un numero di ruolo diverso da quello del procedimento di primo grado, trattandosi di meri adempimenti amministrativi afferenti rispettivamente a misure di ordine tributario ed a esigenze organizzative della cancelleria in quanto correlate alle modalità di tenuta dei registri). A favore del secondo orientamento (procedimento dotato di una propria autonomia), militano il fatto che: a) l'atto di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. introduce un nuovo giudizio sulla domanda cautelare, b) il giudice (collegiale) è diverso da quello (monocratico) della fase precedente, c) il procedimento reca un nuovo numero di ruolo generale, in relazione al quale viene fissata autonoma udienza da notificarsi autonomamente, d) si consente alla parte reclamante di costituirsi nel predetto giudizio, che è destinato a concludersi con un provvedimento avente effetti sostitutivi del provvedimento impugnato (in quest'ottica, non rileva né la circolare ministeriale del 28 ottobre 2014, poiché il punto 9 si limita a richiamare l'art. 16-bis, che contiene, a sua volta, una locuzione non dirimente ai fini della qualificazione dell'atto di reclamo, né il protocollo del processo telematico adottato eventualmente dal singolo ufficio giudiziario, in quanto le indicazioni contenute in tali documenti sono prive di valenza normativa). Da ultimo, si segnala l'intervento delle Sezioni Unite sulla questione di massima di particolare importanza relativa alla natura del procedimento di reclamo al collegio in tema di estinzione del processo esecutivo, ossia se esso sia meramente prosecutorio del procedimento esecutivo già iniziato oppure costituisca un autonomo procedimento contenzioso, in quanto incidente sulla forma, telematica o cartacea, con la quale deve essere depositato il ricorso introduttivo dello stesso (Cass. S.U., n. 7877/2022, riguardo al particolare reclamo di cui all'art. 630, comma 3, c.p.c., ma con rilievi interessanti anche per la tematica che ci occupa). Va, preliminarmente, ricordato che il comma 1 dell'art. 16-bis della l. n. 221/2012, nello stabilire che «il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche», fissa la regola dell'obbligatorietà del deposito telematico degli atti comunemente definiti come «endoprocessuali», mentre, per le parti non precedentemente costituite, vale la regola dell'alternatività, a scelta dell'interessato, tra il deposito telematico e quello cartaceo: ne consegue che, al fine di individuare gli atti c.d. endoprocessuali, «nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, innanzi al tribunale», la norma distingue a seconda che «le parti», munite del difensore, siano o meno «precedentemente costituite». Ora, la costituzione in giudizio, non definita dal codice di rito, ma menzionata anzitutto agli artt. 165 e 166 c.p.c., è – intesa nel significato suo proprio – l'atto formale mediante il quale, per mezzo degli adempimenti di volta in volta richiesti, si concretizza il rapporto tra la parte che si costituisce ed il giudice, allo scopo di rendere possibile il dispiegamento del contraddittorio, di regola, per l'intero corso del grado, mentre la parte che non si costituisce, cioè che non pone in essere la formalità necessaria e sufficiente per determinare la propria presenza legale nel processo, secondo quanto stabilisce l'art. 171, comma 3, c.p.c., è dichiarata contumace. La costituzione in giudizio, così come espressamente disciplinata dal codice di rito, è, dunque, formalità collegata alla contumacia, sicché non trova applicazione laddove non sia prevista dalla legge e non sia correlativamente contemplato il procedimento in contumacia. Tale osservazione induce a ritenere che l'espressione «parti precedentemente costituite», contenuta nel comma 1 dell'art. 16-bis, non possa essere intesa come riferita soltanto alla nozione di costituzione in giudizio nel senso tecnico di cui sopra; ciò è reso manifesto dalla considerazione che il comma 1 della disposizione definisce il proprio àmbito di applicazione circoscrivendolo ai «procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione»; quest'ultima dicitura testimonia che la costituzione, cui la norma allude, non può essere quella in mancanza della quale si determina la contumacia della parte non costituita, stante che una simile nozione di costituzione, prima indicata, non si attaglia, per certo, tra gli altri, ai procedimenti volontari, tanto più se non contenziosi. A rincalzo, merita aggiungere che l'art. 16-bis, nel suo complesso, reca, oltre alla previsione di portata generale del comma 1, ulteriori disposizioni concernenti i «processi esecutivi», nei quali il deposito telematico «si applica successivamente al deposito dell'atto con cui inizia l'esecuzione» (comma 2), le «procedure concorsuali», nelle quali il deposito telematico è obbligatorio esclusivamente per l'organo che gestisce la procedura (comma 3), i «procedimenti giudiziali diretti all'apertura delle procedure concorsuali» (comma 4-bis). Ma, se si leggesse il comma 1 nel senso che esso recepisce la nozione di costituzione in senso tecnico, e lo si coniugasse con le previsioni degli ulteriori commi ora richiamati, si finirebbe per ammettere che l'art. 16-bis nulla dispone quanto al deposito telematico in una larga parte di procedimenti anche contenziosi disciplinati dal codice di procedura civile, che non prevedono specificamente l'adempimento della costituzione, se solo si pensi – per quel che ci interessa da vicino – che nessuna disciplina della costituzione il codice di rito detta per i procedimenti cautelari. Con l'espressione «parti precedentemente costituite», il comma 1 dell'art. 16-bis si riferisce non soltanto all'atto di costituzione nel senso indicato, dalla cui omissione discende la contumacia, nelle ipotesi in cui la costituzione sia prevista, ma anche, più in generale, all'acquisizione della veste di parte in senso formale nel procedimento incardinato dinanzi al giudice adìto, veste che, almeno in senso lato, compete a ciascuna parte in qualunque procedimento destinato a svolgersi dinanzi al tribunale. Ai sensi della disposizione dettata dal comma 1 dell'art. 16-bis, una volta che le parti sono entrate in contatto con il giudice, a mezzo del loro primo atto, che può, a discrezione delle medesime, essere depositato telematicamente o in cartaceo, ogni deposito successivo deve essere ormai obbligatoriamente telematico, fintanto che il rapporto parti-giudice non debba essere nuovamente instaurato, o perché la parte non è più la stessa, o perché non è più lo stesso il giudice. Le considerazioni fino ad ora svolte rilevano – secondo il massimo consesso decidente – ai fini della soluzione del quesito se il reclamo di cui al comma 3 dell'art. 630 c.p.c. esiga o meno il deposito telematico: si tratta, invero, di un procedimento peculiare sia per le modalità di proposizione, sia per la previsione della decisione con sentenza, appellabile secondo le regole generali, siccome la legge non lo esclude (sull'appellabilità, v. Cass. III, n. 19102/2018; Cass. III, n. 2185/2018; Cass. III, n. 14646/2016). In ordine alla natura di tale rimedio, si è osservato che, attraverso esso, «è assicurato un controllo sistemico del provvedimento di estinzione, al quale deve essere riconosciuta struttura cognitiva, che, per questa ragione, si conclude con una sentenza, contro la quale è consentito il normale regime delle impugnazioni costituito dall'appello; quando la parte che vi ha interesse chiede una decisione sull'estinzione del processo esecutivo e propone reclamo contro l'ordinanza che dichiara l'estinzione o rigetta la relativa eccezione, il reclamo apre un giudizio sul contrapposto interesse sostanziale dei creditori e del debitore a conseguire il risultato utile dell'espropriazione o a riottenere la libera disponibilità dei beni pignorati o di quanto è stato ricavato dalla loro espropriazione, come si ricava dalle norme che regolano gli effetti dell'estinzione del processo esecutivo» (così Cass. III, n. 14096/2005). Trattandosi di procedimento di natura cognitiva, e che, dunque, si colloca al di fuori dei «processi esecutivi di cui al libro III del codice di procedura civile», cui si riferisce il comma 2 dell'art. 16-bis, il regime del deposito telematico va desunto dalla regola generale posta dal comma 1 della disposizione; e, attesa la natura cognitiva del procedimento, che si dipana sullo sfondo dell'esecuzione forzata, ma del tutto al di fuori di essa, palesando una chiara natura impugnatoria – perché, se esso non è proposto nei termini previsti, la decisione già adottata in punto di estinzione si stabilizza – tale da determinare una netta cesura tra la fase esecutiva e quella cognitiva, deve aversi per certo che la proposizione del reclamo in discorso non sia riconducibile al novero degli atti endoprocessuali. Pertanto, posto che la nozione di costituzione, cui si riferisce l'art. 16-bis, è nella specie evidentemente fuori gioco, e considerato che non vi è un'immutazione delle parti, occorre constatare che, per effetto del reclamo, si instaura una nuova relazione parti-giudice, tale ricondurre il reclamo medesimo al novero degli atti introduttivi sottratti alla disciplina dell'obbligatorio deposito telematico; in altri termini, al momento del reclamo, il rapporto tra le parti ed il giudice chiamato a decidere su di esso non si è ancora instaurato, atteso che lo stesso, pur rivolto al giudice dell'esecuzione, è deciso, però, dal collegio ai sensi dell'art. 630, comma 3, c.p.c. (Cass. III, n. 2500/2003): è solo con il reclamo, dunque, che il reclamante entra per la prima volta in contatto con il collegio. In conclusione, il reclamo di cui al comma 3 dell'art. 630 c.p.c.non è atto c.d. endoprocessuale soggetto alla disciplina dell'obbligatorio deposito telematico, il che sta, in definitiva, a significare che il reclamo può essere correttamente depositato in cartaceo. La sospensione del provvedimento impugnato. Nel corso dei lavori preparatori della l. n. 353/1990, uno dei punti più controversi era il disconoscimento o il riconoscimento dell'effetto sospensivo automatico del provvedimento cautelare al momento della proposizione del reclamo (Tarzia, 388), anche se si era propensi ad introdurre, al fine di controbilanciare il potere di sospensione riconosciuto al giudice adìto, la condizione che tale sospensione potesse essere accordata solamente quando, per motivi sopravvenuti, il provvedimento arrecasse grave danno. Questa formulazione aveva indotto alcuni a considerare come «motivi sopravvenuti» quelli risultanti da fatti non esistenti al momento dell'emanazione del provvedimento (Proto Pisani, 373); secondo altri, invece, sarebbe stato il giudice, con una nuova valutazione dei motivi di fatto e di diritto, che richiamava quelli indicati nell'art. 669-septiesc.p.c., come «mutamenti delle circostanze» o «deduzioni di nuove ragioni di fatto e di diritto», a giustificare la medesima sospensione (Tarzia, 400; Cecchella, 221). Comunque, l'art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c. ha stabilito che il reclamo non sospende in modo automatico l'esecuzione del provvedimento impugnato – immediatamente efficace, contrariamente a quello emanato a conclusione della procedura camerale ex art. 741 c.p.c., in cui il provvedimento soggetto a reclamo acquista efficacia solo qualora siano decorsi i relativi termini – ma, a norma dell'ultimo comma dell'art. 669-terdecies c.p.c., qualora per motivi sopravvenuti lo stesso provvedimento arrechi gravi danni, il presidente del tribunale o della corte d'appello, investiti del reclamo (e, quindi, non il giudice a quo), possono disporre la sospensione della predetta esecuzione o subordinarla alla prestazione di una congrua cauzione (nel senso che l'efficacia esecutiva rimane sospesa fino alla relativa prestazione, mentre l'esecuzione in corso non è sospesa fino a quando la cauzione non sia stata versata). Tutto ciò, preferibilmente, su istanza di parte, in ossequio al principio della domanda di cui all'art. 99 c.p.c., non potendo disporsi d'ufficio, e con «ordinanza non impugnabile», il che presupporrebbe la previa convocazione delle parti, anche se difficilmente realizzabile attesi i tempi ristretti per la decisione del reclamo, con il rischio di perdere quel tempo che l'inibitoria intende risparmiare (sulla necessarietà dell'istanza, Proto Pisani, 32; Carpi, Taruffo, 150; contra, Tommaseo, 105). La contrazione del concreto periodo di reclamabilità, riconducibile alla scelta di far decorrere il relativo termine già dalla comunicazione di cancelleria – v. il successivo par. 5.4. – rende ancora più improbabile che si verifichi il presupposto che condiziona l'attivazione del potere presidenziale di sospensiva; non dovrebbe, però, realizzarsi una parziale sovrapposizione tra tale fattispecie e quella della revoca, stante l'inammissibilità di quest'ultima fino al momento dell'esaurimento della fase di reclamo, ai sensi del novellato art. 669-decies c.p.c.; comunque, l'eventuale mancata allegazione dei motivi sopravvenuti in sede di istanza di sospensione dell'esecuzione non sembra precludere al reclamante la successiva deduzione di quegli stessi motivi nel procedimento di reclamo. I giudici di merito hanno affermato che, per «motivi sopravvenuti», debbano intendersi i fatti nuovi in quanto non esistenti o non prevedibili al momento dell'adozione della misura cautelare – fatti, dunque, idonei a causare un diverso bilanciamento delle reciproche posizioni, stabilendo se e quale tipo di provvedimento concedere – e non già una nuova valutazione dei fatti precedentemente dedotti o nuovi motivi di diritto non presi in considerazione dal giudice di prime cure (secondo Trib. Monza 29 dicembre 2001, la sospensione del provvedimento reclamato è prevista, dall'art. 669-terdecies, ultimo comma c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui i gravi danni paventati dal reclamante attengano a «motivi sopravvenuti»; v., altresì, Trib. Torino 15 luglio 1993, il quale ha ribadito che, per «motivi sopravvenuti» ex art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c., ai fini della sospensione dell'esecuzione del provvedimento reclamato, vanno considerati i fatti non esistenti al momento dell'emanazione del provvedimento cautelare e non già una nuova valutazione dei fatti precedentemente dedotti; una posizione a parte ricopre Trib. Massa 1° agosto 2018, a parere del quale il potere di sospensione dell'esecuzione dell'ordinanza ai sensi dell'art. 669-terdecies, ultimo comma, c.p.c., presuppone necessariamente la mancata esecuzione del provvedimento, mentre non comprende quello di porre nel nulla gli effetti dell'esecuzione disponendo la remissione in pristino, laddove l'esecuzione sia già avvenuta; comunque, secondo il parere di Trib. S. Maria Capua Vetere 15 aprile 2013, il potere presidenziale di sospensione di cui all'art. 669-terdecies, ultimo comma, c.p.c. è limitato alla «gestione» della misura cautelare in attesa dei provvedimenti del collegio, nel senso che si tratta di un potere a contenuto solo negativo, di portata residuale ed eccezionale e che, quindi, la norma è di stretta interpretazione ed insuscettibile di applicazione analogica). Va dato atto, comunque, che sia abbastanza difficile che, nel breve periodo che intercorre tra la suddetta concessione e la proposizione del reclamo, accadano nova tali da giustificare il provvedimento di inibitoria presidenziale (nel senso che, se il giudice della cautela l'avesse conosciuti o previsti, avrebbe disatteso l'istanza o avrebbe provveduto diversamente). Volendo, invece, attribuire a tale espressione un significato più ampio e diverso dai «mutamenti nelle circostanze» contenuto negli artt. 669-septies, comma 1, e 669-decies c.p.c. – che consentono, rispettivamente, la riproponibilità dell'istanza cautelare rigettata o la modifica/revoca della misura cautelare concessa – si consente una nuova valutazione, oltre che dello ius superveniens , dei motivi di fatto o di diritto idonei a giustificare la persistenza del provvedimento cautelare oggetto di reclamo; in pratica, una «sopravvenienza» non sotto il profilo temporale, ma logico, concependo l'inibitoria come una sorta di rimedio all'erroneo convincimento del primo giudice sull'insussistenza degli effetti pregiudizievoli irreversibili provocati dall'attuazione del provvedimento reclamato (in tal senso, sembra porsi, sia pure in una particolare fattispecie, App. Roma 4 agosto 1995, secondo la quale il provvedimento di sospensione dalla potestà parentale emesso d'urgenza in via cautelare dal tribunale per i minorenni in composizione collegiale può essere reclamato, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., avanti alla corte d'appello che, in caso di rilevante danno o di serio pericolo di rilevante danno per il minore, può sospendere l'esecuzione del provvedimento reclamato). Comunque, il concetto di «gravi danni» è diverso dai «gravi motivi» che compare nell'art. 624 c.p.c. in ordine alla sospensione dell'esecuzione, sicché la valutazione presidenziale non dovrebbe afferire al probabile fumus del reclamo, ma correlarsi al fatto che l'attuazione (o la possibile attuazione) della misura cautelare possa arrecare un rilevante danno o un serio pericolo di rilevante danno; il tutto purché l'esecuzione possa cagionare alla parte destinataria del provvedimento cautelare un pregiudizio irreversibile o difficilmente reversibile, anche prima dell'attività destinata a produrne la concreta realizzazione – non essendo presupposto per l'emanazione dell'inibitoria l'inizio vero e proprio della fase esecutiva – a meno che l'esecuzione stessa non sia già conclusa o, comunque, gli effetti dell'atto non siano già esauriti. In proposito, non sembra che il collegio, in sede di reclamo avverso il provvedimento negativo – di regola, con ordinanza e, eccezionalmente, con decreto inaudita altera parte – emesso dal primo giudice ex art. 669-septies c.p.c., andando di contrario avviso, possa decretare immediatamente la misura cautelare – ovviamente, fissando con lo stesso decreto l'udienza per la definitiva decisione sul punto – qualora sussista in concreto l'urgenza di provvedere, ossia prescindendo dalla preventiva realizzazione del contraddittorio imposta dall'art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c., anche se non si nasconde che il presupposto del periculum in mora di cui all'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. potrebbe sussistere in sede di reclamo non tanto sotto il profilo della conoscenza della controparte, quanto piuttosto in relazione all'elemento cronologico che risulti incompatibile con i tempi necessari per convocare il reclamato, sconsigliando, quindi, la necessità di provocare necessariamente il contraddittorio laddove si rischierebbe di vanificare l'esigenza di cautela (peraltro, il giudice del reclamo potrebbe anche «concedere» la cautela negata in prime cure, e non solo, come impone il testo non novellato dell'art. 669-terdecies, comma 5, c.p.c., confermare, modificare o revocare la stessa). In altri termini, a seguito dell'intervento dei giudici della Consulta sulla reclamabilità del provvedimento negativo, consacrato dalla modifica del comma 1 ad opera della l. n. 80/2005, una volta apprezzata la parità degli interessi sostanziali delle parti (alla rimozione ed all'ottenimento della misura cautelare), potrebbe sostenersi la conseguente necessità di assicurare altrettanto parità di strumenti processuali tra il giudice di prime e seconde cure, atteso che, oramai, il reclamo viene visto come un novum iudicium, potendo il collegio essere investito di tutto il merito della questione sottoposta al giudice singolo. Il termine perentorio. In ordine alla corretta individuazione del dies a quo di decorrenza del termine perentorio di cui all'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c. per proporre il reclamo, ed alle rilevanti conseguenze dell'esaurimento dello stesso termine – si pensi all'ammissibilità delle istanze di modifica e di revoca, o al rafforzamento di quell'autorità del provvedimento cautelare accennata nell'ultimo comma dell'art. 669-octies c.p.c. – va dato atto che l'originaria formulazione non risultava chiara, atteso che, richiamando l'art. 739, comma 2, c.p.c., dettato per i procedimenti in camera di consiglio, correlava tale decorrenza alla comunicazione del decreto «se è dato in confronto di una sola parte» o alla notificazione «se è dato in confronto di più parti». Ipotesi, quest'ultima, tipica del procedimento cautelare, di natura essenzialmente non uninominale ma contenziosa – le parti, infatti, sono almeno due, ossia l'istante e la controparte, nei cui confronti è chiesta la misura cautelare – nel quale procedimento l'ordinanza concessiva della cautela è emanata in ossequio al principio del contraddittorio di cui all'art. 669-sexies c.p.c. (Dalmotto 1998, 409). In proposito, si registravano soluzioni non univoche nella giurisprudenza, il che, stante altresì la natura perentoria del termine, la ritenuta non impugnabilità della decisione sul reclamo e la mancanza di un controllo nomofilattico dalla Suprema Corte, comportava forti di rischi di andare incontro a declaratorie di inammissibilità per tardività. A stretto rigore, il reclamo doveva, quindi, depositarsi entro dieci giorni a far data dalla notificazione dell'ordinanza, unicamente eseguita al procuratore costituito di una delle parti su richiesta dell'altra ed a mezzo dell'ufficiale giudiziario, a norma degli artt. 137 ss. c.p.c. Non ammettendo la notificazione forme equipollenti, inidonee a far decorrere tale termine perentorio risultavano sia la notificazione eseguita dall'ufficiale giudiziario su istanza del cancelliere; sia la notificazione effettuata dal cancelliere autonomamente o su ordine del giudice; sia la comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria, seppure compiuta in forma integrale; sia la notificazione effettuata alla parte personalmente e non al procuratore costituito; sia la conoscenza di fatto, comunque conseguita, dell'intera ordinanza, desumibile, ad esempio, dalla presentazione di un'istanza di modifica. Sul punto, alcuni giudici di merito (in maggioranza), estendendo al reclamo cautelare le regole della disciplina generale delle impugnazioni (specie, dell'appello), avevano affermato che si doveva far riferimento, anche in caso di concessione della cautela lite pendente, solo alla notificazione – ovviamente, presso il procuratore costituito, in applicazione del principio di cui all'art. 285 c.p.c., e non alla parte personalmente – della copia integrale del provvedimento reclamato di cui era onerata, per il tramite dell'ufficiale giudiziario, exartt. 137 ss. c.p.c., la parte interessata, di solito la parte vittoriosa, ossia quella a cui è favorevole il provvedimento emesso (Trib. Milano 8 marzo 2004; Trib. Torino 9 gennaio 2004; Trib. Milano 25 novembre 2002; Trib. Napoli 30 agosto 2002; Trib. Firenze 6 giugno 2001; Trib. Monza 27 novembre 2000; Trib. Pescara 26 novembre 1998; Trib. Napoli 15 luglio 1998; Trib. Casale Monferrato 25 febbraio 1997; Trib. Bologna 5 luglio 1995; Trib. Salerno 8 aprile 1995; Trib. Roma 8 marzo 1995; Trib. Torino 16 novembre 1994; Trib. Torino 21 aprile 1994). Nello specifico, si era affermato che il reclamo avverso l'ordinanza con la quale fosse concessa o negata una misura cautelare doveva essere proposto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 669-terdecies e 739 c.p.c., nel termine perentorio di (allora) dieci giorni dalla notificazione dell'ordinanza fatta ad una delle parti dall'ufficiale giudiziario su istanza dell'altra parte ai sensi dell'art. 137 c.p.c., e non dalla data della comunicazione eseguita a cura della cancelleria ai sensi dell'art. 136 c.p.c., atteso che i provvedimenti cautelari non potevano che essere dati nei confronti di più parti, stante la natura contenziosa del relativo procedimento e l'obbligo del rispetto del principio del contraddittorio fissato dall'art. 669-sexies c.p.c.; né poteva ritenersi fondato il timore secondo cui, in difetto di notificazione a cura di una delle parti, il termine per il reclamo sarebbe aperto sine die, atteso che la parte interessata aveva interesse alla sollecita proposizione del reclamo e, comunque, entrambe le parti avevano la facoltà di provocare, al fine di evitare ogni incertezza, la decorrenza del termine provvedendo alla notificazione del provvedimento (così Trib. Napoli 6 marzo 1997). In tal senso, si era posta anche la magistratura di vertice: invero, il termine di dieci giorni previsto dall'art. 739 c.p.c. per la proposizione del reclamo contro il provvedimento camerale pronunciato nei confronti di più parti decorre dalla notificazione dello stesso eseguita ad istanza di parte e non anche dalla notificazione eseguita ad istanza del cancelliere; i procedimenti camerali che si svolgono nei confronti di più parti hanno, infatti, natura contenziosa e si applica, pertanto, la regola dettata dall'art. 285 c.p.c. in tema di impugnazioni, in forza della quale bisogna aver riguardo alla notificazione fatta ad istanza di parte; attribuire alla sola parte il potere di far decorrere il termine per il reclamo ben si armonizza con la struttura dispositiva anziché officiosa propria dei procedimenti contenziosi (Cass. I, n. 7118/1997: nella specie, ne conseguiva che la notifica del decreto del tribunale reso ai sensi dell'art. 710 c.p.c. in ordine alla revisione dei patti di separazione omologati, eseguita su istanza del cancelliere del giudice a quo, non era idonea a determinare la decorrenza del termine di dieci giorni per il reclamo avverso tale provvedimento; cui adde Cass.S.U., n. 3670/1997, che espressamente escludeva l'ammissibilità della notificazione eseguita allo stesso ufficiale giudiziario ma su istanza del cancelliere del giudice a quo oppure dal cancelliere autonomamente; Cass. I, n. 1460/1994, in tema di declaratoria di ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità ex art. 274 c.c.). In alcune pronunce (Trib. Modena 13 marzo 1997), veniva ammessa pure la notificazione ad istanza del cancelliere – addetto all'ufficio che aveva emesso il provvedimento cautelare ex art. 58 c.p.c. – del testo integrale dell'ordinanza cautelare, atteso che, in questo caso, si realizzava una vera e propria notificazione e non una semplice comunicazione (che sarebbe stata inidonea a far decorrere il predetto termine), essendo, invece, irrilevante la comunicazione del medesimo atto o la sua conoscenza de facto da parte del reclamante con altre modalità. Addirittura, si era ritenuta non sufficiente la notifica della citazione per il giudizio di merito, pur se facesse menzione dello stesso provvedimento (Trib. Ravenna 24 dicembre 1999, ad avviso del quale, ai sensi del comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c., il reclamo contro i provvedimenti cautelari doveva essere proposto nei termini previsti dall'art. 739, comma 2, c.p.c., senza che la notificazione dell'atto di citazione introduttivo del giudizio di merito potesse tener luogo della notifica dell'ordinanza cautelare, ancorché in esso richiamata, poiché, fuori dei casi in cui il richiamo si concretasse in un'integrale riproduzione del contenuto dell'atto, le esigenze di difesa della parte resistente ne imponevano un'autonoma ed apposita notificazione; Trib. Torino 3 gennaio 1994). Anche qui, l'opzione ermeneutica aveva ottenuto l'avallo dei giudici di legittimità: invero, posto che l'art. 739, comma 2, c.p.c. configurava un'ipotesi di notificazione a cura del cancelliere prescritta dalla legge, ai sensi dell'art. 58 c.p.c., ne conseguiva che la notificazione ad istanza del cancelliere di copia integrale del provvedimento emanato nei confronti di più parti era idonea a far decorrere il termine per la proposizione del reclamo, a nulla rilevando che la copia notificata mancasse della certificazione di conformità all'originale e che l'atto notificato recasse l'indicazione di «comunicazione» (Cass. I, n. 4160/1994: nella specie, si trattava di un decreto di modifica delle disposizioni contenute nella sentenza di divorzio). Altri giudici (in minoranza) avevano ritenuto equipollente la comunicazione del provvedimento, preferibilmente nella sua interezza, effettuata a cura della cancelleria exartt. 134, comma 2, e 136 c.p.c. nel caso di ordinanza emessa fuori udienza – per dare un senso al rinvio operato all'art. 739 c.p.c. alla decisione emessa nei confronti di una o più parti si faceva riferimento, rispettivamente, al soggetto o ai soggetti legittimati al reclamo – altrimenti, diversamente opinando, si sarebbe consentito alle parti di lasciare aperto a tempo indeterminato il termine per proporre reclamo, a fronte della lettera della norma che sottolineava il carattere «perentorio» (Trib. Milano 13 ottobre 2006, in tema di inibitoria della commercializzazione e vendita di un prodotto; Trib. Treviso 3 giugno 2003; Trib. Roma 17 giugno 1998; Trib. Piacenza 25 giugno 1997; Trib. Piacenza 13 marzo 1997; Trib. Roma 12 marzo 1997; Trib. Napoli 14 febbraio 1997; Trib. Rimini 13 dicembre 1995; Trib. Messina 4 dicembre 1995; Trib. Torino 3 agosto 1995, aggiungendo che il cancelliere, in base al combinato disposto degli artt. 136,59 e 739, comma 2, c.p.c., rientrasse senz'altro fra i soggetti titolari del potere di far decorrere il suddetto termine; Trib. Biella 23 luglio 1994; Trib. Firenze 29 giugno 1994; Trib. Brescia 9 dicembre 1993; in una particolare ipotesi, Trib. Bari 24 maggio 2007 aveva rilevato che la comunicazione dell'ordinanza resa fuori udienza al procuratore costituito, che fosse iscritto in un albo di tribunale diverso da quello nel cui circondario si trovava il giudice adìto e non avesse eletto domicilio in quel tribunale, si riteneva perfezionata, nei confronti del suddetto procuratore, presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario dinanzi al quale pendeva la causa, sicché, nell'ipotesi di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., ai fini di una valida proposizione della domanda, il termine ivi previsto decorreva dalla data di comunicazione e non dalla data di deposito del provvedimento, stante che si trattava di due atti distinti e non equipollenti). Sul versante dottrinale, alla luce del vecchio dettato normativo, che rinviava all'art. 739, comma 2, c.p.c., l'opinione maggioritaria riteneva che il termine di dieci giorni, previsto dal citato articolo, decorresse dalla notificazione ad istanza di parte (Cecchella, 207; Attardi, 257). Il problema è stato ora, per fortuna, risolto dalla l. n. 80/2005 che, modificando sul punto il comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c., stabilisce espressamente – chiarendo finalmente il dettato legislativo ed al fine di superare le incertezze operative, sulla scia anche delle modifiche allora introdotte nel rito societario dal d.lgs. n. 5/2003 – che il dies a quo di cui sopra decorre «dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore». Pertanto, al fine di evitare un'indefinita protrazione della situazione di incertezza sulle sorti del provvedimento cautelare, cagionata dall'inerzia delle parti nel procedere alla notificazione dell'ordinanza, con conseguente perenne reclamabilità della stessa, la l. n. 80/2005 ha così sottratto il decorso del termine di proposizione del reclamo a qualsiasi discrezionalità o richiesta dei contendenti, rimettendone l'iniziativa, in caso di riserva di pronuncia, all'adempimento di un dovere d'ufficio del cancelliere, rimanendo eccezionalmente decisiva a segnare l'inizio dei quindici giorni la notificazione del provvedimento che si perfezioni nei confronti del destinatario prima che quest'ultimo riceva il biglietto di cancelleria. In pratica, la parte che vorrà far decorrere il termine per reclamare, per ottenere rapidamente la definitività del provvedimento, provvederà a notificarlo alla controparte, ma trattandosi di un onere e non di un obbligo, il termine decorrerà ugualmente dalla comunicazione effettuata dalla cancelleria, sicché, arrivato il relativo biglietto, il soccombente dovrà attivarsi per procurarsi la copia del provvedimento che intenderà reclamare (in tal modo, viene abbandonata l'idea di lasciare esclusivamente alla parte interessata la scelta sulle modalità di decorrenza del suddetto termine, facendo dipendere la consumazione del potere di reclamo da una sollecitazione, per così dire, pubblicistica, con il rischio così di possibili gravami affrettati). In argomento, la giurisprudenza maggioritaria successiva (Trib. Firenze 17 luglio 2012; Trib. Torino 22 febbraio 2008; Trib. Bari 24 maggio 2007; Trib. Trani 23 gennaio 2007; Trib. Bari 10 luglio 2006) è, però, del parere per cui la decorrenza del termine perentorio stabilito all'art. 669-terdecies c.p.c. presupponga, in mancanza di notificazione, la comunicazione integrale dell'ordinanza a cura del cancelliere, sicché la comunicazione del deposito del provvedimento da parte del cancelliere, con il solo dispositivo, non è idonea a far decorrere il termine perentorio per reclamare, in quanto non consente alla parte soccombente, non ancora a conoscenza della motivazione contenuta nel provvedimento, di esercitare il diritto di difesa; inoltre, la comunicazione di cancelleria, effettuata tramite avviso telematico, ai sensi dell'art. 136 ultimo comma c.p.c., dell'ordinanza con la quale sia stato concesso o negato il provvedimento cautelare, è idonea a far decorrere il termine di quindici giorni stabilito dall'art. 669-terdecies c.p.c. per la proposizione del relativo reclamo, ma a tale comunicazione telematica della cancelleria va allegato il provvedimento cautelare per esteso (Trib. Modena 28 ottobre 2011). Qualora manchi la notifica o la comunicazione, il termine per reclamare dovrebbe nascere nel momento in cui la parte soccombente abbia (effettivamente ed in qualunque modo) avuto notizia dell'avvenuta pronuncia della decisione cautelare, anche se, non potendosi con certezza desumere l'inizio di tale decorrenza, sembrerebbe preferibile optare per una reclamabilità sine die, quantomeno per tutelare la parte soccombente (Trib. Rieti 20 ottobre 2016, sul presupposto che, in tema di notificazioni, il termine di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. può trovare equipollenti in altri atti o fatti giuridici idonei ad assicurare una conoscenza effettiva e piena del provvedimento, ha affermato che, ai fini della decorrenza del suddetto termine perentorio, è sufficiente la conoscenza del fascicolo informatico avuta mediante il deposito dell'istanza di visibilità del fascicolo). Si è, però, anche sostenuto che, qualora la comunicazione del provvedimento cautelare non sia mai concretamente avvenuta (per non avervi provveduto la cancelleria), oppure qualora la comunicazione non sia prevista (come con riguardo al contumace) o sia stata effettuata in maniera incompleta ed inidonea a fornire al destinatario la piena conoscenza dell'atto (ad esempio, alla parte personalmente), e neppure si sia verificata la notificazione dell'ordinanza ad istanza di parte – analogamente a quanto afferma la giurisprudenza per la proposizione del regolamento di competenza – troverebbe pur sempre applicazione per il reclamo il termine di durata semestrale dal deposito del provvedimento, previsto per l'appello ai sensi dell'art. 327 c.p.c. In quest'ultima ipotesi, ossia in caso di omessa notificazione dell'ordinanza cautelare, una pronuncia (Trib. Asti 10 giugno 1996) ritiene operante il termine lungo dell'art. 327 c.p.c. – tipico, però, delle impugnazioni in senso tecnico, ossia rivolte contro provvedimenti idonei al giudicato – che fa scattare la decadenza dell'impugnazione decorso un anno – termine ridotto a sei mesi a seguito della riforma del 2009 – dalla pubblicazione del provvedimento (evento che, di per sé, non è idoneo al decorso del termine breve), al fine di evitare appunto che il provvedimento cautelare rimanga impugnabile in perpetuo (anche se la natura provvisoria, ma soprattutto immediatamente esecutoria del provvedimento concessorio, impongono una certa impellenza e celerità nel proporre il rimedio in oggetto). Resta fermo – come espressamente ora previsto dal comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c. (a differenza di quanto disposto dall'art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003) – che, per la decorrenza del termine di reclamo, vale anche l'ipotesi della pronuncia in udienza dell'ordinanza cautelare che, in quanto tale, si ritiene conosciuta dalle parti ivi presenti (Trib. Trani 23 gennaio 2007; ad avviso di Trib. Padova 21 marzo 1994, qualora l'ordinanza autorizzativa del provvedimento cautelare sia stata pronunciata presenti le parti, non può non trovare applicazione il principio generale secondo cui i provvedimenti emessi dal giudice in udienza si ritengono conosciuti dalle parti presenti, sì che non si rende necessaria, per la decorrenza del termine fissato nell'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c. la notificazione dell'ordinanza medesima). Qualora l'ordinanza cautelare sia pronunciata presenti le parti, si intende conosciuta dalle stesse, non necessitando al riguardo alcun incombente processuale, salva l'ipotesi del contumace il quale, per definizione, non ne ha alcuna conoscenza – interpretando sistematicamente l'art. 292 c.p.c. – sicché si opina che, nei suoi confronti, il termine decorra dalla comunicazione della cancelleria o dalla notificazione della controparte. In senso contrario, si è posta una parte della giurisprudenza di merito, ad avviso della quale, anche per i contumaci che intendano proporre ugualmente reclamo, il termine dei quindici giorni decorre dall'udienza ove il provvedimento è stato pronunciato (Trib. Pesaro 8 ottobre 2009; nella stessa linea, si è posto, più di recente, Trib. Reggio Calabria 22 giugno 2019, secondo cui il termine per la proposizione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. decorre, per la parte contumace, dalla pronuncia del provvedimento, se avvenuta in udienza, oppure dalla data di deposito del provvedimento in cancelleria, senza che occorra alcuna comunicazione o notificazione dell'ordinanza cautelare); nella fattispecie decisa da un giudice campano (Trib. Nocera Inferiore 16 settembre 2008), il reclamo era stato proposto dopo il decorso del termine di quindici giorni previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. dall'udienza in cui era stata emessa l'ordinanza cautelare, e si è ritenuto di dover approdare alla soluzione di cui sopra, posto che il novellato art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui stabilisce che la pronuncia in udienza del provvedimento cautelare è atto sufficiente affinché il decorso del termine inizi a decorrere automaticamente, non conferisce alcuna rilevanza all'eventuale assenza di una delle parti, e ciò anche in considerazione del fatto che, giusta l'art. 176 comma 2 c.p.c., «le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi»; peraltro, tale soluzione non solo è imposta dal chiaro tenore letterale della norma, ma, vieppiù, per un verso, risulta più confacente alle esigenze di rapidità e certezza evidenziate dalle modifiche introdotte nell'art. 669-terdecies c.p.c. e, per altro verso, garantisce per tutte le parti un pari decorso dei termini processuali, laddove, volendo argomentare diversamente, solo la parte costituita sarebbe onerata di proporre reclamo entro quindici giorni dalla pronuncia del provvedimento in udienza. Ovviamente, il reclamo sarà proponibile anche immediatamente, cioè prima dei suddetti incombenti processuali – notificazione o comunicazione a cura, rispettivamente, dell'ufficiale giudiziario o del cancelliere – attesa, peraltro, l'immediata esecutività del provvedimento cautelare, in linea con le esigenze di celerità che caratterizzano il procedimento cautelare (Trib. Napoli 27 aprile 2001, secondo il quale l'interessato può proporre reclamo dopo la pronuncia dell'ordinanza, senza dover attendere la notifica, perché il richiamo all'art. 739 c.p.c. contenuto nell'art. 669-terdecies c.p.c. deve essere inteso come volto a fissare non il dies a quo, bensì il dies ad quem, oltre il quale il reclamo non può più essere proposto; Trib. Palermo 11 marzo 1998; Trib. Savona 19 luglio 1996; Trib. Firenze 21 dicembre 1994; Trib. Rovigo 24 novembre 1993). In questa prospettiva, in applicazione del principio dies a quo non computatur in termino (art. 155, comma 1, c.p.c.), i quindici giorni devono contarsi dal giorno successivo a quello dell'udienza, sicché risulterebbe irrilevante, per la tempestiva proposizione del reclamo, la notificazione del provvedimento comunque effettuata ad istanza della parte vincitrice. Qualora si opti per ritenere che il reclamo debba essere inviato in via telematica – v. il precedente par. 5.2. – si è puntualizzato che il reclamo è da considerare tempestivo quando il reclamante abbia documentato che l'atto di reclamo è stato inoltrato telematicamente al tribunale nel termine ex art. 669-terdecies c.p.c. e nella medesima data accettato dal sistema e consegnato alla casella del tribunale, mentre non rileva l'eventuale successivo rifiuto del sistema dovuto a problemi organizzativi dello stesso tribunale, cosicché il secondo invio serve meramente solo a regolarizzare il primo deposito già di per sé tempestivo (Trib. Milano 1° giugno 2017). Ad ogni buon conto, al giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., non si applica il principio generale della sospensione dei termini processuali exl. n. 742/1969, e ciò trova giustificazione nella necessità di una sollecita definizione del procedimento di reclamo che, in quanto improntato ad esigenze prevalentemente cautelari, è assimilabile alla fase sommaria caratterizzata dai requisiti dell'urgenza e dell'indifferibilità (Trib. Torino 6 novembre 2012, che ha dichiarato inammissibile, per inosservanza del termine di proposizione, il reclamo avverso l'ordinanza di rigetto del ricorso per sequestro conservativo, laddove la parte reclamante, ritenendo operativa detta sospensione, aveva provveduto al deposito del ricorso oltre il termine di quindici giorni dall'avvenuta notifica dell'ordinanza impugnata; Trib. Roma 7 dicembre 2006, secondo il quale il principio generale della sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale non è applicabile al giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., attesa la natura tipicamente cautelare del procedimento, conseguendone che va dichiarato inammissibile, per inosservanza del termine di proposizione, il reclamo avverso l'ordinanza di rigetto della domanda possessoria, laddove la parte reclamante – ritenendo operativa detta sospensione – abbia provveduto al deposito del ricorso oltre il termine di quindici giorni dall'avvenuta notifica dell'ordinanza impugnata). La legittimazione attiva e passiva. Relativamente alla legittimazione a proporre reclamo – sicuro appannaggio delle parti della prima fase del procedimento cautelare – secondo un'interpretazione, la stessa spetterebbe anche al terzo che sia stato pregiudicato dal provvedimento cautelare reso inter alios. In effetti, non vertendosi in questo caso nell'àmbito dei pregiudizi direttamente derivanti dall'attuazione della cautela – v. i rimedi contemplati dall'art. 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) – ma dallo stesso provvedimento cautelare, tale legittimazione va senz'altro riconosciuta al fine di rendere completa ed efficace la tutela del terzo, salva sempre la possibilità, in capo a quest'ultimo, di intervenire nel giudizio di merito per invocare la rimozione della misura cautelare (Avigliano, 64; Gennari, 2295). Peraltro, il reclamo si caratterizza come rimedio rapido ed effettivo, a fronte della revoca e modifica ex art. 669-decies c.p.c. che rendono più gravoso l'onere probatorio per l'istante (mette punto rammentare che, a seguito della sentenza del giudice delle leggi del 1994, legittimato non è solamente colui che miri ad ottenere un provvedimento cautelare, ma anche colui che miri ad espandere il grado di tutela conseguito). Qualora, invece, si esclude che il reclamo possa costituire un valido strumento di difesa per chi non abbia partecipato al procedimento cautelare, si potrebbero individuare altri strumenti che portano il terzo a far valere le proprie prerogative oppositorie, come un'autonoma e successiva azione cautelare, individuando il periculum nel provvedimento emanato o nella sua attuazione, oppure l'intervento nel giudizio di merito, che non sempre, però, garantisce quella tempestività necessaria per fronteggiare un pericolo imminente (per l'intervento del terzo e l'opposizione ex art. 404 c.p.c., si rinvia al commento sub art. 669-sexies c.p.c.). La giurisprudenza si è, altresì, divisa in ordine alla legittimazione al reclamo da parte del terzo interveniente nel primo grado cautelare; del resto, l'attuale struttura del procedimento cautelare uniforme consente l'intervento volontario del terzo, qualora questi abbia avuto tempestiva conoscenza della pendenza del giudizio cautelare; ove non si ammettesse tale facoltà, l'esercizio del diritto di difesa del terzo, da attuare ex artt. 404 e/o 619 c.p.c., risulterebbe inutilmente ritardato nel tempo; se, ad esempio, il decreto di sequestro conservativo indica, ai fini dell'esecuzione, specifici beni, e questi ultimi risultino di un terzo, a seguito dell'intervento di costui all'udienza, il giudice cautelare deve, nell'ordinanza di conferma del sequestro, revocare quella indicazione (Trib. Verona 28 marzo 1995). A fronte di alcuni giudici che hanno assunto una posizione favorevole nei confronti dell'interveniente principale, adesivo autonomo ed adesivo dipendente, altri hanno operato dei distinguo negando la legittimazione all'interveniente adesivo dipendente, con ciò uniformandosi alla regola generale secondo cui quest'ultimo non è legittimato a proporre impugnazione autonoma avverso i provvedimenti giudiziali che incidono in maniera diretta sul rapporto principale (espressione di queste variegate soluzioni sono le seguenti pronunce: ad avviso di Trib. Genova 12 novembre 2001, in materia di provvedimenti cautelari d'urgenza aventi ad oggetto la domanda di inibitoria proposta dall'ordinante contro la banca controgarante per impedire il pagamento delle controgaranzie, l'intervento, durante il primo grado cautelare, della banca garante al fine di far valere il proprio diritto ad essere rimborsata per quanto pagato in esecuzione delle garanzie va qualificato come intervento principale, rendendo ammissibile, pertanto, il successivo reclamo proposto dalla banca garante avverso l'ordinanza che ha concesso tale inibitoria; secondo Trib. Biella 8 gennaio 2001, è legittimato attivo a proporre reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. l'amministratore di una società in accomandita semplice revocato con provvedimento d'urgenza, sia perché egli fa valere un diritto proprio nell'àmbito della compagine sociale, sia perché, come nella fattispecie, agisce anche in qualità di socio accomandatario; per la negativa, si è posto Trib. Napoli 30 gennaio 1997; Trib. Verona 25 marzo 1996, ad avviso del quale il terzo pregiudicato dal provvedimento urgente reso inter alios non è legittimato a proporre il reclamo cautelare di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., essendo possibile l'iniziativa ex art. 669-duodecies c.p.c. di fronte al giudice dell'attuazione; Trib. Camerino 30 agosto 1993, a parere del quale il soggetto, che interviene nel giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. in ragione del diritto di credito vantato nei confronti del sequestrato, assume la veste di interveniente adesivo dipendente, come tale privo di legittimazione a proporre reclamo avverso il provvedimento adottato: infatti, la fase procedurale introdotta dal reclamo ha natura di gravame, verificandosi un effetto pienamente devolutivo della controversia, oggetto della cognizione del giudice cautelare, e il provvedimento del giudice competente a decidere il reclamo viene così ad incidere nella sfera giuridica delle parti principali investendo il rapporto giuridico di cui è titolare il terzo interveniente in via mediata ed indiretta). Diverso, ovviamente, il caso del litisconsorte necessario, inciso da provvedimento cautelare, rimasto estraneo al giudizio di primo grado – ad esempio, per mancata notifica del ricorso introduttivo – perché costui è legittimato a proporre reclamo, in qualsiasi momento, per ottenere la revoca dell'ordinanza concessiva nei suoi confronti, anche se, in tal modo, si rischia di spostare indefinitivamente nel tempo il dies a quo del termine per reclamare (v., per tutte, Trib. Torino 3 gennaio 1994). In dottrina (Lombardi, 2797; Consolo 1996, 187; Frus 1994, 447), si ritiene ammissibile la proposizione del reclamo da parte del terzo che, pur non essendo intervenuto nel corso del procedimento di prima istanza, sia poi stato vulnerato nelle sue posizioni dal provvedimento cautelare, ciò almeno nei soli casi di effettiva necessità, quando cioè la non reversibilità degli effetti della misura cautelare impone di bloccare con immediatezza la sua esecuzione, cosa possibile, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 669-terdecies c.p.c., attraverso il reclamo. Anche la giurisprudenza (Trib. S. Maria Capua Vetere 6 febbraio 2004; Trib. Agrigento 11 ottobre 2000; Trib. Torino 3 gennaio 1994) si è posta su questa lunghezza d'onda, ritenendo legittimato a proporre il reclamo anche il terzo, rispetto ad un giudizio cautelare svolto ante causam al quale sia rimasto estraneo, che abbia, però, subìto un pregiudizio diretto ed immediato di una situazione protetta dall'ordinamento, per effetto del provvedimento cautelare reso inter alios, a condizione che lo stesso si sia trovato nell'impossibilità di intervenire nel procedimento per far valere le sue ragioni. In altri termini, il soggetto pregiudicato da un provvedimento cautelare reso inter alios è titolare di legittimazione e interesse a proporre il reclamo cautelare di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. soltanto nel caso in cui, dal provvedimento stesso, abbia a soffrire un pregiudizio non meramente occasionale, eventuale ed indiretto, ma una lesione immediata e diretta di una situazione soggettiva tutelata come tale dall'ordinamento, così da presentarsi, in definitiva, come il potenziale destinatario effettivo e sostanziale del provvedimento formalmente reso nei confronti di altra parte (Trib. Torino 25 giugno 2004; Trib. Rovigo 25 settembre 2000; Trib. Catanzaro 27 maggio 1997; d'altronde, il terzo che si assume titolare di un possesso incompatibile ed autonomo rispetto a quello già fatto oggetto di un'ordinanza di reintegrazione tra altri, per il carattere necessariamente provvisorio inidoneo al giudicato di quest'ultima e la mancanza di un giudizio a cognizione piena sul possesso, non è ammesso all'opposizione di terzo ordinaria, potendo avviare esclusivamente una tutela per reclamo dell'ordinanza possessoria nelle forme del reclamo cautelare, così Pret. Monza 11 giugno 1996). Va, altresì, dato atto di pronunce nel senso dell'inammissibilità della legittimazione a proporre il reclamo in capo al terzo: invero, non ogni soggetto legittimato all'intervento in appello ex artt. 344 e 404 c.p.c., in quanto abilitato all'intervento principale come preteso titolare di diritto autonomo ed incompatibile rispetto al diritto dedotto dalle parti in causa, è legittimato al reclamo nel procedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento emesso inter alios in prima istanza, giacché tale legittimazione spetta soltanto al litisconsorte pretermesso (Trib. Verona 30 maggio 2000: nella specie, il terzo rivendicava la proprietà della cosa oggetto di sequestro giudiziario inter alios, e gli si era negata legittimazione attiva al reclamo non essendo in lui ravvisabile la posizione di litisconsorte necessario pretermesso; Trib. Roma 26 gennaio 1996, precisando che, nel giudizio cautelare instaurato dal debitore principale per l'inibitoria di una garanzia «a prima richiesta» per exceptio doli, il creditore è litisconsorte necessario in quanto autore del comportamento doloso lamentato, sicché il reclamo contro il rigetto dell'istanza cautelare tesa a paralizzare una garanzia «a prima richiesta» non merita accoglimento, perché il debitore principale non subisce alcun pregiudizio «imminente ed irreparabile» per effetto del pagamento da parte del garante e della conseguente azione di regresso che potrà esperire nei suoi confronti). Si è avuto modo, al riguardo, di puntualizzare che va considerato inammissibile il reclamo proposto dal pubblico ministero, che non abbia preso parte al primo grado di un giudizio cautelare incidente su questioni relative a stato e capacità delle persone, ancorché il suo intervento fosse obbligatorio e, quindi, interveniente necessario ma illegittimamente pretermesso (Trib. Roma 27 marzo 2000). A questo punto, vale la pena di ricordare che, nel procedimento di reclamo avverso un provvedimento cautelare, è ammissibile l'intervento adesivo del terzo soltanto in due casi: per l'integrazione necessaria del contraddittorio (art. 102 c.p.c.), o nei casi in cui il terzo sarebbe legittimato a proporre appello, ai sensi degli artt. 344 e 404 c.p.c. (Trib. Roma 29 marzo 2000, nella specie, il tribunale aveva ritenuto inammissibile l'intervento dell'Ordine dei medici nel giudizio di reclamo avverso un provvedimento cautelare che aveva autorizzato un singolo medico all'esecuzione di un contratto di maternità surrogata, sul presupposto che l'esecuzione del provvedimento cautelare non avrebbe avuto in alcun modo inciso nella sfera di attribuzioni dell'Ordine); quindi, di regola, nel procedimento di reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., l'intervento dei terzi è inammissibile stante la sua natura impugnatoria, e considerato che si tratta di un istituto caratterizzato da particolari esigenze di celerità e snellezza (Trib. Sassari 11 luglio 1998; Trib. Roma 23 ottobre 1997; Trib. Roma 10 giugno 1995, aggiungendo che la natura incidentale del procedimento cautelare non consente di ampliare il contraddittorio oltre le parti del giudizio di merito). È, invece, obbligatorio l'intervento del pubblico ministero nel giudizio di reclamo avverso provvedimenti, emessi dal giudice istruttore nel corso di un procedimento di separazione personale tra coniugi, con cui si statuisca in ordine alla prole minore (Trib. Catania 21 luglio 1993). Ad ogni buon conto, si è ritenuta inammissibile l'opposizione di terzo contro un provvedimento d'urgenza, in quanto il terzo, che lamenta pregiudizio dalla pronuncia inter alios, può intervenire volontariamente nel giudizio di merito e può chiedere la revoca del provvedimento cautelare (Pret. Macerata-Civitanova Marche 3 agosto 1992: nella specie, era stata dichiarata inammissibile l'opposizione, qualificata dal ricorrente «di terzo all'esecuzione», dell'acquirente di un ramo d'azienda di un'emittente radiofonica, contro il provvedimento d'urgenza con il quale era stata disposta la disattivazione dell'impianto, pronunciato, dopo l'avvenuto trasferimento, nei confronti dell'alienante). Resta inteso (ad avviso di Cass. VI/II, n. 20020/2020) che la mancata partecipazione di un litisconsorte necessario in sede di reclamo cautelare, non rilevata dal giudice di primo grado, che non ha disposto l'integrazione del contraddittorio, non costituisce una delle ipotesi tassative previste dall'art. 354, comma 1, c.p.c. per le quali resta viziato l'intero processo ed impone, in sede di appello, l'annullamento, anche d'ufficio, della pronuncia emessa ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell'art. 383, comma 3, c.p.c., trattandosi di procedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale ed ininfluente nel successivo giudizio di merito. Il reclamo incidentale. Nel silenzio del legislatore al riguardo, risulta controversa, altresì, la possibilità di proporre il reclamo incidentale nei confronti dell'ordinanza di parziale accoglimento della domanda cautelare e, quindi, da parte di chi ha chiesto ed ottenuto il provvedimento cautelare in misura o modalità diverse da quella invocate (per una panoramica dei diversi orientamenti, Pappalardo, 463, il quale riferisce che, in dottrina, segnatamente a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 1994, le posizioni possono dirsi quasi omogenee, nel senso di ammettere sia la proposizione del reclamo incidentale, sia l'applicazione analogica dettata dal codice in materia di impugnazioni incidentali, in particolare tardive; Dalmotto 1998, 405; Frus 1995, 661; La Rocca, 49). In caso di soccombenza reciproca, tale reformatio in melius eviterebbe, poi, l'eventualità che il reclamo penda contemporaneamente ad una nuova istanza proposta dal soggetto parzialmente vittorioso che tenti di ampliare la cautela già ottenuta o di integrare la parte non accolta (il potenziale concorso tra i due rimedi andrebbe risolto con i consueti strumenti della litispendenza ex art. 39 c.p.c. o della sospensione per pregiudizialità). Resta inteso che, contro il provvedimento che dichiara inammissibile la domanda cautelare, non ha interesse a proporre il reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., il resistente vittorioso, poiché deve ritenersi che la disciplina che preclude la riproposizione della domanda cautelare – art. 669-septies, comma 1, c.p.c. (al cui commento si rinvia) – è applicabile non solo alla decisione di rigetto della domanda stessa, ma anche alla pronuncia di inammissibilità, e l'eventuale accoglimento del reclamo, con statuizione di rigetto, non potrebbe soddisfare meglio della decisione impugnata l'interesse del resistente alla non riproposizione della domanda cautelare dichiarata inammissibile (App. Torino 20 luglio 2002). Orbene, sul solco dell'art. 333 c.p.c., secondo il quale le parti a cui sia stata notificata l'impugnazione principale devono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni incidentali nello stesso processo – in modo che sia mantenuta l'unità del procedimento e sia resa possibile la decisione simultanea – la giurisprudenza prevalente, che si è espressa in proposito, ha optato per l'ammissibilità, ritenendo conforme ai principi di economia dei giudizi e di unicità dell'impugnazione l'esigenza che tutti i reclami avverso il medesimo provvedimento cautelare siano decisi in un solo giudizio, ritenendo compatibile la proposizione di censure avanzate da parti diverse dal reclamante principale, anche al fine di evitare decisioni contraddittorie. Peraltro, in questi casi, la struttura devolutiva del reclamo – specie dopo l'intervento del giudice delle leggi – suggerisce che, nella nuova sede, venga riprodotta l'intera «latitudine» della lite cautelare, che risulta unitaria anche se la domanda cautelare abbia un petitum divisibile, mentre non è sembrato sufficiente rilevare che, grazie al potere di modifica del provvedimento, la parte resistente avrebbe potuto avanzare le proprie richieste indipendentemente dalla scadenza del termine per il reclamo principale. Comunque, sul punto, si era registrata una spaccatura tra i giudici di merito. Per la negativa, si è posto un magistrato sabaudo (Trib. Torino 4 luglio 1994), affermando, innanzitutto, che nessuna norma di diritto positivo prevede la proposizione dell'istanza di riesame del provvedimento cautelare in via incidentale, nemmeno se tempestiva; non si ritiene, poi, possibile colmare la lacuna normativa in via interpretativa, con l'estensione analogica degli artt. 333-335 c.p.c., atteso che tale normativa concerne, infatti, il sistema dei mezzi di gravame contro le «sentenze», e cioè contro provvedimenti di carattere stabile emessi all'esito di una plena cognitio, e non può essere estesa, difettando il necessario presupposto dell'assimilabilità della fattispecie, al sistema dei mezzi di gravame contro i provvedimenti cautelari, che costituiscono pronunce provvisorie emesse all'esito di una summaria cognitio (categorico si mostra Trib. Arezzo 17 aprile 2008, ad avviso del quale il reclamo incidentale proposto oltre il termine perentorio di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. è da considerarsi inammissibile; Trib. Reggio Emilia 26 gennaio 1996: nella specie, si era negata l'ammissibilità del reclamo incidentale tardivo sulla base del rilievo che il termine previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. fosse perentorio, che non sussistesse una diversa previsione normativa e che non fosse applicabile in via analogica l'art. 334 c.p.c.; in tema di rito cautelare societario, Trib. Parma 27 settembre 2004 ha ritenuto inammissibile il reclamo incidentale proposto oltre il termine previsto dall'art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003, né è prospettabile la possibilità di un'impugnazione incidentale tardiva, pur astrattamente ammissibile, qualora l'interesse a proporre l'impugnazione non sorga dai motivi addotti nell'impugnazione principale). Peraltro, la mancata previsione ex lege di tale rimedio non è da attribuirsi all'impostazione originale del reclamo anteriormente alla sentenza dei giudici della Consulta, in quanto anche nel sistema originario del rito cautelare uniforme era ben possibile la sussistenza di differenziate situazioni di interesse a ricorrere contro lo stesso provvedimento (in senso conforme, v. anche Trib. Santa Maria Capua Vetere 10 dicembre 1996, ad avviso del quale il collegio, adìto in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., non è competente a decidere sul ricorso incidentale proposto dalla resistente, che domanda la dichiarazione di inefficacia del provvedimento di sequestro conservativo concesso dal giudice di prime cure, affermando che la misura cautelare non è stata eseguita dalla controparte nel termine di cui all'art. 675 c.p.c.; Trib. Avellino 16 luglio 1993; cui adde, più di recente, Trib. Milano 20 febbraio 2014). Altri giudici (Trib. Reggio Emilia 26 gennaio 1995) hanno, invece, ritenuto ammissibile il reclamo incidentale: si parte dal pacifico presupposto che, nel sistema conseguente alla pronuncia della Corte Costituzionale, non vi sono ostacoli alla proposizione del reclamo anche ad opera della parte solo parzialmente soccombente, e che, pertanto, può accadere che l'altra parte abbia preliminarmente depositato un ricorso avverso il medesimo provvedimento. Alla tesi difensiva che vorrebbe l'applicazione analogica dell'art. 334 c.p.c., si risponde che la ratio sottesa a detta norma può essere colta solo con riguardo all'impugnazione di provvedimenti destinati diventare definitivi, mentre i provvedimenti cautelari hanno carattere provvisorio (Trib. Napoli 13 novembre 1997; Trib. Palermo 22 ottobre 1997; Trib. Parma 11 giugno 1997; cui adde Trib. Bergamo 10 settembre 1994, evidenziando che, nell'ipotesi di mancata notifica, il termine perentorio per proporre il reclamo potrebbe in astratto non decorrere mai). Decidendo una particolare fattispecie, un magistrato partenopeo (Trib. Napoli 15 maggio 2002) ha affermato che, vertendosi in materia di individuazione del responsabile di un illecito, le domande proposte nei confronti dei soggetti convenuti a vario titolo nel procedimento cautelare vanno considerate scindibili, con la conseguenza che la notificazione del reclamo, alle parti nei cui confronti l'ordinanza non è stata impugnata, assume la natura di mera litis denuntiatio volta a rendere edotte della pendenza del gravame ai fini della proposizione di eventuali ulteriori impugnazioni in via incidentale (in applicazione di questo principio, il collegio aveva ritenuto che la costituzione in sede di reclamo della Telecom Italia S.p.a. era stata il frutto di una scelta non necessitata, dato che l'ordinanza di primo grado non era stata impugnata nella parte che riguardava la stessa Telecom Italia ed essendosi, pertanto, chiuso nei confronti di questa il rapporto processuale instaurato con il ricorso introduttivo). Anche il giudice contabile si è espresso nel senso che, nel giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei Conti, deve ritenersi ammissibile che la parte, pur se interessata alla conferma della pronuncia cautelare impugnata in via principale dalla controparte, riproponga, in via di reclamo incidentale, le argomentazioni che, disattese dal giudice designato per la conferma, modifica o revoca del sequestro, non potrebbero altrimenti essere riesaminate dal collegio competente a decidere in sede di reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (C. Conti Sicilia 29 novembre 2000). D'altronde, anche sulla proponibilità del reclamo incidentale tardivo, i giudici si sono trovati divisi. Si consideri che l'art. 334 c.p.c. consente alla parte, alla quale l'interesse ad impugnare sia sorto solo a seguito della proposizione dell'impugnazione ad iniziativa della controparte, di proporre a sua volta l'impugnazione anche decorsi i termini contemplati dalla legge, ciò al fine di evitare che colui il quale, rimasto parzialmente soccombente, abbia prestato acquiescenza alla decisione, possa a sua volta proporre impugnazione qualora la controversia sia destinata, ad istanza della controparte, a protrarsi a suo danno (in pratica, la notificazione dell'impugnazione rimette in termini l'impugnato nel potere di impugnazione, anche se il gravame incidentale è processualmente dipendente da quello principale). Alcuni (in minoranza) sono per la negativa e sostengono che, decorso il termine perentorio – prima, di dieci, ora di quindici – tale rimedio diventi inammissibile, non potendo essere eluso, a favore dell'impugnante incidentale, il rispetto del suddetto termine, stante il carattere non decisorio dei provvedimenti cautelari in cui non vige alcuna preclusione di giudicato. Peraltro, l'ammissibilità del reclamo incidentale tardivo si porrebbe in contrasto con la previsione del breve termine perentorio per l'instaurazione del giudizio di merito, in cui l'istanza cautelare disattesa potrebbe essere riproposta e l'ordinanza di accoglimento modificata o revocata. Altri (e sono la maggioranza) sono per la positiva, e rilevano che il reclamo cautelare ha un carattere lato sensu impugnatorio, implicando un riesame della domanda cautelare nel suo complesso e, quindi, applicano analogicamente il citato art. 334, non fosse altro per limitare il fenomeno della contemporanea pendenza (e correlata possibilità di esiti contrastanti) di un giudizio di reclamo sulla domanda cautelare parzialmente accolta e di un giudizio di primo grado di riproposizione della domanda cautelare parzialmente rigettata. All'interno di quest'ultima posizione, rimane dubbio, però, il termine entro il quale deve essere proposto tale reclamo incidentale (termine, comunque, elevato a quindici giorni ex l. n. 80/2005): sul punto, sono state fornite soluzioni variegate. Da un lato, si afferma che, in caso di mancata notificazione del provvedimento cautelare, tale reclamo sia proponibile con la comparsa di risposta della parte resistente, da depositarsi al più tardi fino all'udienza fissata per la comparizione delle parti davanti al collegio, in analogia con quanto dispone l'art. 343 c.p.c. in materia di appello (Trib. Bologna 4 luglio 2007; Trib. Modena 13 marzo 1997; in particolare, ad avviso di Trib. Trani 6 novembre 1996, posto che, in caso di reciproca soccombenza in ordine alla pronuncia cautelare di primo grado, deve ritenersi conforme ai principi di economia dei giudizi e di unità dell'impugnazione l'esigenza che tutti i reclami avverso il medesimo provvedimento cautelare siano decisi in un solo giudizio, anche al fine di evitare decisioni contraddittorie, in relazione al termine per la proposizione del reclamo incidentale, pare conforme alla struttura del giudizio di reclamo – che ha carattere lato sensu impugnatorio – mutuare analogicamente la soluzione normativa del sistema delle impugnazioni in generale, e dell'appello in particolare ex art. 343 c.p.c., per cui, in ipotesi di mancata notificazione del provvedimento cautelare, il reclamo incidentale sarà proponibile con la comparsa di costituzione, che può essere depositata fino all'udienza fissata per la comparizione delle parti innanzi al collegio). Dall'altro, si rileva che, in tal caso, il termine decorra dalla notificazione del reclamo principale (Trib. Vallo della Lucania 30 settembre 1999; Trib. Roma 17 giugno 1998); o se l'interesse a reclamare in via incidentale sorge dalla proposizione di un reclamo incidentale di un'altra parte, il termine decorra dalla notificazione di quest'ultimo (Trib. Monza 23 gennaio 2008, con riferimento ad un'ordinanza ex art. 624 c.p.c.). Dall'altro, ancora, si è dell'avviso che, avvenuta la notifica del provvedimento cautelare, sia ammissibile il reclamo incidentale fino alla suddetta comparizione delle parti (Trib. Rieti 24 gennaio 2003). L'instaurazione del contraddittorio. A norma dell'attuale comma 5 dell'art. 669-terdecies c.p.c., una volta ricevuto il reclamo, il presidente (del tribunale o della corte d'appello) nomina il relatore e dispone la convocazione delle parti, permanendo anche nel giudizio impugnatorio il rispetto del principio del contraddittorio (peraltro, nella fase cautelare, non vi è alcun onere per le parti di comparire personalmente dinanzi al giudice, quale invece risulta, nel giudizio di cognizione ordinaria, dal disposto dell'art. 183 c.p.c., per cui la regola del contraddittorio è soddisfatta anche attraverso l'audizione dei soli difensori, così Trib. Milano 25 marzo 1996). Il collegio, competente per la relativa trattazione secondo le regole del procedimento in camera di consiglio (quindi, senza la pubblica udienza), udito il giudice relatore designato – nell'eventuale presenza del pubblico ministero qualora l'oggetto del contendere rientri in una di quelle materie in cui tale intervento è obbligatorio – provvede, con ordinanza non impugnabile, entro il termine di venti giorni dal deposito del ricorso, a confermare, modificare o revocare il provvedimento cautelare impugnato; termine da considerarsi ordinatorio, ma da rispettarsi nei limiti del possibile, in quanto un eccessivo o irragionevole lasso di tempo tra deposito del ricorso e decisione sul reclamo potrebbe configurare una responsabilità del magistrato ai fini della c.d. legge Pinto o gli estremi del diniego di giustizia ex l. n. 117/1988. Il capoverso in oggetto nulla dice, invece, in ordine alle modalità per l'instaurazione del contraddittorio: escluso un onere della cancelleria, la prassi è nel senso di adottare il collaudato meccanismo della notifica del reclamo e del decreto (in calce al ricorso) di fissazione dell'udienza di trattazione dello stesso, a cura del ricorrente, alla parte beneficiaria del provvedimento cautelare, entro il termine fissato dal presidente, non escludendo forme di convocazione abbreviata tramite telegramma, fax o posta elettronica certificata, già delineate nell'art. 669-sexies c.p.c. (al cui commento si rinvia; nel senso che, nel giudizio di reclamo, il giudice è libero di scegliere lo strumento di convocazione che ritenga più opportuno, v., per tutte, Trib. Roma 23 agosto 1994). In proposito, si è precisato che la realizzazione del contraddittorio, comunque attuata, con il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del destinatario della misura cautelare, sia idonea a fungere da sanatoria degli eventuali vizi che siano intervenuti nella fase precedente, in quanto il giudice del reclamo, sulla controversia, ha i medesimi poteri attribuiti al primo giudice e può esercitarli con la più ampia conoscenza delle difese esposte in ordine a tutti gli effetti rilevanti. Il reclamo-decreto dovrà essere notificato alla controparte, presso il procuratore costituito (o alla parte personalmente, se non costituita), ma si è affermata la validità dello stesso atto complesso notificato alla parte personalmente qualora il destinatario provveda a costituirsi, rimanendo sanati tutti i vizi della notificazione; l'art. 669-terdecies c.p.c. prevede la mera «convocazione» delle parti, sicché è da ritenersi che la norma non richieda affatto il rispetto rigoroso delle formalità prescritte per l'instaurazione del processo ordinario (Trib. Milano 12 luglio 1997, il quale ha ritenuto che, allorché uno dei resistenti risulti irreperibile, è idonea la notifica del reclamo presso il difensore penale domiciliatario del resistente medesimo). La giurisprudenza di merito prevalente (v., ex multis, Trib. Vallo della Lucania 15 ottobre 2019) reputa inammissibile reclamo (tempestivamente depositato, ma) non notificato nel termine fissato dal presidente – sia perché tentato senza successo, sia perché nemmeno richiesto – anche se, esclusa la natura perentoria del predetto termine ai sensi dell'art. 152, comma 1, c.p.c., tende ad ammettere l'istanza di proroga ex art. 154 c.p.c. proposta prima della relativa scadenza, e in linea con la soluzione data da un orientamento dei giudici di legittimità nelle ipotesi di omessa notifica dell'appello nel processo del lavoro (v., per tutte, Cass. S.U., n. 20604/2008), ed a concedere l'assegnazione di un nuovo termine perentorio pure in occasione dell'udienza di trattazione del reclamo, qualora il reclamato non compaia, tenendo, altresì, presente l'informalità del procedimento cautelare e la ristrettezza dei termini entro i quali il reclamante ha l'onere di conoscere il decreto di fissazione della detta udienza e procedere alla relativa notifica (ad avviso di Trib. Messina 27 febbraio 2008, l'omessa notifica del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., qualora non sia espressione di una voluta inerzia o disinteresse della parte, non può sortire alcun effetto preclusivo, ma dovrebbe indurre alla concessione di un nuovo termine perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., atteso che la notifica afferisce solo alla fase successiva di instaurazione del contraddittorio, mentre è il deposito del ricorso in cancelleria che sancisce il rispetto del termine breve di quindici giorni per impugnare ed impedisce ogni decadenza; secondo Trib. Roma 13 febbraio 2002, la fissazione di una nuova udienza in caso di mancata comparizione della parte istante, reclamante ex art. 669-terdecies c.p.c., non è compatibile con il procedimento cautelare, per cui deve escludersi la doverosità del differimento dell'udienza, ma, nondimeno, il giudice della cautela, ove ne sia richiesto, può valutare l'opportunità della rifissazione dell'udienza di discussione quando la mancata comparizione sia dovuta ad un giustificato motivo: nella fattispecie, il collegio aveva ritenuto l'omessa indicazione, nel decreto di convocazione, dell'aula di svolgimento dell'udienza camerale circostanza inidonea a giustificare la mancata presenza della parte reclamante; peraltro, ove il reclamante avanzi richiesta di nuovo termine, e questo venga concesso, detta richiesta può convertirsi nella riproposizione ex novo di un reclamo avente contenuto identico al precedente, il cui esame non è precluso, salvo che siano trascorsi i termini o sia dichiarata l'inammissibilità del precedente reclamo, così Trib. Napoli 10 settembre 1997). In quest'ottica più soft, si è posto chi (Trib. Roma 10 marzo 1997) ha opinato che l'omesso rispetto del termine fissato, con decreto in calce al ricorso, per la notifica alla controparte della data fissata per la trattazione camerale del reclamo, non comporta né l'estinzione del procedimento, né l'inammissibilità del reclamo, laddove unica conseguenza, ove necessario, può essere la concessione al resistente di un breve rinvio per poter meglio approntare la propria difesa. Più rigidi si sono mostrati altri giudici di merito: in quest'ordine di concetti, si è statuito (Trib. Firenze 19 marzo 2015) che la mancata notificazione del ricorso per reclamo cautelare e del pedissequo provvedimento presidenziale di fissazione dell'udienza produce l'improcedibilità del gravame, ove vi sia stata tempestiva comunicazione al reclamante del decreto medesimo da parte della cancelleria, oppure ove il vizio riguardi il procedimento per il quale si applica il nuovo processo civile telematico (v., altresì, Trib. Napoli 7 aprile 1994, che ha considerato inammissibile il reclamo contro il provvedimento cautelare, qualora il reclamante abbia omesso la notifica del ricorso e del provvedimento di convocazione in camera di consiglio, nel termine, alla controparte: nella specie, il ricorrente non solo non aveva ottemperato alla notificazione, ma neppure aveva proposto istanza di proroga della medesima, per impossibilità di ottemperarvi, anteriormente alla sua scadenza; cui adde, più di recente, Trib. Torre Annunziata 11 febbraio 2021, secondo cui il reclamante che non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza incorre nella sanzione di improcedibilità del reclamo, trovando tale principio la sua giustificazione in relazione all'interesse al buon andamento ed alla celerità del processo, nel quale si concretizza la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un termine predefinito, del provvedimento giudiziario già emesso). Si è, altresì, rilevato (Trib. Roma 25 giugno 1997) che, in materia di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso un provvedimento cautelare, l'omesso rispetto del termine fissato, con decreto in calce al ricorso, per la notifica alla controparte della data fissata per la trattazione camerale del reclamo, comporta l'improcedibilità del ricorso, atteso che non esiste alcuna norma che stabilisca l'obbligo per la cancelleria di comunicare alla parte reclamante l'avvenuta fissazione della data della predetta udienza camerale, sicché deve essere il ricorrente a farsi parte diligente e verificare l'avvenuta fissazione di tale udienza; pertanto, una volta scaduto il termine ordinatorio fissato per la notifica del ricorso al resistente, il ricorrente non può invocare la fissazione di un nuovo termine, in quanto il termine ordinatorio può essere prorogato soltanto prima della scadenza ai sensi dell'art. 154 c.p.c. (nel caso di specie, l'inerzia della parte sia nel seguire le sorti del ricorso, sia nel notificare il ricorso stesso, sia nel richiedere una proroga del termine per la notifica all'approssimarsi della scadenza dello stesso, aveva comportato l'esaurimento degli effetti endoprocessuali del tempestivo deposito del ricorso stesso, in quanto la corretta procedibilità del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. richiedeva che, alla proposizione del reclamo nei termini fissati a pena di decadenza, seguisse la puntuale coltivazione del reclamo stesso). Nella stessa lunghezza d'onda, si è affermato (Trib. Napoli 17 gennaio 1997) che il termine per la notifica del reclamo avverso un provvedimento cautelare e del relativo decreto di fissazione dell'udienza di discussione ha natura perentoria e, di conseguenza, non può essere prorogato dal giudice, conseguendone che, non essendosi rispettato tale termine, il reclamo va dichiarato improcedibile, anche se all'udienza di discussione è stata chiesta la concessione di un termine ulteriore; la natura del procedimento di reclamo, diretto ad ottenere un rapido controllo del provvedimento cautelare, impone la rigorosa osservanza dei termini fissati, che non possono essere prorogati e devono, quindi, ritenersi di natura perentoria; peraltro, anche a voler considerare ordinatorio il termine in questione, lo stesso non può essere prorogato dopo la scadenza e produce, in seguito al suo mancato rispetto, i medesimi effetti di quello perentorio; invero, la differenza tra termini perentori e termini ordinatori non risiede negli effetti che conseguono al loro mancato rispetto, posto che, in entrambi i casi, al mancato rispetto del termine, consegue la decadenza dell'interessato, bensì nel modo con cui tale decadenza di realizza: ipso iure e senza possibilità di proroga per il termine perentorio, mentre previa valutazione del giudice nel caso di termine ordinatorio che, prima della scadenza, può eventualmente essere prorogato. Se la notifica è nulla – e non radicalmente inesistente – è pacifico che la stessa potrà essere rinnovata a norma dell'art. 291 c.p.c., tuttavia, l'eventuale costituzione del reclamato avrà efficacia sanante ex tunc del vizio della notifica del ricorso-decreto, argomentando ex art. 164 c.p.c. (Asprella 1999, 2161). Del resto, lo scopo della notificazione degli atti di vocatio in ius, quali il reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., è quello di attuare il principio del contraddittorio, e tale finalità può ritenersi raggiunta con la costituzione del destinatario dell'atto rimanendo sanato con effetto ex tunc ogni eventuale vizio della notificazione medesima (Trib. Roma 2 dicembre 1998, secondo il quale è, quindi, valido il reclamo cautelare notificato alle parti personalmente, invece che ai difensori costituiti nel procedimento ex art. 700 c.p.c.). Secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 18 dicembre 1996), qualora venga proposto reclamo avverso un provvedimento cautelare e questo sia dichiarato improcedibile, si produce la «consumazione dell'impugnazione», sicché il successivo reclamo avanzato dalla stessa parte contro il medesimo provvedimento va dichiarato inammissibile, così come previsto dagli artt. 358 e 387 c.p.c., norme che costituiscono espressione di principi generali del processo civile (in senso conforme, v. Trib. Modena 21 agosto 1996, ad avviso del quale è inammissibile il reclamo avverso un provvedimento cautelare qualora il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza sia stato notificato alla controparte dopo il termine concesso nel decreto stesso, pur se l'atto di impugnazione era stato tempestivamente depositato, salvo che il resistente si costituisca spontaneamente in giudizio, con salvezza dei diritti quesiti o sanando con efficacia ex nunc il vizio relativo alla mancata notificazione nei termini, e la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione del provvedimento cautelare, invece, non può essere superata dalla rinnovazione della notificazione, che è ammessa soltanto quando essa, pur essendo stata tentata, risulti viziata e non quando sia inesistente perché non compiuta nei termini). Pertanto, deve essere dichiarato inammissibile il reclamo avverso un provvedimento d'urgenza qualora la parte reclamante non abbia provveduto nei termini a notificare alle controparti il reclamo ed il provvedimento di fissazione dell'udienza (Trib. Trani 6 settembre 1995): invero – pur senza aderire ad una rigida impostazione, che sia preferibile, di norma, ricorrere alla notificazione a cura dell'istante, senza però escludere forme di convocazione più libere a cura della parte, o incaricando degli avvisi la cancelleria ove il caso particolare lo consigli – la possibilità di valutazione discrezionale del presidente non può, però, incidere sulla natura dei termini assegnati, una volta che la scelta sia stata operata, come nel caso di specie in cui è optato per la notifica a cura della parte, alla quale è stato assegnato un termine, consono sia all'udienza fissata – necessariamente breve nell'interesse stesso della parte reclamante – sia al reale esercizio del diritto di difesa; detto termine, pacificamente ordinatorio, quando sia decorso senza che sia stata tempestivamente formulata istanza di proroga, determina le conseguenze di cui all'art. 154 c.p.c., cioè produce il medesimo effetto preclusivo derivante dal mancato rispetto di un termine perentorio (così Trib. Milano 23 gennaio 1996). Variamente risolta, invece, tra i giudici di merito, è la questione relativa alla notifica in unica copia, del reclamo e del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione, al procuratore costituito per più parti ed alla possibilità di disporre l'integrazione del contraddittorio (secondo Trib. Bologna 26 marzo 2001, nell'àmbito del procedimento di reclamo cautelare, la notificazione del ricorso introduttivo e del decreto con cui il giudice fissa la data per la camera di consiglio, può essere compiuta mediante consegna di una sola copia di tali atti al procuratore che, nel primo grado cautelare, abbia rappresentato più parti; invece, ad avviso di Trib. Salerno 8 aprile 1995, alla notifica del reclamo va applicata la regola generale ricavabile dall'art. 285 c.p.c., secondo cui essa va eseguita mediante consegna di tante copie quante sono le parti contro cui il reclamo è rivolto, e ciò non perché il reclamo sia qualificabile come impugnazione in senso tecnico – ciò che viene escluso – ma in quanto la diversa disciplina dettata dall'art. 170, comma 2, c.p.c. ha carattere eccezionale ed è, dunque, applicabile soltanto alle notificazioni di atti che presentino carattere «endoprocedimentale»; ad ogni buon conto, in caso di provvedimento d'urgenza ottenuto nei confronti di più parti, è ammissibile il reclamo cautelare notificato ad una parte soltanto, potendo il giudice disporre l'integrazione del contraddittorio nella fase di reclamo, così di Trib. Parma 11 giugno 1997; contra, Trib. Torino 9 settembre 1993, per il quale, in caso di provvedimento possessorio ottenuto a beneficio di più parti, è inammissibile il reclamo cautelare notificato ad una parte soltanto, non essendo consentita l'integrazione del contraddittorio nella fase di reclamo). L'eventuale attività istruttoria. Richiamando, tra l'altro, l'art. 738 c.p.c., il collegio potrà «assumere informazioni» che – nell'ottica della riforma del 1993 e comunque non circoscrivendo il sindacato giudiziale alla sola funzione di controllo degli errores in procedendo e in iudicando – avrebbero dovuto essere limitate ai fatti sopravvenuti eventualmente dedotti, salvo opinare che il giudice del reclamo potesse compiere, indipendentemente da una sollecitazione della parte interessata, quegli «atti di istruzione indispensabili» previsti dall'art. 669-sexies c.p.c. (al cui commento si rinvia). L'àmbito dell'attività istruttoria esplicabile è, ovviamente, correlata all'ampiezza del riesame, di legittimità o/e di opportunità, consentito in sede di reclamo (v., funditus, supra): su ciò un rilevante peso assume la novella del 2005, secondo la quale il collegio – fermo, però, l'obbligo per il reclamante di non mutare la propria domanda cautelare – può «sempre», oltre che assumere informazioni, anche acquisire nuovi documenti, pur a fronte della recente limitazione, ad opera della recente giurisprudenza di legittimità, di presentare le prove precostituite nel giudizio di appello (secondo Trib. Napoli 16 luglio 1999, mentre di norma non erano ammissibili nuovi mezzi di prova costituendi, in applicazione dell'art. 345 c.p.c., risultavano ammissibili la produzione di nuovi documenti e l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio, non sussistendo alcuna preclusione processuale; Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, sul presupposto che il reclamo si configurasse come un gravame a critica libera e non a critica vincolata, sicché era possibile far genericamente valere l'ingiustizia della decisione del giudice di prime cure, adducendo fatti sopravvenuti o preesistenti rispetto al rilascio della misura cautelare, e producendo nuovi documenti; contra, Trib. Verbania 8 aprile 1999, ad avviso del quale, in materia di procedimento cautelare, la parte rimasta soccombente avanti il primo giudice non poteva, in sede di reclamo, produrre documentazione nuova, stante che il giudice del reclamo risultava strettamente vincolato al riesame della congruità del provvedimento impugnato sulla base degli elementi acquisiti nella prima fase del procedimento). In una peculiare fattispecie, si è rilevato (Trib. Frosinone 19 aprile 1996) che, nell'àmbito della cognizione sommaria, che è propria del giudizio cautelare, il danno arrecato ad una banca in liquidazione coatta amministrativa dagli amministratori e dai sindaci deve essere valutato unitariamente, non essendo possibile scorporare un danno direttamente imputabile a tali organi da un ulteriore danno imputabile a fatti o a soggetti non individuati (nella specie, il giudice di primo grado aveva distinto all'interno delle presumibili responsabilità dei cessati organi della banca, al fine di escludere quella dei sindaci); pertanto, la produzione di nuovi documenti nella fase di reclamo avverso un provvedimento di sequestro non è affatto preclusa, in quanto il collegio ritenga i nuovi mezzi di prova indispensabili ai fini della decisione e purché venga rispettato il principio del contraddittorio, il quale postula che, sui documenti prodotti, tutte le parti possano formulare deduzioni e contestazioni, non anche che le parti debbano avere cognizione di tali documenti in entrambe le fasi del procedimento cautelare. In dottrina (Ghirga, 782), si ritiene che la disposizione contenuta nell'art. 23, comma 5, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, su cui si è modellata la l. n. 80/2005, non abbia carattere innovativo, ma si limiterebbe ad esplicitare, quanto già doveva considerarsi disposto in forza del rinvio all'art. 738 c.p.c. Peraltro, alla conclusione dell'ammissibilità, in sede di reclamo, della produzione di nuovi documenti, come dell'assunzione di informazioni, la giurisprudenza di merito era già pervenuta anche nella vigenza dell'originaria formulazione dell'art. 669-terdecies c.p.c., ponendo l'unico limite del rispetto del contraddittorio, ritenendo, altresì, che i documenti e le informazioni acquisibili nella fase di reclamo non erano soltanto quelli che le parti non avessero potuto fornire in precedenza, potendosi piuttosto trattare pure di nuove prove relative a circostanze già dedotte, laddove il criterio discretivo rimaneva quello dell'indispensabilità degli atti di istruzione in relazione ai presupposti ed ai fini del provvedimento richiesto, come si esprime il comma 1 dell'art. 669-sexies c.p.c. In tema di reclamo, dunque, non dovrebbe sussistere alcuna preclusione di nuove deduzioni, allegazioni e domande istruttorie (per la giurisprudenza precedente alla riforma del 2005, v. Trib. Torino 14 maggio 1997; in senso contrario, Trib. TerminiImerese 12 febbraio 2001; Trib. Milano 25 marzo 1996; Trib. Catania 23 marzo 1995, secondo cui, stante la sua natura di revisio prioris istantiae, il reclamo cautelare non poteva fondarsi né su nuove circostanze di fatto preesistenti ma non dedotte, né su nuove prove relative a circostanze già dedotte; a parere di Trib. Torino 3 dicembre 1993, non era ammissibile, in fase di reclamo, alcuna nuova attività istruttoria, in quanto il rimedio previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. costituiva uno strumento di mero controllo dell'esercizio della tutela cautelare attuata nella fase di prima istanza; abbastanza concorde, invece, la giurisprudenza successiva, v., per tutte, Trib. Rimini 30 marzo 2006, ad avviso del quale, configurandosi il reclamo contro i provvedimenti cautelari come gravame a critica libera, attesa la funzione meramente cautelare, il cui esito è inidoneo alla formazione del giudicato, deve ritenersi senz'altro consentito alle parti sia addurre fatti nuovi che produrre nuovi documenti e formulare nuove istanze istruttorie). Secondo la dottrina (Buoncristiani, 130), infatti, il legislatore sembra aver riconosciuto al reclamo cautelare natura di impugnazione a critica illimitata, ampiamente devolutiva, integralmente e sempre sostitutiva, aperta a nuove prove ed a nuove allegazioni, sicché, con riferimento a circostanze ed a mezzi di prova relativi al periculum in mora, non si pone il problema delle preclusioni, considerato che lo stesso periculum non rientra nella cognizione del giudice della fase di merito. Rimane inteso che, affinché il collegio possa utilizzare i nuovi documenti come fonte di prova, la loro produzione dovrebbe avvenire nel rispetto della regola contenuta nell'art. 87 disp. att. c.p.c., ossia mediante deposito al momento della costituzione nel giudizio di reclamo, oppure, al più tardi, nell'udienza di discussione innanzi al collegio mediante menzione nel corrispondente verbale (dovendo il tribunale assicurare l'effettivo contraddittorio sulla documentazione acquisita in udienza, è giocoforza ritenere che alla controparte dovrebbe essere riconosciuto il diritto ad ottenere un rinvio per approntare le inerenti difese e replicare adeguatamente). In questa nuova prospettiva, al collegio sono attribuiti expressis verbis poteri istruttori anche per integrare o rimediare ad eventuali lacune della precedente fase cautelare o per verificare fatti non dedotti nel procedimento concluso con il provvedimento reclamato – si pensi alla produzione di nuovi documenti, all'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio, all'ingresso di mezzi istruttori richiesti e non ammessi, all'assunzione di nuove prove costituende, e quant'altro – il tutto modulato al principio di libertà delle forme, nell'àmbito di un'istruttoria sommaria ed elastica, purché tesa al rispetto del contraddittorio, il cui svolgimento rientra ex art. 669-sexies c.p.c. nei poteri del giudice della cautela e, quindi, anche in quelli del giudice del reclamo, e con il divieto, però, di poteri inquisitori, che mal si conciliano con la disponibilità delle prove in capo ai soli contendenti. Dunque, i limiti dei poteri istruttori devono essere delineati coerentemente all'ampiezza dei motivi deducibili e del contenuto del provvedimento-terminativo, sicché una maggiore ampiezza devolutiva comporterà l'attribuzione al giudice del reclamo degli stessi poteri riconosciuti a quello della cautela da parte dell'art. 669-sexies c.p.c., con conseguente possibilità di procedere, indiscriminatamente e con modalità libere, agli atti istruttori ritenuti indispensabili, ivi comprese le sommarie informazioni. Pertanto, la rinnovazione di una prova già acquisita potrà aversi sollecitando i poteri officiosi del giudice del reclamo, mentre nuove deduzioni istruttorie non sembrano paralizzate dalle preclusioni simili a quelle del giudizio di appello. La suggerita rigida demarcazione dell'area del reclamo alla mera revisio comporta, invece, il ritorno ad una ritenuta «indispensabilità» come presupposto per l'acquisizione di nuove prove, dato non incompatibile con la possibilità di assumere informazioni, secondo la previsione del richiamato art. 738, comma 3, c.p.c. Nulla osta, invece, alla rinnovazione in forma collegiale dell'assunzione di mezzi già esperiti in primo grado, ex art. 356 c.p.c., opinandosi che il giudice (collegiale) del reclamo provveda all'assunzione in tale composizione, non apparendo codificata, né opportuna, una delegabilità al componente singolo sulla falsariga dell'ipotesi contemplata dall'art. 350, comma 1, c.p.c. – aggiunta dalla l. n. 183/2011 – stante che il relatore si limita a riferire in camera di consiglio ai sensi dell'art. 738, comma 1, c.p.c. Questa individuazione dei motivi e dell'oggetto del controllo ha indotto alcuni ad escludere che possano dedursi, in via di reclamo, sopravvenuti mutamenti delle circostanze, che giustificano semmai la revoca o la modifica del provvedimento cautelare (Vaccarella, 511). Altri hanno, invece, ritenuto che il giudice del reclamo, nel rispetto di quanto devoluto alla parte attraverso i motivi di reclamo – effetto parzialmente devolutivo, in applicazione analogica dell'art. 346 c.p.c. – abbia la possibilità di integrare eventuali lacune dell'istruttoria sulla domanda cautelare nonché, in mancanza di specifiche preclusioni, di accogliere nuove istanze istruttorie relative a circostanze sopravvenute o anche a fatti in precedenza non dedotti, procedendo al compimento di quegli atti di istruzione che reputi «indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini» della richiesta misura cautelare (e del reclamo), con applicazione analogica del comma 1 dell'art. 669-sexies c.p.c. (Guaglione, 220). La statuizione sulle spese. In precedenza, si era dell'opinione che il giudice del gravame, qualora accogliesse il reclamo e revocasse il provvedimento cautelare concesso in prime cure, doveva condannare la parte soccombente al pagamento delle spese relative alle due fasi del procedimento, a meno che fosse iniziato il relativo giudizio di merito, perché se il reclamo era accolto a giudizio di merito pendente la relativa regolamentazione sarebbe stata compiuta nella sentenza che avrebbe definito il merito (Trib. Roma 15 marzo 1996, secondo il quale la pronuncia sulle spese relative al procedimento di reclamo, nell'ipotesi di revoca del provvedimento cautelare impugnato, spettava al giudice investito della causa di merito; Trib. Fermo 4 gennaio 1994, sul rilievo fondante per cui doveva essere applicato analogicamente l'art. 669-septies, comma 2, c.p.c.; Trib. Firenze 30 giugno 1993, secondo il quale la pronuncia con la quale il collegio, in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., revocava il provvedimento cautelare doveva contenere anche la condanna alle spese della parte soccombente relativamente alle due fasi del procedimento; in materia possessoria, v. Trib. Genova 21 maggio 1997, secondo cui, alla concessione della tutela possessoria in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso il provvedimento di rigetto pretorile, seguiva la piena soccombenza e la condanna al rimborso delle spese sostenute dal ricorrente in entrambe le fasi sommarie del giudizio possessorio; v., altresì, Trib. Macerata 22 dicembre 1993, a parere del quale, in sede di accoglimento del reclamo con esito di rigetto ex art. 669-terdecies c.p.c. proposto avverso un provvedimento possessorio, il giudice pronunciava sulle spese ai sensi dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c.). Se il reclamo era, invece, rigettato o dichiarato inammissibile – ad esempio, per inapplicabilità della disciplina sul procedimento cautelare uniforme – ed il giudizio di merito non potesse proporsi davanti al giudice civile ordinario, l'ordinanza conclusiva avrebbe dovuto condannare il reclamante alle spese del relativo procedimento (così Trib. Camerino 30 agosto 1993, il quale, sul presupposto che l'art. 91 c.p.c. trovava applicazione riguardo ad ogni provvedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o decreto che, nel risolvere contrapposte posizioni, eliminasse il procedimento davanti al giudice che lo emetteva, e che l'ordinanza collegiale che definiva il procedimento instauratosi a seguito della proposizione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., oltre ad avere natura di provvedimento idoneo a chiudere in maniera definitiva la fase procedurale apertasi a seguito della presentazione del reclamo, era processualmente autonoma rispetto al successivo accertamento della situazione controversa, aveva affermato che l'ordinanza con cui veniva dichiarato inammissibile il reclamo proposto avverso un provvedimento cautelare doveva necessariamente contenere anche la pronuncia sulle spese del relativo procedimento; in senso conforme, v. Trib. Torino 15 marzo 1997; Trib. Lecce 10 novembre 1993; contra, Trib.TerminiImerese 12 febbraio 2001, per cui, pronunciata l'inammissibilità del reclamo, la decisione sulle spese della fase di reclamo spettava al giudice di merito, con la sentenza che definiva il relativo giudizio; Trib. Torino 9 settembre 1993, secondo il quale non si doveva provvedere sulle spese qualora venisse dichiarata l'inammissibilità del reclamo). Qualora, poi, a seguito del rigetto, il giudizio di merito poteva essere proposto, anche se non lo fosse già stato, alla liquidazione finale delle spese avrebbe dovuto provvedere il giudice del merito; parimenti a quest'ultimo incombeva la condanna per risarcimento danni ex art. 96 c.p.c. che, proclamando la soccombenza dell'attore, richiedeva, altresì, un giudizio di cognizione piena che dichiarasse l'inesistenza del diritto cautelato (ad avviso di Trib. Taranto 12 gennaio 1998, nell'ipotesi in cui, in sede di decisione sul reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., fosse stata revocata la cautela concessa dal primo giudice ante causam, sulle spese dell'intero procedimento cautelare doveva provvedere non già il giudice del reclamo, bensì il giudice della controversia di merito che fosse stata nel frattempo introdotta; Trib. Pesaro 22 settembre 1994, per il quale, quando il procedimento cautelare veniva proposto nel corso del giudizio di merito, le spese del procedimento di reclamo dovevano essere liquidate con la sentenza che definiva il giudizio; secondo Trib. Catania 21 luglio 1993, il giudice cautelare, compreso quello che decideva in sede di reclamo, doveva provvedere sulle spese del giudizio cautelare soltanto se, alla decisione cautelare resa, non dovesse far seguito un giudizio di merito; sul versante possessorio, v. Trib. Napoli 18 novembre 1998, a parere del quale il giudice del reclamo, allorché revocasse l'interdetto possessorio che aveva concesso la tutela cautelare, qualora il provvedimento fosse stato messo in corso di causa, non poteva provvedere sulla liquidazione delle spese, la cui regolamentazione era riservata alla pronuncia-terminativa del giudizio di merito, stante che il legislatore aveva affermato il principio che le spese del giudizio cautelare dovevano essere liquidate solo in caso di rigetto dell'istanza, mentre, al contrario, le stesse non potevano essere liquidate laddove il provvedimento fosse di accoglimento o venisse comunque emesso durante la pendenza del giudizio di merito). Su questa lunghezza d'onda, si era anche posta la magistratura di vertice (Cass. I, n. 5566/1996), ad avviso della quale, nella disciplina dei procedimenti cautelari di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. – introdotti dall'art. 74 della l. n. 353/1990 – la statuizione sulle spese, mentre doveva essere adottata nel caso di reiezione della domanda o di dichiarazione di incompetenza, non era prevista quando la misura richiesta dalla parte istante fosse concessa, o confermata in sede di reclamo (ancorché sulla scorta dell'inammissibilità del reclamo stesso), in ragione del carattere temporaneo e provvisorio della relativa pronuncia, destinata ad essere superata o assorbita con la decisione nel merito, e comunque suscettibile di successiva modifica o revoca. Mette punto rammentare che, contro la sola pronuncia relativa alle spese processuali, era ammesso il rimedio oppositorio ex art. 645 c.p.c., contemplato nell'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., anch'esso scomparso a seguito del recente intervento del legislatore (in proposito, Cass. II, n. 28629/2017 aveva, ad ogni buon conto, chiarito che il giudizio di opposizione avverso la condanna alle spese, regolato dall'abrogato art. 669-septies, comma 3, c.p.c., non presentasse caratteri di autonomia rispetto alla domanda introduttiva del procedimento cautelare, poi coltivato con il reclamo, costituendo una prosecuzione dell'iniziale pretesa alle spese, né si poteva ritenere che, a seguito dell'opposizione, si instaurasse un separato giudizio di cognizione, trattandosi di una fase che trovava origine nella domanda iniziale, sicché, in analogia con quanto previsto in caso di appello proposto avverso la sentenza resa all'esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ai fini dell'operatività del termine semestrale di decadenza dal gravame, previsto dall'art. 327 c.p.c., nel testo novellato dalla l. n. 69/2009 e applicabile, ai sensi dell'art. 58 stessa legge, ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore, la predetta pendenza doveva individuarsi con riferimento non alla notificazione dell'atto di opposizione, bensì all'instaurazione del procedimento cautelare; in ordine all'applicazione l'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., nella formulazione ratione temporis vigente, anche riguardo alla condanna alle spese emessa all'esito del reclamo, v. Cass. II, n. 28607/2020, sul rilievo fondante per cui l'opponibilità ai sensi degli artt. 645 ss. c.p.c. aveva una valenza generale, volta, com'era, a ricondurre al sistema oppositorio menzionato ogni statuizione sulle spese adottata in sede di procedimento cautelare). La l. n. 69/2009, inserendo il comma 7 all'art. 669-octies c.p.c. – al cui commento si rinvia – ha stabilito ora che il giudice, quando emette un provvedimento cautelare prima dell'inizio della causa di merito, deve provvedere, comunque, sulle spese del procedimento cautelare, sicché anche in fase di reclamo varranno le stesse considerazioni stante l'equiparabilità delle rispettive pronunce. In altri termini, è vero che non viene tuttora espressamente disciplinato il profilo delle spese del procedimento di reclamo, ma è altrettanto vero che la regola deve trarsi analogicamente dal sistema insito nei novellati artt. 669-septies e 669-octies c.p.c., per cui il collegio dovrà rendere la pronuncia sulle spese soltanto allorquando l'esito globale del procedimento comporti il diniego della misura cautelare richiesta ante causam, oppure la concessione, sempre ante causam , di una cautela anticipatoria, laddove, in previsione o in pendenza del giudizio di merito, la relativa liquidazione dovrà essere contenuta nella sentenza definitiva. Con particolare riferimento al processo esecutivo, si è statuito (Cass. III, n. 17266/2009) che il potere di statuizione sulle spese del giudice del reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., di cui all'art. 624, comma 2, c.p.c., allorquando confermi il rigetto dell'istanza di sospensione dell'esecuzione o revochi la sospensione disposta dal giudice dell'esecuzione, rigettando l'istanza, si configura sussistente sulla base di una ricostruzione che, indipendentemente dalla prospettiva di una piena riconduzione del provvedimento sulla sospensione dell'esecuzione all'àmbito del procedimento di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. e, dunque, di un'applicazione dell'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., consideri il dato che la cognizione piena a seguito della fase camerale del giudizio di opposizione e, quindi, del procedimento di sospensione, è ora, secondo l'art. 616 c.p.c., meramente eventuale, perché è rimesso all'esecutato di valutare se iscrivere o meno la causa a ruolo e dar corso alla cognizione piena, onde il provvedimento del giudice dell'esecuzione che neghi la sospensione ha attitudine a definire la vicenda davanti a sé, qualora non segua l'iscrizione a ruolo della causa, o non segua nel termine perentorio, di cui all'art. 616 c.p.c., e, dunque, si presta ad essere ricondotto al concetto espresso dall'art. 91 c.p.c. (il chiudere il processo davanti a sé), conseguendone che, ove provveda il giudice del reclamo di cui all'art. 624, comma 2, c.p.c., la posizione riguardo alle spese non può che essere omologa. Ritornando sulla specifica materia esecutiva, ma con rilievi anche di ordine generale, più di recente, i magistrati di Piazza Cavour (Cass. III, n. 12898/2021) hanno chiarito che, nel regime successivo alla novella introdotta con la l. n. 80/2005, l'ordinanza di rigetto del reclamo cautelare proposto in corso di causa non deve contenere un'autonoma liquidazione delle spese della fase cautelare endoprocessuale, essendo tale liquidazione rimessa al giudice del merito contestualmente alla valutazione dell'esito complessivo della lite (argomentando ex art. 669-septies, comma 2, c.p.c.); qualora tale valutazione sia stata, comunque, effettuata, deve essere riconsiderata insieme alla decisione di merito della causa e, ove non lo sia, e venga dedotto uno specifico motivo di gravame sul punto, il giudice di appello è tenuto ad una riconsiderazione complessiva delle spese di lite, comprensiva delle spese del procedimento endoprocessuale, sulla base dell'esito del giudizio, conseguendone che erra il giudice del merito a cognizione piena che ritenga inammissibile ogni contestazione sulle spese liquidate in sede di reclamo, limitandosi a liquidare esclusivamente le spese del giudizio di merito e ritenendo intangibili la liquidazione di quella della fase cautelare; d'altronde, le spese del procedimento cautelare in corso di causa vanno liquidate contestualmente alla decisione del merito, atteso che l'esito della fase cautelare endoprocessuale non ha un'autonoma rilevanza ai fini della complessiva regolamentazione delle spese di lite, in quanto il criterio della soccombenza non si fraziona a seconda dell'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente alla decisione finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un risultato ad essa favorevole (Cass. II, n. 9785/2022; Cass. VI/III, n. 13356/2021). Precedentemente a tale arresto di legittimità, alcune pronunce di merito (Trib. Belluno 13 dicembre 2010) avevano ritenuto che l'art. 669-septies, comma 2, c.p.c., nel prevedere la pronuncia sulle spese processuali nel caso di rigetto del ricorso cautelare ante causam, non introduceva anche il divieto di provvedere sulle spese del reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. avverso il provvedimento emesso in corso di causa, sicché, in assenza di una specifica disciplina delle spese del reclamo, dal principio generale posto dall'art. 91, comma 1, c.p.c. – a norma del quale il giudice, con il provvedimento che chiudeva il processo davanti a lui, pronunciava sulle spese del giudizio – conseguiva il potere del tribunale di provvedere sulle spese della fase del reclamo che si chiudeva davanti al collegio, indipendentemente dalla natura (ante causam o in corso di causa, di accoglimento o di rigetto) del provvedimento pronunciato. In buona sostanza, si è sostenuta la tesi secondo cui, anche in sede di reclamo avverso provvedimento cautelare reso in corso di causa, il collegio dovrebbe pronunciarsi sulle spese del giudizio determinando, invero, la proposizione del reclamo l'introduzione di un autonomo sub-procedimento dinanzi ad un collegio, peraltro diverso dal giudice dinanzi al quale è instaurato il giudizio di merito e che si è pronunciato in prima istanza sul ricorso cautelare. In senso diverso, si è evidenziato che, poiché il giudizio cautelare è legato da un nesso di strumentalità a quello di merito, una volta che quest'ultimo sia iniziato, viene meno il presupposto per l'applicabilità dell'art. 91 c.p.c., e cioè la «chiusura» definitiva del processo, il quale continua in una diversa fase, di talché la pronuncia sulle spese relative al procedimento di reclamo, nell'ipotesi di revoca del provvedimento cautelare, impugnato, spetta al giudice investito della causa di merito (Trib. Roma 25 marzo 2005); analogamente, si è ritenuto che il giudice del procedimento cautelare, compreso quello che decide in sede di reclamo, provvede sulle spese del giudizio cautelare solo se, alla decisione cautelare resa ante causam, non debba far seguito un giudizio di merito (Trib. Catania 21 luglio 2003); sempre in senso difforme, si è negata la sopravvivenza del potere decisorio del giudice del reclamo cautelare sulle spese di lite anche nell'ipotesi in cui sia stato, soltanto successivamente alla proposizione del reclamo, instaurato il giudizio di merito, in applicazione del generale principio di globalità nella condanna alle spese processuali (Trib. TerminiImerese 26 giugno 2002; Trib. Taranto 12 gennaio 1998). È, comunque, apparsa corretta (ad avviso di Trib. Verona 22 agosto 2019) la negazione della liquidazione del compenso a carico dello Stato per l'attività espletata nel procedimento di reclamo, laddove sia emersa la mancanza di una richiesta di ammissione al gratuito patrocinio. Il raddoppio del contributo unificato. Chiamato a decidere su un procedimento di reclamo cautelare, proposto avverso un'ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione proposta ex art. 624 c.p.c., un giudice partenopeo (Trib. Napoli Nord 8 gennaio 2016) ha risolto, sia pure incidentalmente, la questione relativa all'applicabilità, al reclamo cautelare, della disposizione dell'art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115/2002 (Testo unico sulle spese di giustizia), nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228/2012, secondo cui, «quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis», precisando che «il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». In via preliminare, lo stesso giudice ha dovuto affrontare il problema della natura del medesimo reclamo – v., in senso ampio, il precedente par. 3.1. – aderendo alla tesi che intende il reclamo cautelare come un'impugnazione «pienamente devolutiva», che si desume da alcuni requisiti strutturali: a) l'esclusione, prevista dall'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., della rimessione al primo giudice; b) la possibilità di introdurre, in sede di reclamo, fatti o deduzioni anche precedenti alla proposizione dell'istanza cautelare, pur se non dedotte nel procedimento cautelare medesimo; c) il confronto con la disciplina normativa del reclamo ex art. 18 l. fallim., che si caratterizza per un effetto devolutivo pieno e completo, senza che in esso possano applicarsi le limitazioni di cui agli artt. 342 e 345 c.p.c., con la conseguenza che il reclamo è un mezzo di impugnazione, sia pur «deformalizzato», a critica libera e destinato a chiudersi con una pronuncia idonea al giudicato, proponibile entro un termine di decadenza e diretto ad ottenere la revisione o la modifica del provvedimento cautelare concesso o negato. Da questo inquadramento giuridico, discende – secondo il giudice adìto – la natura di impugnazione e l'applicabilità dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002; tale disposizione, infatti, non effettua rinvii alle impugnazioni in senso stretto, individuate dagli artt. 323 ss. c.p.c., sicché essa deve ritenersi «onnicomprensiva» ossia non limitata alle impugnazioni in senso formale, mentre, ai fini del pagamento del contributo unificato, il reclamo cautelare è considerato un'impugnazione (v. anche la circolare del Ministero della Giustizia n. 5/2002). Anche altri giudici di merito si sono posti, più di recente, nella stessa lunghezza d'onda, affermando – sul presupposto che l'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002 dispone che, quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale – che tale previsione, pur testualmente riferita alle impugnazioni, deve ritenersi applicabile anche al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., atteso che la ratio che vi è sottesa, costituita dall'esigenza di scoraggiare i giudizi di secondo grado (che tali sono rispetto ad un a decisione di prime cure già emessa) introdotti senza la doverosa prudenza, è ravvisabile anche in relazione al reclamo avverso i provvedimenti cautelari (Trib. Treviso 20 febbraio 2018). Riguardo al reclamo contro lo stato passivo del fallimento, in quanto qualificabile come impugnazione, lo stesso magistrato veneto (Trib. Treviso 30 luglio 2015) si era espresso nel senso dell'applicabilità del citato art. 13, comma 1-quater, affermando, appunto, che il reclamo avverso lo stato passivo del fallimento, come disciplinato dall'art. 99 l. fallim., dopo la riforma operata dal d.lgs. n. 169/2007, ha natura impugnatoria, sicché sussistono i presupposti per l'applicazione del citato art. 13, ai sensi del quale la parte che propone un'impugnazione, anche incidentale, che venga poi respinta, dichiarata inammissibile o improcedibile, è tenuta a versare un importo ulteriore a titolo di contributo unificato, di ammontare uguale a quello dovuto per l'impugnazione stessa. Di fatto, l'interpretazione «onnicomprensiva» della disposizione, ossia come riferita a qualsiasi impugnazione, pur se non elencata nell'art. 323 c.p.c., sembra corrispondere alla ratio della previsione che – come lo stesso giudice di legittimità ha, in più occasioni, avuto modo di affermare – va individuata nella finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose (Asprella 2016, 1825). Ne consegue che il meccanismo sanzionatorio ivi previsto si applica in tutte le ipotesi di inammissibilità originaria del gravame, ma non anche a quelle di inammissibilità sopravvenuta (Cass. V, n. 19432/2015; Cass. VI, n. 13636/2015; cui adde Cass. VI, n. 19560/2015, nel senso, invece, che la declaratoria di estinzione del giudizio comporta l'inapplicabilità della sanzione), e, comunque, non trova applicazione in altri casi che non siano il rigetto dell'impugnazione o la sua declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, trattandosi si previsione «eccezionale» e, pertanto, di stretta interpretazione e non passibile di estensione analogica. Tuttavia, questa eccezionalità risiede nell'impossibilità di applicare la sanzione a casi diversi da quelli previsti dalla norma, quali, ad esempio, l'ipotesi della rinuncia al ricorso per cassazione (Cass. VI, n. 23175/2015), mentre non presuppone, stando alla generica formulazione in essa contenuta, la tipicità delle impugnazioni dettate dall'art. 323 c.p.c. D'altronde, l'elencazione dell'art. 323 c.p.c. è senz'altro tipica e tassativa riguardo ai mezzi di impugnazione che si possono utilizzare nel processo ordinario di cognizione, ma non esclude l'ammissibilità dei mezzi lato sensu impugnatori previsti nei processi camerali o speciali; quand'anche non si volesse utilizzare il termine «impugnazione», i rimedi sparsi all'interno del tessuto codicistico e non, quali ad esempio proprio il reclamo cautelare, o il reclamo ex art. 99 l. fallim., sono comunque rimedi esoprocessuali con contenuto impugnatorio e, quindi, che possono definirsi «genericamente impugnatori» pur se denominati con espressioni differenti, quale appunto, il reclamo o l'opposizione (sulla natura delle impugnazioni quali esercizio del potere, assegnato alle parti soccombenti dall'ordinamento, di ottenere un controllo sulla correttezza del procedimento svoltosi nel grado precedente nonché sul risultato finale, ossia il provvedimento, Consolo 2015, 260). Gli effetti del provvedimento di reclamo. Il procedimento del reclamo si conclude con ordinanza non impugnabile, con la quale può confermare, o modificare, oppure revocare l'originaria domanda cautelare, dimostrando così un'ampia gamma di soluzioni concrete (v., tra le più recenti, a titolo esemplificativo, stante l'estrema varietà della casistica, Trib. Roma 29 aprile 2020, il quale ha confermato in sede di reclamo l'ordinanza che, a fronte della disattivazione, da parte del gestore di un social network di primaria importanza, della pagina di un'associazione attiva nel panorama politico italiano, aveva accordato l'invocata tutela cautelare, ordinando l'immediata riattivazione degli anzidetti pagina e profilo; Trib. Cuneo 10 agosto 2015, il quale ha confermato in sede di reclamo, salvo che per la regolazione delle spese di lite, l'ordinanza con cui era stato inibito in via cautelare ad una banca di dar corso a qualsiasi forma di capitalizzazione degli interessi passivi sui contratti di conto corrente, già in essere o ancora da stipulare con i consumatori; contra, Trib. Torino 5 agosto 2015, che ha, invece, rigettato, in sede di reclamo, il ricorso volto ad inibire in via cautelare ad una banca l'applicazione di ogni forma di capitalizzazione degli interessi passivi maturati nei rapporti di conto corrente intrattenuti con i consumatori; Trib. Milano 8 agosto 2015, il quale ha confermato in sede di reclamo, salvo che per l'ordine di pubblicare il dispositivo su alcuni organi di stampa a tiratura nazionale, l'ordinanza con cui era stato inibito in via cautelare ad una banca di predisporre ed utilizzare applicare clausole anatocistiche nei predetti contratti; Trib. Bologna 16 gennaio 2015, il quale, riformando il provvedimento di prime cure, che quel trasferimento aveva invece negato, ha accolto la domanda di provvedimento d'urgenza proposta da una donna rimasta vedova, che chiedeva disporsi il trasferimento intrauterino degli embrioni soprannumerari crioconservati sedici anni prima, in epoca anteriore all'entrata in vigore della l. n. 40/2004, nell'àmbito di una pratica di procreazione medicalmente assistita, omologa non ancora conclusa, e da lei avviata unitamente al marito, poi defunto; Trib. Trento 11 febbraio 2013, il quale ha confermato in sede di reclamo l'ordinanza che aveva rigettato l'istanza cautelare per il ripristino della cura secondo la metodica Stamina, non essendo stato dimostrato che tale metodica fosse migliore, dal punto di vista dell'interesse della paziente, rispetto ai protocolli in uso negli altri laboratori; Trib. Roma 11 luglio 2011 ha ritenuto fondato il reclamo avverso il provvedimento cautelare, con cui si ordinava al motore di ricerca di rimuovere link a siti pirata in violazione del diritto d'autore – nella specie, inerenti diritti di proprietà intellettuale su opera cinematografica – poiché il motore di ricerca, trattandosi di mero fornitore di mera connettività, non svolgeva un ruolo attivo nella fase di selezione e posizionamento delle informazioni in generale, non era a conoscenza dei contenuti dei siti sorgente a cui era effettuato il link, e beneficiava del regime di irresponsabilità delineato dagli artt. 14,15,16 e 17 del d.lgs. n. 70/2003 volto ad escludere una responsabilità oggettiva non tipizzata o quantomeno una compartecipazione dei providers ai contenuti illeciti immessi da terzi, così pure non era assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza delle informazioni ai sensi dell'art. 17; Trib. Lucera 24 settembre 2008 ha rigettato il reclamo proposto verso l'ordinanza che aveva negato la concessione delle misure cautelari urgenti invocate dall'utente a seguito della disattivazione della linea, posto che la clausola, contenuta nelle condizioni generali di contratto relativo al servizio di telefonia mobile, con cui si prevedeva la disattivazione della carta Sim al trascorrere del dodicesimo mese dalla sua abilitazione in mancanza di ricarica medio tempore, non contrastava con il divieto della sanzione di termini temporali massimi di utilizzo del traffico acquistato, né configurava un'ipotesi di recesso ad nutum del gestore del servizio, rispetto alla quale sarebbe stata richiesta specifica sottoscrizione; Trib. Messina 2 aprile 2008 ha considerato fondato il reclamo avverso l'ordinanza con cui era stata dichiarata inammissibile la domanda di sequestro giudiziario di alloggi promessi in vendita in forza di procura a vendere, ma dei quali si chiedeva la restituzione a motivo della dedotta nullità o annullabilità del contratto traslativo, conseguendone che il bene, anche se detenuto da un terzo, doveva essere sequestrato ed immesso nel possesso del custode). Peraltro, anche il giudice del reclamo può fissare il termine per l'inizio del giudizio di merito con l'ordinanza adottata in sede di reclamo (Trib. Piacenza 7 aprile 2000); si è chiarito, in proposito, che il termine perentorio previsto dall'art. 669-octies c.p.c. – al cui commento si rinvia – per l'inizio del giudizio di merito decorre dalla pronuncia dell'ordinanza di accoglimento della domanda cautelare ante causam (se avvenuta in udienza) o dalla sua comunicazione, anche se l'originario provvedimento viene confermato in sede di reclamo; infatti, per «ordinanza di accoglimento» di cui alla citata norma, va intesa quella originaria e non quella emessa in sede di reclamo, assumendo la prima rilevanza fondamentale ai fini dell'instaurazione della fase di merito e necessitando di una verifica nel giudizio di cognizione, mentre la seconda non ha effetto assorbente o sostitutivo, come nel caso di conferma della misura cautelare, rilevandosi, inoltre, come nessuna norma assegni al reclamo effetti sospensivi del termine in questione, escludendo, anzi, l'art. 669-terdecies c.p.c. che il reclamo sospenda automaticamente l'esecuzione del provvedimento impugnato (Cass. IV, n. 18152/2006). Comunque, è da ritenersi valida la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito, che segua un procedimento cautelare, eseguita non alla parte personalmente ma nel domicilio da questa eletto presso il proprio difensore in occasione del procedimento cautelare, purché dal tenore della procura alle liti possa desumersi che essa sia stata conferita anche per la fase di merito (Cass. III, n. 6457/2023: nella specie, si era dichiarata la nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito, effettuata al domicilio che la controparte aveva eletto presso il difensore nel reclamo cautelare, perché il sintagma “nel giudizio di cui al presente atto”, contenuto nella procura conferita a quel legale, limitava il conferimento del potere di rappresentanza e difesa al giudizio cautelare medesimo). Tale provvedimento deve essere emanato non oltre venti giorni dal deposito del ricorso, e, secondo la dottrina, essendo un termine ordinatorio, il mancato rispetto è privo di conseguenze, rinvenendo però gli estremi del diniego di giustizia (Carpi, Taruffo, 240). Nell'ipotesi di revoca della misura cautelare concessa in prima battuta, il provvedimento del giudice del reclamo, sostituendosi a quello del giudice di prime cure e costituendo, in buona sostanza, un rigetto (anche se non immediato) dell'istanza cautelare, comporterà gli effetti preclusivi di cui all'art. 669-septies c.p.c. relativamente alla riproponibilità della medesima istanza; in questo caso, il giudice del reclamo dovrà eventualmente adottare anche i provvedimenti ripristinatori necessari per la rimessione della situazione quo ante e le restituzioni per sopravvenuta mancanza di titolo relativamente alle prestazioni effettuate, in analogia a quanto disposto dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. (al cui commento si rinvia). Si è dell'opinione che il controllo sull'attuazione di un provvedimento cautelare avente ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, competa, in ogni caso, al giudice di prima istanza, individuato ai sensi degli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c., anche se la misura cautelare sia stata disposta in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., posto che, con la decisione del gravame, il collegio cessa le sue funzioni cautelari di cui resta titolare il giudice del primo grado cautelare (Trib. Napoli 5 febbraio 2003; Trib. Venezia 5 luglio 1997; tra le prime, Pret. Trani-Molfetta 5 dicembre 1995, il quale, nell'ipotesi di misura cautelare negata in prima istanza e concessa dal giudice collegiale in sede di accoglimento del reclamo proposto avverso il diniego, ex art. 669-terdecies c.p.c., aveva affermato che la competenza a provvedere in ordine all'attuazione della misura cautelare avente ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare spettasse al giudice di prima istanza e non a quello del reclamo). In senso contrario, si è, però, rilevato che, in ipotesi di misura cautelare avente ad oggetto obblighi di fare o non fare concessa dal giudice del primo grado cautelare ma successivamente modificata dal giudice del reclamo, la competenza a provvedere in ordine all'attuazione del provvedimento spetta in ogni caso allo stesso giudice del reclamo (Pret. Latina-Gaeta 14 gennaio 1999: nella specie, il pretore aveva dichiarato la propria incompetenza a provvedere in ordine all'attuazione di un provvedimento di manutenzione del possesso rilasciato dal tribunale adìto su reclamo avverso l'originaria ordinanza di reintegra emessa dallo stesso pretore). In posizione più articolata, si è posto chi ha opinato che l'attuazione di misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di fare o non fare, deve avvenire nelle forme proprie dell'esecuzione di obblighi di fare o non fare, per cui spetta al pretore la competenza in ordine all'emanazione dei provvedimenti necessari per l'esecuzione della misura, seppure sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento, cui compete la determinazione delle modalità di attuazione e la soluzione di eventuali difficoltà o contestazioni (Trib. Padova 22 novembre 1996: nella specie, trattandosi di misura cautelare rilasciata in sede di reclamo, il collegio si era qualificato come «giudice che ha emanato il provvedimento»). Opinabile potrebbe essere, altresì, la sorte del provvedimento di attuazione di una misura cautelare adottata in sede di reclamo, ma la conclusione prevalente (Trib. Roma 17 aprile 1997) è nel senso che il provvedimento adottato ex art. 669-duodecies c.p.c. per l'attuazione della misura cautelare avente ad oggetto un obbligo di fare deve ritenersi integrativo del provvedimento cautelare da attuare e, come tale, deve ritenersi partecipe della stessa natura ed assoggettato alla stessa disciplina, conseguendone che esso, se pronunciato a conclusione del giudizio di reclamo, è inoppugnabile ai sensi dell'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c. (conforme lo stesso ufficio giudiziario capitolino, ad avviso del quale l'ordinanza con la quale il giudice, provvedendo su un ricorso proposto ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., fissa le modalità per l'esecuzione del provvedimento cautelare, integra quest'ultimo e fa corpo con esso, conseguendone che, anche all'ordinanza in questione, è applicabile il disposto dell'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., il quale esclude l'impugnabilità del provvedimento, v. Trib. Roma 3 aprile 1997). Resta fermo (ad avviso di Trib. Bari 6 settembre 2012) che, in riferimento al reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza di rigetto di un ricorso ex art. 700 c.p.c., possa operare il principio della decisione secondo la c.d. ragione più liquida che – consentendo al giudice di non rispettare rigorosamente l'ordine logico delle questione da trattare (art. 276 c.p.c.), ove sia più rapido ed agevole risolvere la controversia in base ad una questione la quale, seppur logicamente subordinata ad altre, sia più evidente e più rapidamente risolvibile – è pienamente rispondente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, ed è altresì conseguenza di una rinnovata visione dell'attività giurisdizionale, intesa non più come espressione della sovranità statale, ma come un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione di merito in tempi ragionevoli. I rimedi avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo.La revoca e la modifica. Il provvedimento emesso in sede di reclamo si sostituisce in toto alla già adottata decisione (di rigetto o di accoglimento) cautelare di prime cure, tanto che l'ordinanza si pronuncia per la «conferma» (e non il mero rigetto del reclamo), oltre che per la «modifica» o «revoca». A sua volta, però, tale ordinanza, anche se dichiarata «non impugnabile» dal comma 5 dell'art. 669-terdecies c.p.c., ma costituendo essa stessa un provvedimento cautelare, è suscettibile di modifica o revoca ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. – al cui commento si rinvia – qualora si registrino «mutamenti nelle circostanze», il cui vaglio dovrebbe essere attribuito all'istruttore, se pende causa per il merito, in quanto in grado di valutarne l'incidenza sulla diversa situazione conosciuta in precedenza dal collegio (v., tra le prime, Trib. Udine 14 dicembre 1994, ad avviso del quale spetta al giudice istruttore la competenza a disporre la revoca e la modifica del provvedimento cautelare emesso in tutto o in parte dal collegio in sede di reclamo; precisa Trib. Bassano del Grappa 19 marzo 1999 che la competenza per la modifica o la revoca del provvedimento cautelare emanato dal tribunale in sede di reclamo, qualora la causa di merito sia devoluta ad arbitri, spetta al giudice singolo; ad avviso di Trib. Roma 25 gennaio 2005, con l'introduzione del procedimento cautelare uniforme e la previsione della fase di gravame, non può più trovare applicazione l'uso dello strumento cautelare come mezzo interdittivo e correttivo di precedenti provvedimenti d'urgenza, dal momento che il provvedimento emesso in sede di reclamo non è ricorribile ulteriormente, ma revocabile o modificabile ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. dal giudice del merito, conseguendone che non può essere invocata la tutela cautelare urgente qualora sorga l'esigenza di rimediare al pregiudizio derivante dall'esecuzione di un provvedimento cautelare). Nello specifico, il carattere della provvisorietà del provvedimento cautelare – condizionato dall'instaurazione della causa di merito e, poi, superato dalla sua definizione – è proprio anche dell'ordinanza che pronunci, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., sul reclamo dell'interessato, e pure detta ordinanza è modificabile e revocabile durante la causa di merito; detta revoca e modifica, però, competono al giudice istruttore della causa di merito, sia a norma dell'art. 669-decies c.p.c., sia perché il tribunale, una volta che in composizione collegiale ha pronunciato sul reclamo, ha esaurito la competenza attribuitagli dall'art. 669-terdecies c.p.c., e sia, infine, per rispettare il sistema di garanzie, rappresentato dal doppio grado di merito, introdotto con la novella anche nell'àmbito del procedimento cautelare (Trib. Piacenza 15 dicembre 2000). In pendenza del procedimento di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., la competenza a conoscere di eventuali profili sopravvenuti e ad apportare modifiche al provvedimento reclamato – nella specie, ordinanza adottata ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. – spetta esclusivamente al giudice del reclamo, sicché l'integrazione del provvedimento cautelare da parte del giudice di prima istanza, che intervenga successivamente alla proposizione del reclamo, non osta alla pronuncia sul gravame (Trib. Roma 23 luglio 2003). In pratica, il provvedimento sulla misura cautelare diventa ormai quello emesso dal giudice del reclamo, e su di esso si sposta ogni problematica concernente la relativa imputazione a chi ha emanato il provvedimento (dal giudice di prima istanza al giudice del riesame), per quanto riguarda, ad esempio, gli effetti preclusivi di cui all'art. 669-septies c.p.c., l'inizio del giudizio di merito di cui all'art. 669-octies c.p.c., la direzione dell'attuazione ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. e l'inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. In particolare, riguardo a quest'ultimo aspetto, si è chiarito che la competenza a dichiarare, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il sequestro conservativo è divenuto inefficace, a seguito della scadenza del termine previsto dalla legge per la sua esecuzione, è riservata al giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, mentre, soltanto qualora sorgano contestazioni, poi, la decisione sarà pronunciata con sentenza dall'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha disposto il sequestro, aggiungendo che le ragioni di economia processuale invocate non appaiono idonee ad offrire fondamento ad un'interpretazione priva di esplicito supporto normativo che, attribuendo la competenza a decidere circa la sopravvenuta inefficacia del sequestro al collegio, investito con reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. per altra causa, potrebbe anche comportare la lesione dei diritti di difesa delle parti (Trib. Santa Maria Capua Vetere 10 dicembre 1996; in senso conforme, v. Trib. Roma 24 settembre 1996, a parere del quale competente a dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare modificato in sede di reclamo è il giudice che ha originariamente emesso il provvedimento e non il giudice del reclamo, né può chiedere d'ufficio il regolamento di competenza, ai sensi dell'art. 45 c.p.c., il giudice del reclamo in materia cautelare al quale sia stata trasmessa l'istanza volta alla dichiarazione di sopravvenuta inefficacia della misura cautelare, istanza proposta al giudice adìto per la cautela e da questo trasmessa al giudice che, in sede di reclamo, aveva modificato il provvedimento; contra, Trib. Cagliari 6 ottobre 1997, ad avviso del quale, nella pendenza del procedimento di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., competente a dichiarare l'inefficacia del provvedimento autorizzativo del sequestro giudiziario per il motivo di cui all'art. 675 c.p.c. è, per ragioni di economia processuale, il giudice del reclamo). Il ricorso per cassazione. Risulta pacifico in giurisprudenza (segnatamente sull'abbrivio di Cass. S.U., n. 824/1995) che l'ordinanza emessa a norma dell'art. 669-terdecies c.p.c. sul reclamo avverso il provvedimento relativo ad una misura cautelare, anche se adottato ante causam – sia che modifichi, revochi o confermi il provvedimento reclamato – avendo gli stessi caratteri di provvisorietà e non decisorietà propri del provvedimento impugnato, munito di efficacia temporanea, in quanto condizionato all'instaurazione della causa di merito, e modificabile e revocabile nel corso della stessa, destinato a perdere efficacia e vigore a seguito della decisione di merito o qualora il giudizio di merito non sia instaurato nel termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice, nonché inidoneo a produrre effetti di diritto sostanziale e processuale con autorità di giudicato, non sia impugnabile con ricorso straordinario per cassazione a norma dell'art. 111, comma 7, Cost. (v., ex multis, Cass. I, n. 14140/2011, nella specie, si trattava di un provvedimento di «non luogo a provvedere» emesso in sede di reclamo avverso il diniego di provvedimento d'urgenza; Cass. III, n. 10069/2010; Cass. S.U., n. 27187/2007; Cass. II, n. 6752/2003; Cass. IV, n. 441/2003; Cass. IV, n. 6519/2002, relativamente ad un sequestro conservativo anteriore alla causa di merito; Cass. II, n. 2942/1999; Cass. I, n. 1748/1999, riguardo alle decisioni del giudice istruttore in tema di sospensione delle delibere societarie di esclusione di un socio; Cass. I, n. 11611/1998; Cass. I, n. 5376/1998; Cass. I, n. 605/1997, in ordine ad un decreto con cui il giudice delegato, a norma dell'art. 25, n. 6, della l.fall., aveva ordinato ad un istituto di credito l'invio di estratti conto e di documenti relativi a pregressi rapporti tra l'istituto ed il fallito, atteso che tale provvedimento, ove si prospettasse come illegittimamente incidente su diritti di terzi, dava luogo a contestazioni da far valere nella sede ordinaria e non con i mezzi di tutela collegati alla sede fallimentare; Cass. II, n. 5430/1996; Cass. S.U., n. 1832/1996, per quanto concerne un'ordinanza che, rigettando il reclamo, aveva disatteso l'eccezione di incompetenza territoriale del pretore, che aveva emesso il provvedimento cautelare reclamato, e confermato i presupposti di urgenza e di legittimità della domanda; Cass. I, n. 13014/1995; Cass. I, n. 10749/1995, circa un provvedimento di diniego di un sequestro di beni costituenti violazione dei diritti di brevetto relativi a marchi ex artt. 61 del r.d. n. 929/1942 e 57 del d.lgs. n. 480/1992). Ad ogni buon conto, l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata sulla base della qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal giudice che tale provvedimento abbia pronunciato, a prescindere dall'esattezza o meno di tale qualificazione (Cass. I, n. 9925/2001: fattispecie in tema di ordinanza qualificata dal giudice del merito come provvedimento di rigetto di reclamo avverso provvedimento cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., in relazione al quale si era ribadita l'inammissibilità del ricorso per cassazione per difetto di decisorietà). Quanto sopra sia riguardo al provvedimento concessivo che negativo: per quest'ultimo, si è statuito, in particolare, che il provvedimento con il quale il tribunale, in sede di reclamo, nega la tutela urgente richiesta ex art. 700 c.p.c., per il suo carattere interinale e strumentale rispetto al possibile riesame della questione nel merito in via ordinaria, non produce effetti di natura sostanziale o processuale con efficacia di giudicato e, pertanto, non è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.; né la natura del provvedimento muta per il fatto che il giudice del reclamo possa avere valutato il fumus boni iuris della domanda, in quanto ciò non attribuisce carattere definitivo e decisorio alla pronuncia, potendo la domanda essere riproposta in un giudizio in via ordinaria, e neanche per il fatto che il giudice non abbia fissato il termine per la proposizione del giudizio di merito, essendo tale adempimento previsto solo in relazione ai provvedimenti che accolgano la richiesta cautelare (Cass. IV, n. 6672/2002; Cass. IV, n. 6851/1996). D'altronde, il reclamo ha esclusivamente natura e funzione di rimedio teso alla sostituzione dell'ordinanza di concessione della misura cautelare con altra ordinanza destinata a perdere, a sua volta, efficacia in mancanza di tempestiva introduzione del giudizio di merito (art. 669-octies c.p.c.), di estinzione del predetto giudizio successivamente al suo inizio (art. 669-novies, comma 1, c.p.c.), di dichiarazione di inesistenza, con sentenza non necessariamente passata in cosa giudicata, del diritto a tutela del quale il provvedimento era stato concesso (art. 669-novies, comma 3, c.p.c.); né vale replicare che le richiamate disposizioni fanno riferimento esclusivamente all'ordinanza di concessione della misura cautelare e non anche a quella successivamente emessa su reclamo della parte interessata, poiché una conclusione diversa da quella esposta condurrebbe all'assurdo di ritenere che, tramite l'uso (eventualmente anche strumentale) del reclamo, sarebbe in concreto possibile vanificare gli effetti del giudizio di merito sull'ordinanza cautelare (Cass. II, n. 10368/1997). Lo stesso dicasi nell'ipotesi in cui la suddetta ordinanza abbia dichiarato l'inammissibilità del reclamo o abbia risolto qualsiasi altra questione pregiudiziale, atteso che tale decisione, pur coinvolgendo diritti processuali, non può assumere autonoma consistenza di statuizione sui diritti stessi, suscettibile di assumere autorità vincolante di giudicato, in quanto relativa a provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale, dovendosi ritenere che la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo ha necessariamente la stessa natura dell'atto giurisdizionale cui il processo è preordinato (Cass. I, n. 5935/2000; Cass. I, n. 1500/2000; Cass. I, n. 5255/1999: nella specie, l'ordinanza aveva dichiarato la tardività del reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. avverso un provvedimento cautelare, ma era stata pur sempre considerata un provvedimento non definitivo e non decisorio, non potendo, peraltro, parlarsi di pregiudizio altrimenti non riparabile allorquando la causa fosse ritenuta in decisione in quanto, fino alla pronuncia della sentenza, il giudice istruttore poteva revocare o modificare il provvedimento e dopo la sentenza tale potere spettava al giudice che l'aveva pronunciata). Peraltro, è stata ritenuta (Cass. I, n. 18142/2002) manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, a norma dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che, accogliendo il reclamo in procedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., conceda la misura invocata – inammissibilità derivante dal fatto che, avendo tale ordinanza gli stessi caratteri di provvisorietà e non decisorietà propri del provvedimento cautelare, destinato a perdere efficacia a seguito della decisione di merito ed inidoneo a produrre effetti di diritto sostanziale e processuale con autorità di giudicato – atteso che, proprio per assicurare una maggiore garanzia a tutela degli interessi delle parti, è stato previsto, con la disciplina introdotta dall'art. 74 della l. n. 353/1990, lo strumento del reclamo, e che rientra nel potere discrezionale del legislatore valutare il livello di tutela da attribuire avverso i provvedimenti che non abbiano la forma di sentenza o che dal loro contenuto non possano ad essa essere assimilati per gli effetti di cui all'art. 111 Cost. (anche Cass. I, n. 6536/2002 ha rispedito al mittente i dubbi di incostituzionalità, con riferimento all'art. 24 Cost., considerata l'assoluta ininfluenza delle determinazioni assunte dal giudice in sede cautelare nel successivo giudizio di merito, nel quale rimangono impregiudicati tutti i mezzi e le ragioni di difesa delle parti; dello stesso avviso Cass. IV, n. 8373/1997, la quale ha ritenuto manifestamente infondato l'assunto, ai fini della questione di legittimità costituzionale della norma processuale anzidetta, che il provvedimento emesso in sede di reclamo dal giudice superiore potrebbe condizionare il giudice di primo grado al momento della decisione nel merito all'esito del giudizio a cognizione piena). Si aggiunge che non rileva il fatto che la riproponibilità dell'istanza cautelare sia ristretta nei limiti di cui all'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., peraltro con il bilanciamento della facoltà di reclamo, derivando da ciò un carattere di definitività riguardante solo la cautela (Cass. III, n. 4879/2005; Cass. III, n. 2058/2004; Cass. I, n. 10908/2003). Invero, nella disciplina dei procedimenti cautelari di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c., il principio della riproponibilità dell'istanza dopo l'ordinanza di rigetto o declinatoria della competenza opera anche riguardo al provvedimento, di pari contenuto, adottato dal tribunale sul reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. – nel testo risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1994 – che si sostituisce all'atto reclamato, con identica natura e funzione e, pertanto, si sottrae ai mezzi di impugnazione a norma del comma 4 del citato art. 669-terdecies, ivi compreso, appunto, il rimedio del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. (Tommaseo 1995, 563). Del resto, il suddetto ricorso straordinario per cassazione è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, donde l'inammissibilità dell'impugnazione, con tale mezzo, dell'ordinanza adottata dal tribunale in sede di reclamo avverso provvedimento di natura cautelare, il carattere interinale e provvisorio della quale esclude che la stessa possa operare oltre il tempo necessario all'adozione delle determinazioni definitive suscettibili, queste, di assumere la forza del giudicato (Cass. S.U., n. 4915/2006); lo stesso dicasi per l'ordinanza adottata dal tribunale in sede di reclamo avente ad oggetto provvedimenti di natura possessoria, giacché trattasi di decisioni a carattere strumentale ed interinale operanti per il limitato tempo del giudizio di merito e sino all'adozione delle determinazioni definitive all'esito di esso, come tali inidonee (pur coinvolgendo in ipotesi diritti processuali) a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale sia da quello sostanziale (Cass. II, n. 3919/2006). Tale conclusione vale anche quando la tutela che l'ordinamento consente all'esito del giudizio di merito non potrà essere in forma specifica ma solo per equivalente (Cass. I, n. 15579/2006: nella specie, si è ritenuto inammissibile un ricorso contro il provvedimento di rigetto del reclamo avverso un provvedimento d'urgenza, con il quale si ordinava ai privati l'immediato rilascio di un terreno in favore di un Comune, per la realizzazione di un'opera pubblica, atteso che l'irreversibile modificazione dello stato e della destinazione dei luoghi era conseguente all'adozione dei provvedimenti amministrativi di occupazione e di espropriazione, e non all'assunta decisorietà del provvedimento impugnato). E ciò anche se la suddetta ordinanza resa in sede di reclamo cautelare sia affetta da inesistenza o nullità, senza che ciò si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., trattandosi di provvedimento inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale ed ininfluente nel successivo giudizio di merito, oppure con l'art. 6 Cedu, essendo comunque garantita una duplice fase di tutela davanti ad un'istanza nazionale (Cass. S.U., n. 6039/2019; Cass. VI, n. 12229/2018; Cass. III, n. 9830/2018, nella specie, relativa alla conferma di un provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c.; Cass. II, n. 20954/2017; Cass. VI/I, n. 23763/2016, riguardo ad un'ordinanza, pronunciata in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., che aveva autorizzato il sequestro giudiziario). Né la conclusione muta, allorché il ricorrente lamenti la macroscopica abnormità della decisione, perché recante statuizioni eccedenti la funzione meramente cautelare, oppure i suoi effetti gravi ed irreversibili, atteso che, sotto il primo profilo, l'impugnabilità di un provvedimento è in funzione del regime giuridico suo proprio e non della qualificabilità del vizio denunciato in termini di nullità processuale o invece di abnormità – peraltro, le erronee argomentazioni in diritto contenute in motivazione potranno, pur sempre, essere emendate nel corso del giudizio di merito – mentre, sotto il secondo profilo, la gravità degli effetti non è, di per sé, elemento idoneo a riflettersi sulle caratteristiche giuridiche del provvedimento, in particolare sulla sua provvisorietà e strumentalità, le quali rendono inammissibile il ricorso per cassazione (Cass. I, n. 23504/2010; Cass. I, n. 23410/2009 ha aggiunto che, d'altra parte, qualora detto provvedimento, in virtù della pretesa abnormità, acquisisse natura di sentenza, siccome autonomo ed indipendente dal giudizio di merito, esso non sarebbe soggetto al ricorso per cassazione, ma all'appello, secondo le regole di competenza per grado; Cass. III, n. 1332/2006, con riferimento ad un provvedimento ex art. 700 c.p.c., confermato in sede di reclamo, con cui era stata disposta la sospensione dell'efficacia di un precetto intimato in esecuzione di una sentenza di primo grado; Cass. S.U., n. 1245/2004). In altri termini, i provvedimenti resi in sede di reclamo su provvedimenti cautelari ex art. 669-terdecies c.p.c. hanno gli stessi caratteri di provvisorietà e non decisorietà tipici dell'ordinanza reclamata, essendo destinati a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito e, pur coinvolgendo posizioni di diritto soggettivo, non statuiscono su di essi con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato. Neppure assume un'autonoma consistenza la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo cautelare, cui pure corrispondono diritti soggettivi delle parti, attesa la natura strumentale di tali disposizioni rispetto alla statuizione sui rapporti sostanziali, armonizzandosi tale soluzione con le linee del procedimento cautelare di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. – introdotti dall'art. 74 della l. n. 353/1990 – che, nel prevedere la riproponibilità della domanda respinta e la rivedibilità del provvedimento di accoglimento, ha rimesso la tutela delle posizioni delle parti solo agli strumenti interni al procedimento medesimo (Cass. I, n. 3402/1998). L'ordinanza di rigetto del reclamo cautelare non è ricorribile per cassazione, neanche in ordine alle sole spese processuali – pur proposto al solo fine del regolamento delle medesime spese in applicazione del principio della soccombenza virtuale – perché è un provvedimento inidoneo a divenire cosa giudicata, formale e sostanziale, conservando i caratteri della provvisorietà e non decisorietà (Cass. VI, n. 6180/2019); si è aggiunto che, pertanto, dopo la novella dell'art. 669-septies c.p.c. da parte della l. n. 69/2009, la contestazione delle spese – ove il soccombente abbia agito ante causam e non intenda iniziare il giudizio di merito – va effettuata in sede di opposizione al precetto oppure all'esecuzione, se iniziata, trattandosi di giudizio a cognizione piena in cui la condanna alle spese può essere ridiscussa senza limiti, come se l'ordinanza sul reclamo fosse, sul punto, titolo esecutivo stragiudiziale; qualora, invece, il giudizio di merito sia instaurato, resta, comunque, sempre impregiudicato il potere del giudice di rivalutare, all'esito, la pronuncia sulle spese adottata nella fase cautelare, in conseguenza della strumentalità, mantenuta dalla l. n. 80/2005, tra tutela cautelare e merito. Con particolare riguardo alla statuizione sulle spese, si è chiarito che l'ordinanza con la quale il tribunale, rigettando il reclamo, condanni il reclamante alle spese, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., dovendo il soccombente, il quale non intenda iniziare il giudizio di merito, opporsi al precetto intimato, o all'esecuzione iniziata, sulla base dell'ordinanza, fermo restando che, nel conseguente giudizio di opposizione, che costituisce un giudizio a cognizione piena, la condanna alle spese può essere ridiscussa senza limiti, come se l'ordinanza sul reclamo, che è provvedimento a cognizione sommaria, fosse, sul punto, titolo esecutivo stragiudiziale (Cass. I, n. 11800/2012); resta impregiudicata la possibilità per il giudice di merito, all'esito del processo a cognizione piena, di rivalutare anche le eventuali statuizioni in punto di spese adottate in merito agli incidenti cautelari, trattandosi di logica conseguenza del carattere di strumentalità che ha la tutela cautelare rispetto alla cognizione piena (nel precedente regime, Cass. II, n. 28607/2020 aveva puntualizzato che, in tema di procedimento cautelare, avverso il provvedimento di condanna alle spese, non era proponibile il ricorso per cassazione, ma trovava applicazione l'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., nella formulazione ratione temporis vigente, ossia prima della modifica introdotta con l'art. 50, comma 1, della l. n. 69/2009, sicché la condanna alle spese, anche se emessa all'esito del reclamo, era opponibile ai sensi degli artt. 645 ss. c.p.c., avendo tale norma una valenza generale, volta, com'era, a ricondurre al sistema oppositorio menzionato ogni statuizione sulle spese adottata in sede di procedimento cautelare; v., altresì, Cass. II, n. 17561/2005, in materia possessoria). Nello stesso ordine di concetti, sul versante della giustizia amministrativa, si è affermato che il giudizio di ottemperanza – in quanto rito, tra l'altro, riservato all'esecuzione «delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparate del giudice ordinario» (art. 112, comma 2, lett. c, c.p.a.) – non può essere utilizzato per ottenere l'esecuzione di ordinanze cautelari emesse dal giudice ordinario ex art. 700 c.p.c.; ciò si desume, oltre che dalla non idoneità al giudicato dei provvedimenti d'urgenza emessi nei giudizi di cui al citato art. 700 – la cui caratteristica è quella di essere provvedimenti provvisori e strumentali, sempre revocabili dal giudice della cautela – dalla riserva legislativa allo stesso giudice ordinario competente per la fase cautelare delle misure di attuazione dei medesimi provvedimenti (art. 669-duodecies c.p.c.); ne discende che l'interessato, a fronte dell'inerzia della Pubblica Amministrazione, che ometta di dare esecuzione ad un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c., deve adire lo stesso giudice della cautela con le modalità di cui all'art. 669-duodecies c.p.c., ma non può invocare il rito dell'ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, rito riservato alle sentenze del giudice ordinario passate in giudicato o agli altri provvedimenti di detto giudice aventi idoneità a passare in cosa giudicata, sicché l'ordinanza resa in sede cautelare, seppure confermata all'esito del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., presentando i caratteri della «provvisorietà e della non decisorietà», è inidonea ad acquisire, dal punto di vista formale e sostanziale, efficacia di giudicato (T.A.R. Salerno 17 aprile 2018; T.A.R. Cagliari 30 agosto 2013; T.A.R. Bari 1° giugno 2010; T.A.R. Catania 7 novembre 2003). Il regolamento di competenza. Nella stessa ottica, è stata generalmente esclusa la possibilità di proporre contro il provvedimento cautelare il regolamento di competenza, potendo tutte le contestazioni in ordine alla competenza essere devolute al giudice del reclamo (Vialardi, 1145), anche se non sempre quest'ultimo sia un organo sovraordinato o estraneo alla risoluzione della relativa questione (si pensi al collegio del tribunale che decida sul provvedimento del giudice monocratico dello stesso ufficio). Costituisce, in proposito, ius receptum in giurisprudenza che l'ordinanza emessa in sede di reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. è priva del carattere della decisorietà e, pertanto, non è ricorribile in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., non solo quando confermi, modifichi o revochi le determinazioni adottate dal primo giudice, ma anche quando – per quel che qui rileva – risolva la questione della competenza in ordine alla domanda cautelare, oppure altra questione pregiudiziale relativa alla sua ammissibilità o proponibilità, giacché la definizione della relativa problematica, pur coinvolgendo diritti di natura processuale, non può avere la separata consistenza di statuizione sui diritti stessi, suscettibili di assumere autorità vincolante di giudicato, risultando comunque inserita in un atto non decisorio circa il rapporto sostanziale; peraltro, l'ordinanza ai sensi dell'art. 669-terdecies citato, anche quando risolva una questione di competenza, non è neppure impugnabile con regolamento ai sensi dell'art. 42 c.p.c., non potendo configurarsi come atto giurisdizionale decisorio suscettibile di assumere, in difetto di impugnazione, autorità vincolante circa la relativa questione (v., ex multis, Cass. I, n. 12918/2000; Cass. S.U., n. 9337/1996: nella specie, si era dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di competenza proposto avverso l'ordinanza con la quale il tribunale aveva respinto il reclamo contro un provvedimento di reintegrazione di un lavoratore nel posto di lavoro, che il pretore aveva emesso ai sensi dell'art. 700 c.p.c., respingendo un'eccezione di incompetenza per territorio del giudice adìto; Cass. I, n. 8178/1996). Non è, quindi, esperibile il ricorso per regolamento di competenza nei confronti dell'ordinanza con cui il giudice, in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., revoca per incompetenza un provvedimento cautelare, non essendo possibile equiparare tale ordinanza ad una sentenza di incompetenza, dato che, sostituendosi all'atto reclamato, assume identica natura e funzione e non priva la parte dell'ampia facoltà di riproporre la domanda; peraltro, poiché il comma 4 dell'art. 669-terdecies c.p.c. dispone espressamente la non impugnabilità della suddetta ordinanza, la revoca per difetto di competenza, anche ove avesse natura di decisione sulla competenza, si sottrarrebbe comunque al ricorso per regolamento, il quale integra un mezzo di impugnazione (Cass. I, n. 12641/1995). A seguito dell'entrata in vigore della l. n. 353/1990, deve, pertanto, ritenersi inammissibile il ricorso per regolamento di competenza proposto sia avverso il provvedimento reso in sede cautelare ai sensi dell'art. 669-bis c.p.c., sia avverso l'ordinanza emessa in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., tenuto conto che tale impugnazione presuppone che la pronuncia sulla competenza sia irretrattabile, ossia preclusiva di ogni riesame da parte del giudice che l'ha emessa; tale irretrattabilità non è prevista per il suddetto provvedimento, come si desume, da un lato, dal fatto che, essendo esso caratterizzato, oltre che dalla strumentalità, dalla provvisorietà, è destinato ad essere assorbito o superato dagli altri provvedimenti adottati nell'ulteriore corso del giudizio, e, dall'altro, dal fatto che, per espresso disposto di legge, l'ordinanza che riconosce l'incompetenza del giudice adìto non preclude la riproposizione della domanda ex art. 669-septies, comma 1, c.p.c. (così Cass. IV, n. 250/1997; secondo Cass. I, n. 423/2000, tale irretrattabilità non è nemmeno prevista per i provvedimenti di natura cautelare emessi dal giudice delegato anche non contestualmente all'autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità, in considerazione della provvisorietà e strumentalità di tali provvedimenti). E ancora, si è sottolineato che, in materia di procedimenti cautelari, non è ammissibile il regolamento di competenza attesa l'inidoneità dei provvedimenti emessi – sia in prima istanza sia dal collegio adìto ex art. 669-terdecies c.p.c., la cui decisione è sostitutiva dell'atto reclamato ed ha identica natura e funzione – ad acquisire efficacia definitiva, tanto più che, riguardo al provvedimento declinatorio della competenza, l'art. 669-septiesc.p.c. prevede che «l'ordinanza di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda». Ove, tuttavia, dichiaratosi incompetente il primo giudice, anche il secondo, successivamente adìto, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza, alcune pronunce hanno ritenuto applicabile, rispetto a tale decisione, la norma generale di cui all'art. 42 c.p.c. e, conseguentemente, ammettersi l'istanza di regolamento di competenza, non essendo ipotizzabile che l'ordinamento non preveda alcuno strumento processuale attraverso il quale dirimere una situazione in cui non vi sia, di fatto, un giudice obbligato, alfine, a conoscere della domanda cautelare, a meno di non ipotizzare, nel sistema così delineato, un potenziale vulnus ai principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost. (Cass. IV, n. 17299/2008: nella specie, il tribunale, davanti al quale era stato proposto reclamo contro il diniego di provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. in materia di lavoro, aveva ritenuto che, a seguito dell'istituzione del giudice unico, dovesse affermarsi la competenza della corte d'appello, la quale aveva, a propria volta, declinato la competenza, e la Suprema Corte ha affermato la competenza del tribunale ritenendo che, stante la chiara formulazione dell'art. 669-terdecies c.p.c., non assumesse rilievo la generale competenza del giudice del lavoro). In senso contrario, si è ritenuto (Cass. S.U., n. 16091/2009) che, in materia di procedimenti cautelari, è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, anche nell'ipotesi di duplice declaratoria di incompetenza formulata in sede di giudizio di reclamo, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – che, in sede cautelare, non possono assurgere al genus della sentenza e sono, pertanto, inidonei ad instaurare la procedura di regolamento in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l'eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall'art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, in ragione del peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi (nella fattispecie, a seguito di reclamo contro un'ordinanza emessa in sede cautelare, il tribunale del lavoro in composizione collegiale aveva declinato la propria competenza a favore della corte d'appello, che, a sua volta, si era dichiarata incompetente ed aveva richiesto, d'ufficio, il regolamento di competenza). Il regolamento di giurisdizione. La riconosciuta esperibilità del reclamo anche in relazione a questioni attinenti alla giurisdizione ha portato a negare la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, sia in caso in cui sia stato emanato il provvedimento cautelare, sia durante lo svolgimento del relativo procedimento di reclamo, a differenza che nel corso del giudizio di merito dove si ritiene ammissibile (d'altronde, attesa l'urgenza del provvedimento cautelare, l'eventuale proposizione del suddetto regolamento non avrebbe prodotto alcun effetto sospensivo, operando la riserva degli atti urgenti di cui all'art. 48 c.p.c.). Nello specifico, nel caso di istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta nel corso di procedimento cautelare instaurato in pendenza del giudizio di merito, o contestualmente a questo, la pendenza di tale giudizio rende, di norma, ammissibile il regolamento preventivo; qualora, tuttavia, la questione di giurisdizione venga riferita inequivocabilmente al solo procedimento cautelare e per ragioni che ad esso attengono in via esclusiva, senza che sia posta in discussione la giurisdizione relativamente al procedimento principale in corso, il regolamento deve ritenersi inammissibile, venendo meno in tal caso il nesso di strumentalità tra provvedimento cautelare e successivo provvedimento di merito ed ostando, quindi, alla sua ammissibilità – al pari del regolamento proposto con riguardo a procedimento cautelare instaurato ante causam, cui quello in esame finisce con l'essere, a questi fini, sostanzialmente equiparato – sia l'immediata reclamabilità del provvedimento cautelare, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., sia la natura provvisoria e strumentale del provvedimento reso in sede di reclamo (Cass. S.U., n. 6889/2003). Pertanto, posto che, a norma dell'art. 669-terdecies c.p.c., nel testo risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 253/1994, avverso i provvedimenti di accoglimento o di rigetto della misura cautelare è ammesso il reclamo al giudice processualmente sovraordinato, anche per motivi attinenti alla giurisdizione, ne consegue che avverso detti provvedimenti, come pure avverso quelli adottati in sede di reclamo, è inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, sia perché trattasi di provvedimenti di natura provvisoria e strumentale contro i quali, non essendo consentito il ricorso ex art. 111 Cost., non può neppure ammettersi quello per regolamento – non potendo logicamente ritenersi che il giudice di legittimità possa, per tale via, risolvere la stessa questione della quale non può essere investito con il ricorso straordinario – sia perché la definizione del relativo procedimento nei tempi brevi fissati dall'art. 739 c.p.c. fa venir meno l'esigenza di una pronta decisione sulla questione di giurisdizione al di fuori di tale procedimento (Cass. S.U., n. 3878/2002; Cass. S.U., n. 2417/2002; cui adde, più di recente, Cass. S.U., n. 6039/2019, precisando che il ricorso per cassazione proposto non può essere esaminato, benché il ricorrente lo richieda, neppure come ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c, essendo anch'esso inammissibile finché l'istante non abbia iniziato il giudizio di merito). Anche di recente, si è ribadito (Cass. S.U., n. 19638/2023) che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, se proposto a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione resa dal giudice del reclamo cautelare in un procedimento d'urgenza ante causam ai sensi dell'art. 700 c.p.c., è inammissibile finché l'istante non abbia iniziato il giudizio di merito, nel quale si determina l'oggetto del procedimento e sorge l'interesse concreto e attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo stesso deve eventualmente proseguire; né è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, non avendo il predetto provvedimento carattere decisorio e definitivo, neppure in ordine alla giurisdizione. L'opposizione sulle spese. Costituisce ius receptum in giurisprudenza – v., soprattutto, il precedente par. 6.2. – che i provvedimenti resi in sede di reclamo su provvedimenti cautelari ex art. 669-terdecies c.p.c. hanno gli stessi caratteri di provvisorietà e non decisorietà tipici dell'ordinanza reclamata, essendo destinati a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito e, pur coinvolgendo posizioni di diritto soggettivo, non statuiscono su di essi con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato; né assume un'autonoma consistenza la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo cautelare, cui pure corrispondono diritti soggettivi delle parti, attesa la natura strumentale di tali disposizioni rispetto alla statuizione sui rapporti sostanziali, armonizzandosi tale soluzione con le linee del procedimento cautelare di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. – introdotti dall'art. 74 della l. n. 353/1990 – che, nel prevedere la riproponibilità della domanda respinta e la rivedibilità del provvedimento di accoglimento, ha rimesso la tutela delle posizioni delle parti solo agli strumenti interni al procedimento medesimo; ne consegue che, ove si passi dalla fase cautelare e ordinatoria a quella della decisione definitiva, è inammissibile il ricorso per cassazione, pur proposto al solo fine del regolamento delle spese in applicazione del principio della soccombenza virtuale, che si limiti a dedurre la nullità della decisione sul reclamo per l'inosservanza delle norme processuali che ne regolano lo svolgimento e non si articoli sulla pretesa fondatezza (anche in termini di virtuale accoglibilità) della domanda sostanziale (Cass. IV, n. 2821/2009). Inoltre, in tema di procedimento cautelare, avverso l'ordinanza di rigetto del reclamo nei confronti di provvedimento con cui, nel procedimento azionato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., sia stata disposta la compensazione delle spese, pur essendo stata dichiarata l'inefficacia del provvedimento di urgenza per mancata instaurazione del giudizio di merito, non è proponibile il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., ma trova applicazione l'art. 669-septies, comma 3, c.p.c. – per il quale la condanna alle spese contenuta nel provvedimento di rigetto è opponibile ai sensi degli artt. 645 ss. c.p.c. (vecchio regime antel. n. 69/2009) – avendo tale norma, che pure disciplina espressamente solo l'ipotesi di provvedimento negativo, una valenza generale, volta a ricondurre al sistema oppositorio disciplinato dai citati artt. 645 ss. ogni statuizione sulle spese, mentre il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, per cui è in ogni caso inammissibile quando abbia ad oggetto la statuizione sulle spese processuali in sede cautelare, anche se la stessa non sia di condanna, o intervenga per la prima volta in sede di reclamo, o, per qualsiasi motivo, sia intervenuto un provvedimento di accoglimento dell'istanza cautelare (Cass. II, n. 29338/2008). Sempre nell'antecedente regime, in tema di spese del procedimento cautelare, ed all'esito della pronuncia n. 253/1994 della Corte Costituzionale, si è autorevolmente sostenuto (Cass. S.U., n. 16214/2001) che gli artt. 669-septies, comma 3, e 669-terdecies c.p.c. vanno interpretati nel senso che, avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare con compensazione delle spese, è ammissibile il reclamo ai sensi del citato art. 669-terdecies c.p.c., mentre, avverso il provvedimento adottato sul reclamo – o dopo il decorso dei termini per la proposizione dello stesso – è del pari legittima l'opposizione di cui all'art. 669-septies c.p.c., i cui termini iniziano a decorrere, rispettivamente, o dalla scadenza del termine per proporre il reclamo o dalla pronuncia, se resa in udienza, oppure dalla comunicazione dell'ordinanza del giudice del reclamo che rende definitiva la pronuncia sulle spese (tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Rimini 15 febbraio 2007). Restava fermo, in tema di provvedimenti cautelari, che la statuizione sulle spese di lite, sia che la si considerasse soltanto opponibile (ai sensi dell'art. 669-septies, ultimo comma, c.p.c.), sia che la si considerasse reclamabile al collegio (da sola o unitamente al provvedimento di rigetto della richiesta cautelare), sia che venisse emessa del giudice monocratico, sia che venisse emessa dal collegio in sede di reclamo avverso la condanna o la compensazione delle spese stesse, restava in ogni caso opponibile dinanzi al medesimo giudice che l'aveva pronunciata e non era, pertanto, impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. I, n. 11709/2003); ad ogni buon conto, la disposizione di cui all'art. 669-septies c.p.c., riferendosi ai provvedimenti di rigetto dell'istanza, è applicabile anche alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere emessa in sede cautelare, pur se pronunciata dal giudice del reclamo, perché, presupponendo la rinuncia all'azione, equivale ad una statuizione di rigetto, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso il ricordato provvedimento di condanna (Cass. II, n. 9766/2001; in ordine a quest'ultima declaratoria, Cass. III, n. 11370/2011 ha precisato che il provvedimento con cui il tribunale, provvedendo ante causam, dichiari la cessazione della materia del contendere, e condanni il reclamante alle spese del giudizio non ha natura di sentenza e non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., sicché il reclamante soccombente, ove non intenda iniziare il giudizio di merito ma intenda contestare la sola liquidazione delle spese in esso contenuta, deve farlo attraverso l'opposizione al precetto intimato sulla base del detto provvedimento o all'esecuzione iniziata sulla base di esso). Del resto, il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, conseguendone che non è ammissibile l'impugnazione con tale mezzo dell'ordinanza adottata dal tribunale in sede di reclamo avverso provvedimenti di natura cautelare o possessoria, giacché trattasi di decisioni a carattere strumentale ed interinale operanti per il limitato tempo del giudizio di merito e sino all'adozione delle determinazioni definitive all'esito di esso, come tali inidonee a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale; né conta che vi sia stata condanna alle spese del giudizio giacché, se la parte intende reagire sul punto e sostenere che l'ordinanza che decide il reclamo non può contenerla, essa dispone del rimedio dell'opposizione prevista dall'art. 669-septies c.p.c., esperibile contro ogni statuizione sulle spese del procedimento cautelare o possessorio e contro ogni provvedimento, e, perciò, o per sostenere che una tal pronuncia non avrebbe potuto essere emessa o per contro che avrebbe dovuto essere emessa, o infine per criticarne il contenuto (Cass. III, n. 2505/2003). In disparte la generalità del regime oppositorio di cui al combinato disposto degli artt. 669-septies, comma 3, c.p.c. e 645 ss. c.p.c. – suscettibile di interpretazione estensiva per qualunque statuizione sulle spese, indipendentemente dal tenore del provvedimento con il quale il procedimento cautelare sia stato definito e, quindi, e non solo quelle di condanna, v. Cass. II, n. 6919/2001; Cass. I, n. 12859/1999; tra le pronunce di merito, v. Trib. Pistoia 28 novembre 1996, ad avviso della quale l'opposizione de qua era esperibile solo avverso il provvedimento definitivo a seguito di esperimento del reclamo o di inutile decorso del termine per proporre reclamo e, in tal caso, l'opposizione era ammissibile sia contro la decisione accessoria ad un provvedimento di rigetto sia a uno di accoglimento, e il provvedimento di condanna alle spese, assunto ad integrazione di quello di rigetto del reclamo contro il provvedimento cautelare, poteva formare oggetto di opposizione sia sull'an sia sul quantum – si è, altresì, evidenziato che il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. costituisce uno strumento spesso sproporzionato alla rilevanza degli interessi coinvolti in tema di spese processuali, conseguendone che deve ritenersi in ogni caso inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avente ad oggetto la statuizione sulle spese processuali in sede cautelare, anche quando detta statuizione non sia di condanna, o quando intervenga per la prima volta in sede di reclamo, o quando, per qualsiasi motivo, sia intervenuto un provvedimento di accoglimento dell'istanza cautelare (Cass. II, n. 16725/2002). In materia possessoria, si era chiarito che il provvedimento con cui il pretore, a conclusione della fase c.d. interdittale, abbia respinto o accolto il ricorso possessorio senza rimettere le parti davanti a sé per la trattazione della causa di merito, così concludendo definitivamente il giudizio e pronunciando sulle spese del procedimento, ha natura di sentenza indipendentemente dalla diversa definizione (in particolare, di ordinanza) datagli dal giudice e, quindi, è impugnabile mediante appello; analoga qualificazione di sentenza, ricorribile per cassazione, va attribuita, a prescindere dalla denominazione datagli, al provvedimento con cui il tribunale provveda sul reclamo – erroneamente proposto contro una siffatta sentenza del pretore – definendo la causa possessoria e provvedendo, altresì, sulle spese (Cass. II, n. 7076/2004: nella fattispecie, si era cassata senza rinvio l'ulteriore sentenza pronunciata dal tribunale sull'appello, introdotto con citazione, avverso il provvedimento pretorile, essendosi formato il giudicato interno a seguito dell'omessa tempestiva impugnazione per cassazione della precedente ordinanza, avente però valore di sentenza, adottata dallo stesso tribunale sul reclamo avverso il medesimo provvedimento pretorile). Nello stesso ordine di concetti, si è considerato inammissibile il ricorso esperito ai sensi dell'art. 111 Cost. contro il provvedimento emesso dal tribunale in sede di reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., con il quale sia stata revocata l'ordinanza di reintegra nel possesso pronunciata dal pretore adìto con procedimento possessorio, per non essere detto provvedimento caratterizzato da definitività e decisività; al contrario, è esperibile detto ricorso straordinario avverso lo stesso provvedimento per la parte relativa alla statuizione sulle spese di «entrambi i gradi del giudizio cautelare» (parte autonomamente impugnata), in quanto detta statuizione è stata resa, nella specie, in palese violazione del principio posto dall'art. 91 c.p.c., secondo cui è la sentenza che chiude il processo a regolare le spese, non già altro provvedimento, che ha l'obiettivo limite di pronuncia sull'ordinanza conclusiva della prima delle due fasi, a cognizione sommaria, da definirsi, poi, con sentenza, all'esito della seconda fase, a cognizione piena del merito della pretesa possessoria (Cass. II, n. 3338/2002); per una peculiare fattispecie, v., da ultimo, Cass. I, n. 8908/2024, la quale, in tema di convalida dei provvedimenti d'urgenza adottati dalla pubblica autorità ex art. 403 c.c., ha ritenuto che il decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo, avendo natura cautelare e provvisoria ed essendo destinato ad essere assorbito dalla decisione di merito, non deve contenere alcuna statuizione sulle spese di lite che, ove erroneamente effettuata, è impugnabile ex art. 111, comma 7, Cost., avendo, limitatamente a tale parte, il carattere della decisorietà e definitività). Per completezza, mette punto rammentare che la parte la quale, a causa dell'esecuzione di una misura cautelare, abbia subìto danni, può far valere il relativo diritto al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata nel procedimento di reclamo in cui impugni la misura cautelare soltanto nel caso previsto dal comma 1 dell'art. 96 c.p.c., cioè ove lamenti che la parte istante ha agito con dolo o colpa grave nel domandare la cautela (perché ne mancavano le condizioni) o nell'eseguirla – come, ad esempio, nel caso di sequestro conservativo, se il sequestro sia stato eseguito sul bene non suscettibile di pignoramento – e non, invece, nel caso previsto dal comma 2 dello stesso art. 96, posto che il suddetto procedimento non può costituire la sede in cui può avere luogo un accertamento pieno dell'inesistenza del diritto cautelato; qualora sia fatto valere il diritto al risarcimento ai sensi del suddetto comma 1 dell'art. 96 c.p.c., avverso il rigetto della relativa istanza, pur in presenza della revoca della misura cautelare o avverso l'accoglimento dell'istanza che si accompagni alla revoca di detta misura, è proponibile l'opposizione di cui al comma 3 dell'art. 669-septies c.p.c. – nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla novella del 2009 – rispettivamente dalla parte che aveva proposto l'istanza e dalla parte che aveva chiesto ed eseguito il provvedimento cautelare, mentre, qualora il reclamo non sfoci nella revoca del provvedimento cautelare, ma si concluda con la sua conferma o con la sua modifica (anche consistente nella sola imposizione di una cauzione), il consequenziale rigetto dell'istanza ex comma 1 dell'art. 96 c.p.c. non ha valore definitivo e non è, dunque, precluso alla parte istante di far valer detto diritto (eventualmente unitamente a quello ex comma 2 dell'art. 96 citato) o nel successivo giudizio di merito, introdotto dalla parte istante la misura cautelare oppure, per il caso di mancato inizio di tale giudizio, con un'autonoma domanda (da proporsi al giudice competente secondo le regole ordinarie), restando, invece, in ogni caso esclusa la ricorribilità in cassazione della suddetta statuizione di rigetto (Cass. III, n. 8738/2001). 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