Codice di Procedura Civile art. 669 sexies - Procedimento (1).Procedimento (1). [I]. Il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all'accoglimento [669-octies 1] o al rigetto [669-septies 1] della domanda. [II]. Quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione [669-duodecies] del provvedimento, provvede con decreto motivato [135 4] assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni assegnando all'istante un termine perentorio [153] non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il giudice, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto. [III]. Nel caso in cui la notificazione debba effettuarsi all'estero, i termini di cui al comma precedente sono triplicati. (1) La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995. InquadramentoI procedimenti cautelari vanno ricondotti alla tutela sommaria e inquadrati nell'ambito dei rimedi agli ostacoli derivanti dalla fisiologica durata del processo a cognizione piena, «a garanzia dell'effettività del diritto di azione e della tutela giurisdizionale» (secondo i noti principi posti da Corte cost., n. 190/1985) e tramite essi è possibile evitare, in accordo con il noto principio chiovendiano, che la durata del processo torni a danno dell'attore che ha ragione. Sul piano strutturale essi presentano la idoneità a concretizzarsi in un provvedimento provvisorio e strumentale rispetto alla pronunzia a cognizione piena, della quale il provvedimento cautelare mira ad assicurare gli effetti, attraverso una duplice tecnica, quella della conservazione, ad es. il sequestro, o della anticipazione, come nel caso dei provvedimenti d'urgenza meramente anticipatori. È noto che la tutela cautelare deve essere distinta dalla tutela cognitiva ed esecutiva perché non ha funzione autonoma ma strumentale rispetto ad esse. La strumentalità della tutela cautelare rispetto al giudizio ordinario non ne esclude l'autonomia; l'azione cautelare ha, infatti, un proprio oggetto specifico consistente nella misura cautelare richiesta, ed una propria causa petendi, consistente, oltreché nei fatti costitutivi del diritto sui quali è richiesto un accertamento sommario, nel periculum in mora, cioè nel probabile danno che deriverebbe al richiedente nelle more del giudizio. Il codice di rito vigente adotta un sistema cautelare in parte tipizzato, sicché, accanto alla misura residuale atipica, ossia il provvedimento d'urgenza, che ha un contenuto generico e individuato in relazione al pregiudizio irreparabile che caso per caso si presenta, vi sono singole misure cautelari; il legislatore non solo predetermina il contenuto specifico di esse, ma definisce specificamente il periculum in mora che le connota, con la conseguenza che il giudice deve concedere il provvedimento cautelare quando accerti la sussistenza, oltreché del fumus boni iuris, del periculum in mora tipizzato, indipendentemente dalla irreparabilità del pregiudizio. Il periculum in mora può consistere, ad esempio, nel timore che durante il processo sopravvengano fatti lesivi del diritto vantato in giudizio, ossia il c.d. periculum da infruttuosità, ovvero nel pregiudizio che permane dal mero perdurare della situazione antigiuridica, c.d. periculum da tardività. La novella del 1990 ha – come è universalmente noto – introdotto un procedimento cautelare uniforme che si applica ai procedimenti cautelari previsti dal codice di rito nonché, nei limiti della compatibilità, alle altre misure cautelari previste dal codice civile e dalle leggi speciali, nonché ai procedimenti possessori e di istruzione preventiva nei limiti dei relativi richiami normativi. In tema di competenza cautelare vige il principio della coincidenza tra competenza per la cautela e competenza per il merito; prima della causa la misura cautelare deve essere richiesta al giudice che sarà competente per il merito, ex art. 669-bis c.p.c., mentre in corso di causa deve essere richiesta al giudice investito per il merito, ex art. 669-quater c.p.c. Causa di merito è quella in cui viene discusso, in sede di cognizione, il diritto a tutela del quale è chiesta la tutela cautelare. Lo schema processuale si articola sostanzialmente in tre fasi: la prima è quella relativa all'istanza cautelare; la seconda è quella afferente alla sommaria istruzione e al provvedimento, di segno positivo o negativo, emanato dal giudice; la terza riguarda la riforma del provvedimento emesso all'esito della prima fase. L'istanza cautelare può essere proposta prima della causa di merito o nel corso della stessa e assume sempre la forma del ricorso; se proposta ante causam deve necessariamente indicare in modo specifico la domanda che sarà fatta valere dal giudice competente. Omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio il giudice procede, nel modo che ritiene più opportuno, agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e alle finalità del richiesto provvedimento cautelare, ai sensi della norma in commento. Se la convocazione della controparte può pregiudicare l'attuazione del provvedimento il giudice può emettere un decreto inaudita altera parte con cui autorizza la misura, fissando altresì l'udienza per ascoltare la parte non avvertita. Il procedimento si conclude, comunque, dopo la concreta realizzazione del contraddittorio, con un'ordinanza che autorizza o nega la misura cautelare (ipotesi rispettivamente disciplinate dagli artt. 669-sexies e 669-septies c.p.c.). Nell'ipotesi di provvedimento negativo, ai sensi dell'art. 669-septies, se motivato da ragioni di incompetenza, è consentita la libera riproponibilità dell'istanza; se, invece, è motivato da ragioni di merito l'istanza può essere riproposta, come vedremo, laddove si verifichino mutamenti delle circostanze o si deducano nuove ragioni di fatto o di diritto. Nell'ipotesi di provvedimento cautelare positivo, cioè che autorizzi la cautela, esso, di per sé esecutivo, deve essere attuato, ad istanza dell'interessato, secondo forme in parte mutuate dall'esecuzione forzata e specificamente disciplinate dall'art. 669-duodecies c.p.c. Poiché il provvedimento cautelare non ha vocazione per la stabilità, esso può essere influenzato dalle successive vicende; in primo luogo, esso perde sempre efficacia qualora con sentenza, anche non passata in giudicato, venga dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento è stato emesso; o qualora non sia stata versata la cauzione imposta dal giudice (rispettivamente art. 669-novies, comma 3, c.p.c. e 669-undecies c.p.c.). Alla luce delle riforme effettuate negli anni 2005-2006, poiché strutturalmente legati alla decisione di merito, i provvedimenti cautelari «conservativi» – e non già quelli «anticipatori» – perdono efficacia nel caso di mancato inizio o di estinzione del giudizio di merito, ai sensi dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c. In ogni caso, a prescindere da tali eventi, il provvedimento cautelare può essere revocato o modificato se si siano verificati mutamenti delle circostanze che ne avevano giustificato la concessione; revoca e modifica che vanno chieste al giudice istruttore della causa di merito, a meno che sia stato proposto reclamo e, sempre che non sia pendente il reclamo, il potere di revoca e modifica, ex art. 669-decies, commi 2 e 3, c.p.c., spetta comunque al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare qualora il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto, o se la causa di merito sia devoluta a giudice straniero, ad arbitro, a giudice penale o di pace. Rimedio generale contro il provvedimento cautelare, sia di accoglimento che di rigetto, è il reclamo; costruito come un procedimento sostanzialmente «bifasico» in cui la seconda fase presenta carattere di autonomia e contenuto impugnatorio; rimedio che è sostanzialmente a critica libera e a carattere devolutivo poiché la controversia cautelare viene interamente devoluta al giudice del reclamo e decisa con un provvedimento sostitutivo del primo, non essendo specificamente consentita la rimessione al primo giudice (art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c.). L'esame della norma dell'art. 669-sexies c.p.c. nelle sue diverse ipotesi comporta la soluzione di diversi problemi applicativi ed interpretativi. Da un lato, infatti, essa disciplina il procedimento ordinario, ossia in contraddittorio tra le parti, caratterizzato da una grande semplificazione delle forme procedimentali che sono sostanzialmente rimesse alla discrezionalità del giudice adito per la cautela, con l'unica necessaria garanzia del rispetto del contraddittorio. Il giudice deve infatti provvedere solo dopo aver sentito le parti, convocando il resistente, ossia il soggetto passivo della misura cautelare richiesta. In questa modalità ordinaria di svolgimento del procedimento cautelare il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, deve procedere nel modo più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai fini e ai presupposti del provvedimento richiesto e provvedere con ordinanza all'accoglimento o al rigetto del ricorso introduttivo. Il primo atto di parte in questo modello procedimentale è il deposito del ricorso, seguito dalla instaurazione del contraddittorio nei confronti del soggetto passivo. Tuttavia, la legge non ne indica le modalità di espletamento; se tradizionalmente si è sempre ritenuto che il ricorso andasse notificato insieme con il decreto di fissazione dell'udienza alla controparte, attraverso l'ufficiale giudiziario, adesso si ritiene che le esigenze di celerità connesse al procedimento cautelare indurrebbero a privilegiare l'uso di modalità di instaurazione del contraddittorio più veloci come ad es. lo stesso telefono, fax o comunque una comunicazione da parte della cancelleria. Né si può escludere che la convocazione della controparte possa avvenire tramite forme telematiche ai sensi dell'art. 149-bis c.p.c. Con riferimento alla disciplina del procedimento cautelare va ricordato che con dlgs. 10 ottobre 2022 n. 149 il Governo, in attuazione della legge delega n. 206/2021, ha provveduto a varare la riforma del processo civile. Con tale riforma sono state modificate alcune norme della disciplina dei provvedimenti cautelari e, in particolare, adesso l'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. prevede che le disposizioni della norma e dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c., non si applicano oltrechè ai provvedimenti d'urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, e ai provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o danno temuto, anche “ai provvedimenti di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari adottati, ai sensi dell'articolo 1137, quarto comma, del codice civile”, sicché ciascuna delle parti può iniziare il giudizio di merito. Il penultimo comma dell'art. 669-octies c.p.c., nella nuova formulazione, prevede, conseguentemente, che l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia dei provvedimenti di cui al sesto comma, “né dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni o società”, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa. Conformemente alle previsioni della legge delega viene modificato anche l'art. 1137 c.c. con l'eliminazione dell'inciso contenuto nell'ultima parte dell'ultimo comma che prevedeva l'esclusione dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. Con riferimento alla disciplina dell'impugnazione delle delibere condominiali ex art. 1137 c.c. come modificata dalla Riforma Cartabia, la dottrina ha segnalato un problema di coordinamento con le nuove ordinanze definitorie, previste dagli artt. 183-ter e 183-quater c.p.c. e introdotte sempre dal d.l.gs. n. 149/2022. Ci si è chiesti cosa accada al giudizio di impugnazione della delibera condominiale, laddove, su istanza del condomino che si sia costituito, il giudice emetta l'ordinanza di rigetto della domanda (art. 183-quater c.p.c.), rigettando l'impugnazione perché manifestamente infondata e, successivamente, il provvedimento venga confermato in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. Poiché, infatti, l'impugnazione della delibera del condominio deve essere proposta nel termine decadenziale di cui all'art. 1137, comma 2, c.c., se, durante il tempo necessario per ottenere la pronuncia dell'ordinanza di rigetto della domanda ex art. 183-quater c.p.c., venga a scadere il termine di decadenza, l'impugnazione non potrà più essere proposta dallo stesso condomino per il formarsi di un “giudicato di mero fatto” (in argomento, v. AMENDOLAGINE, Brevi riflessioni sulle ordinanze decisorie nel processo civile, in www.ius.giuffrefl.it, 22 nov. 2023). L'A. segnala come nell'ambito delle impugnazioni delle delibere condominiali sussista anche un ulteriore problema di coordinamento, ove il condomino, prima dell'inizio della causa di merito abbia proposto e ottenuto in via cautelare la sospensione della delibera assembleare. Ciò perché per rimuovere il provvedimento cautelare in parola (non avente natura anticipatoria), bisogna utilizzare la disciplina prevista dall'art. 669-novies c.p.c. nel testo riformulato nel 2022. Ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c., infatti, il giudice dovrà valutare se il ricorso sia fondato e se sussista una causa di inefficacia del provvedimento, instaurando il contraddittorio inter partes prima di decidere sull'esistenza della causa di inefficacia stessa ex art. 669-sexies c.p.c. E, in ogni caso, l'ordinanza che dichiari l'inefficacia del provvedimento cautelare può essere impugnata con reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. con conseguente moltiplicazione dei procedimenti civili pendenti (in tal senso sempre, v. AMENDOLAGINE, Brevi riflessioni, cit.). Vedremo come sia stata oggetto di querelle la possibilità di instaurare il contraddittorio laddove venga proposta una domanda cautelare in corso di causa nei confronti della controparte rimasta contumace. La risposta al quesito passa per il tramite della nozione di «domanda nuova» che ai sensi dell'art. 292 c.p.c. deve essere notificata personalmente al contumace; secondo alcuni interpreti la domanda cautelare sarebbe, in quanto tale, una domanda nuova e quindi soggetta alla regola appena ricordata; secondo altri, invece, essa, poiché strumentale rispetto al giudizio di merito, non sarebbe una domanda nuova e, quindi, non andrebbe notificata personalmente alla parte rimasta contumace. Un ulteriore problema deriva dal fatto che non vi è alcuna previsione nell'art. 669-sexies c.p.c. sulla necessità di rispettare un termine definito tra la notificazione della domanda cautelare e la data dell'udienza fissata per la comparizione delle parti e quindi tale termine deve essere individuato dal giudice tenendo conto del contemperamento tra le opposte esigenze del ricorrente e del resistente. Dall'altro lato, vi è il procedimento inaudita altera parte, caratterizzato dall'ipotesi, eccezionale perché in deroga a quella «ordinaria» che la convocazione della controparte, ossia del soggetto passivo del provvedimento cautelare, possa rappresentare un pregiudizio per l'attuazione del provvedimento. In tale ipotesi il procedimento si duplica, poiché emanato un decreto cautelare inaudita altera parte, vi sarà poi un successivo provvedimento emanato in forma di ordinanza che, una volta instaurato regolarmente il contraddittorio, confermerà, modificherà o revocherà il precedente provvedimento senza contraddittorio. Anche il momento istruttorio si differenzia nelle due fasi, perché all'attività istruttoria prevista nel procedimento c.d. ordinario, caratterizzata dagli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento cautelare richiesto; questo significa che la cognizione del giudice della cautela, piena con riguardo alla valutazione del periculum in mora, si atteggia solo a sommaria rispetto alla verifica del fumus boni iuris dato che il convincimento del giudice si può basare anche soltanto su argomenti di prova o presunzioni o, comunque, su una prova non piena e non adatta, pertanto, a fondare una decisione sul merito. Si è, al riguardo, precisato che la prova nel procedimento cautelare «ordinario» può essere utilizzata solo per stabilire se esistono i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora ma non anche per provare fatti che risultino rilevanti ai fini della decisione di merito. Nella procedura inaudita altera parte, invece, l'attività istruttoria si sostanzia nelle sommarie informazioni che il giudice della cautela deve assumere ove occorra. In particolare, nel procedimento cautelare uniforme «ordinario», sono consentiti senz'altro i mezzi di prova tipici del processo ordinario di cognizione ma, fermo restando che il giudice procede solo all'attività istruttoria indispensabile al giudizio di verosimiglianza richiesto dalla tutela cautelare, si ritiene consentita, come vedremo oltre, nel rispetto del contraddittorio, oltre all'assunzione di «sommarie informazioni» anche l'acquisizione di «prove atipiche» quali dichiarazioni di scienza delle parti o di terzi, informazioni da uffici o da pubblici ufficiali, ispezioni, al di fuori dell'osservanza delle modalità e limiti legali. Nel procedimento inaudita altera parte, la norma richiede al giudice di assumere sommarie informazioni per l'emanazione del decreto e tale disposizione va senz'altro letta in coerenza con l'intento legislativo di consentire l'accesso alla misura cautelare purché vi sia un accertamento, anche se sommario, dei presupposti per la concessione della cautela, ossia del periculum in mora e del fumus boni iuris. Accertamento che deve necessariamente essere compiuto non soltanto sulla base delle affermazioni e delle dichiarazioni rese dall'istante, ma anche confrontando tali dichiarazioni con idonei elementi probatori. Sicché la carenza di poteri istruttori d'ufficio del giudice della cautela è l'elemento discretivo e differenziale della cognizione cautelare nel procedimento c.d. ordinario rispetto al procedimento senza contraddittorio ove le esigenze peculiari dettate dalla norma e derivanti dal pregiudizio per l'attuazione del provvedimento ove convocata la controparte, rendono ragione della attribuzione di questi poteri officiosi al giudice della cautela. Il decreto emanato dal giudice della cautela inaudita altera parte dovrà contenere necessariamente la motivazione e le disposizioni da seguire per la successiva fase nel contraddittorio delle parti. In particolare, conterrà il termine per la notificazione del ricorso e del decreto alla controparte e la fissazione dell'udienza per la convocazione di entrambe le parti. A norma dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., il termine per la notificazione del ricorso e del decreto non può essere superiore ad otto giorni e l'udienza non può svolgersi oltre i quindici giorni dalla pronuncia del decreto. In particolare, vedremo come il termine di otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto sia perentorio, sicché a livello pratico si creano numerosi problemi interpretativi laddove il termine in questione, per l'estrema brevità, non possa essere rispettato. La domanda di parte nell'àmbito del procedimento cautelare.Per comprendere la struttura del procedimento cautelare disciplinata dall'art. 669-sexies c.p.c. in commento, è necessario spendere alcune osservazioni sulle modalità introduttive del giudizio oltreché sul principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, con riserva di approfondimento di ognuno di questi temi nell'ambito opportuno (v. il commento subart. 669-bis c.p.c.). Ciò serve necessariamente per definire l'àmbito dei poteri del giudice nella concessione del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c. Ai sensi dell'art. 669-bis c.p.c., la domanda si propone con ricorso che deve essere depositato nella cancelleria del giudice competente. Poiché l'art. 673 c.p.c., successivamente abrogato, stabiliva che fosse possibile presentare una istanza verbale al giudice competente per il merito, ci si è domandati se la possibilità di proporre la domanda cautelare oralmente fosse sopravvissuta all'abrogazione della detta norma. Nel senso dell'inammissibilità di una domanda inserita a verbale data la onnicomprensività della disposizione dell'art. 669-bis c.p.c. si sono espressi alcuni autori (Montesano, Arieta, 121). In senso contrario e, quindi, nel senso che è ancora ammissibile la domanda posta direttamente a verbale dell'udienza ex pluribus, v. Cecchella, 10; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 575; Merlin, 402; Giordano 2008, 108). In giurisprudenza, si è invece tendenzialmente ritenuta l'inammissibilità della domanda cautelare proposta oralmente all'udienza, sia perché la norma dell'art. 669-bis c.p.c. esclude testualmente tale possibilità, prevedendo soltanto il deposito del ricorso in cancelleria del giudice competente, sia perché l'orientamento che nega l'ammissibilità della proposizione di una domanda cautelare orale è considerato maggiormente idoneo a garantire le esigenze di certezza e di responsabilità che incombono sulle parti in causa (in questo senso, v. Trib. Palmi 11 giugno 2013; Trib. Reggio Calabria 20 marzo 2013). In generale, comunque, deve notarsi che la giurisprudenza generalmente nega l'ammissibilità della domanda cautelare proposta in forma orale. Sempre in tal senso si è precisato che qualora in corso di causa sia proposta istanza cautelare a verbale, anziché tramite ricorso, la proposizione deve ritenersi effettuata in forma invalida che è tuttavia idonea a conseguire lo scopo dell'instaurazione del relativo rapporto processuale incidentale, spettando comunque alla controparte la concessione di un termine a difesa sull'istanza stessa (Trib. Bologna 2 luglio 1996). Ancora, sempre in ipotesi di istanza cautelare in corso di causa, si è detto – con riferimento al periodo anteriore alla abrogazione del rito societario – che pur essendosi affermata nella prassi giurisprudenziale anteriore alla riforma del rito societario la necessità dell'autonomo ricorso, per il principio contenuto nell'art. 156, comma 3, c.p.c. della libertà delle forme, la soluzione da preferire è nel senso che sia sufficiente la formulazione della domanda in qualsiasi atto difensivo, nonché nei verbali di causa; né, a parere di tale pronuncia la norma dell'art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 5/2003, che trascrive integralmente la dizione dell'art. 669-bis c.p.c., consente una diversa interpretazione, purché la domanda sia proposta con requisiti generali tali da garantire sempre il rispetto del principio del contraddittorio (Trib. Avezzano 18 giugno 2004). Altra questione, certamente di più complicata risoluzione, che si è posta con riferimento alla domanda cautelare, è se la domanda possa essere proposta nello stesso atto introduttivo del giudizio di merito, cosa che era senz'altro consentita prima della riforma con cui si è introdotto il procedimento cautelare uniforme. In dottrina, le opinioni sono diverse: si va da chi ritiene che la possibilità in questione si debba ancora ritenere consentita (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 575; Merlin, 402; Cecchella, 11). Secondo altri, invece, si deve ritenere che la domanda cautelare non possa più ritenersi proponibile insieme con l'atto introduttivo del giudizio di merito (così Montesano, Arieta, 121). Parte della dottrina ha evidenziato, in particolare, come il cumulo di domande, tra quella cautelare e di merito, nel vigore della normativa antecedente all'ingresso del procedimento cautelare uniforme, comportava conseguenze solo sull'iter necessario per l'assegnazione della causa di merito. Infatti, il presidente doveva trattenere presso di sé e decidere solo la domanda cautelare e, invece, secondo il meccanismo posto dall'art. 168-bis, comma 1, c.p.c., doveva assegnare la causa al giudice competente per il merito. La stessa autrice rileva come il dato testuale attuale dell'art. 669-bis c.p.c. che specifica senza ombra di dubbio che la domanda cautelare va proposta con ricorso e il fatto che tale iter introduttivo sia collegato ad un rito autonomamente definito, rende quantomeno dubbia la possibilità di ritenere ancora ammissibile il cumulo delle domande, di merito e cautelare, nello stesso atto introduttivo. Tale cumulo, infatti, produrrebbe una «duplice stortura sistematica» perché da un lato non è consentita la formazione di due diversi fascicoli d'ufficio, uno per il merito e uno per la domanda cautelare, dall'altro lato per i richiamati problemi in ordine alla designazione del giudice (in tema, amplius, v. Salvaneschi 2015, 378). Quanto al contenuto della domanda cautelare, mentre l'art. 669-bis c.p.c. è chiaro nel richiedere la forma del ricorso per l'atto introduttivo, non altrettanto la norma è univoca nel delineare il contenuto del ricorso stesso. In mancanza di dati normativi specifici l'unica norma di riferimento è quella dell'art. 125 c.p.c. Alla stregua delle regole generali poste da tale ultima norma e, anche in considerazione delle specificità della domanda cautelare (in particolare, la necessità che fin dall'atto introduttivo venga prospettata la causa di merito per rispondere alle esigenze della strumentalità), i requisiti del contenuto dell'atto introduttivo sono: l'indicazione del giudice competente; l'indicazione delle parti; la determinazione del diritto a tutela del quale si chiede il provvedimento cautelare; il tipo di provvedimento cautelare che si domanda al giudice, con specifico riferimento alla natura del provvedimento richiesto, se tipico o atipico; i fatti costitutivi del diritto sostanziale a cautela del quale si domanda il provvedimento (ai fini della determinazione del fumus boni iuris). In dottrina, si è evidenziato come l'applicazione della norma generale dell'art. 125 c.p.c. lasci residuare alcuni dubbi quando la domanda cautelare venga proposta ante causam. In particolare, il primo problema riguarda se la procura per la domanda cautelare consenta al difensore di rappresentare la parte anche nel giudizio di merito seguente al procedimento in questione. L'autonomia del procedimento cautelare rispetto al merito, a parere di tale dottrina, dovrebbe far propendere per la soluzione negativa e, di conseguenza, per la necessità di una nuova procura per il merito (Salvaneschi 2015, 380). Con riferimento a tale questione, la giurisprudenza della Cassazione si è espressa, invece, nel senso della possibilità per il procuratore del procedimento cautelare, di rappresentare la parte anche nel giudizio di merito seguente. Ad esempio, si è precisato che è valida la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito che segua un procedimento cautelare, eseguita non alla parte personalmente ma nel domicilio da questa eletto presso il proprio difensore in occasione del procedimento cautelare, purché dal tenore della procura alle liti possa desumersi che sia stata conferita anche per la fase di merito (fermo restando che, a fronte della eccepita nullità della notificazione, è onere del notificante provare che la procura conferita dalla controparte fosse valida per la fase cautelare e per i successivi gradi; in tal senso, v. Cass. III, n. 17221/2014). Nello stesso senso, si è precisato, sempre nella giurisprudenza di legittimità, che la procura alle liti rilasciata per promuovere un giudizio cautelare, attribuita con riferimento ad «ogni fase e grado del presente procedimento» ed anche al potere di natura negoziale di transigere e conciliare la controversia, comprende anche quello di promuovere il procedimento di merito arbitrale, sussistendo tra di essi un nesso di strumentalità, analogo a quello esistente tra procedimento cautelare e procedimento di merito innanzi al giudice (Cass. I, n. 20047/2011). In generale, nel senso che la procura rilasciata per la fase cautelare è valida per le successive fasi di merito, dato il collegamento funzionale esistente tra le due fasi, ponendosi quella cautelare come strumentale, sussidiaria e propedeutica a quella di merito, ed atteso che, anche in omaggio al principio di conservazione dell'atto, la presunzione di cui all'art. 83 c.p.c. opera solo allorquando la procura sia rilasciata in modo assolutamente generico o si limiti a conferire con riferimento al «presente giudizio» alla «causa» o alla «controversia» (Cass. IV, n. 37/2009; Cass. II, n. 16904/2003; Cass. III, n. 12288/2004, con riferimento al procedimento per convalida di licenza e sfratto). Se, invece, con riferimento al giudizio cautelare promosso nel corso della causa di merito, la giurisprudenza si orienta in senso opposto rispetto a quello or ora richiamato, la dottrina supra citata ha giustamente evidenziato come la regola, sia per il procedimento cautelare ante causam che per quello in corso di causa dovrebbe essere la medesima e, pertanto, si dovrebbe ritenere necessario il conferimento di una duplice procura, una per il procedimento cautelare ed una per il giudizio di merito salvo nelle ipotesi in cui la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente la inequivocabile volontà della parte di conferire la procura per entrambi i giudizi (in tema, v. Salvaneschi 2015, 381). In giurisprudenza, nel senso che il difensore munito di mandato alle liti senza limitazione alcuna ha, tra i suoi poteri, quello di proporre istanza di sequestro conservativo per conto e nell'interesse della parte, in quanto l'art. 84 c.p.c. consente al difensore di compiere tutti gli atti del processo che non siano riservati alla parte e tale riserva non è prevista in relazione all'istanza di sequestro (Cass. IV, n. 17762/2003; conforme, Cass. IV, n. 336/1978). Nello stesso senso, si è detto che la procura speciale rilasciata ai fini di un procedimento per convalida di licenza o sfratto e non contenente alcuna limitazione, abilita il procuratore a riassumere il giudizio a cognizione piena, atteso il carattere unitario dell'azione speciale di convalida e dell'azione ordinaria, nonché a richiedere in corso di causa una misura cautelare strumentale alla tutela del diritto azionato (Cass. III, n. 12288/2004). Per quanto riguarda la necessità della esposizione, nell'àmbito della domanda cautelare, degli elementi costitutivi del futuro processo di merito e delle conclusioni dello stesso, il tema è stato ampiamente discusso sia in dottrina che in giurisprudenza, sia prima che dopo la riforma del 2005/2006 che ha inciso sul regime dei provvedimenti a strumentalità c.d. attenuata. La giurisprudenza, pur concordando sul profilo della necessità dell'individuazione degli elementi della domanda di merito all'interno del ricorso per la concessione del provvedimento cautelare, si è poi differenziata rispetto alla sanzione da ricondurre alla mancata specificazione di tali elementi. Si è affermato che il carattere distintivo di ogni provvedimento cautelare risiede nella sua strumentalità, nel senso che essi sono sempre preordinati alla emanazione di un ulteriore provvedimento definitivo, di cui assicurano preventivamente la fruttuosità pratica. Da ciò deriva che la mancata indicazione nel ricorso cautelare delle conclusioni di merito comporta l'inammissibilità dello stesso, sempre che dal tenore del ricorso non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito (perché solo l'indicazione esatta o almeno certa della causa di merito consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta: Trib. Torino 7 maggio 2007; sempre nel senso dell'inammissibilità, v. anche Trib. Bari 24 febbraio 2003; Trib. Torino 23 agosto 2002; Trib. Catania 12 giugno 2001). Secondo altre pronunce, invece, la sanzione da ascrivere alla mancata indicazione delle conclusioni di merito sarebbe quella della nullità: il giudice investito, infatti, di una domanda intesa ad ottenere un provvedimento cautelare ante causam può e deve, in applicazione del principio di conservazione degli atti giuridici, accertare, sulla base di un esame complessivo dell'atto introduttivo, se dalla sua formulazione possano desumersi, anche solo implicitamente, i termini della domanda di merito (Trib. Trieste 24 luglio 1999; Trib. Napoli 30 aprile 1997). Nel senso, appunto, che sia sufficiente anche solo la possibilità di desumere implicitamente i termini della domanda di merito si è espressa a volte la giurisprudenza (lo si è affermato rispetto alla validità del ricorso proposto ex art. 700 c.p.c.: Trib. Pistoia 20 dicembre 2005); pertanto, seppur non formulata expressis verbis l'azione sostanziale che si intende tutelare, essa deve potersi desumere da elementi plurimi e inequivoci agevolmente ricavabili dal testo del ricorso di parte (Trib. Foggia 5 febbraio 2004). La dottrina è della stessa opinione, affermandosi giustamente che sia in ragione della disciplina della competenza cautelare (che presuppone la determinazione della causa di merito sin dalla proposizione della domanda cautelare), sia per l'inefficacia del provvedimento cautelare emanato qualora ad esso esegua una causa di merito differente rispetto a quella cui era collegato dal nesso di strumentalità, è necessario che il ricorrente indichi gli elementi e le conclusioni della domanda di merito già nella domanda cautelare (Salvaneschi 2015, 383; nello stesso senso, v. Tommaseo, 224; Olivieri, 704). Successivamente alla differenziazione tra provvedimenti cautelari conservativi a strumentalità «forte» e provvedimenti cautelari anticipatori a strumentalità «attenuata», ci si è chiesti se la necessità di indicare nella domanda cautelare gli elementi e le conclusioni della futura causa di merito valesse ancora rispetto ai provvedimenti di tipo anticipatorio per i quali non necessariamente la causa di merito deve essere instaurata (si confronti la disciplina dell'art. 669-octies c.p.c.). Secondo la dottrina dominante, è necessario, comunque, a dispetto della differenziazione tra strumentalità forte e attenuata, delineare gli elementi della futura causa di merito già dal ricorso cautelare. Rimane, infatti, sempre esistente il c.d. nesso di strumentalità ipotetico e comunque il giudice adito per il provvedimento cautelare resta, a norma di legge, investito della necessità di valutare, sia pur in modo sommario, il fumus boni iuris (Consolo 1994, 309; Menchini 2006, 75; Panzarola 2013, 849). Anche i giudici di merito si sono espressi in questo senso. Si è detto, infatti, che, nel sistema processuale innovato dalla riforma del 2005, la strumentalità della cautela rispetto al merito è stata attenuata, non essendo più doverosa ma solo facoltativa, l'instaurazione del giudizio di merito; ciononostante, l'indicazione della domanda di merito sottesa alla cautela è tuttora doverosa, anche agli effetti dell'individuazione della competenza per territorio e per materia del giudice adito, a pena di inammissibilità del ricorso cautelare (Trib. Modena 5 giugno 2015). Ancora si è precisato che il carattere distintivo di ogni provvedimento cautelare risiede nella strumentalità, ossia nel fatto che essi sono sempre preordinati alla emanazione di un ulteriore provvedimento definitivo, di cui preventivamente assicurano la fruttuosità pratica. Da ciò deriva che la mancata indicazione nel ricorso cautelare delle conclusioni di merito comporta l'inammissibilità dello stesso, sempre che dal tenore del ricorso non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito, poiché solo l'indicazione esatta della causa di merito (o almeno l'individuazione in modo certo della stessa) consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta (Trib. Torino 7 maggio 2007; conforme nel senso della necessità della indicazione degli elementi dell'azione di merito anche rispetto alla richiesta di provvedimento d'urgenza, v. anche Trib. Milano 5 giugno 2006). Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e i riflessi sul procedimento. Sia prima che, a maggior ragione, dopo l'introduzione del procedimento cautelare uniforme, ci si è domandati se sia possibile applicare anche in materia cautelare il principio posto dall'art. 112 c.p.c. in materia di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Come si è giustamente evidenziato i problemi derivanti dall'applicazione dell'art. 112 c.p.c. in ambito cautelare sono sostanzialmente due: da un lato individuare se l'art. 112 c.p.c. vieti al giudice della cautela di modificare il provvedimento cautelare richiesto; dall'altro lato se, sempre in base al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice sia obbligato, in caso di richiesta di un provvedimento d'urgenza, ad emanare esattamente il provvedimento richiesto dalla parte o se possa modificarlo. Il tema è complesso e oggetto di opinioni diversificate in dottrina (per una ricostruzione, v. Frus 1998, 196). Da un lato, con riferimento al primo quesito, ossia se il giudice possa modificare il provvedimento cautelare richiesto dalla parte, sulla base della qualificazione corretta dei fatti allegati dalla stessa, si è detto che tale comportamento dell'organo giudicante ben si giustifica alla luce del principio iura novit curia che conforma tanto il processo cautelare quanto quello di cognizione (per tutti, v. Tommaseo, 283; Salvaneschi 2015, 386). In senso contrario, tuttavia, si è precisato che la richiesta di cautela consacrata nel petitum del ricorso avrebbe l'effetto di vincolare il giudice del cautelare il quale potrebbe scegliere se concedere o meno il provvedimento richiesto ma non modificarlo in applicazione del principio iura novit curia e della corretta qualificazione dei fatti allegati dalla parte (Recchioni 2005, 298). Diversamente tutti concordano nel negare che l'applicazione del principio in questione possa consentire al giudice della cautela di sostituirsi integralmente alla parte richiedente nel determinare il provvedimento cautelare che possa adeguatamente tutelare l'interesse alla base della richiesta (Salvaneschi 2015, 387). Secondo un'altra dottrina, la soluzione che riconosce al giudice il potere di qualificare in modo corretto sotto il profilo giuridico le richieste di parte ma non di sostituirle integralmente sarebbe confermata dalla possibilità per il ricorrente di esporre le proprie richieste in via subordinata nel ricorso (Consolo 1991, 72). Con riferimento al secondo quesito, ossia alla possibilità per il giudice di modulare, nel caso di richiesta di provvedimento d'urgenza, il provvedimento cautelare idoneo per la tutela dell'interesse di parte allorché ovviamente vi siano i presupposti ex art. 700 c.p.c. per la sua concessione, le soluzioni sono molto diverse. Vi è, infatti chi, in applicazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ritiene che il giudice non possa modulare il contenuto del provvedimento d'urgenza conformandolo alle reali esigenze della parte (Tommaseo, 290; Salvaneschi 2015, 388) e chi, invece, ritiene che il giudice, pur essendo limitato nel tipo di provvedimento da concedere che deve necessariamente essere un provvedimento atipico, possa poi riempirlo di contenuto concreto a seconda del mezzo che risulti maggiormente idoneo a tutelare l'interesse del ricorrente (Arieta, 711; Verde, 223). In proposito, si è detto in dottrina che la soluzione più rigorosa è confermata dalla lettera della legge e, segnatamente, dall'artt. 669-bis c.p.c. sulla forma della domanda, dagli artt. 669-septies, 669-decies e 669-terdecies c.p.c., rispettivamente, sul provvedimento negativo, sulla revoca e modifica del provvedimento cautelare e sul reclamo dello stesso (v., amplius, Salvaneschi 2015, 389), ma anche e soprattutto dalla disciplina dell'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. Tale norma, infatti, afferma testualmente, come visto, che il giudice procede nel modo più opportuno agli atti di istruzione indispensabili rispetto ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto e provvede, in contraddittorio tra le parti, all'accoglimento o al rigetto della misura cautelare. Tale norma confermerebbe, a parere di tale dottrina, la necessità che il provvedimento del giudice rispecchi il contenuto del provvedimento cautelare richiesto dalla parte in applicazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Salvaneschi 2015, 390). Nello stesso senso si è precisato in dottrina che l'art. 669-sexiesc.p.c., al suo comma 1, rappresenta la norma cardine in tema di operatività del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato in materia cautelare; infatti la norma nel riferirsi testualmente al provvedimento richiesto dalla parte nel ricorso con cui avanza la domanda cautelare, specifica che il giudice ammette gli atti di istruzione indispensabili in relazione ai fini e ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto. Ne deriva che il «tipo di misura cautelare», da un lato, è l'essenziale specificazione della domanda cautelare proposta nel ricorso, dall'altro, rappresenta per il giudice adìto un limite invalicabile, con la conseguenza che ad esso non è consentito concedere un tipo di provvedimento cautelare diverso rispetto a quello domandato (Frus 1998, 196). Con riferimento all'applicazione del principio iura novit curia nel processo cautelare, la giurisprudenza di legittimità ha detto che la qualificazione del rapporto su cui la domanda è fondata è compito esclusivo del giudice che ha il potere-dovere di definire il rapporto sulla base dei fatti prospettatigli, prescindendo dalla denominazione, eventualmente erronea, che la parte abbia utilizzato e con il solo limite di non alterare il petitum o la causa petendi; bisogna quindi ritenere che l'istanza diretta ad ottenere un provvedimento d'urgenza sul presupposto di un pregiudizio temuto debba dar luogo, senz'altro, al procedimento di denuncia di nuova opera e danno temuto, anche se la parte ha ritenuto di dover chiedere questi provvedimenti ex art. 700 c.p.c. (Cass. II, n. 5719/1998). Risalente e non condivisa l'opinione espressa da una giurisprudenza di merito secondo cui il giudice, pur essendo stato adìto ai sensi dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, qualificata d'ufficio l'azione come ricorso ex art. 700 c.p.c. e ravvisato un atto discriminatorio ex art. 15 dello stesso Statuto dei lavoratori, può emanare un provvedimento d'urgenza con cui ordina al datore di lavoro di astenersi dall'impedire l'esercizio del diritto di libertà sindacale del lavoratore nelle stesse forme e con gli stessi mezzi usati dagli altri (nella specie, il datore di lavoro aveva riservato un diverso trattamento ai comunicati affissi dalle organizzazioni sindacali e dai delegati di reparto, semplicemente invitati a defiggere i loro scritti, rispetto a quello operato nei confronti del lavoratore singolo, i cui comunicati erano stati direttamente eliminati dal personale dell'azienda su disposizione del datore di lavoro: Pret. Pisa 26 novembre 1973). Per un caso analogo in cui il pretore, adìto da una pluralità di lavoratori con ricorso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, ha invece accolto la domanda con un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c., accogliendo la prospettazione offerta in via subordinata dai ricorrenti, v. Pret. Milano 4 maggio 1971. Segue. Gli effetti processuali e sostanziali della domanda cautelare e il procedimento Con la proposizione della domanda cautelare si producono effetti processuali e sostanziali. Con riferimento agli effetti processuali della domanda, è opinione corrente che soltanto alcuni degli effetti in questione – che normalmente conseguono alla proposizione della domanda giudiziale – possono derivare dalla proposizione della domanda cautelare. Senz'altro dalla domanda cautelare derivano gli effetti previsti dall'art. 5 c.p.c. ossia la perpetuatio jurisdictionis et competentiae e, pertanto, ai sensi della previsione normativa del codice di procedura civile, la giurisdizione e la competenza vanno determinate con riferimento alla data di proposizione della domanda cautelare, né sono rilevanti rispetto ad esse eventuali mutamenti dello stato di fatto o diritto posteriori alla proposizione di essa. È invece discussa la produzione dell'effetto della litispendenza ai sensi dell'art. 39 c.p.c., dato che non sarebbe ravvisabile litispendenza tra la domanda cautelare e la domanda giudiziale che instauri un processo ordinario di cognizione né sembrerebbe applicabile il meccanismo di risoluzione dell'evento patologico in questione laddove vengano proposte due domande cautelari di contenuto e soggetti identici. Quanto alla prima questione sulla non ravvisabilità della litispendenza tra domanda cautelare e domanda giudiziale introduttiva di un processo di merito, l'opinione giurisprudenziale non è uniforme nel senso ora esposto. Infatti, si è detto che ai fini dell'applicazione dell'art. 39 c.p.c. e dell'eventuale riunione di cause per continenza (nel caso di proposizione di un'azione per contraffazione di brevetto e di un'azione di nullità del brevetto e accertamento negativo della contraffazione), è idoneo a determinare la prevenzione della lite il deposito di un ricorso cautelare ante causam cui abbia fatto seguito un provvedimento di accoglimento. Secondo la Suprema Corte laddove un giudizio di merito sia preceduto da una fase cautelare che si concluda con un provvedimento di accoglimento del ricorso, la prevenzione va determinata tenendo conto della data in cui è stato instaurato il procedimento cautelare ante causam e non della data del successivo giudizio di merito (Cass. I, n. 16328/2007; conformi Cass. IV, n. 12895/2004; Cass. IV, n. 7883/1997). Pertanto, secondo tali pronunce la domanda cautelare può senz'altro essere compresa tra gli atti introduttivi del giudizio che possono determinare la prevenzione della lite ai sensi dell'art. 39 c.p.c. Va segnalato che la Suprema Corte pur non ritenendo che fossero applicabili per ragioni temporali le norme sulla strumentalità attenuata dei provvedimenti cautelari anticipatori, ha però precisato che la sua introduzione non vieta di attribuire rilevanza, per stabilire quale sia il giudice preventivamente adito, al deposito del ricorso con cui ha inizio la fase cautelare ante causam, dal momento che, per quanto questo regime abbia allentato il rapporto di strumentalità necessaria della tutela cautelare rispetto al merito, non fa venir meno la configurabilità del provvedimento cautelare come atto di tutela anticipato demandata al giudice competente per il merito (conforme Cass. IV, n. 3119/2009). Quanto al secondo quesito, consta una sentenza di merito che ha affermato che laddove il provvedimento cautelare debba essere eseguito in due diversi fori la precedente instaurazione del procedimento cautelare davanti ad altro tribunale, anch'esso competente in base all'art. 669-ter c.p.c. non da luogo a litispendenza, essendo la ratio di tale istituto, così come disciplinato dall'art. 39 c.p.c., incompatibile con il procedimento cautelare, non potendo condurre ad un contrasto di giudicati (Trib. Torino 2 ottobre 1998). Con riferimento agli effetti sostanziali, il riferimento principale è all'interruzione istantanea e permanente della prescrizione prevista dagli artt. 2943-2945 c.c. e dall'impedimento della decadenza, disciplinato dall'art. 2966 c.c. Con riferimento all'interruzione della prescrizione, l'art. 2943, comma 1, c.c. afferma testualmente che «la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione, ovvero conservativo o esecutivo». In questo elenco, l'opinione comune comprende anche la proposizione di una domanda cautelare. Si ritiene, nella giurisprudenza di legittimità, che non tutte le domande cautelari possano provocare l'effetto interruttivo della prescrizione. In particolare, il problema si è posto con riferimento ai procedimenti di istruzione preventiva perché si è specificato che l'istanza con cui il produttore di un bene chiede l'accertamento tecnico preventivo dei vizi di esso, lamentati dall'utilizzatore, notificata, insieme al decreto di fissazione di udienza, al solo venditore dello stesso, non è atto idoneo, ex art. 2943 c.c., ad interrompere la prescrizione del diritto dell'utilizzatore, che si surroga nei diritti del compratore, al buon funzionamento del bene, perché l'efficacia interruttiva della prescrizione non deriva dalla domanda di tutela preventiva proposta da chiunque dei successivi contendenti di un giudizio ordinario, ma soltanto se quella proposta è volta alla tutela dello stesso diritto la cui prescrizione è successivamente eccepita e, quindi, se il giudizio ex art. 696 c.p.c. è instaurato dal soggetto titolare del diritto di cui nel giudizio ordinario è eccepita la prescrizione (Cass. III, n. 3294/1999). Per quanto concerne la decorrenza del termine di prescrizione, dalle norme civilistiche degli artt. 2943 e 2945 c.c. si ricava che il nuovo termine di prescrizione potrà decorrere soltanto dopo la definizione del procedimento cautelare e ciò indipendentemente dal segno del provvedimento conclusivo, sia esso positivo che negativo. Ai fini procedimentali quel che più interessa è la determinazione del dies a quo per la decorrenza dell'effetto interruttivo in parola. Della questione si è occupata la dottrina. Si è precisato che è necessario differenziare il dies a quo per la decorrenza dell'effetto interruttivo in base al tipo di procedimento azionato ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c.Se si utilizza il procedimento che definiamo «ordinario» ossia che prevede la previa instaurazione del contraddittorio con la controparte e il ricorso introduttivo venga notificato il dies a quo in questione sarà quello della conoscenza legale dell'atto e quindi del perfezionamento dell'iter notificatorio. Se, invece, si utilizza il procedimento sommario inaudita altera parte secondo la dottrina gli effetti processuali si producono al momento del deposito del ricorso nella cancelleria del giudice della cautela, mentre quelli sostanziali si possono produrre a partire dalla notificazione del ricorso cautelare insieme con il decreto che concede il provvedimento e che convoca l'intimato all'udienza per i successivi adempimenti (Recchioni 2015, 318). Con riguardo all'effetto previsto dall'art. 2966 c.c., ossia all'impedimento della decadenza, si ritiene che la domanda cautelare abbia effetto impeditivo della decadenza esattamente come la domanda giudiziale. Sul punto, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità affermando che il provvedimento cautelare, alla luce della nuova struttura dell'art. 700 c.p.c. e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori per i quali vale il regime della strumentalità attenuata rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ha assunto ad ogni effetto le caratteristiche di una autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva, pur senza attitudine al giudicato, sicché la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare dei termini di decadenza (Cass. IV, n. 10840/2016). Domanda cautelare e procedimento di mediazione. Con riferimento al procedimento di mediazione l'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 28/2010, nelle sue successive modificazioni, stabilisce che lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari. La mancata preclusione opera in ogni caso, quindi anche nelle ipotesi in cui la legge pone la mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ci si domanda pertanto che cosa accada al provvedimento cautelare che sia stato richiesto e concesso prima dell'inizio della causa di merito, allorché il giudizio di merito debba essere iniziato nel termine previsto dall'art. 669-octies c.p.c. (e pertanto nelle ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia a strumentalità forte). Le questioni postesi sono sostanzialmente queste: poiché il termine per l'instaurazione del giudizio di merito – non superiore a sessanta giorni – è incompatibile con quello previsto per la mediazione obbligatoria, esso rischia di rendere impossibile l'inizio del giudizio di merito. La dottrina ha proposto come soluzione interpretativa che sia sufficiente l'inizio della procedura di mediazione entro il termine assegnato per instaurare il giudizio di merito; se non si volesse accogliere questa soluzione, l'unica ulteriore ipotesi plausibile è che si inizi la causa di merito prima rispetto al procedimento di mediazione e il giudice possa rinviare l'udienza di merito ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, della l. n. 98/2013 (in termini, v. Salvaneschi 2015, 390). Secondo l'autrice, è sufficiente attivare il procedimento di mediazione per salvaguardare l'efficacia del provvedimento cautelare e va, quindi, prescelta la prima delle ipotesi risolutive prospettate (Salvaneschi 2015, 391). La competenza cautelare (cenni) In tema di competenza cautelare, vige – come già cennato – il principio della coincidenza tra la competenza per la cautela e la competenza per il merito, sicché prima della causa il ricorso cautelare va proposto al giudice che sarà competente per la causa di merito. La disciplina della competenza – suddivisa tra gli artt. 669-ter, 669-quater e 669-quinquies c.p.c., su cui fin da ora si rinvia ai relativi commenti – è stata dettata dall'esigenza di semplificare e unificare i criteri di determinazione, al fine di raccordare, per quanto possibile, la cognizione cautelare a quella di merito, così accentuando il nesso di strumentalità tra il provvedimento emanato in via provvisoria e la pronuncia definitiva di merito. In base all'art. 669-ter, comma 4, c.p.c., a seguito del deposito del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo presenta al capo dell'ufficio affinché designi il magistrato competente, a meno che non preferisca riservare il procedimento a se stesso in quanto organo avente anche funzioni attive. Non sono dettati meccanismi specifici di designazione automatica, ragion per cui quest'ultima segue i criteri tabellari della competenza c.d. interna. La regola in questione, certamente dettata dal favore verso il giudice monocratico, ha carattere generale e si estende anche a quelle controversie la cognizione delle quali è tuttora riservata all'organo collegiale exart. 48 ord. giud. Si è posto il problema se il nesso di strumentalità tra cautela e merito sia così stretto da comportare la necessaria assegnazione della causa di merito al medesimo giudice-persona fisica che pronunciò sulla cautela, come giudice unico o, più raramente di giudice istruttore nelle cause da decidersi collegialmente. Al riguardo, non sembra potersi ravvisare alcun obbligo, ma si è tuttavia segnalato in dottrina (Carpi, 1258; Lapertosa, 419; Frus, 627) l'opportunità che la prassi si orienti in questo senso; mentre per altra tesi dovrebbero essere aperte entrambe le possibilità (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 585) e, laddove il magistrato sia lo stesso ciò non può essere motivo di astensione o ricusazione (contra, Oberto, 3). Per una ricostruzione delle diverse fattispecie relative alla determinazione del giudice competente in via cautelare si rinvia a Celeste, 78. L'art. 669-quater c.p.c., a sua volta, disciplina la competenza cautelare lite pendente, ossia quando il provvedimento cautelare venga richiesto dopo la notifica dell'atto di citazione, pur se la parte non si sia ancora costituita, ovvero dopo il deposito del ricorso. Il primo problema interpretativo sollevato dalla disposizione normativa deriva dall'affermazione in essa contenuta secondo cui «quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve essere proposta al giudice della stessa». Si discute, infatti, se il giudice davanti a cui pende la causa di merito è per ciò stesso competente per il procedimento cautelare, sebbene sia ad esempio incompetente in concreto per la causa di merito, oppure se debba essere verificata la concreta competenza per il giudizio di merito. Secondo parte della dottrina, laddove la causa penda davanti ad un giudice incompetente, allo stesso spetta ugualmente la competenza cautelare, che si radica per il solo fatto della pendenza della causa davanti ad un giudice determinato (Consolo 2006, 356). Da altri, si è invece evidenziato che questa soluzione consentirebbe alla parte di effettuare una pratica di forum shopping cautelare, ossia di scegliere il giudice che preferisce, semplicemente mettendo in conto di dover corrispondere alla controparte le spese derivanti dalla dichiarazione di incompetenza del giudice adito (Luiso 2021, 167). La Corte cost. n. 54/2023 ha affermato che sono inammissibili, per avere il rimettente erroneamente assunto come diritto vivente un'interpretazione viceversa non consolidata, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 669-quater c.p.c. sollevate, in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui, ove penda un giudizio di cognizione in rapporto di continenza con la causa di merito prefigurata in un successivo ricorso cautelare ante causam, impone al giudice della cautela di dichiarare la propria incompetenza in favore del giudice della causa continente preventivamente adito. In giurisprudenza, alcune pronunce collegano alla concreta investitura per il merito la competenza cautelare. Ad esempio, si è detto che non è configurabile litispendenza tra un giudizio di merito radicato davanti al tribunale ordinario e un procedimento cautelare pendente davanti alle sezioni specializzate, dato che il procedimento cautelare e quello di merito sono giudizi tra loro autonomi e che i provvedimenti d'urgenza sono insuscettibili di costituire giudicato. Inoltre, poiché il giudice successivamente adìto è tenuto ad accertare la competenza del primo giudice, specie con riguardo all'ipotesi in cui la competenza sia determinata sulla base di criteri inderogabili, ove venga negata la competenza del primo giudice non si configura litispendenza, né può valere il criterio della prevenzione (Trib. Napoli 20 aprile 2004). Contra, nel senso del riferimento ai criteri in astratto con conseguente caducazione del provvedimento emanato dal giudice dichiaratosi incompetente, si è detto che il giudice al quale venga proposta una istanza cautelare in corso di causa non deve preliminarmente accertare la sua competenza per la domanda di merito, in quanto la legittimazione a decidere sulla istanza cautelare proposta pendente lite spetta comunque al giudice che di fatto tratta la causa anche se incompetente per il merito; sicché il giudice che si pronuncia sull'istanza cautelare, se è stato erroneamente individuato, deve successivamente dichiarare la sua incompetenza, ma la concessa misura cautelare conserva efficacia dopo la pronuncia di rito, purché venga effettuata tempestivamente la riassunzione del processo dinanzi al giudice indicato come competente (Trib. Sant'Angelo Lombardi 26 febbraio 2004). Ai sensi dell'art. 669-quinquies c.p.c., anche in caso di compromesso per arbitri non rituali la domanda di cautela va proposta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito. La possibilità di domandare tutela cautelare al giudice competente per il merito una volta stipulata una clausola compromissoria per arbitrato irrituale ovvero nel corso di tale procedimento, è stata riconosciuta dal legislatore soltanto con la l. n. 80/2005. Nell'assetto originario, l'opinione dominante in giurisprudenza era nel senso dell'impossibilità di ottenere la tutela cautelare in presenza di una convenzione di arbitrato irrituale perché il patto compromissorio per arbitrato irrituale determina una preventiva e generale rinunzia alla tutela giurisdizionale a favore di uno strumento negoziale di composizione della controversia. Tale orientamento era stato criticato dalla dottrina dominante ma un'importante pronuncia interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale, pur dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-quinquies c.p.c. per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. aveva però legittimato prospettive interpretative orientate a ritenere sussistente una compatibilità tra tutela cautelare ed arbitrato irrituale (Corte cost., n. 320/2002). L'art. 669-quinquies c.p.c., nella nuova formulazione, in realtà generalizza l'intervento normativo già compiuto nella riforma del processo societario. La riforma, peraltro, lascia aperti alcuni significativi problemi esegetici, soprattutto per l'esigenza di coordinare il principio della compatibilità tra arbitrato irrituale e tutela cautelare con la natura strumentale, da un punto di vista strutturale, dei provvedimenti cautelari conservativi. Secondo una prima tesi, la concessione della tutela cautelare travolgerebbe il patto compromissorio, talché la causa dovrebbe, poi, essere instaurata davanti al giudice ordinario (Arieta 1993, 744). Viceversa, un'altra parte della dottrina, ferma la validità del patto per arbitrato libero anche dopo la concessione della misura cautelare, ritiene che nel termine previsto per l'instaurazione del giudizio di merito le parti siano onerate, onde evitare l'inefficacia della misura cautelare, di proporre la domanda di arbitrato irrituale (Sassani 2002, 710; Auletta, 88; Dalmotto, 1235). L'assimilabilità tra il procedimento di merito e l'arbitrato, anche irrituale, implica poi che la misura cautelare di carattere conservativo perda efficacia in tutti i casi di epiloghi non meritali dell'arbitrato irrituale, lato sensu equiparabili all'estinzione (Consolo 2019, 357).
La Riforma 2022 e il potere cautelare degli arbitriLa riforma 2022 attribuisce agli arbitri rituali un potere cautelare generale, previa manifestazione di volontà delle parti in tal senso o nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo ma anteriore rispetto all'instaurazione dell'arbitrato; l'art. 818 c.p.c. infatti prevede che “Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di emanare misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale”. Si è stabilito che questa determinazione debba essere anteriore alla instaurazione del giudizio arbitrale per delimitare senza incertezze l'ambito del potere attribuito agli arbitri. Questa competenza degli arbitri è esclusiva e, pertanto, dopo l'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro o dopo la costituzione del collegio arbitrale, è esclusa la possibilità di un potere cautelare che concorra con quello degli arbitri, mentre prima di tale momento la domanda di provvedimento cautelare continua a essere disciplinata dall'art. 669-quinquies c.p.c. e deve pertanto essere proposta al giudice competente. A norma dell'art. 818-bis c.p.c. si è previsto inoltre che il provvedimento cautelare pronunciato dagli arbitri è reclamabile davanti alla Corte d'appello soltanto per i motivi indicati dall'art. 829 c.p.c. per il fatto che non sarebbe una scelta logica assegnare al giudice del reclamo un potere di sindacare il provvedimento cautelare maggiore rispetto a quello che la legge pone in sede di impugnazione del lodo. La Corte d'Appello competente è quella del distretto in cui ha sede l'arbitrato. Il provvedimento impugnabile alla stregua delle regole generali è sia quello di accoglimento che quello di rigetto. Infine, ai sensi dell'art. 818-ter c.p.c., l'attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri è disciplinata dall'art. 669-duodecies c.p.c. e si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell'arbitrato o, se la sede dell'arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura deve essere attuata”. Resta salvo il disposto degli artt. 677 e ss. rispetto all'esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri e la competenza spetta al tribunale nel cui circondario si trova la sede dell'arbitrato. Il procedimento in generale.La caratteristica del procedimento delineato dalla norma in commento è quella della libertà di forme della trattazione che è cadenzata dall'attribuzione al giudice di evidenti poteri discrezionali, secondo lo schema proprio della cognizione sommaria. Si è in presenza di un procedimento discrezionalmente delineato dal giudice, in deroga ai principi generali e secondo uno schema che è previsto in molte disposizioni normative. Ai sensi della previsione, infatti, il giudice, nel necessario rispetto del contraddittorio, evidenziato dall'espressione «sentite le parti» è libero di procedere nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili tenuto conto dei presupposti e dei fini del provvedimento. Egli provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Anche se il giudizio cautelare è per sua natura sommario e meno approfondito del giudizio di merito, la giurisprudenza di merito ha precisato che l'art. 669-sexiesc.p.c. autorizza esclusivamente l'omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Di conseguenza, in ipotesi di completa genericità di espressioni da parte del ricorrente – che impedisce ogni difesa specifica della controparte – gli approfondimenti istruttori «tramite sommari informatori» richiesti dal ricorrente non possono essere assunti perché, in caso contrario, non sarebbe assicurato il contraddittorio (Trib. Torino 5 settembre 2007). La norma disciplina due diversi binari procedimentali. Un primo binario, che possiamo definire «ordinario», è quello disciplinato dal comma 1: il giudice, nel necessario rispetto del contraddittorio e, quindi, «sentite le parti» omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio stesso, espleta gli atti di istruzione indispensabili e accoglie o rigetta la domanda cautelare con ordinanza. Sulle tematiche connesse all'instaurazione del contraddittorio nel procedimento cautelare, si rinvia a Celeste, 202. Il secondo binario, che possiamo definire senza contraddittorio, è quello disciplinato dal comma 2: il giudice, quando la convocazione della controparte può pregiudicare l'attuazione del provvedimento, provvede con decreto motivato, assunte, se necessarie, sommarie informazioni. Poiché in questa ipotesi è mancato il contraddittorio tra le parti, il giudice con lo stesso decreto fissa l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé in un termine non superiore a quindici giorni, assegnando contestualmente all'istante un termine perentorio – non superiore a otto giorni – per la notificazione alla controparte del ricorso e del decreto. Il fine dell'udienza è di consentire al giudice di confermare, modificare o revocare, con ordinanza, il provvedimento emesso con decreto e senza contraddittorio. Infine, la norma dispone che, se la notificazione si deve effettuare all'estero, i termini previsti dalla disposizione sono triplicati. La giurisprudenza di merito, in relazione alla notifica all'estero, ha affermato che la perentorietà del termine che, in caso di concessione di una misura cautelare inaudita altera parte, deve essere assegnato all'istante, ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c., per la notificazione del ricorso e del decreto, impone di ritenere che la sua inosservanza provochi l'inefficacia del concesso provvedimento; nella specie, il tribunale aveva assegnato un termine di soli venti giorni per notificare il decreto cautelare all'estero, in palese contrasto con la lettera della norma che, stante la prevista triplicazione dei termini, conduce ad un risultato di almeno ventiquattro giorni (Trib. Verona 21 settembre 1993). La Corte di Cassazione ha recentemente affermato che il grado d'incisività dei provvedimenti cd. de potestate (oggi de responsabilitate) sui diritti fondamentali dei soggetti implicati e sulla vita dei minori impone il controllo garantistico ex art. 111 Cost. Non osta a questa conclusione la natura ontologicamente precaria dei provvedimenti in oggetto in quanto soggetti alla clausola rebus sic stantibus. La definitività è svincolata dal giudicato ma si fonda sugli effetti irreversibili di talune statuizioni ancorché temporanee. In relazione al criterio di valutazione della definitività del provvedimento emesso, da trarsi alla stregua degli effetti sostanziali che produce e non della potenziale limitatezza temporale della sua efficacia, il decreto del Tribunale per i minorenni che sospenda l'esercizio della responsabilità genitoriale è provvedimento reclamabile, in quanto la provvisorietà e temporaneità non consentono di qualificare il decreto come endoprocedimentale in mancanza della previsione di un termine finale dell'efficacia dallo stesso, prodotta sul modello dei provvedimenti cautelari emessi inaudita altera parteex art. 669 sexies c.p.c. (Cass. I, n. 5402/2023). Sebbene la questione fosse già stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, n. 30457/2022) la Cassazione nella pronuncia in questione ha deciso di non attendere la pronuncia del Supremo Consesso, a ragione dell'urgenza della decisione da emettere anche rispetto all'età del minorenne. Si è quindi deciso di dare seguito a quanto già affermato dalle Sezioni Unite con sentenza Cass. S.U. n. 32359/2018 secondo cui i provvedimenti de potestate, emessi dal giudice minorile ex artt. 330 e 333 c.c. hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, sicché non sono revocabili e modificabili salvo la sopravvenienza di fatti nuovi; di conseguenza il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica questi provvedimenti è impugnabile tramite ricorso per cassazioneex art. 111, comma 7, Cost. Si è affermato che a sostegno dell'interpretazione ivi sposata sembrerebbe militare il nuovo disposto dell'art. 474-bis.24, comma 2, c.p.c., introdotto dalla Riforma Cartabia che espressamente consente di esperire il reclamo contro i provvedimenti temporanei ed urgenti sospensivi o ablativi della responsabilità genitoriale, così confermando che alcune statuizioni hanno carattere sostanzialmente non reversibile pur essendo formalmente temporanei (Costinel Malatesta, Osservatorio sulla Cassazione Civile, RD PROC, 2023, 2, 820). Il procedimento ordinario.Abbiamo visto come l'esito normale del procedimento, a tenore dell'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. sia la pronuncia del provvedimento ordinatorio dopo aver sentito le parti interessate nel rispetto del principio del contraddittorio. Il comma 1 della norma parla di audizione delle parti con l'espressione «sentite le parti» e il comma 2 parla testualmente di «convocazione» delle stesse. Il procedimento, come si evince dalla lettura del comma 1 della disposizione normativa, è caratterizzato da una grande semplificazione e da una delega tutto sommato in bianco alla discrezionalità del giudice adito per la misura cautelare il quale può omettere tutte le formalità che non appaiano essenziali rispetto alle esigenze dettate dal contraddittorio e anche limitare gli atti di istruzione a quelli indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, provvedendo poi con ordinanza. Ciò che non può mancare è, alla luce della disposizione, l'audizione delle parti e, tecnicamente, dell'intimato-resistente; andrà pertanto sempre convocato e sentito il soggetto contro il quale la domanda cautelare è proposta. Se dal comma 1 della norma si evince solo l'importanza fondamentale attribuita all'audizione del resistente, il comma 2 parla in modo testuale di convocazione del resistente stesso; tale convocazione, però, nel rito senza contraddittorio, ha luogo nei termini indicati dalla disposizione normativa mentre la pronuncia del provvedimento cautelare avviene con decreto inaudita altera parte (Salvaneschi, 391). Si è precisato, rispetto al procedimento ordinario e alla sua caratterizzazione per la totale libertà delle forme, che una previsione normativa sostanzialmente speculare era prevista nella legge sull'equo canone n. 253/1950 (Tommaseo, 99). Infatti, tale legge, all'art. 30, comma 2, così disciplina: «Il pretore regola il procedimento nel modo che ritiene più opportuno, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio...». Rispetto alle modalità della instaurazione del contraddittorio v. Celeste, 215. La libertà delle forme processuali consentita al giudice dall'art. 669-sexies c.p.c. non è, pertanto, una novità; ed anzi sono molte le norme processuali che contengono ipotesi di case-management giudiziale, basti per tutte ricordare il procedimento di liquidazione della misura coercitiva ex art. 614-bis c.p.c. o le modalità di svolgimento del rito nell'azione di classe o nell'art. 702-ter c.p.c., ma anche la libertà delle forme garantita al giudice nella disciplina dei procedimenti camerali. Come ho già evidenziato in altra sede, si possono trasporre, a giustificazione del principio della libertà delle forme processuali, le affermazioni della Consulta sul modello camerale e, in genere, sulle tutele speciali. Si può pertanto ritenere che è conforme alla riserva di legge posta dall'art. 111 Cost. una tutela giurisdizionale che si connoti per una serie ampia di poteri giudiziali di governo del processo, atteso che, se il novellato art. 111 Cost. pone limiti più rigidi per il processo di cognizione ordinaria, impone semmai, rispetto ai procedimenti speciali che godono di un trattamento differenziato, una valutazione di compatibilità con i principi costituzionali che garantiscono il diritto di difesa e l'uguaglianza sostanziale delle parti (Asprella, 14). L'osservanza del diritto di difesa non preclude la possibilità che la relativa disciplina si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purché ne siano assicurati lo scopo e la funzione, cioè la garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti; è quindi possibile differenziare le forme della tutela giurisdizionale con riguardo alle peculiarità del rapporto da regolare (Corte cost., n. 202/1975; ma anche Corte cost., n. 46/1957; Corte cost., n. 125/1979). L'art. 669 -sexies c.p.c. non prevede nulla rispetto alla necessità di osservanza di un termine preciso tra la notificazione della domanda cautelare e la data dell'udienza fissata per la comparizione delle parti. Ne deriva che il termine in questione deve essere fissato dal giudice nell'ambito della sua discrezionalità e bilanciando le opposte esigenze delle parti, ricorrente e resistente. Ci si pone di conseguenza il dubbio sulla disciplina applicabile laddove il giudice abbia fissato un termine troppo esiguo tra la data della notifica alla controparte della domanda cautelare e la data dell'udienza. In tal caso secondo gli interpreti dovrebbe applicarsi la regola posta dall'art. 164, comma 3, c.p.c. per la sanatoria dei vizi della vocatio in ius nell'atto di citazione. Il giudice dovrebbe pertanto ordinare la rinnovazione della notificazione fissando una nuova udienza nel rispetto di un termine congruo. Quella appena esposta è l'opinione di una parte della dottrina che ha giustamente cercato di contemperare la mancanza di una previsione apposita della norma sul termine in questione con le previsioni normative già esistenti in tema di sanatoria della nullità dell'atto introduttivo del processo ordinario di cognizione (Olivieri 1991, 702). Nulla dice la norma dell'art. 669-sexies c.p.c. sulle modalità in cui tale convocazione deve avvenire. In base alle regole generali le parti devono essere convocate all'udienza tramite biglietto di cancelleria che, ai sensi dell'art. 136, comma 2, c.p.c., andrà trasmesso a mezzo di posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, relativa alla sottoscrizione, trasmissione e ricezione dei documenti informatici. Laddove non sia possibile utilizzare la pec sarà la parte richiedente il provvedimento a notificare il ricorso introduttivo insieme con il decreto di fissazione dell'udienza che il giudice adito emana in calce al ricorso stesso. Ciò, ovviamente, accadrà nella sola ipotesi in cui la domanda cautelare sia proposta prima dell'inizio della causa di merito perché diversamente, le parti saranno già costituite e non sarà quindi necessaria l'instaurazione ad hoc del contraddittorio. La forma estremamente generica della disposizione normativa, insieme con la libertà delle forme che viene assicurata dalla norma purché si garantisca l'attuazione del contraddittorio inter partes, fanno sì che sia possibile anche ritenere che debba essere il giudice adito per il provvedimento cautelare a fissare a seconda dei casi le modalità in cui le parti devono essere convocate, sicché tali modalità potranno essere diverse dalla notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza. Secondo una giurisprudenza di merito, è nulla e non inesistente la notifica del ricorso cautelare eseguita a mezzo fax dallo studio del difensore del ricorrente in difetto di una espressa autorizzazione del giudice (Trib. Roma 12 marzo 2001). Ugualmente si è detto che la disposizione dell'art. 669-sexies c.p.c., secondo cui l'instaurazione del contraddittorio può avvenire «omessa ogni formalità non essenziale» implica la possibilità di convocazione delle parti a mezzo telefax (Trib. Napoli 15 luglio 1998). Contra, tuttavia, si è ritenuto, nell'àmbito di un procedimento di reclamo cautelare, che è nulla la notifica effettuata via fax, anche se autorizzata ai sensi dell'art. 151 c.p.c., perché effettuata direttamente dal ricorrente al resistente senza la intermediazione dell'ufficiale giudiziario (Trib. Roma 14 dicembre 2004, cit.). La dottrina è divisa sul punto. Vi è chi ritiene che, appunto, data la mancanza di una specifica previsione su come debba avvenire la convocazione e la libertà delle forme garantita dalla norma in commento, non si possano escludere modalità di convocazione differenti rispetto alla notificazione del ricorso e del decreto fissate di volta in volta dal giudice della cautela (Salvaneschi, 391; Tarzia, Saletti, 844; Merlin, 403; Attardi, 238). L'opinione non è, però, pacifica. Si è affermato, infatti, che possono essere consentite forme diverse di comunicazione rispetto alla notificazione del ricorso e del decreto soltanto qualora esse possano adeguatamente consentire la conoscenza del processo da parte del resistente, con la conseguenza che una valutazione aprioristica della loro idoneità non sarebbe possibile e, comunque, anche solo nel dubbio sulla effettiva possibilità di instaurare correttamente il contraddittorio con forme alternative di comunicazione, il giudice della cautela dovrebbe optare per le forme tradizionali (Arieta, 890). Alcune forme di comunicazione non tradizionali se da un lato sono certamente più celeri e meno macchinose, dall'altro lato consentono la conoscenza dell'avvenuta istanza per la richiesta di provvedimento cautelare ma non garantiscono la conoscenza del suo contenuto (Frasca, 466). Criticamente, rispetto a quella giurisprudenza che interpreta in senso restrittivo l'art. 151 c.p.c. e, di conseguenza, ammette una deroga alla tradizionale modalità di notificazione, pur restando essenziale la sola legittimazione dell'ufficiale giudiziario alla sua esecuzione, v. Giordano 2013, 1114. Se, quindi, non pare dubbio che la convocazione possa avvenire con biglietto di cancelleria, essa, aderendo alla tesi più liberale, può senz'altro aversi con forme diverse, quali il fax o anche il telefono. Rimane comunque la necessità di verificare che il contraddittorio si sia effettivamente realizzato e che, quindi, la controparte abbia avuto conoscenza non solo dell'istanza cautelare ma anche e soprattutto del contenuto del ricorso, dovendosi, in caso di mancata prova di tale conoscenza, senz'altro disporre la notificazione del ricorso e del decreto. Con riferimento all'uso di forme diverse di comunicazione rispetto alla notifica del ricorso alla controparte, la dottrina ha avuto modo di precisare che un ostacolo significativo a tale previsione è la mancanza, tra le norme che disciplinano i procedimenti cautelari, di una disposizione normativa quale l'art. 420, comma 11, c.p.c. secondo cui a tutte le notificazioni e comunicazioni provvede l'ufficio giudiziario (Olivieri 1991, 702). Il problema si pone soprattutto per le evidenti chiusure in tal senso da parte della giurisprudenza di merito che a volte ha ritenuto non valida la comunicazione effettuata in modo diverso dalla notifica tramite ufficiale giudiziario. Una fattispecie emblematica di chiusura da parte della giurisprudenza di merito si è avuta con una pronuncia del Tribunale di Roma. Il giudice della cautela aveva autorizzato alla notifica del ricorso introduttivo ai sensi dell'art. 151 c.p.c., norma che permette al giudice di prescrivere anche d'ufficio, con decreto steso in calce all'atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, e anche per mezzo di telegramma collazionato con avviso di ricevimento, allorché lo consiglino circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità, riservatezza o tutela della dignità. Il ricorso cautelare era stato pertanto notificato tramite fax dal ricorrente al resistente senza l'interposizione dell'ufficiale giudiziario. Il Tribunale capitolino, adìto in sede di reclamo cautelare ha ritenuto nulla la notificazione anche se era stata autorizzata ai sensi dell'art. 151 c.p.c., eseguita dallo studio dell'avvocato difensore tramite fax e senza l'ausilio dell'ufficiale giudiziario (Trib. Roma 14 dicembre 2004). Questa tesi della inapplicabilità dell'art. 151 c.p.c. e della conseguente invalidità della notificazione del ricorso cautelare effettuata in modi diversi dalla notifica tramite ufficiale giudiziario, è in realtà conforme ad una giurisprudenza che interpreta in modo alquanto restrittivo la norma in questione, ritenendo che essa consenta unicamente la deroga alla notificazione in forma classica ma non consenta la notifica effettuata da soggetti diversi rispetto all'ufficiale giudiziario. La giurisprudenza di legittimità ha sostanzialmente avallato questa interpretazione restrittiva dell'art. 151 c.p.c. nel senso ora esposto. Infatti, si è affermato che l'art. 151 c.p.c. è una norma in bianco, sia per quanto attiene al procedimento notificatorio, sia per quanto riguarda i presupposti di operatività. Secondo la Corte di Cassazione, se anche questo procedimento non prevede formalità costanti e necessarie, le garanzie costituzionali del diritto di difesa, il principio del contraddittorio e l'esigenza che le forme trovino corrispondenza nello scopo dell'atto, impongono che, nella individuazione delle forme di esecuzione della notificazione, si debbano considerare requisiti essenziali la certificazione per iscritto dell'attività compiuta ad opera dell'ufficiale procedente, la consegna di copia conforme dell'atto, l'osservanza di finalità idonee a garantire la conoscenza legale dell'atto stesso e un grado di certezza non inferiore a quello offerto dai procedimenti ordinari rispetto alla trasmissione della copia e della sua conformità all'originale, senza che tali requisiti si possano ritenere superati dall'autorizzazione concessa da qualsiasi giudice ai sensi dell'art. 151 c.p.c. a procedere ad una notificazione tramite fax. Ciò perché il giudice può consentire modalità diverse di notificazione ma mai permettere la violazione dei principi fondamentali del diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. V, n. 4319/2005). Per la giurisprudenza costante di legittimità che afferma che la notificazione è giuridicamente inesistente quando esorbiti completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, ossia quando difettino gli elementi caratteristici del modello delineato dalla legge, v., ex multis, Cass. III, n. 10278/2001; Cass. IV, n. 12717/2000; Cass. I, n. 4753/2000; Cass. I, n. 11360/1999. L'interpretazione sposata dalla giurisprudenza di legittimità appena ricordata sull'art. 151 c.p.c. presta il fianco a critiche. Si è notato come tale orientamento non fosse condivisibile anche prima dell'introduzione delle disposizioni sulle notifiche telematiche a mezzo pec perché l'art. 137 c.p.c., nella parte in cui stabilisce che in via generale le notificazioni sono effettuate per il tramite dell'ufficiale giudiziario, non pone una regola totale e inderogabile anche ad opera di norme di rango pari come proprio l'art. 151 c.p.c. o l'abrogato art. 17 del d.lgs. n. 5/2003 (Giordano 2006, 78; Panzarola, Giordano, 407). Si è giustamente evidenziato come a fronte dell'incertezza derivante dall'uso di forme non tradizionali di comunicazione, vi è anche il rischio di uno slittamento della procedura cautelare dovuto alla necessità di disporre nuovamente la comunicazione, questa volta con notifica. Del resto, oltre alla certezza sull'effettiva conoscenza dell'instaurazione del procedimento cautelare, è evidente anche la necessità di certezza sul tempo in cui esso è stato instaurato, rispetto alla necessità di garantire il termine a difesa (Salvaneschi, 393). Tali esigenze vanno rispettate anche laddove si ritenga che l'unica modalità possibile di comunicazione sia la notificazione del ricorso e del decreto; chi è di tale opinione sottolinea come, in caso di mancato rispetto del termine per la notificazione fissato nel decreto del giudice, il giudice stesso dovrà ordinare la rinnovazione della notifica, in applicazione analogica dell'art. 164, comma 3, c.p.c.; tale adempimento dovrà essere ripetuto anche laddove il resistente compaia all'udienza ma eccepisca la nullità della notificazione del ricorso e del decreto per mancato rispetto del termine medesimo (Olivieri, 705). Peraltro nell'ordinamento attuale la notifica del ricorso cautelare può essere effettuata anche in forma telematica ai sensi dell'art. 149-bisc.p.c.; con la precisazione che la domanda cautelare proposta prima dell'inizio della causa di merito va notificata personalmente alla parte, con la conseguenza che ne è possibile la notifica tramite pec solo ove la controparte possieda un indirizzo pec che sia visibile nei pubblici registri o reperibile con certezza dal beneficiario della misura cautelare (Panzarola, Giordano, 407). Attenta dottrina ha posto il dubbio che l'uso di forme non tradizionali nella comunicazione alla controparte e, quindi, nella realizzazione del contraddittorio nel procedimento cautelare, possano influire sulla disciplina della prescrizione e della sua interruzione. Se, infatti, è fuor di dubbio che la pendenza di un procedimento cautelare sia una fattispecie interruttiva della prescrizione ai sensi dell'art. 2943 c.c., è necessario determinare, nell'ambito del procedimento cautelare stesso, quale atto possa essere succedaneo – e quindi utilmente sostituire – la notificazione del ricorso e del decreto allorché si utilizzino modalità differenti di comunicazione e, non ultimo, determinare il momento in cui può ritenersi interrotta la prescrizione. Le prospettate soluzioni sono due: a) laddove il resistente compaia all'udienza fissata dal giudice cautelare e si dia atto a verbale di questa comparizione e delle difese dello stesso, allora l'effetto interruttivo della prescrizione coinciderà con la redazione del verbale sottoscritto dal giudice che darà senz'altro atto della produzione dello stesso; b) qualora, in ossequio al termine a difesa assegnato dal giudice nel decreto di convocazione, il resistente depositi in cancelleria una memoria difensiva, anche in tale ipotesi si può senz'altro riconoscere l'avvenuta convocazione del resistente e perfezionato l'effetto interruttivo della prescrizione (per tutti questi rilievi, v. Salvaneschi, 396). Questi dubbi concernono, sottolinea questa dottrina, anche il convenuto contumace nel giudizio ordinario nel corso del quale venga proposta una domanda cautelare. Poiché anche in tale caso sarà necessario determinare modalità di comunicazione tali da rendere il convenuto contumace edotto dell'avvenuta proposizione della domanda cautelare. Essa, secondo alcuni autori, può ritenersi domanda nuova e quindi godere del regime previsto dall'art. 292 c.p.c. e pertanto, ritenere che essa debba essere notificata al convenuto contumace. Diversamente si potrà utilizzare uno strumento diverso di comunicazione nell'ambito degli strumenti alternativi assicurati dalla libertà delle forme di cui parla testualmente l'art. 669-sexies c.p.c. (Giordano 2013, 1116; Celeste, 219; in tal senso, v. anche Salvaneschi, 397). Che la domanda cautelare proposta in corso di causa nei confronti del convenuto contumace non sia una domanda nuova è opinione dei giudici di legittimità. Si è, infatti, precisato che il ricorso in corso di causaexart. 700 c.p.c., essendo diretto ad ottenere un provvedimento strumentale e temporaneo, volto ad assicurare con funzione cautelare gli effetti della successiva decisione di merito, non integra una domanda nuova rispetto a quella contenuta nell'atto di citazione. Conseguentemente tale ricorso non deve essere notificato al contumace ai sensi dell'art. 292 c.p.c. (Cass. II, n. 4814/1998). In senso diverso la giurisprudenza di merito che ha affermato che l'istanza cautelare proposta in corso di causa e il conseguente decreto di convocazione delle parti, debbano essere notificati al contumace, a cura del ricorrente, nel termine fissato con ordinanza dell'istruttore (Trib. Termini Imerese 7 ottobre 1998); ma diversamente, secondo Trib. Agrigento 24 novembre 1994, pur essendo necessario provocare il contraddittorio anche nei confronti della controparte contumace, non è necessario seguire le disposizioni poste in tema di notifica al contumace dall'art. 292 c.p.c.; infine, Trib. Bari 15 aprile 2008 ha affermato che, senza necessità di scomodare l'art. 292 c.p.c., la necessità di notificare l'istanza cautelare proposta in corso di causa al contumace sarebbe desumibile proprio dalla lettera della norma in commento che testualmente impone l'obbligo di instaurare il contraddittorio tra le parti sull'istanza cautelare. La trattazione e l'attività istruttoria.Ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c., il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. Non vi è, quindi, alcuna preventiva fissazione da parte del legislatore di specifiche forme e termini quanto agli atti istruttori «indispensabili» rispetto al provvedimento richiesto dalla parte. Si è osservato che il modello dettato dalla riforma recepisce nella sostanza lo schema dei provvedimenti nunciativi (art. 689 c.p.c.), preferibile a quello del sequestro, che comprimeva le esigenze del contraddittorio fino a configurare come ipotesi normale, ex art. 672 c.p.c., la concessione della misura cautelare (sequestro conservativo ovvero sequestro giudiziario avente ad oggetto beni mobili) con decreto inaudita altera parte, indipendentemente dalla sussistenza di ragioni di urgenza o di opportunità. Finalità della disciplina sono, certamente, la garanzia del diritto di difesa della parte nei cui confronti il provvedimento è attuato, ma anche effettività ed immediatezza del rimedio cautelare, la cui attuazione potrebbe essere pregiudicata dalla notificazione alla controparte. La libertà di forme nella trattazione del giudizio, rimessa sostanzialmente, tranne il necessario rispetto del principio del contraddittorio, al potere discrezionale del giudice, caratterizza per il resto il procedimento cautelare, nella logica specifica della cognizione sommaria. In particolare, come già ricordato, la norma in commento stabilisce che sentite le parti – personalmente o a mezzo dei loro difensori – il giudice procede al compimento degli «atti di istruzione» che appaiano «indispensabili» in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. Si è sottolineato come l'espressione normativa colga l'essenza della cognizione e del procedimento sommario, sancendo l'assenza di predeterminazione legale di forme e termini rispetto alla allegazione dei fatti a fondamento di domande ed eccezioni, agli strumenti probatori e alle relative modalità di acquisizione, ai termini a difesa, con conseguente rimessione al potere discrezionale del giudice, con il solo limite della coerenza con le finalità della tutela cautelare in concreto domandata al giudice. In sostanza, nel procedimento cautelare uniforme sono consentiti senz'altro i mezzi di prova tipici del processo ordinario di cognizione ma, fermo restando che il giudice procede solo all'attività istruttoria indispensabile al giudizio di verosimiglianza richiesto dalla tutela cautelare, si ritiene consentita – come vedremo oltre – nel rispetto del contraddittorio, oltre all'assunzione di «sommarie informazioni» anche l'acquisizione di «prove atipiche» quali dichiarazioni di scienza delle parti o di terzi, informazioni da uffici o da pubblici ufficiali, ispezioni, al di fuori dell'osservanza delle modalità e limiti legali. Non sembra compatibile, tuttavia, in questo quadro, l'assunzione del giuramento, sia nella forma del giuramento decisorio che di quello suppletorio dato che, ai sensi dell'art. 2736, nn. 1) e 2), c.c., il deferimento di tale giuramento è consentito per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa ed esso, quindi, appare pertinente con le finalità proprie del giudizio «sommario». Per quanto riguarda le prove atipiche esse sono senz'altro ammissibili nelle diverse forme delle perizie stragiudiziali, dei precedenti giudiziari sia interni che esteri, delle dichiarazioni di terzi, ecc. Se, quindi, possono trovare ingresso, con i limiti già esposti nel procedimento cautelare uniforme sia i mezzi di prova tipici che quelli atipici, le modalità di assunzione di tali mezzi potranno essere modificate con riferimento alle esigenze di sommarietà del procedimento stesso, pur nella necessaria garanzia del rispetto del contraddittorio tra le parti. La cognizione, sommaria per quanto attiene alla fondatezza nel merito della tutela, sarà invece piena con riguardo al periculum. Lo specifico riferimento della norma all'indispensabilità degli atti di istruzione da compiere, ha fatto sì che in giurisprudenza si sia specificato che il giudice ha il potere-dovere di chiudere l'attività istruttoria non appena abbia acquisito al procedimento elementi sufficienti per decidere in relazione ai presupposti e alle finalità del provvedimento cautelare richiesto (così Trib. Reggio Calabria 21 gennaio 2008). A volte la giurisprudenza di merito ha ritenuto che fossero incompatibili con le caratteristiche proprie del procedimento cautelare uniforme anche i mezzi di prova o strumenti istruttori tipici; si è in quest'ottica affermato che non può essere accertata in via incidentale in un procedimento cautelare la falsità o l'autenticità di un atto pubblico o di una scrittura privata. Si è, pertanto, affermato che la proposizione della querela di falso incidentale e dell'istanza di verificazione non è ammissibile nel corso del procedimento cautelare (Trib. Genova 28 dicembre 1994). Non sono mancate però voci favorevoli all'ammissibilità della querela di falso incidentale e dell'istanza di verificazione nel corso di tale procedimento sommario: si è detto che pur in presenza di una scrittura disconosciuta, il giudice cautelare conserva il potere di valutare incidenter tantum la verosimiglianza della pretesa avanzata, potendo pertanto avvalersi nel modo più opportuno degli atti di istruzione indispensabili (Trib. Milano 24 aprile 2002). In una pronuncia, si è affermato che la proposizione della querela di falso incidentale non è ammissibile nel corso della fase sommaria del procedimento possessorio, ancorché diretta a contestare l'autenticità della procura ad litem annessa al ricorso introduttivo, stante la incompatibilità tra il procedimento sommario e il giudizio di falso a cognizione piena (salva la possibilità di ritenere che la sua stessa proposizione, in concorso con altri indici obiettivi, non dimostri la volontà univoca e concorde di entrambe le parti di pervenire ad una pronuncia definitiva di merito anche sulla controversia possessoria e, dunque, il passaggio, non necessariamente formalizzato, alla fase sommaria a quella di merito del procedimento: Trib. Messina 27 novembre 2002). In dottrina, ci si è posti il dubbio se la deformalizzazione dell'attività istruttoria comporti o meno la possibilità di assumere prove atipiche o se, viceversa, sia consentito l'uso di prove tipiche anche se deformalizzate e non, invece, di prove atipiche (Celeste, 207). Secondo parte della dottrina, nella necessaria premessa che il giudice deve procedere solo ad espletare l'attività istruttoria indispensabile rispetto all'adozione del provvedimento richiesto, insieme alle «sommarie informazioni» è possibile acquisire anche «prove atipiche» quali, ad es., dichiarazioni di scienza delle parti o dei terzi, verbali di polizia giudiziaria, prove raccolte in processi diversi, ad esempio in un processo penale, la perizia stragiudiziale, ecc. (Proto Pisani, 19; Consolo, Luiso, Sassani, 467; Tommaseo, 100; Montesano, Arieta, 131). Per altra parte della dottrina, è ammissibile l'acquisizione di prove tipiche ma anche deformalizzate, quali ad es. la consulenza tecnica acquisita senza la nomina formale del consulente e senza la formulazione dei quesiti o la testimonianza resa senza aver prima formulato i capitoli ovvero resa su fatti non specifici e così via (Vaccarella, Capponi, Cecchella, 364). Contra, nel senso dell'ammissibilità della sola prova tipica, v. Olivieri, 703. Ancora, in modo parzialmente diverso, si è detto che la prova atipica assunta nel procedimento ovvero la prova tipica assunta in modo deformalizzato devono essere nuovamente assunte, nel rispetto dei limiti normativi, nel successivo giudizio di merito (per questa opinione, v. Frus, 659); tuttavia, questa opinione va coordinata con il nuovo regime della strumentalità attenuata atteso che, per i provvedimenti cautelari anticipatori, potrebbe non esservi un successivo giudizio di merito. Nella giurisprudenza di merito, in relazione all'ammissibilità delle prove atipiche nel procedimento de quo, si è detto che nella fase cautelare sarebbe ammissibile l'acquisizione da parte del giudice di ogni prova atipica, quali le dichiarazioni scritte rese da un dipendente della ricorrente, che appaia coerente con i presupposti e con il tipo di provvedimento cautelare richiesto (così Trib. Bologna 4 ottobre 2005). Nel procedimento cautelare a tutela di un brevetto per invenzione possono assumere rilievo anche prove documentali atipiche, categoria che comprende tutti gli atti che, seppure non rientranti nelle figure tipizzate dal codice civile, possono costituire il fondamento della decisione del giudice. Tra esse vanno annoverate: le dichiarazioni di terzo a contenuto testimoniale, le perizie stragiudiziali, le risultanze probatorie di altri procedimenti e precedenti giudiziari, italiani e stranieri che hanno interessato lo stesso brevetto (Trib. Firenze 27 novembre 2006). L'efficacia probatoria delle e-mail sussiste nei limiti di rilevanza sommaria della prova ragionevolmente acquisibile in un procedimento di natura cautelare, ove possono di norma utilizzarsi varie categorie di prove, anche atipiche, e tra queste le dichiarazioni scritte provenienti da terzi. Essi, infatti, pur non avendo efficacia di piena prova, possono essere liberamente apprezzati, nel loro valore indiziario, dal giudice del merito, onde costituire fonte di convincimento e fondamento della decisione, ogni volta che la loro credibilità ed attendibilità risulti confortata dal difetto di contestazione ad opera della parte contro la quale sono stati prodotti, ovvero dal concorso con altri elementi di giudizio, anche in relazione a particolari circostanze che possano fornire loro specifico significato e rilevanza (App. Milano 16 maggio 2006). Nel procedimento cautelare e in quello possessorio, la deformalizzazione dell'istruttoria giustifica l'acquisizione di dichiarazioni scritte dei terzi a prescindere dai limiti stabiliti dall'art. 257-bisc.p.c. sulla testimonianza scritta, il cui àmbito di applicazione risulta circoscritto al giudizio di cognizione; in particolare, il giudice può disporre anche d'ufficio l'acquisizione delle sommarie informazioni scritte senza che sia necessario il preventivo accordo delle parti e senza dover utilizzare il modello previsto dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c., pur facendo salvo il requisito minimo dell'autenticazione della sottoscrizione del terzo, affinché ne sia provata la provenienza e la veridicità formale (Trib. Belluno 10 ottobre 2011). Con specifico riferimento alla consulenza tecnica nel procedimento cautelare, la giurisprudenza di merito ritiene che sia possibile effettuare tale strumento probatorio nel procedimento cautelare soltanto laddove sia indispensabile per effettuare il giudizio di verosimiglianza necessario per decidere sulla concessione o meno del richiesto provvedimento cautelare. Nella prassi, pertanto, si ritiene che l'ammissione della consulenza tecnica sia succedanea rispetto alla verifica della possibilità di utilizzare mezzi di prova differenti e più compatibili con la struttura e le peculiarità del procedimento cautelare. In proposito, si è detto che nel procedimento cautelare l'esperimento della consulenza tecnica è ammissibile solamente nei casi in cui è effettuabile in tempo utile una sommaria indagine tecnica per preservare il diritto del ricorrente senza snaturare fini e struttura della tutela cautelare. Pertanto, nel caso in cui il bilanciamento degli interessi (nella specie, tutela della salute delle persone abitanti vicino ad uno stabilimento industriale minacciato dai rumori dello stesso e diritto al lavoro dei dipendenti dello stabilimento) non risulti così agevole, deve negarsi la competenza istruttoria del giudice cautelare e rinviare l'accertamento nella sede propria, cioè dinanzi al giudice del merito (Trib. Verona 9 marzo 1998). Quanto alla possibilità per l'organo giudicante di effettuare in modo autonomo la ricerca delle fonti di prova, all'opinione affermativa (Montesano, 201), si contrappone la tesi secondo cui il giudice è pur sempre vincolato dalle allegazioni di parte (Arieta, 268; Vaccarella, Capponi, Cecchella, 363). L'autonomia del procedimento comporta, inoltre, che le prove, eventualmente raccolte nella sede cautelare, potranno essere utilizzate soltanto come argomenti di prova nel successivo giudizio di merito, da considerarsi come altro giudizio (Olivieri, 704). Va precisato che la proposizione di ricorso cautelare lite pendente non può giovare ad introdurre deduzioni o richieste in relazione alle quali la parte sia decaduta (Oberto, 32). Tra i poteri riservati al giudice dall'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c., infatti, non rientra quello di assumere, d'ufficio, sommarie informazioni, essendo quest'ultimo riconosciutogli solo quando si procede inaudita altera parte; dall'altro, si è precisato che il rinvio, operato dalla norma, ai mezzi di prova tipizzati per il processo ordinario non comporta che tutte le figure probatorie che lo caratterizzano siano automaticamente utilizzabili anche in fase cautelare (Lombardo, 506). In particolare, questa dottrina ha evidenziato l'impossibilità di utilizzare il giuramento decisorio e suppletorio dato che essi sono finalizzati alla decisione della causa che, evidentemente, è esito estraneo al processo cautelare. La stessa impostazione da ultimo riferita sull'impossibilità di utilizzare il giuramento decisorio e suppletorio sembra caratterizzare anche una pronuncia di merito (Trib. Genova 28 dicembre 1994); in tema, si veda anche una pronuncia che ha ritenuto inammissibile nel procedimento cautelare la proposizione di querela di falso incidentale e di istanza di verificazione di scrittura privata (Trib. Messina 27 novembre 2002); e, infine, l'opinione per cui, in presenza di una scrittura disconosciuta, il giudice cautelare conserva il potere di valutare incidenter tantum la verosimiglianza della pretesa avanzata (Trib. Milano 24 aprile 2002). Si è detto anche che l'espletamento della consulenza tecnica è ammissibile solo se esperibile in tempo utile per preservare il diritto del ricorrente senza snaturare fini e struttura della tutela cautelare (Trib. Verona 9 marzo 1998). Sempre in tema di attività istruttoria e con specifico riferimento alla testimonianza scritta la giurisprudenza di merito ha affermato che nel procedimento cautelare l'istruttoria deformalizzata consente di acquisire testimonianze scritte indipendentemente dai limiti posti dall'art 257-bis c.p.c. sulla testimonianza scritta; di conseguenza il giudice può acquisire sommarie informazioni scritte senza che vi sia necessità di un accordo preventivo tra le parti, come invece la norma citata prevede per il giudizio di cognizione; né è necessario utilizzare il modello di testimonianza scritta previsto dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c. mentre è necessario il rispetto del requisito minimo della sottoscrizione autentica del terzo (Trib. Belluno 10 ottobre 2011). Ci si è posti il dubbio sul valore da assegnare alle prove raccolte in sede cautelare nell'eventuale successivo giudizio di merito. Secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, le sommarie informazioni che vengano acquisite nel corso di un procedimento cautelare possono essere equiparate alle testimonianze, purché chi ha reso l'informazione abbia prestato l'impegno rituale e sia stato rispettato il principio del contraddittorio (in questo senso, v. Cass. II, n. 107/2016, con specifico riferimento ai procedimenti possessori che però sono comunque disciplinati dal procedimento cautelare uniforme). Tuttavia, contra, sempre nella giurisprudenza di legittimità, si è detto che queste deposizioni non avrebbero il valore di testimonianze perché nell'ambito della fase cautelare ante causam, a differenza di quanto accade nei procedimenti possessori e nelle azioni di nunciazione, le dichiarazioni rese dagli informatori non sono relative soltanto a situazioni di fatto ma anche all'esistenza del contratto che, nel giudizio a cognizione piena incontra i limiti dettati dagli artt. 2721 e ss. c.c. (Cass. II, n. 18865/2013). Le deposizioni acquisite, invece, per l'adozione del decreto emesso inaudita altera parte, ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili come sommarie informazioni e, nel giudizio possono essere utilizzate come indizi liberamente apprezzabili dal giudice (Cass. II, n. 107/2016; Cass. II, n. 7514/2014; Cass. II, n. 24705/2006). Nella giurisprudenza di merito si è specificato che in materia di azione possessoria le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio, ove siano state assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, sono da considerare come provenienti da veri e propri testimoni, mentre devono essere qualificati “informatori” le cui dichiarazioni sono comunque utilizzabili ai fini della decisione, anche quali indizi liberamente valutabili, coloro che abbiano reso sommarie informazioni ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., ai fini dell'eventuale adozione del decreto inaudita altera parte. (da ultimo su questo profilo App. Napoli, VI, 31 maggio 2022). Si è anche di recente precisato che le sommarie informazioni rese nel corso di un procedimento cautelare possono essere equiparate a tutti gli effetti alle testimonianze, qualora gli informatori abbiano prestato l'impegno di rito e siano stati sentiti nel contraddittorio delle parti, non essendovi ragione per differenziare la valenza probatoria delle dichiarazioni rese sulle stesse circostanze, con l'assunzione dell'impegno di rito e con la garanzia del contraddittorio, per il solo fatto che il procedimento sia stato trattato con il rito sommario anziché con il rito ordinario (Cass. VI, n. 22778/2013). In dottrina, invece, si è affermato che le prove eventualmente raccolte nella fase cautelare possono essere utilizzate solo come argomenti di prova nel giudizio di merito che abbia successivamente luogo perché esso va considerato come un giudizio diverso (Olivieri, 704); comunque, l'instaurazione di un procedimento cautelare nel corso della causa di merito non può servire alla parte per introdurre deduzioni o richieste rispetto alle quali essa sia già incorsa in preclusioni o decadenze (Oberto, 32). L'ammissibilità dell'intervento di terzo.Il procedimento cautelare uniforme introdotto con la novella del 1990 ha risolto molti dei punti critici che coinvolgevano la mancanza di una disciplina – per l'appunto – uniforme dei diversi modelli di provvedimento cautelare disciplinati dal codice di procedura, dal codice civile e dalle leggi speciali. Tuttavia, non è stata dettata alcuna previsione in ordine alla posizione dei terzi che potrebbero essere comunque incisi dal provvedimento cautelare. Per giustificare la mancanza di una disciplina specifica dell'intervento del terzo nel procedimento cautelare si è detto che comunque il provvedimento non può in alcun modo danneggiare il terzo visto che non contiene un accertamento suscettibile di passaggio in giudicato; altre voci hanno, però, affermato che il terzo eventualmente coinvolto nella misura cautelare dovrebbe poter sia intervenire nel procedimento in corso, sia poter proporre reclamo cautelare. Secondo autorevole dottrina, in mancanza di una disciplina specifica, la soluzione possibile sarebbe quella di consentire al terzo l'intervento nel giudizio di merito connesso alla misura cautelare (concessa ante o in corso di causa), laddove ovviamente abbia la legittimazione a farlo. In quella sede il terzo potrebbe ad esempio proporre istanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare. Fermo restando che, in base alle regole generali, va comunque comminata la sanzione della responsabilità aggravata per lite temeraria ove venga attuato a danno del terzo un provvedimento cautelare senza la normale prudenza. Soccorrono, altresì, le regole previste direttamente dal procedimento cautelare uniforme; soccorre, ad esempio, l'art. 669-undecies c.p.c. il quale prevede che il giudice può imporre al richiedente una cauzione a copertura dell'eventuale risarcimento del danno (Picardi, 722). Secondo altra parte della dottrina, laddove il terzo possa dimostrare di rischiare un pregiudizio effettivo dall'attuazione del provvedimento cautelare e non soltanto un interesse relativo all'accertamento del diritto, né una posizione autonoma pari a quella del ricorrente, dovrebbe essergli consentito l'intervento nel procedimento cautelare (Salvaneschi, in Tarzia, Cipriani, 323; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 629; Merlin, 405). Per altri ancora l'intervento nel procedimento cautelare uniforme potrebbe essere consentito comunque, anche nella forma coatta (Cecchella, 62). Si è giustamente evidenziato come l'intervento nel processo, secondo le regole poste dagli artt. 105 ss. c.p.c., così come il litisconsorzio, siano strettamente connessi con il tema dell'accertamento e del giudicato (v., amplius, Recchioni 2015, 404). Poiché nel processo cautelare non vi è alcuna funzione di accertamento da parte del giudice, né ad esso può predicarsi il giudicato, non è possibile ipotizzare che nel processo cautelare possa essere spiegato un intervento in senso tecnico ai sensi degli artt. 105 ss. c.p.c. (specifica Recchioni 2015, 405 che rispetto all'intervento principale non è possibile predicare la connessione per incompatibilità tra il diritto del terzo e quello delle parti originarie; rispetto alle altre due ipotesi di intervento volontario – nella specie adesivo autonomo o litisconsortile e adesivo dipendente o ad adiuvandum – non è possibile che si verifichi nell'ambito del procedimento cautelare un accertamento relativo al diritto idoneo a riverberare la sua efficacia sulla posizione del terzo). Con la conseguenza che l'intervento nel processo cautelare, ove ammesso, ha una funzione diversa rispetto a quella propria del giudizio ordinario di cognizione, sicché al terzo è consentito l'intervento nei limiti in cui ciò gli consente di evitare i danni che gli effetti del provvedimento cautelare potrebbero produrre nei suoi confronti (Recchioni 2015, 405). In sostanza, l'intervento del terzo deve essere strettamente collegato al vantaggio o al danno direttamente derivante dal contenuto o dagli effetti del provvedimento cautelare che sarà concesso o negato dal giudice adito, ma non può collegarsi al contenuto e agli effetti della futura decisione di merito (Consolo 1998, 168). Con riferimento a tale ultima interpretazione dottrinale, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che è inammissibile l'intervento nel procedimento cautelare di terzi che siano in ipotesi pregiudicati da atti posti in essere dal custode. Si è detto, infatti, che il custode di beni sottoposti a sequestro giudiziario, in quanto esponente e rappresentante, in particolare nei confronti dei terzi, di un patrimonio separato costituente centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi – risponde direttamente nei riguardi dei terzi stessi degli atti compiuti in siffatta veste, quand'anche in esecuzione di provvedimenti del giudice ex art. 676 c.p.c. (cui i predetti terzi, non essendone destinatari in via immediata, non possono opporsi nell'ambito nell'àmbito di quella procedura cautelare) e, pertanto, è legittimato a stare in giudizio attivamente e passivamente in relazione a tali rapporti e per la tutela degli interessi che vi si collegano, anche in ordine a pretese molestie possessorie poste in essere, senza che la conseguenzialità all'esecuzione dei menzionati provvedimenti valga ad escluderne l'animus turbandi in relazione alla volontarietà del fatto (o atto) ed alla concreta relativa efficienza a contraddire un'altrui situazione di possesso (Cass. II, n. 1877/1984). Peculiare rispetto all'ammissibilità dell'intervento, la posizione della giurisprudenza di merito. Si è detto, infatti, che l'attuale struttura del procedimento cautelare uniforme consente l'intervento volontario del terzo, qualora questi abbia avuto tempestiva conoscenza della pendenza del giudizio cautelare; ove non si ammettesse tale possibilità, infatti, l'esercizio del diritto di difesa del terzo, da attuare ai sensi degli artt. 404 e/o 619 c.p.c., risulterebbe procrastinato inutilmente nel tempo. Pertanto, se il decreto con cui si autorizza il sequestro conservativo indica, per l'esecuzione dello stesso, beni specifici e questi beni risultino appartenenti ad un terzo, a seguito dell'intervento di costui all'udienza, il giudice deve revocare quella indicazione dei beni nell'ordinanza di conferma del sequestro stesso (Trib. Verona 28 marzo 1995). Sempre nel senso dell'ammissibilità dell'intervento volontario, v. anche Trib. Roma 23 marzo 1995, nonché Trib. Ravenna 9 giugno 1997 secondo cui l'intervento o la chiamata del terzo nel giudizio cautelare sono pienamente ammissibili e vanno attuati secondo le regole che governano tali istituti nel giudizio ordinario di cognizione, ogni volta che al terzo possa derivarne utilità o pregiudizio. Si è precisato che l'interveniente adesivo dipendente in un procedimento cautelare non è legittimato a proporre reclamo contro l'ordinanza di concessione della misura cautelare (Trib. Camerino 30 agosto 1993). Infine, si è ritenuto il terzo abilitato all'intervento nella fase di prima istanza ante causam del procedimento cautelare uniforme in relazione all'art. 700 c.p.c. quando si tratti di salvaguardare il proprio diritto dominicale implicato nel ricorso proposto inter alios per misure urgenti relative alla cosa comune (nel caso in questione l'intervento del terzo è stato ammesso nella vertenza relativa alla rimozione di barriere architettoniche in un edificio condominiale in cui il terzo era condomino, v. Trib. Torre Annunziata 5 maggio 2000). Va inoltre ricordata una pronuncia di merito che ha dichiarato l'inammissibilità dell'intervento adesivo del terzo ai sensi dell'art. 105, comma 2, c.p.c. perché questo terzo è titolare di un interesse di mero fatto, mentre sarebbe possibile l'integrazione del contraddittorio ordinata ai sensi dell'art. 102, comma 2, c.p.c., che però andrebbe valutata sulla base degli effetti che produrrà il richiesto provvedimento cautelare e non rispetto alla situazione sostanziale che poi sarà fatta valere nel successivo giudizio di merito (Trib. Roma 12 marzo 2002). Per quanto riguarda i rimedi a disposizione del terzo, la Cassazione ha precisato che il terzo che sia assoggettato a sequestro giudiziario trova tutela nei limiti e nelle forme previste per l'attuazione dei provvedimenti cautelari, restando inammissibile l'opposizione di terzo all'esecuzione (Cass. I, n. 9925/2001). In senso diverso, nella giurisprudenza di merito, Trib. Trento 4 ottobre 2001 ha affermato che il terzo titolare del diritto di proprietà sulle azioni di società oggetto di sequestro giudiziario reso inter alios, deve far valere le sue ragioni nel giudizio di merito e non è legittimato ad attivare la procedura di attuazione della misura cautelare. Resta da dire relativamente alla possibilità di ammettere gli interventi coatti, ossia exartt. 106 e 107 c.p.c. (su istanza di parte e per ordine del giudice). Esclusa la possibilità di configurare l'intervento coatto su istanza di parte per garanzia, si potrebbe in thesi ammettere soltanto quello che la norma dell'art. 106 c.p.c. consente per la «comunanza della lite». Questa ammissibilità dell'intervento coatto su istanza di parte per l'ipotesi della comunanza della lite è stato dalla dottrina ipotizzato solo ove gli effetti materiali del provvedimento cautelare che sarà pronunciato dal giudice possano prodursi in capo al terzo (Recchioni 2015, 409). Per evitare le lungaggini derivanti dal procedimento di chiamata e, quindi, dovendosi escludere l'applicabilità della disciplina dell'art. 269 c.p.c., è comunque necessario che allo stesso sia notificato il ricorso della parte, ovvero dell'atto difensivo del resistente laddove da questo atto sorga la necessità della chiamata (Recchioni 2015, 409). Rispetto all'intervento coatto su istanza di parte la giurisprudenza di merito ha utilizzato proprio le forme previste dall'art. 269 c.p.c. (Trib. Torino 3 gennaio 1994); la stessa pronuncia ha affermato che il litisconsorte inciso da provvedimento cautelare, che è rimasto estraneo al contraddittorio in prime cure per mancata notifica del ricorso introduttivo e della relativa ordinanza, è legittimato a proporre reclamo in qualsiasi momento per ottenere la revoca dell'ordinanza stessa nei suoi confronti (Trib. Torino 3 gennaio 1994). Ancora si è precisato che la chiamata di un terzo nel procedimento cautelare da parte del resistente è di per sé ammissibile, ma va autorizzata dal giudice; tale autorizzazione non va concessa se nei confronti del terzo non si propongono domande, ovvero si prospettano domande che vanno formulate nel giudizio di merito (Trib. Napoli 17 dicembre 2001); e che nei procedimenti cautelari, stante la speditezza che deve assistere la fase di tutela anticipata, non è ammissibile la chiamata in causa del terzo che non sia in funzione di tutela del diritto di difesa di quest'ultimo (Trib. Salerno 14 maggio 1997). Il litisconsorzio necessario nel procedimento cautelare.Anche rispetto all'applicazione della disciplina del litisconsorzio necessario nel processo cautelare è necessario fare una riflessione. Applicando i principi già esposti in materia di intervento volontario può senz'altro ritenersi che una applicazione del litisconsorzio necessario nei termini e con i presupposti propri dell'art. 102 c.p.c. non abbia riscontro nel processo cautelare. Non può porsi, infatti, un problema di provvedimento cautelare che debba necessariamente pronunciarsi da o nei confronti di più parti per l'inscindibilità della posizione giuridica soggettiva vantata. Una soluzione di tal fatta ha ragion d'essere qualora il provvedimento cautelare sia chiesto prima dell'inizio della causa di merito poiché, laddove venga richiesto a causa di merito già pendente, il litisconsorzio necessario sarà già stato correttamente attuato (o non attuato con le conseguenze dell'art. 102 c.p.c.). La dottrina ha condivisibilmente segnalato che potrebbe porsi un problema di applicazione dell'art. 102 c.p.c. soltanto in termini di «utilità» del litisconsorzio in sede cautelare con specifico riferimento agli «effetti attuativi e materiali del provvedimento» (così Recchioni 2015, 407, con riferimenti giurisprudenziali). Ne deriva che, anche laddove, con riferimento al diritto sostanziale tutelando, il giudizio ordinario debba svolgersi alla presenza di tutti i litisconsorti necessari, il provvedimento cautelare può senz'altro essere reso anche soltanto a vantaggio o contro alcuni dei litisconsorti stessi se il provvedimento stesso può poi essere eseguito a favore o contro alcuni di essi (sempre Recchioni 2015, 407). Questo non comporta che poi il successivo giudizio di merito si possa ritenere anch'esso svincolato rispetto alla necessità del litisconsorzio, valendo, invece, per esso, senz'altro la regola generale posta dall'art. 102 c.p.c. (in questi termini, v. ancora Recchioni 2015, 407). In alcune pronunce di merito, si è affermata l'applicabilità del litisconsorzio necessario; ad esempio, si è detto che nel giudizio cautelare instaurato dal debitore principale per l'inibitoria di una garanzia «a prima richiesta» per exceptio doli il creditore è litisconsorte necessario in quanto autore del comportamento doloso lamentato (Trib. Roma 26 gennaio 1996). In linea con quanto esposto prima, una giurisprudenza di merito ha affermato che la necessità di integrare il contraddittorio nel procedimento cautelare va valutata esclusivamente in ragione degli effetti dell'emanando provvedimento (Trib. Roma, 12 marzo 2001). Contra, invece, si è precisato che non essendo l'istituto del litisconsorzio necessario applicabile nei procedimenti cautelari, il giudice cui venga richiesto il sequestro non può ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti di terzi (Trib. Trani 25 luglio 1995). Sempre in senso negativo, si è detto che al processo cautelare, caratterizzato dall'assenza di giudicato, non è applicabile automaticamente l'art. 102 c.p.c., ma l'accertamento circa l'integrità del contraddittorio deve effettuarsi in relazione agli effetti attuativi del provvedimento cautelare. Nella fase di reclamo cautelare non è applicabile il combinato disposto degli artt. 331 e 332 c.p.c. sull'integrazione del contraddittorio in sede di impugnazione di cause inscindibili o fra loro dipendenti, in ragione della non analogia tra la impugnazione nel processo di cognizione ordinaria, preordinato ad ottenere una decisione con efficacia di giudicato, ed il procedimento di reclamo quale mezzo di riesame del provvedimento cautelare, inidoneo alla formazione del giudicato (Trib. Roma 16 giugno 2009). Osservazioni a parte merita l'altra ipotesi di litisconsorzio disciplinata dal codice di rito, ossia quello facoltativo. Si tratta – come ben noto – dell'ipotesi della pluralità di parti nel processo che però non è, appunto, necessaria, ossia non è imposta da esigenze giuridiche o logiche. Tale forma di litisconsorzio è data in due diverse ipotesi, nel caso della connessione per l'oggetto o per il titolo fra le cause proposte (parliamo in questo caso di litisconsorzio facoltativo proprio), ovvero nell'ipotesi in cui la decisione dipenda, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (in questo caso lo definiamo litisconsorzio facoltativo improprio). Proprio perché alla base del litisconsorzio facoltativo non vi sono esigenze di tipo giuridico o logico le cause, pur se trattate insieme, restano autonome fra di loro sicché, dispone l'art. 103, comma 2, c.p.c., il giudice può disporre, nel corso dell'istruzione o della trattazione, la separazione delle cause cumulate, sia laddove le parti concordino, sia nel caso in cui il giudice stesso ritenga che la continuazione della loro riunione potrebbe avere l'effetto pregiudizievole di ritardare o rendere più gravoso il processo. La dottrina ha chiarito che non sussistono evidenti ragioni di incompatibilità tra la disciplina del litisconsorzio facoltativo e quella del procedimento cautelare uniforme, sia nelle ipotesi previste direttamente dall'art. 103 c.p.c. sia nel caso in cui il litisconsorte pretermesso intervenga spontaneamente in giudizio, sia nel caso in cui vengano riuniti successivamente dei procedimenti cautelari che siano connessi o in modo soggettivo o oggettivo (v., amplius, Recchioni 2015, 409). La successione nel processo e la successione a titolo particolare nel diritto controversoNel corso del processo, si possono evidenziare, a carico delle parti, dei mutamenti soggettivi. Tra i fenomeni di questo genere assumono particolare rilievo gli artt. 110 e 111 c.p.c. dedicati alla successione nel processo, il primo e alla successione a titolo particolare, il secondo. Qualora una delle parti nel corso del processo venga meno per morte o per altra causa, l'art. 110 c.p.c. stabilisce che il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. Il venire meno della parte può essere determinato dalla morte, anche presunta, laddove si tratti di persona fisica, o da altra causa laddove si tratti di persona giuridica privata o pubblica. Il successore potrebbe subentrare anche nel rapporto sostanziale oggetto del processo, ma ciò non avviene necessariamente: ad es. questa ipotesi non può verificarsi laddove si tratti di diritti intrasmissibili. Si può pensare all'ipotesi di un processo per divorzio intercorrente tra due coniugi; qualora uno dei due muoia nel corso del processo si avrà non già successione processuale bensì cessazione della materia del contendere. La successioneexart. 110 c.p.c. è, quindi, un fenomeno distinto dalla successione a titolo universale nel rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio; è un fenomeno essenzialmente processuale. La prosecuzione del processo si avrà tramite interruzione e successiva riassunzione dello stesso. L'art. 111 c.p.c., invece, disciplina i mutamenti che si verificano durante il processo a seguito di successione a titolo particolare. Questi mutamenti possono avvenire per causa di morte o per atto tra vivi. Le ipotesi di successione per causa di morte si risolvono, sostanzialmente, nel legato di specie; la successione per atto tra vivi si verifica ogni volta che il bene oggetto del processo venga trasferito attraverso qualunque negozio traslativo ed anche a seguito di vendita forzata. Questa disciplina trova la sua ragion d'essere nell'esigenza di tutelare le parti originarie del processo che non siano state coinvolte nel fenomeno traslativo. Si realizza in tal modo una sostituzione processuale: infatti nella successione a causa di morte l'erede assume la veste di sostituto processuale del legatario che è l'effettivo titolare del rapporto sostanziale controverso; nella successione per atto tra vivi il venditore cambia la sua posizione processuale e diventa il sostituto processuale dell'acquirente. Il successore a titolo particolare può, comunque, sempre intervenire di propria iniziativa nel processo, oppure può esservi chiamato da una delle parti originarie. Anzi, una volta intervenuto il successore a titolo particolare, con il consenso delle altre parti, l'alienante o il successore a titolo universale possono essere estromessi. In tal modo cessa la sostituzione processuale e si stabilisce una forma di legittimazione ordinaria: il processo, cioè, prosegue tra i titolari del rapporto giuridico sostanziale. Poiché entrambe le ipotesi, ossia la successione nel processo e la successione a titolo particolare nel diritto controverso, possono verificarsi anche nel corso del procedimento cautelare, è necessario chiedersi se le due norme possano trovare applicazione anche in questo ambito. La risposta deve essere senz'altro affermativa poiché non si può dimenticare che il presupposto sono vicende che operano sul piano del diritto sostanziale e che riverberano i loro effetti nell'ambito del processo. Ragionando diversamente si correrebbe il rischio di arrecare un pregiudizio alla parte che chiede o alla parte nei cui confronti il provvedimento cautelare è emesso. Che le due ipotesi siano applicabili anche nel processo cautelare è stato affermato in dottrina (Recchioni 2015, 413). In particolare, si è detto che vi è dato testuale, una norma del procedimento cautelare uniforme che conferma l'applicazione dell'art. 110 c.p.c. e delle conseguenze processuali che la norma richiama. Infatti, a norma dell'art. 669-quater, comma 2, c.p.c. la domanda cautelare è proponibile anche nel processo interrotto. La dottrina ha chiarito che la norma non concerne unicamente la competenza perché, «nel riconoscere la proponibilità di una domanda a processo interrotto – a causa, quindi, della incidenza sul processo di un evento successorio ex art. 110 c.p.c. – implica necessariamente il coordinamento del processo cautelare incidentale con la successiva prosecuzione o riassunzione anche della causa di merito...» (così Recchioni 2015, 413 cui si rinvia per approfondimenti). Tuttavia, tale regola, posta per la domanda cautelare in corso di causa, non può che applicarsi anche nel procedimento ante causam; se, ad esempio, intervenisse la successione universale dal lato del resistente, non ritenere applicabile la disciplina dell'art. 110 c.p.c. e, quindi, l'efficacia del provvedimento cautelare anche nei confronti del successore a titolo universale del resistente, comporterebbe una facile elusione del sistema, ossia basterebbe evitare di rendere nota l'intervenuta successione universale per privare di efficacia il provvedimento cautelare (in questi termini, v. Recchioni 2015, 413). È opportuno spendere qualche riflessione sulla disciplina dell'art. 669-quater, comma 2, c.p.c. Questa disposizione, che rappresenta senz'altro una novità, stabilisce che, laddove la causa di merito penda innanzi al tribunale, la domanda deve essere rivolta al giudice istruttore; laddove questi non sia stato ancora designato, o se il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente, che provvede ai sensi dell'art. 669-ter, ultimo comma, c.p.c. (ossia lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale che designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento). In particolare, nell'ipotesi in cui il processo sia sospeso o interrotto, o comunque quiescente, compresa l'ipotesi della cancellazione della causa dal ruolo, la designazione del giudice per il provvedimento cautelare dovrà concernere colui che era giudice istruttore della causa di merito. Per quanto riguarda l'applicazione dell'art. 111 c.p.c., non par dubbio che un eventuale provvedimento cautelare concesso nei confronti del dante causa, questo sia efficace anche nei confronti dell'avente causa. Bisogna valutare se sia necessario per la produzione dell'efficacia che l'avente causa, successore a titolo particolare, debba essere chiamato o meno nel processo. Parte della dottrina ritiene che debba essere chiamato nel processo l'acquirente perché il provvedimento cautelare ottenuto nei confronti dell'alienante possa esplicare effetti nei suoi confronti (Tommaseo 1975, 2076); questa soluzione viene argomentata sulla base del presupposto che qualora sia richiesto un provvedimento cautelare nei confronti dell'alienante in corso della causa di merito pendente tra le parti originarie, è necessaria la chiamata dell'acquirente perché si producano effetti diretti in capo ad esso mentre, a parere di altra dottrina la diversa soluzione che predica l'efficacia immediata e piena del provvedimento cautelare nei confronti del successore, senza la necessità della sua chiamata in giudizio, trova la sua giustificazione direttamente nella regola posta dall'art. 111 c.p.c. della «soggezione del successore agli effetti dell'emananda sentenza di merito» (Recchioni 2015, 415). L'opinione dottrinale sopra riportata, secondo cui è necessaria la chiamata nel processo dell'acquirente affinché il provvedimento cautelare ottenuto nei confronti dell'alienante possa spiegare effetti nei suoi confronti, è stata espressa in una nota di commento ad una sentenza della Corte di Cassazione. In questa pronuncia, del 1973, si è affermato che non è ammissibile un sequestro giudiziario di crediti verso terzi; il principio della continuazione del processo tra le parti originarie in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, non consente che un provvedimento cautelare richiesto in corso di causa possa essere concesso nei confronti del dante causa. Secondo tale pronuncia, infatti, data l'autonomia del procedimento cautelare rispetto a quello di merito, pur se con esso connesso, la domanda cautelare deve essere rivolta nei confronti dell'avente causa (Cass. I, n. 1536/1973). In senso diverso, nella giurisprudenza di merito, si è detto che deve essere rigettata l'istanza di sequestro giudiziario relativa a un bene alienato nel corso del giudizio, allorché non sussistano le condizioni per l'operatività della disciplina relativa alla successione nel diritto controverso, ossia le condizioni perché l'emananda sentenza spieghi i suoi effetti contro il successore a titolo particolare nel diritto controverso ai sensi dell'art. 111 c.p.c. (Trib. Roma 26 aprile 1999). Le vicende anomale del giudizio nel processo cautelare.Bisogna adesso affrontare la questione della possibile applicabilità nel procedimento cautelare delle regole che il codice di procedura civile detta per le c.d. vicende anomale del processo, ossia l'estinzione, la sospensione e l'interruzione. Partendo dall'estinzione, è noto che la stessa nel processo ordinario di cognizione trova applicazione in due ipotesi, la rinuncia agli atti e l'inattività delle parti. Non sussistono particolari problemi nel ritenere che la disciplina in questione possa trovare applicazione anche nel procedimento cautelare. La dottrina ha affermato, con riferimento alla rinuncia agli atti del giudizio, che essa può senz'altro trovare ingresso e applicazione nel processo cautelare, e, quindi l'ordinanza che dichiara l'estinzione del giudizio, non può assimilarsi, quanto agli effetti, al rigetto della domanda, con conseguente applicazione della disciplina dettata dall'art. 669-septies c.p.c., sicché essa resta illimitatamente riproponibile (Recchioni 2015, 416). Stesso discorso può farsi per l'inattività dato che il mancato rispetto, ad esempio, dei termini perentori per la notifica del ricorso e del decreto al resistente che abbiamo già esaminato, deve senz'altro portare alla chiusura in rito del procedimento cautelare (Recchioni 2015, 417). Diversamente, invece, si è detto che non potrebbe applicarsi l'art. 306 c.p.c. al processo cautelare perché la norma è rigida nell'indicare i presupposti per la dichiarazione di estinzione, ossia la dichiarazione espressa e le garanzie che la norma pone (Marelli, 789). Con riferimento, invece, all'ipotesi dell'inattività delle parti, i.e. al mancato rispetto del termine perentorio per la notifica del ricorso e del decreto, si è detto, ma con riferimento alla disciplina previgente al rito cautelare uniforme, che il giudice all'udienza di comparizione delle parti dovrebbe fissare una nuova udienza, assegnando un nuovo termine al ricorrente, sempre perentorio, per la notifica del ricorso dell'ordinanza ad esso correlata. Solo successivamente, nel caso di mancato rispetto anche di questo nuovo termine si potrebbe dichiarare l'estinzione del giudizio cautelare, pur se si tratta – specifica questo autore – di una sanzione sostanzialmente spuntata visto che la domanda cautelare è sempre, comunque, riproponibile (Calvosa, 427). Con riferimento alle altre ipotesi di estinzione del processo per inattività delle parti, esse meritano un cenno a parte. Con riferimento all'ipotesi della mancata comparizione del richiedente o addirittura di entrambe le parti all'udienza sono state espresse diverse opinioni. Bisogna, in primo luogo, porsi il dubbio sull'applicabilità degli artt. 309, norma che dispone che se nel corso del processo nessuna delle parti si presenta all'udienza, il giudice provvede a norma dell'art. 181 c.p.c., e dell'art. 181 c.p.c. da essa richiamato. Tale ultima norma prevede, al comma 1, che se nessuna delle parti compare alla prima udienza il giudice fissa una udienza successiva di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite; se nessuna compare nemmeno alla ulteriore udienza il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo; al comma 2, che se l'attore costituito non compare alla prima udienza e il convenuto non chiede che si proceda in sua assenza, il giudice fissa una nuova udienza di cui il cancelliere dà comunicazione all'attore. Se questi non compare alla nuova udienza, il giudice, se il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo. Tale disciplina è incompatibile con quella del procedimento cautelare uniforme e con la ratio che lo sostiene, dovendosi piuttosto ritenere che la mancata comparizione delle parti all'udienza non consenta la sopravvivenza della misura cautelare né consenta in alcun caso una pronuncia del giudice sia di segno positivo che di segno negativo. Secondo parte della dottrina, poiché è certamente incompatibile con la celerità del processo cautelare l'ipotetica applicazione della disciplina dell'art. 309 c.p.c. e dell'art. 181 c.p.c. da essa richiamato e poiché il processo cautelare, come del resto il processo ordinario di cognizione, si reggono sull'impulso di parte, se il resistente non chiede di procedere ugualmente, anche in assenza del ricorrente, il giudice avrà l'alternativa tra chiudere in rito il processo cautelare ovvero pronunciare nel merito accogliendo o rigettando l'istanza (Recchioni 2015, 418; Calvosa, 428). Secondo altra dottrina, invece, il giudice dovrebbe revocare officiosamente la misura cautelare concessa perché non può permanere l'efficacia di un provvedimento cautelare senza che venga compiuta la maggiore istruttoria prevista dall'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 328). Nel senso indicato dalla dottrina da ultimo citata, vi è una pronuncia di merito secondo cui la mancata comparizione delle parti all'udienza fissata a seguito dell'emissione ante causam ed inaudita altera parte di decreto concessivo di misura cautelare, comporta la revoca del decreto stesso (Trib. Napoli 11 febbraio 1993). Se nessun problema teorico crea l'ipotesi in cui il ricorrente non abbia nemmeno provveduto a notificare il ricorso nel termine perentorio previsto dalla legge e le parti siano assenti all'udienza, maggiori problemi crea l'ipotesi in cui la notificazione sia avvenuta nel termine e le parti non siano entrambe presenti all'udienza. In questa ultima ipotesi, la dottrina ritiene che la soluzione non possa essere quella della revoca officiosa del provvedimento concesso; pertanto, laddove non siano necessari ulteriori approfondimenti istruttori il giudice potrebbe senz'altro confermare la misura già concessa; laddove invece siano necessarie ulteriori attività istruttorie pena la caducazione del provvedimento, allora a questa soluzione sarà necessario pervenire (Recchioni 2015, 419). Per quanto concerne la sospensione del processo cautelare, bisogna brevemente ricordare i presupposti della sospensione necessaria per spiegarne l'estraneità al processo in questione. In particolare, bisogna parlare dei casi di sospensione in cui si pone un problema di decidere, nello stesso processo o in altra sede, una questione pregiudiziale da cui dipende la decisione della causa. Si distingue – com'è noto – la sospensione propria che presuppone la concomitanza di due cause distinte, ciascuna con un proprio corso, una pregiudicante e una pregiudicata. Quanto al rapporto pregiudiziale si ritiene pacificamente in giurisprudenza che la sospensione necessaria del processo debba essere disposta con rigore, ovvero solo quando la decisione dello stesso dipenda dall'esito di altra causa, e, cioè, quando la pronuncia da prendere in questa altra causa abbia portata pregiudiziale in senso stretto e, cioè, sia idonea a spiegare effetti vincolanti, con l'autorità propria del giudicato sostanziale, in quanto suscettibile di definire in tutto o in parte il tema del dibattito del giudizio da sospendere. Abbiamo, invece, una sospensione impropria quando la controversia sia unica ma subisca una sorta di dirottamento al fine di risolvere, nella sede appropriata, una questione compresa nella materia del contendere, questione che è una parentesi dell'unico processo il cui svolgimento non può proseguire se non dopo la soluzione di quanto compreso nella parentesi. Nei casi di sospensione propria, ex art. 295 c.p.c., la duplicità delle controversie e delle decisioni relative non osta al simultaneus processus, nel senso che pendono e possono essere definite dallo stesso giudice: tuttavia, anche nel processo presso la stessa sede dovrà definirsi prima l'una e poi l'altra. La sospensione propria implica un provvedimento di sospensione che, se positivo, è impugnabile in cassazione con regolamento necessario di competenza e, cessata la ragione di sospensione, implica un onere di riassunzione ad opera della parte più diligente. Già da questi brevi cenni risulta evidente come ipotesi di sospensione propria non possano verificarsi nel processo cautelare perché ontologicamente estraneo all'accertamento con efficacia di giudicato. Infatti, la dottrina che si è occupata di questo tema ha sottolineato come pur non potendosi escludere un rapporto di pregiudizialità logica tra l'oggetto di un processo civile o amministrativo non è possibile che essa interessi il procedimento cautelare perché la dipendenza tra le cause di cui all'art. 295 c.p.c. deve essere intesa come dipendenza in senso tecnico e, quindi come relazione di pregiudizialità-dipendenza tra giudizi dichiarativi, requisito che è ovviamente estraneo al processo cautelare (Recchioni 2015, 421). In giurisprudenza di merito, si riscontrano alcune applicazioni dell'art. 295 c.p.c. Ad esempio, si è applicata la norma dell'art. 295 c.p.c. sospendendo il giudizio cautelare a causa della pendenza di un processo pregiudiziale (Trib. Minori Roma 1° dicembre 2000). Si è detto che, poiché ai sensi dell'art. 295 c.p.c.il rapporto di interdipendenza logico-giuridica tra i giudizi deve essere sincronico e non diacronico, nel senso che deve trattarsi di giudizi coevi suscettibili di procedere autonomamente e non di giudizi dei quali quello pregiudicato sia subordinato all'esito dell'altro quanto alla stessa proponibilità, il giudizio di divisione dei beni in comunione tra coniugi non può essere promosso e quindi neppure sospeso in pendenza del giudizio di separazione tra i coniugi stessi (Trib. Reggio Emilia 20 novembre 1998). Anzi, la stessa pronuncia aggiunge che finché non è proponibile il giudizio di merito concernente la divisione dei beni già in comunione legale tra i coniugi, è anche improponibile l'istanza cautelare relativa, stante il nesso di rigida strumentalità tra la tutela cautelare e il successivo giudizio di merito, e va pertanto revocato il sequestro conservativo sui beni di un coniuge concesso dal giudice designato, in pendenza del giudizio di separazione personale, per la tutela delle ragioni dell'altro coniuge in vista della divisione dei beni comuni (Trib. Reggio Emilia 20 novembre 1998, cit.). Un particolare tipo di sospensione del giudizio cautelare si verifica nel caso di rinvio pregiudizialealla Corte di Cassazionedi cui all'art. 363-bis c.p.c. - introdotto dal d.lgs. n. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia) - in ordine al quale le Sezioni Unite hanno chiarito che, in presenza di tutte le condizioni previste dalla disposizione, può riguardare anche questioni di diritto che sorgono nei procedimenti cautelari ante causam o in corso di causa (Cass. S.U., n. 11399/2024). Affinando il concetto, si è affermato che, in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione ex art. 363-bis c.p.c., il requisito della rilevanza può sussistere anche ove la questione interpretativa sorga nell'àmbito di procedimenti il cui provvedimento conclusivo abbia carattere interinale e cautelare e, pertanto, non sia impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, con conseguente ammissibilità del rinvio, attesa la sua funzione nomofilattico-deflattiva e la sua proponibilità da parte di qualsiasi giudice innanzi al quale sia pendente un procedimento regolato dal codice di procedura civile e dalle leggi collegate, sia esso contenzioso, non contenzioso, camerale, esecutivo o cautelare (Cass. I. n. 11168/2024). Resta da esaminare la possibile applicabilità della disciplina degli eventi interruttivi anche al processo cautelare. È noto che la disciplina codicistica degli eventi interruttivi è ispirata a garantire l'effettività del contraddittorio. Quando si verificano eventi relativi alla parte personalmente (art. 299 c.p.c.) o al suo difensore (art. 301 c.p.c.), la non effettività del contraddittorio comporta una sorta di blocco del processo che resta in uno stato di quiescenza analogo alla sospensione e si può riavviare solo a seguito di un atto di prosecuzione, ad iniziativa della parte cui si riferisce l'evento interruttivo o di riassunzione, ad opera della controparte. Il processo può interrompersi se sopravviene la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti; ma anche la morte o la perdita di capacità del legale rappresentante della parte. In caso di morte o perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, in un processo già pendente, occorre distinguere se tali eventi siano avvenuti prima o dopo la sua costituzione. Nella prima ipotesi, si ha l'immediata interruzione del processo; nel secondo caso, il processo rimane interrotto al momento dell'evento allorché la parte si sia costituita personalmente, altrimenti l'effetto è subordinato al fatto che il procuratore dichiari o notifichi alle altre parti ciò che è accaduto al proprio rappresentato. La morte della parte avvenuta dopo la litispendenza ma prima della sua costituzione in giudizio produce dunque l'interruzione automatica del processo indipendentemente dalla conoscenza che dell'evento abbiano le parti o il giudice e senza che sia necessaria, quale elemento integrativo della fattispecie interruttiva, una dichiarazione dell'evento. Laddove uno di questi eventi si verifichi nei confronti della parte che si è costituita tramite procuratore questi deve dichiararlo in udienza o notificarlo alle altre parti. Dal momento di questa dichiarazione o notificazione il processo è interrotto, salvo che si verifichi la costituzione volontaria o la riassunzione. Se la parte è costituita personalmente il processo è interrotto dal momento dell'evento. Nel processo cautelare, gli eventi interruttivi possono verificarsi, ovviamente, sia se il provvedimento venga richiesto in corso di causa ma anche se la domanda cautelare venga depositata prima della causa di merito, sia in capo alla parte richiedente, sia in capo al resistente, sia rispetto al difensore. Il quesito fondamentale è quindi comprendere che cosa accada dopo l'evento interruttivo nel processo cautelare, differenziando sia le posizioni del ricorrente e del resistente, sia le modalità e i tempi della domanda cautelare, cioè sia l'ipotesi in cui sia proposta in corso di causa sia l'ipotesi in cui venga depositata ante causam. La prima ipotesi da considerare è quella della morte del ricorrente dopo la concessione del provvedimento cautelare, sia laddove esso sia stato emanato nel contraddittorio delle parti sia laddove il procedimento si sia svolto inaudita altera parte. La dottrina che si è occupata dell'argomento ha evidenziato come anche per il processo cautelare valga la regola già richiamata posta dall'art. 300 c.p.c. secondo cui il processo può essere interrotto solo laddove il difensore dichiari l'evento. Pertanto, se il difensore non lo dichiara il processo cautelare può tranquillamente proseguire verso l'emanazione o il rigetto della domanda; se il provvedimento sarà di accoglimento alla relativa attuazione potrà provvedere il difensore essendo tale potere certamente ricompreso nel mandato rilasciato dal ricorrente (in termini, v. Recchioni 2015, 424). Si sottolinea, altresì, che in tal caso non è necessaria una nuova procura da parte degli eredi del ricorrente o da parte del nuovo rappresentante dell'incapace (Calvosa, 435). Il discorso si fa più complesso rispetto alla possibile introduzione del giudizio di merito da parte del difensore, nonostante la tendenza, già vista, della giurisprudenza di ritenere che la procura alle liti rilasciata per il processo cautelare possa valere anche rispetto alla successiva causa di merito. Dato che i due giudizi sono autonomi tra di loro e il mandato al difensore non può ritenersi ultrattivo rispetto all'impugnazione della sentenza dopo che si sia verificata la morte della parte, allora la causa di merito cui il provvedimento cautelare è strumentale dovrà essere introdotta dall'erede o dal nuovo rappresentante dell'incapace (Recchioni 2015, 425). La seconda ipotesi da esaminare è quella relativa all'evento interruttivo che si verifichi prima dell'emanazione del provvedimento cautelare e che sia dichiarato dal difensore. In tale ipotesi non v'è dubbio che il processo cautelare debba interrompersi alla stregua della regola generale. Secondo la dottrina, data l'applicabilità delle regole sugli eventi interruttivi poste dagli artt. 299 ss. c.p.c., anche al processo cautelare non v'è dubbio che il giudice adito per la cautela debba interrompere il processo non potendosi ritenere succedanei provvedimenti diversi come, ad esempio, il rinvio dell'udienza (Recchioni 2015, 426). L'evento interruttivo può anche riguardare il resistente. Se nessun problema può porsi laddove l'evento si verifichi prima che siano stati notificati al resistente il ricorso e il decreto, perché in questa ipotesi la domanda cautelare non può produrre effetto nei confronti della parte che sia deceduta o dell'incapace privo di rappresentante, il discorso è più complesso qualora l'evento interruttivo colpisca il resistente che già sia costituito nel processo cautelare. In questo caso, l'interruzione del processo, secondo la dottrina, può verificarsi solo se, in primo luogo, si ritenga che il provvedimento cautelare esplica la sua efficacia anche nei confronti degli eredi del resistente e, in secondo luogo, solo se il difensore dichiari l'evento; in tale ipotesi la riassunzione potrà aversi nei confronti degli eredi del resistente o del rappresentante dell'incapace (così Recchioni 2015, 426). Sottolinea questo autore come l'ipotesi più complicata da risolvere sia quella della morte del resistente o del rappresentante dell'incapace dopo che sia già stato iniziato il procedimento cautelare ma il ricorrente non sappia dell'evento né i successori o il nuovo rappresentante dell'incapace si costituiscano. In questo caso, la soluzione proposta è che il processo si ritenga officiosamente interrotto (Recchioni 2015, 427, con ulteriori rilievi). La proponibilità della domanda riconvenzionale.Ci si interroga sulla possibilità di proporre domanda riconvenzionale all'udienza di comparizione delle parti. La questione è dibattuta in giurisprudenza. Secondo la giurisprudenza di merito, si deve ritenere ammissibile la proposizione di una domanda riconvenzionale nel corso del procedimento cautelare purché non confligga con i principi di snellezza e sollecitudine che devono comunque ispirare la procedura cautelare (Trib. Firenze 23 luglio 2001); nello stesso senso, si è detto che è ammissibile la proposizione di domanda cautelare in via riconvenzionale anche se compiuta in forma orale in udienza (Trib. Casale Monferrato 11 novembre 1996). Si è anche precisato che la sentenza che rigetta la domanda di sequestro, già autorizzato ed eseguito in via cautelare, può assumere fondata in re ipsa la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno e stabilirne la liquidazione su basi equitative anche in relazione alla lesione dell'immagine e dell'avviamento commerciale inferta all'imprenditore che tale sequestro abbia subito (Trib. Bologna 12 giugno 1996). Ancora si è ritenuto che sia ammissibile la proposizione in via riconvenzionale da parte del resistente convenuto di altro ricorso per provvedimento d'urgenza, purché sia connesso all'oggetto del ricorso principale e sempre che sia avanzato nel primo atto difensivo da parte del resistente (Pret. Salerno 18 febbraio 1991). Contra, in tempi più risalenti, si è detto che nei procedimenti cautelari è inammissibile la proposizione di domande riconvenzionali perché appesantirebbe il procedimento cautelare che deve essere invece improntato alla speditezza e alla omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio; ma anche per il fatto che l'attività istruttoria indicata dall'art. 669-sexies c.p.c. è diretta all'accertamento sommario ai fini della concessione del provvedimento richiesto che, di conseguenza, può essere unicamente quello di cui al ricorso cautelare (Pret. Taranto 16 aprile 1993). Il procedimento inaudita altera parte.Il procedimento cautelare inaudita altera parte richiede un approfondimento, trattandosi a tutti gli effetti di un sub-procedimento rispetto a quello «ordinario» previsto dall'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. A norma del già ricordato art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento, il giudice provvede – invece che con ordinanza all'esito del contraddittorio – con decreto motivato, assunte, ove occorra sommarie informazioni. In questo caso, deve però garantire la successiva instaurazione del contraddittorio e, a tal fine, deve, come già anticipato, fissare con lo stesso decreto l'udienza di comparizione delle parti innanzi a sé in un termine non superiore a quindici giorni, dando, contemporaneamente, all'istante, un termine perentorio non superiore ad otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto. Questa udienza è diretta, in linea con la configurazione di un modello a contraddittorio differito, a confermare, revocare o modificare il decreto inaudita altera parte in contraddittorio tra ricorrente e resistente. Si è, pertanto, rilevato che, laddove non venga fissata questa udienza il provvedimento cautelare concesso con decreto inaudita altera parte, dovrà ritenersi viziato di nullità (Guaglione, 99). Nello stesso senso, in giurisprudenza, si è detto che il decreto cautelare emanato inaudita altera parte senza fissazione dell'udienza sarebbe nullo (Trib. Trani 23 marzo 1999). Nella recente giurisprudenza di merito si è ritenuto che, nel caso di correzione dell'errore materiale nel decreto di fissazione dell'udienza, laddove si ammettesse che il dies a quo per il decorso degli otto giorni di cui all'art. 669-sexies c.p.c. venisse a coincidere con il decreto di correzione di errore materiale, si finirebbe con il riconoscere ad un errore del decreto di fissazione efficienza sanante della decadenza degli effetti del decreto inaudita altera parte originariamente concesso. Alla stregua di tale impostazione la parte potrebbe trarre, dallo stesso vizio del decreto originario, che determina l'inefficacia dello stesso per omessa notifica nel termine perentorio, la legittimazione per il riacquisto dell'efficacia del provvedimento, con una inammissibile compromissione dei diritti del controinteressato ed una sanatoria dell'inosservanza del termine costituita non già dalla rimessione in termini come prescritto dalla legge, ma da un evento diverso, l'errore materiale contenuto nel decreto di fissazione, con violazione degli artt. 669-sexies e 153, comma 2, c.p.c. (Trib. Napoli 5 dicembre 2019). La norma è sufficientemente chiara nel richiedere presupposti specifici per l'attivazione del procedimento e della decisione inaudita altera parte. Si tratta di un procedimento eccezionale, da seguire solo laddove siano integrati gli elementi specificamente previsti dalla disposizione normativa. In particolare, lo specifico presupposto richiesto dalla norma per procedere senza contraddittorio (contraddittorio che va comunque ripristinato il prima possibile) è il pericolo che la convocazione della controparte possa costituire un pregiudizio per l'attuazione del provvedimento cautelare. Si è suggestivamente definito questo pericolo come un periculum in mora al quadrato (così Consolo 1991, 468), ossia un pregiudizio particolare e collegato all'attuazione della misura cautelare. È un pregiudizio che va inteso in modo necessariamente rigoroso e la cui esistenza deve essere esternata nella motivazione del decreto inaudita altera parte (in questo senso, v. Salvaneschi, 403). Non è, quindi, mai sufficiente un pericolo ordinario di pregiudizio, ossia quello che normalmente consente l'accesso alla tutela cautelare e che deriva dai tempi necessari per ottenere una pronuncia di merito sul diritto dedotto in giudizio (Panzarola, Giordano, 414). Si discute, conseguentemente, sull'ambito delle situazioni in cui potrebbe essere consentita la pronuncia del decreto inaudita altera parte nel procedimento cautelare; ciò perché il pregiudizio all'attuazione del provvedimento derivante dalla convocazione della controparte può essere inteso in due differenti modi. Secondo una prima interpretazione, si può affermare che il decreto senza contraddittorio può essere pronunciato allorché la convocazione dell'altra parte sconti il rischio del compimento da parte di questa di atti che possano far venir meno l'utilità del provvedimento cautelare; per un'altra interpretazione, invece, il decreto inaudita altera parte potrebbe essere emanato ogni volta che il ritardo nella concessione del provvedimento cautelare possa provocare a danno del beneficiario il pregiudizio di cui egli teme la verificazione e per la valutazione di questo pregiudizio il giudice dovrebbe ricorrere alla valutazione del bilanciamento degli interessi in gioco. La prima tesi, tra quelle ora esposte, secondo cui il decreto cautelare può essere concesso solo quando dalla convocazione della controparte derivi il rischio del compimento di atti che inficino la proficuità della misura cautelare è stata sostenuta da una parte della dottrina (Attardi 1991, 238; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 625; Cecchella 1992, 52). Sempre in quest'ottica, si è detto che una tale valutazione sarebbe imposta anche dall'art. 111 Cost. che rende necessario effettuare un bilanciamento tra il principio del contraddittorio e la valenza della tutela cautelare nell'ottica del giusto processo (Guaglione, 95). Altri ancora, sempre in quest'ottica, ha affermato che la norma potrebbe essere addirittura ritenuta illegittima vista la rilevanza fondamentale del principio del contraddittorio all'interno del sistema processuale (Cipriani 2004, 989). Nel secondo senso prima ricordato, ossia nella direzione secondo cui il decreto senza contraddittorio può essere pronunciato tutte le volte che si rischi la concreta verificazione del pregiudizio che il beneficiario della misura teme, si è espressa una gran parte degli interpreti (Luiso 1990, 50; Merlin 1991, 404; Oberto, 84; Proto Pisani 1991, 340; Ronco 2002, 2303). Questa tesi – si è rilevato – oltre ad essere più funzionale rispetto all'altra nell'esigenza di assicurare la tutela del beneficiario della misura cautelare, è anche quella dominante nella giurisprudenza di merito (Panzarola, Giordano, 415). È necessario, però, che il sacrificio imposto alla controparte cautelare per la mancata attuazione del contraddittorio deve essere consentito soltanto là dove il beneficiario del provvedimento non avrebbe potuto impedire il pregiudizio con un comportamento maggiormente prudente (Ronco 2002, 2304). Nel senso estensivo ora ricordato, la giurisprudenza di merito ha, ad esempio, affermato che il provvedimento d'urgenza diretto ad impedire il trasferimento di un lavoratore subordinato può essere emanato con decreto inaudita altera parte quando i tempi necessari per la realizzazione di questo trasferimento impediscano la convocazione dell'altra parte (Pret. Forlì, sez. dist. Cesena, 26 giugno 1995). Sulla necessità che il requisito del pericolo nel pregiudizio che deriva all'attuazione del provvedimento dalla convocazione della controparte, vada inteso in modo molto rigoroso è ribadito nella giurisprudenza di merito. Si è infatti precisato che l'imminente avvio delle operazioni di riconsegna di un'agenzia di assicurazioni costituisce un pregiudizio grave e irreparabile idoneo a legittimare il ricorso alla tutela cautelare d'urgenza con decreto inaudita altera parte (Trib. Bari 15 ottobre 2004). Si è anche affermato che, considerato che il procedimentoexart. 2409 c.c. non può portare ad alcun provvedimento senza la previa audizione delle parti, che il danno paventato potrebbe aggravarsi prima di tale audizione e che esiste la prova del divieto di concorrenza da parte degli amministratori, si ritengono sussistenti i presupposti per concedere inaudita altera parte il provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad inibire agli amministratori il compimento di ogni attività commerciale in relazione alla quale si concreta la violazione del divieto di concorrenza (Trib. Firenze 24 giugno 1993). Questione collegata è quella relativa all'ampiezza dei poteri del giudice; si ritiene che il giudice, esercitando poteri che possono senz'altro definirsi inquisitori, può utilizzare ogni elemento utile per formarsi il convincimento anche al di là dei mezzi istruttori tipici e senza il rispetto delle norme relative all'assunzione delle prove in giudizio. Che il giudice eserciti veri e propri poteri inquisitori in questo àmbito è stato affermato dalla dottrina (Lombardo, 2001, 506). Secondo alcuni, però, anche nel procedimento cautelare opererebbe il limite a tali poteri derivante dalle allegazioni delle parti (De Matteis, 364), mentre secondo altri il giudice ha il potere di accertare i presupposti del provvedimento anche al di fuori del limite derivante dalle allegazioni di parte (Capponi 1990, 911). Secondo parte della dottrina, quest'ultima tesi va condivisa perché è necessario che il giudice della cautela goda di poteri autonomi per la tutela della controparte, nei limiti in cui ciò può essere consentito vista la struttura del procedimento a contraddittorio differito (Panzarola, Giordano, 417). Ci si è posti l'interessante dubbio sul se il riferimento al pregiudizio per l'attuazione del provvedimento cautelare possa essere o meno riferita ad ogni misura cautelare ipoteticamente concedibile o se, in ossequio al significato tecnico dell'attuazione, essa vada ascritta unicamente a quei provvedimenti cautelari rispetto ai quali l'attuazione del provvedimento è un passaggio strettamente necessario per garantire l'effettività della tutela cautelare (Salvaneschi, 404). Il riferimento è ai sequestri e, in generale, ai provvedimenti cautelari di tipo conservativo; per i sequestri è peraltro ancora vigente la disposizione dell'art. 675 c.p.c., norma che – com'è noto – stabilisce che il provvedimento che autorizza il sequestro perde efficacia, se non è eseguito nel termine di trenta giorni dalla pronuncia. La norma dell'art. 675 c.p.c. trova il suo fondamento nel regime previgente all'introduzione del rito cautelare uniforme. Era, infatti, allora necessario che prima dell'instaurazione dei giudizi, uno relativo alla convalida del sequestro e l'altro relativo al merito della controversia, il provvedimento di sequestro venisse eseguito. Ai sensi dell'art. 680 c.p.c., ormai abrogato, infatti, nei quindici giorni dopo il primo atto di esecuzione il sequestrante doveva informare il sequestrato e introdurre altresì il giudizio relativo alla convalida e alla causa di merito; nell'ipotesi che il sequestro venisse concesso nel corso della causa di merito la disciplina era quella dettata dall'art. 681 c.p.c., anch'esso abrogato, a norma del quale il sequestrante aveva un termine di cinque giorni per proporre l'istanza relativa alla trattazione delle questioni afferenti alla convalida del sequestro se il sequestro era stato concesso con decreto; diversamente l'udienza di trattazione veniva fissata con la stessa ordinanza di concessione, udienza che doveva, secondo l'opinione dominante, avere luogo nello stesso arco temporale previsto per l'inizio dell'esecuzione, pena l'inefficacia del provvedimento ai sensi dell'art. 675 c.p.c. La riforma del 1990, pur introducendo il rito uniforme per i provvedimenti cautelari e abrogando il giudizio di convalida del sequestro, non ha abrogato la disposizione dell'art. 675 c.p.c. sicché il termine, di trenta giorni, vale per il compimento del primo atto di esecuzione. Tale termine decorre dall'emanazione del provvedimento di autorizzazione, che può essere, a seconda dei casi già visti, decreto o ordinanza. Se il pregiudizio per l'attuazione del provvedimento cautelare è facilmente intuibile rispetto ai sequestri anche alla luce di quanto or ora specificato ma, in generale, rispetto ai provvedimenti cautelari di tipo conservativo, non può dirsi la stessa cosa con riferimento agli altri provvedimenti cautelari di natura «anticipatoria». Nel rinviare al commento subart. 669-octies c.p.c. per la specifica disamina dei provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio, basti ricordare in questa sede che sulla natura dei provvedimenti anticipatori vi sono diverse opinioni dottrinali. Secondo una teoria che potremmo definire restrittiva, hanno carattere anticipatorio solo i provvedimenti che producono subito effetti almeno parzialmente uguali a quelli che deriverebbero dalla pronuncia di accoglimento dell'azione di merito (Consolo 2003, 1519; Balena, 334; Ghirga, 793; Guaglione, 484). Secondo altra parte della dottrina, invece, sarebbero anticipatori anche quei provvedimenti che, pur non avendo un contenuto almeno in parte identico o simile a quello che potrebbe avere la pronuncia di accoglimento della domanda di merito, consentano di ottenere un risultato pratico equivalente rispetto a quello ottenibile con la futura sentenza (Saletti, 25; Capponi, 137; Dalmotto, 1247). Infine, si è precisato in una prospettiva estensiva che, a tal fine, non avrebbe senso confrontare gli effetti del provvedimento cautelare con l'efficacia di accertamento propria della decisione di merito, perché il primo non ha la funzione di andare a determinare in modo vincolante una regola di condotta ma soltanto di realizzare una situazione di fatto idonea a tutelare la parte beneficiaria della misura cautelare nell'attesa dell'eventuale tutela di merito. Pertanto, in mancanza di uno spontaneo adempimento da parte dell'obbligato, il risultato concreto che si ha di mira con la richiesta del provvedimento cautelare anticipatorio potrebbe essere realizzato attraverso l'attuazione ex art. 669-duodecies c.p.c. sicché, per verificare se una misura cautelare ha o meno natura anticipatoria, si deve effettuare un confronto tra la situazione che si è verificata a seguito dell'attuazione del provvedimento cautelare e quella che deriverebbe dalla esecuzione forzata della sentenza di merito (Luiso, Sassani, 221; Comastri, 173; Recchioni, 98). Tornando al quesito originario, se rispetto ai sequestri e in generale ai provvedimenti conservativi, è facile ipotizzare che la convocazione della controparte possa pregiudicare l'attuazione del provvedimento, non così semplice è la stessa deduzione rispetto ai provvedimenti anticipatori in cui l'esigenza di provvedere all'emanazione della misura cautelare inaudita altera parte non può certo farsi risiedere nel pericolo della non fruttuosità dell'esecuzione ma, piuttosto, nel pericolo di una attuazione tardiva rispetto alle esigenze cautelari avute di mira dal provvedimento stesso. Vi sono, infatti, delle ipotesi in cui la necessità di emanare il provvedimento inaudita altera parte deriva da una esigenza non di fruttuosità ma di tempestività della misura cautelare concessa (così Salvaneschi, 404); in sostanza, ci sono alcune fattispecie in cui l'urgenza di provvedere in via cautelare è talmente forte da non permettere nemmeno l'attesa della convocazione della controparte per la realizzazione del contraddittorio (Luiso, Sassani, 50). Tecnicamente, pertanto, il presupposto previsto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., ossia il fatto che la convocazione della controparte possa pregiudicare l'attuazione del provvedimento cautelare richiesto, potrebbe predicarsi senza problemi per quei provvedimenti in cui tale convocazione possa pregiudicare la fruttuosità del provvedimento; non può altrettanto semplicemente predicarsi per quei provvedimenti rispetto ai quali non si possa rischiare in termini di fruttuosità ma semplicemente di tardività. A questo punto, la soluzione può essere di due tipi: a) o predicare l'esistenza di un doppio binario e quindi ipotizzare che il legislatore abbia inteso differenziare i due tipi di provvedimenti cautelari e limitare solo ai conservativi la possibilità dell'emanazione del provvedimento inaudita altera parte; b) oppure ritenere, a dispetto della testuale formulazione dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., che il procedimento inaudita altera parte si applichi indistintamente ad ogni tipo di provvedimento cautelare, sia esso conservativo, sia esso anticipatorio. Se sposare la soluzione sub a) ha senz'altro il pregevole merito di rimanere fedeli al dato testuale della lettera della legge, dall'altro lato, essa sconta il rischio di limitare l'effettività della tutela cautelare nel suo complesso. La soluzione sub b), pertanto, seppur meno aderente al dato testuale risultante dalla formulazione della norma sul procedimento cautelare, appare quella più idonea a tutelare anche il danno da tardività della pronuncia cautelare che si verifica ogni volta che la mera conoscenza da parte dell'intimato della pendenza del procedimento cautelare, possa incidere sull'utilità della misura poi eventualmente ottenuta. È senz'altro la soluzione sub b ) che ha preso maggiore piede nella dottrina e che può dirsi quindi dominante. Se, da un lato alcuni ritengono preferibile la tesi che limita il procedimento inaudita altera parte alle ipotesi di rischio di fruttuosità (Attardi, 239; Consolo, 1991, 471; Cecchella, 52), la maggior parte degli autori ritiene preferibile la soluzione differente che amplia senz'altro lo spettro della tutela cautelare in termini di effettività della stessa (Carratta, 208; Merlin, 404; Proto Pisani, 19; Vianello, 69; con ulteriori riferimenti, v. Salvaneschi, 404). Altri autori ancora, pur propendendo per la soluzione sub b), evidenziano come l'urgenza di cui all'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., abbia i caratteri della eccezionalità (Finocchiaro 1995, 873; Acone, 427; Saletti, 368). Peraltro, si è giustamente sottolineato come non ci si trovi in presenza di un procedimento che elimina del tutto il contraddittorio, ma di uno schema procedimentale che semplicemente lo differisce; sicché, confrontando l'interesse del ricorrente in sede cautelare ad ottenere una pronuncia inaudita altera parte in tutti quei casi in cui la convocazione della stessa rischierebbe di pregiudicare l'utilità del provvedimento (utilità intesa nel senso ampio suesposto), con l'interesse dell'altra parte alla realizzazione immediata del contraddittorio, deve essere necessariamente il primo interesse a prevalere (Salvaneschi, 405). Problema diverso ma strettamente connesso a quanto finora esposto è quello relativo all'ipotesi in cui il pregiudizio all'attuazione del provvedimento derivante dalla convocazione della controparte, sia collegato al semplice decorso del tempo necessario all'instaurazione del contraddittorio e questo pregiudizio sia imputabile alla dilazione del ricorrente che ha chiesto il provvedimento cautelare in «ritardo» pur potendo agire tempestivamente. Di questo problema si sono occupate alcune interessanti pronunce di merito. In esse, si è detto che la pronuncia del provvedimento cautelare mediante decreto inaudita altera parte non è consentita quando il pregiudizio all'attuazione del provvedimento derivante dalla convocazione della controparte sia connesso al mero decorso del tempo necessario per l'instaurazione del contraddittorio: ciò vale, in particolar modo, allorché tale pregiudizio sia imputabile allo stesso ricorrente il quale, potendo agire in via cautelare già in precedenza, abbia atteso l'imminenza del fattore pregiudicante (Trib. Torino 19 marzo 2002); e ancora, si è precisato che, qualora nel corso del procedimento cautelare si verifichi il fatto pregiudizievole per il cui impedimento la misura cautelare è stata richiesta, il procedimento stesso deve concludersi con una pronuncia di rigetto per sopravvenuta carenza di interesse ad agire (Trib. Torino 12 aprile 2002). In particolare, la vicenda processuale si può così riassumere: in prossimità delle elezioni dei membri di alcuni organismi sindacali aziendali, un sindacato nazionale presentava alla commissione elettorale la propria lista dei candidati che veniva respinta a fine febbraio 2002, mentre le elezioni della rappresentanza sindacale in questione erano fissate per fine marzo dello stesso anno. Il sindacato dopo aver proposto inutilmente reclamo alla confederazione, proponeva ricorso ex art. 700 c.p.c. chiedendo di ammettere la lista che era stata respinta ovvero di sospendere le elezioni. Il giudice adito per il cautelare riteneva di non poter provvedere senza contraddittorio e fissava la data dell'udienza ai primi di aprile del 2002 e quindi dopo le elezioni; all'udienza il giudice rigettava l'emanazione del provvedimento cautelare perché ormai il periculum in mora era venuto meno e si era tradotto in un danno a carico del ricorrente. Aderendo alla tesi estensiva, un autore ha evidenziato come la lettura ampliativa della norma in commento, tale da ricomprendere nello spettro applicativo del comma 2 sia i provvedimenti conservativi che quelli anticipatori sia preferibile per una ragione di coerenza dell'intero sistema processuale, come è evidenziabile dalla lettura di alcune norme del codice di rito. Vi sono, infatti, diverse norme del codice di procedura che disciplinano la sospensione dell'esecutività o dell'esecuzione dei titoli giudiziali e che contemporaneamente prevedono la pronuncia senza contraddittorio ogni volta in cui non sia possibile convocare la controparte senza pregiudizio. Il riferimento è ad esempio agli artt. 351,373,401,407,625 c.p.c.Possiamo ad esempio rinviare al testo dell'art. 625, comma 2, c.p.c., il quale prevede che, nei casi urgenti, il giudice può disporre la sospensione con decreto, nel quale fissa l'udienza di comparizione delle parti. All'udienza provvede con ordinanza. Se anche – sottolinea l'autore – tali provvedimenti non sono cautelari e quindi per essi non vale la clausola di compatibilità dell'art. 669-quaterdecies c.p.c., tuttavia essi, raffrontati all'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., rispondono alla stessa logica (il rinvio è a Ronco, 2302). Se, quindi, la tesi estensiva è senz'altro da condividere, resta da verificare se l'urgenza di provvedere sia giustificabile soltanto allorché a tale urgenza il ricorrente non poteva in alcun modo porre rimedio, ad esempio agendo prima in sede cautelare. È del resto il quesito che si pongono le pronunce della giurisprudenza di merito e, specificamente, del Tribunale di Torino, sopra citate. Secondo l'autore anche in questo ambito si possono sposare due diverse tesi; da un lato, quella prescelta dal magistrato sabaudo, ossia negare la cautela inaudita altera parte, anche a costo di negare in assoluto qualsiasi provvedimento cautelare, perché il ricorrente avrebbe potuto agire prima e non lo ha fatto; oppure agire, successivamente, sul piano delle spese processuali, utilizzando le norme di cui all'art. 96, comma 2, c.p.c. e, quindi alla responsabilità aggravata per lite temeraria e alla cauzione di cui all'art. 669-undecies c.p.c., subordinando l'attuazione del provvedimento al versamento di una cauzione a copertura del risarcimento del danno da lite temeraria (ulteriori riflessioni in Ronco, 2304). Come lo stesso autore evidenzia, entrambe le possibili soluzioni hanno dei riscontri negativi; quella adottata dai giudici di merito sconta il rischio di negare la tutela cautelare tout court, anche perché nelle more il periculum si è senz'altro trasformato in damnum non più riparabile; la seconda perché non sempre il risarcimento del danno è in grado di ripristinare esattamente lo status quo ante (Ronco, 2304). L'emanazione del provvedimento.Abbiamo già visto come, ai sensi del comma 1 della norma in commento, il giudice, nel contraddittorio delle parti, dopo aver provveduto agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai fini e ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto, provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Siamo pertanto nella fase della emanazione del provvedimento richiesto. Ci si domanda, in particolare, se in fase di emanazione il giudice possa modificare la richiesta della parte adeguando il provvedimento concesso alle esigenze accertate sulla base dell'attività istruttoria compiuta. Su questo profilo non vi è uniformità di vedute in dottrina e in giurisprudenza. La giurisprudenza ha detto in proposito che, nel corso del procedimento cautelare, va esclusa la possibilità di modificare l'originaria domanda; nella specie da provvedimento d'urgenza a sequestro giudiziario (Trib. Firenze 27 maggio 1995). Di diverso avviso la dottrina che si è occupata dell'argomento e secondo la quale proprio il dettato del comma 1 dell'art. 669-sexies che pone specificamente l'attenzione sulle finalità del provvedimento cautelare richiesto, indurrebbe a ritenere che il giudice possa modificare la richiesta di parte in relazione all'esito dell'accertamento compiuto e quindi a concedere un provvedimento cautelare diverso ove ritenga che lo stesso sia più idoneo in relazione a tali finalità (Verde, Di Nanni, 251; contra, Consolo, Luiso, Sassani, 467). Decisione con decretoAi sensi del comma 2 della norma in commento, quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento, il giudice provvede con decreto motivato, assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso deve fissare, con il medesimo decreto, l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il giudice, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto. Laddove la notificazione debba effettuarsi all'estero i termini in questione sono triplicati. La norma non specifica se la decisione con decreto possa aversi sia se la domanda cautelare sia proposta prima della causa di merito, sia se venga proposta in corso del giudizio di merito. La struttura della norma rende evidente che il contraddittorio è assicurato, nonostante la pronuncia inaudita altera parte, dalla fissazione dell'udienza di comparizione entro un termine non superiore a quindici giorni. Ci si domanda se la mancata fissazione di questa udienza nel termine di quindici giorni renda o meno inefficace la misura cautelare concessa. Secondo la giurisprudenza di merito, non è inefficace la tutela cautelare concessa in corso di causa con decreto inaudita altera parte, in cui il giudice abbia omesso la fissazione dell'udienza per la conferma, modifica o revoca del provvedimento emanato, potendo egli effettuare il previsto controllo nel corso della prima udienza di comparizione (Trib. L'Aquila 31 ottobre 2002); l'orientamento non è però univoco. Si è, infatti, detto che qualora il giudice, nell'accogliere la domanda cautelare con decreto inaudita altera parte, non abbia fissato l'udienza per la conferma, il provvedimento cautelare è nullo e il giudice del reclamo deve rimettere le parti davanti al giudice della cautela per la trattazione e decisione della misura cautelare (Trib. Trani 2 marzo 1999). La Cassazione ha sul punto affermato che ai fini dell'efficacia del decreto emesso inaudita altera parte, ciò che rileva è la fissazione di un'udienza di comparizione delle parti che ripristini il contraddittorio mancante nella fase precedente e la successiva adozione di un provvedimento che sia univocamente riconducibile alla misura cautelare precedente (Cass. I, n. 23674/2013). Con riferimento ai presupposti, sono diversi gli orientamenti emersi nella giurisprudenza e nella dottrina. In particolare, poiché la norma specifica la necessità di un pregiudizio imminente per il ricorrente che non si può evitare attendendo i tempi necessari per l'attuazione del contraddittorio inter partes, è necessario altresì che l'istante, nel ricorso per la concessione del provvedimento, specifichi quali siano questi elementi pregiudizievoli (Proto Pisani, 341; Cecchella, 361). Con riferimento ai presupposti della tutela cautelare resa con decreto inaudita altera parte, è senz'altro opportuno verificare come si è orientata nel tempo la giurisprudenza di merito. Si è precisato che l'istanza proposta ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., richiede, quale necessario presupposto, la dimostrazione dell'esistenza dello speciale pregiudizio consistente nel rischio che, nei giorni intercorrenti tra la notifica del ricorso e l'udienza fissata per la sua trattazione, vengano realizzati atti o comportamenti idonei a rendere inutile la successiva eventuale misura di cautela (Trib. Como 19 marzo 2011). Si è, inoltre, specificato che il fondato sospetto del compimento, da parte degli amministratori, di attività in concorrenza e di atti in conflitto di interessi, è indice di gravi irregolarità e giustifica l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2409 c.c. (Trib. Firenze 24 giugno 1993). Poiché integra gli estremi dell'illecito concorrenziale la distribuzione di una rivista contenente messaggi promozionali rivolti ai futuri sposi nei pressi dei locali dove si sta per svolgere una manifestazione fieristica dedicata ai prodotti e servizi delle aziende operanti nel settore dei matrimoni, deve essere ordinato nell'imminenza dell'evento, con decreto inaudita altera parte, all'impresa che realizza questa iniziativa, di astenersi dalla distribuzione della pubblicazione in questione o dall'attuazione di qualsiasi forma di pubblicità nelle vicinanze dei cancelli di accesso e di uscita di tale manifestazione fieristica (Trib. Roma 11 gennaio 2012). In caso di scarsa solvibilità della società resistente, sulla base di un sommario esame della fattispecie dedotta nel ricorso, può essere emessa inaudita altera parte la misura cautelare di cui all'art. 671 c.p.c., subordinandone l'efficacia alla previa costituzione in cancelleria del deposito cauzionale di cui all'art. 669-undecies c.p.c. (Trib. Campobasso 15 novembre 2005). Sempre in tema di sequestri si è precisato che in accoglimento dell'istanza proposta dalla curatela del fallimento di una società di fatto, vi sono i presupposti per autorizzare con decreto inaudita altera parte, il sequestro giudiziario di beni immobili, beni mobili e partecipazioni sociali, finalizzato alla fruttuosità delle domande principali di merito, configurate ed azionate dalla curatela, e precisamente di nullità, di simulazione e di revocatoria di alcuni trusts istituiti dai soci falliti o dai loro familiari (Trib. Napoli 1° aprile 2015). A parere di parte della dottrina, data la mancanza di disposizioni specifiche in tal senso, il provvedimento cautelare può essere concesso con decreto, senza il contraddittorio delle parti, anche se la domanda venga proposta nella pendenza del giudizio di merito (Tommaseo, 100; Frus, 673; Cecchella, 52). Tuttavia, si confronti Trib. Sala Consilina 22 settembre 1993, secondo cui è nullo il provvedimento di revoca emanato inaudita altera parte nel corso del giudizio di merito. Si è precisato da parte di alcuni autori che l'ammissibilità della decisione con decreto inaudita altera parte sarebbe consentita oltreché nell'ipotesi specificamente indicata dalla previsione, anche qualora soccorrano ragioni di urgenza tali da rendere impossibile l'attesa del tempo necessario per la convocazione della controparte (in questo senso, Salvaneschi, 248; ma in senso contrario, v. Attardi, 239; Guaglione, 95). Quanto all'attività istruttoria che è possibile compiere per l'emanazione del decreto inaudita altera parte è necessario fare alcune riflessioni. La norma – come visto – richiede al giudice di assumere sommarie informazioni per l'emanazione del decreto e tale disposizione va senz'altro letta in coerenza con l'intento legislativo di consentire l'accesso alla misura cautelare purché vi sia un accertamento, anche se sommario, dei presupposti per la concessione della cautela, ossia del periculum in mora e del fumus boni iuris. Accertamento che deve necessariamente essere compiuto non soltanto sulla base delle affermazioni e delle dichiarazioni rese dall'istante, ma anche confrontando tali dichiarazioni con idonei elementi probatori. La dottrina ha specificato in relazione a tale elemento che, da un lato, l'esigenza di una attività istruttoria, seppur sommaria, amplia l'operatività della cautela anche a quelle ipotesi in cui l'istanza non sia fondata su elementi di prova di per sé completi; ma è anche necessario che, in relazione al dettato legislativo e alla struttura dei procedimenti cautelari, l'accertamento demandato al giudice debba limitarsi al minimo indispensabile considerando la mancata attuazione del contraddittorio (Proto Pisani, 341). Queste considerazioni avvalorano anche la tesi secondo cui la decisione con decreto inaudita altera parte è e deve rimanere una ipotesi eccezionale, confinata ai casi in cui vi siano elementi tali da ritenere che la pretesa avanzata dal ricorrente sia manifestamente fondata, ferma l'esistenza del periculum in mora. All'udienza di comparizione delle parti fissata nel decreto, il giudice può compiere gli atti di istruzione che ritiene necessari rispetto all'emanazione del provvedimento richiesto e deve poi con ordinanza confermare, modificare o revocare il provvedimento emesso. La giurisprudenza ha, infatti, precisato che il controllo dei provvedimenti emessi con il decreto è previsto nell'ambito dell'udienza fissata dal giudice nel contraddittorio delle parti, attraverso la pronuncia dell'ordinanza con cui il giudice, all'esito di questa udienza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti in questione, mentre la non reclamabilità del decreto inaudita altera parte si giustifica per la breve vita di questo provvedimento, destinato a trasformarsi comunque in un'ordinanza, e non potendo mai lo stesso concludere un procedimento cautelare (Trib. Torino 19 novembre 2003). Ci si è, inoltre, chiesti che cosa accada qualora nessuna delle parti compaia all'udienza fissata nel decreto. La questione va risolta alla luce di quanto emerso nella prassi. Nella giurisprudenza di merito, si è affermato che la mancata comparizione delle parti all'udienza fissata a seguito dell'emissione ante causam ed inaudita altera parte del decreto concessivo di misura cautelare, comporta la revoca del decreto stesso (Trib. Napoli 11 febbraio 1993). Decisione con decreto in caso di rigetto della misura. Mentre la dottrina è altalenante sulla possibilità di pronunciare con decreto inaudita altera parte anche nell'ipotesi di rigetto della misura cautelare e non solo nel caso in cui essa sia accolta, la giurisprudenza si è invece attestata, salvo poche, risalenti, pronunce difformi, sulla tesi della ammissibilità, per diversi motivi. È opportuno partire proprio dall'esame della giurisprudenza di merito sul tema. Tutte le pronunce di seguito riportate hanno deciso nel senso dell'ammissibilità del rigetto con decreto inaudita altera parte della misura cautelare richiesta, però per motivi differenti. Nel senso dell'ammissibilità per manifesta infondatezza della pretesa si è detto che il decreto inaudita altera parte può definire il procedimento cautelare non solo per motivi di rito ma anche nel caso in cui la domanda cautelare appaia manifestamente infondata per difetto dei requisiti del fumus o del periculum in mora (Trib. Santa Maria Capua Vetere 18 marzo 2005). Sempre per infondatezza della pretesa è stata rigettata, con decreto inaudita altera parte, la richiesta di sequestro conservativo nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società, in una causa avente ad oggetto l'azione di responsabilità contro gli stessi; il rigetto è stato determinato dalla mancanza di prova del periculum in mora nei confronti di tutti gli obbligati in solido, perché l'obbligazione solidale dà luogo ad un'unica situazione giuridica passiva facente capo a più soggetti e non ad una pluralità di rapporti giuridici di credito-debito tra loro distinti ed autonomi (Trib. Santa Maria Capua Vetere 20 gennaio 2004). L'ipotesi di rigetto per motivi di rito è stata anch'essa affrontata nella giurisprudenza di merito che ha affermato che il provvedimento di rigetto per motivi di rito può essere emesso nella forma del decreto inaudita altera parte perché non ha alcun effetto preclusivo per la successiva ripresentazione dell'istanza cautelare (Trib. Milano 8 luglio 1993). In altre fattispecie, il decreto inaudita altera parte è stato ammesso anche in ipotesi di declinatoria della giurisdizione da parte del giudice designato (Trib. Ravenna 14 settembre 1994) e di declinatoria della competenza (Trib. Pescara 8 febbraio 1993). In una pronuncia, si è precisato che l'istanza cautelare palesemente infondata può essere rigettata, inaudita altera parte , con provvedimento in forma di decreto, risparmiando così all'istante l'onere delle spese processuali che altrimenti graverebbe su di lui quale unico effetto del contraddittorio provocato con la controparte (Trib. Monza 26 aprile 1997). Si è, però, affermato che il provvedimento di rigetto dell'istanza cautelare può essere emanato con decreto inaudita altera parte purché venga nel contempo fissata l'udienza di comparizione delle parti (Trib. Firenze 27 ottobre 1999). La giurisprudenza nel senso dell'inammissibilità della pronuncia di rigetto con decreto inaudita altera parte aveva invece affermato che il provvedimento di rigetto della misura cautelare deve essere emanato con ordinanza dopo l'attivazione del contraddittorio (Trib. Roma 30 aprile 1999; Pret. Monza 3 febbraio 1993). Buona parte della dottrina concorda sulla possibilità di emanare un decreto di rigetto inaudita altera parte, purché nell'udienza di comparizione – che dovrà comunque essere sempre fissata – in contraddittorio tra le parti. A tale udienza il giudice potrà sempre confermare, revocare o modificare nel senso dell'accoglimento l'originario decreto di rigetto, questa volta con ordinanza (Attardi, 238; Sassani, in Consolo, Luiso, Sassani, 624; Oberto, 36). Altra parte della dottrina, pur concordando sulla possibilità del decreto di rigetto inaudita altera parte, ha però affermato che non sarebbe necessaria la fissazione dell'udienza, potendo ben concludersi il procedimento con l'emanazione del decreto negativo; tale decreto potrà poi essere oggetto di reclamo cautelare (Consolo, 629; contra, però, Merlin, 404, secondo cui solo l'ordinanza può essere reclamabile e non anche il decreto di rigetto inaudita altera parte). Secondo altra parte della dottrina, invece, non sarebbe ammissibile la pronuncia di rigetto con decreto inaudita altera parte; il giudice infatti dovrebbe, laddove non riscontri gli estremi per l'accoglimento con decreto senza contraddittorio, provvedere alla fissazione dell'udienza per la comparizione delle parti per poi decidere in quella sede con ordinanza. La ragione di questo orientamento risiede nella affermazione che soltanto il pregiudizio che deriva dalla attuazione del provvedimento cautelare può rendere ragione di una pronuncia di tal genere, pregiudizio che non può verificarsi prima dell'udienza in contraddittorio nell'ipotesi in cui il giudice non riscontri i presupposti, di rito o di merito, per provvedere con decreto inaudita altera parte (Cecchella, 58; Montesano, Arieta, 136; Merlin 1995, 404). Anche altra parte della dottrina ha affermato che il giudice della cautela avrebbe senz'altro il potere di rigettare con decreto inaudita altera parte le domande cautelari che si presentino come manifestamente inammissibili o infondate (Cicchitti, 609; Cirulli, 131; Masoni, 957) Contraria, invece, la tesi he afferma che per negare la possibilità di pronunciare un decreto di rigetto inaudita altera parte sarebbe sufficiente il disposto dell'art. 669-septies c.p.c. che parla di ordinanza di incompetenza o di rigetto senza fare alcuna menzione del decreto. La volontà legislativa sembrerebbe pertanto univocamente quella di consentire la pronuncia di rigetto solo con ordinanza e non con decreto (Proto Pisani, 20). A seguito della richiamata prassi giurisprudenziale che tende ad affermare il potere del giudice della cautela di rigettare il ricorso cautelare con decreto, nonostante i richiamati dubbi espressi da una parte della dottrina, sostanzialmente si concorda nel ritenere che il profilo fondamentale sia quello della necessità per il giudice della cautela che abbia pronunciato un decreto inaudita altera parte di rigetto della misura cautelare richiesta, di fissare o meno l'udienza diretta a confermare, modificare o revocare il provvedimento di rigetto in contraddittorio tra ricorrente e resistente. Reclamabilità del decreto inaudita altera parte Tendenzialmente si afferma che è inammissibile il reclamoex art. 669- terdeciesc.p.c. – al cui commento si rinvia – proposto contro il decreto cautelare emanato inaudita altera parte. La motivazione principale è data dalla lettera della norma che disciplina il reclamo cautelare atteso che la stessa parla di reclamabilità della ordinanza (concessiva o denegativa della misura cautelare). Ma contro l'esperibilità del reclamo vi è senz'altro anche la considerazione che il controllo del decreto inaudita altera parte è consentito al giudice che lo ha emesso nella successiva udienza prevista dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. in contraddittorio tra le parti, udienza nel corso della quale il giudice potrà confermare, modificare o revocare il precedente decreto emesso senza contraddittorio. Non solo, l'inammissibilità del reclamo proposto contro il decreto cautelare emanato inaudita altera parte discende dalla formulazione della norma dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c., il quale afferma che il reclamo può avere ad oggetto unicamente le ordinanze che decidono – in senso positivo e, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione normativa, anche in senso negativo – su una istanza cautelare. Il legislatore con tale previsione avrebbe, pertanto, risolto in senso negativo il problema relativo alla reclamabilità del decreto cautelare inaudita altera parte emanato secondo il procedimento disciplinato dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. In giurisprudenza di merito, si è affermato, coerentemente con i principi appena esposti, che deve escludersi la reclamabilità dei decreti cautelari emanati inaudita altera parte, perché in questo caso il controllo dei provvedimenti emessi con tali decreti viene effettuato nell'ambito dell'udienza fissata dal giudice nel contraddittorio delle parti, attraverso la pronuncia dell'ordinanza con cui il giudice, all'esito di tale udienza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti in questione. Ciò salva l'ipotesi in cui il giudice, nel pronunciare il decreto cautelare, ometta di fissare l'udienza di comparizione delle parti dinanzi a sé nel termine non superiore a quindici giorni previsto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. e di assegnare alla parte ricorrente un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto stesso, perché in tale ipotesi si ritiene disapplicata la disciplina prevista, appunto, dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. e quindi impedito il controllo del provvedimento emesso con decreto nella successiva udienza nel contraddittorio tra le parti (Trib. Torino 28 aprile 2010). Analogamente alla prima parte della pronuncia ora richiamata, nel senso della inammissibilità del reclamo contro il decreto emanato inaudita altera parte la giurisprudenza di merito ha precisato che tale soluzione dipende, principalmente, da un punto di vista letterale dal fatto che l'art. 669-terdecies c.p.c. prevede la reclamabilità delle sole ordinanze con cui è stato concesso o negato il provvedimento cautelare, così implicitamente escludendo la possibilità di impugnazione contro il decreto inaudita altera parte, di per sé provvisorio e destinato ad essere soppiantato dall'ordinanza emessa in sede di udienza; né si ravvisano profili di irragionevolezza nella scelta legislativa di negare l'impugnazione con reclamo contro il decreto inaudita altera parte dato che tale decreto è per sua natura suscettibile di essere rivalutato in udienza entro un termine molto breve, quindici giorni, incompatibile con la previsione di un reclamo intermedio (Trib. Venezia 28 febbraio 2007; Trib. Torino 21 novembre 2003). Più di recente si è specificato che il decreto inaudita altera parte ha un carattere interinale e provvisorio per cui l'ordinanza emessa a contraddittorio pieno è destinata a assorbirlo e sostituirlo, sicché solo essa può essere oggetto dei rimedi della revoca, ex art. 669-decies c.p.c. e del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.; la revoca, disposta con ordinanza, del decreto cautelare inaudita altera parte determina la caducazione con effetto ex tunc del primo provvedimento, anche in ipotesi di modifica riduttiva del contenuto del decreto, nel senso che si verifica ab origine il travolgimento, totale o parziale, degli effetti del decreto nell'assorbimento del provvedimento emesso inaudita altera parte nella ordinanza susseguente emessa a contraddittorio pieno (Trib. Lecce 2 luglio 2020; Trib. Cassino 13 novembre 2014). Questo orientamento giurisprudenziale pare confermato anche dalla diversa formulazione dell'ormai abrogato art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003 (disciplinante il rito societario) che, rispetto alle misure che potevano essere sottoposte a reclamo cautelare nel procedimento societario, faceva riferimento esplicito a tutti i provvedimenti in materia cautelare, mentre – come visto – il legislatore nell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c. ha avuto cura di precisare che sono reclamabili le sole «ordinanze» e non tutti i «provvedimenti» (espressione, quest'ultima, che avrebbe consentito di ricomprendervi anche i decreti). Non sono mancate, tuttavia, voci dissenzienti essendosi affermato che anche nell'ipotesi di omessa fissazione dell'udienza per la conferma, modifica o revoca nel contraddittorio tra le parti del decreto cautelare emesso inaudita altera parte, non è ammesso il reclamo cautelare potendo in questa situazione il ricorrente sollecitare il giudice, ai sensi dell'art. 289 c.p.c., per fissare l'udienza di comparizione delle parti (Trib. L'Aquila 31 ottobre 2002). L'orientamento giurisprudenziale dominante sopra ricordato è stato in realtà criticato da una dottrina secondo cui questa interpretazione priverebbe il resistente di tutela anche allorché il giudice, in violazione del disposto dell'art. 669-sexies c.p.c., ometta di fissare l'udienza per la comparizione delle parti nei quindici giorni successivi alla pronuncia del decreto inaudita altera parte, ovvero ometta di effettuare la conferma o la revoca del decreto stesso alla prima udienza (Balena, in Balena, Bove, 355; Petrillo, 219). Casistica. È interessante verificare le fattispecie concrete in cui si è ritenuto di concedere un decreto inaudita altera parte ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. Sussiste il fumus boni iuris dell'istanza cautelare d'urgenza con cui l'affittuario di azienda alberghiera chiede che venga inibito al concedente di porre all'incasso gli assegni bancari rilasciati in garanzia del puntuale e regolare pagamento dei canoni d'affitto, sul presupposto della impossibilità sopravvenuta al pagamento, in conseguenza della chiusura dell'attività imprenditoriale disposta dalle misure restrittive in vigore per il contrasto alla pandemia da Covid-19 (Trib. Rimini 25 maggio 2020). Nello stesso senso, un'altra pronuncia in cui si è concessa l'inibitoria in attesa di verificare l'esito di trattative tra le parti e di ogni valutazione in dettaglio delle argomentazioni svolte sui profili giuridici e di fatto e sulle ipotesi ricostruttive in diritto, alla luce di quanto poi verrà esposto dalla proprietaria del fondo commerciale (Trib. Bologna 12 maggio 2020). Sempre in epoca di pandemia, alcune pronunce di merito hanno concesso decreti inaudita altera parte a tutela del rapporto di lavoro dei riders: in particolare si è detto che i riders, in quanto lavoratori assimilabili ai subordinati, hanno diritto ai d.p.i.: di conseguenza il giudice ha accolto il ricorso d'urgenza e ordinato, inaudita altera parte, al datore di dotare i riders dei dispositivi di protezione individuale contro il rischio di contagio da Covid-19 (Trib. Firenze 1 aprile 2020; nello stesso senso, v. Trib. Bologna, 14 aprile 2020). Con decreto inaudita altera parte, di recente, si è disposta l'immediata ricollocazione in servizio e l'erogazione dello stipendio in favore di una dipendente, operatrice sanitaria, di una Azienda Sanitaria Locale sospesa dal servizio, senza retribuzione, ai sensi dell'art. 4, comma 8, del d.l. n. 44/2021, conv., con modif., in l. n. 76/2021, per aver rifiutato la vaccinazione Covid-19 (Trib. Velletri 22 novembre 2021). Per le difficoltà di notifica del provvedimento cautelare a società resistente con sede in Cina, un giudice meneghino (Trib. Milano 22 marzo 2021) ha ritenuto necessario provvedere con decreto inaudita altera parte alla concessione di un provvedimento cautelare a tutela della violazione di un diritto di proprietà industriale (il completamento della notifica alla resistente risultava impossibile per ragioni non meglio precisate tanto che il procedimento cautelare risultava pendente già da otto mesi). Un'ampia casistica sulle ipotesi di pronuncia del provvedimento inaudita altera parte è riportata in Celeste, 316 cui si rinvia per ulteriori riferimenti. Conversione del decreto in ordinanza.Abbiamo già visto come la norma in commento, al comma 2, preveda che il giudice, qualora provveda con decreto motivato senza contraddittorio, deve fissare, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle parti dinanzi a sé in un termine non superiore a quindici giorni assegnando all'istante un termine perentorio non superiore ad 8 giorni per la notificazione del ricorso e del decreto all'altra parte. La norma, al comma 3, stabilisce che nel caso di notificazione da effettuarsi all'estero tali termini sono triplicati. È a questa udienza che il giudice può, con ordinanza, confermare, modificare o revocare il provvedimento emanato con decreto. Questa previsione rende possibile l'attuazione del contraddittorio prima mancato. Ci si domanda quale natura abbiano i termini previsti dalla norma e vi è unanimità di vedute nel ritenere che il termine di quindici giorni per la fissazione dell'udienza di comparizione delle parti sia meramente ordinatorio e che il termine di otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto sia perentorio. Altra questione sorta riguarda la conseguenza che abbia, in relazione ai termini previsti dalla norma, l'eventuale fissazione da parte del giudice dell'udienza a distanza superiore rispetto al termine di quindici giorni dalla emanazione del decreto senza contraddittorio. Secondo la dottrina, se il giudice in questi casi ha fissato un termine per la notifica maggiore degli otto giorni previsti dalla norma, o non ha dato termine alcuno e il convenuto si è ugualmente costituito non si verificherebbe alcuna nullità mentre, se il convenuto non si costituisce, in applicazione dei principi generali dovrebbe disporsi una nuova notificazione. Secondo altri, invece, sarebbe necessario sempre e comunque il rispetto del termine perentorio previsto dalla norma e pari a otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto (per la prima tesi, v. Olivieri, 707; per la seconda, v. Lapertosa, 431). In applicazione dei principi suesposti, in giurisprudenza si era affermata la piena efficacia del provvedimento d'urgenza notificato senza rispettare il termine di otto giorniex art. 669 -sexiesc.p.c. qualora il giudice avesse fissato un termine per la comparizione delle parti oltre quindici giorni (Trib. Casale Monferrato 10 maggio 1996). Il principio non è, però, pacifico perché una giurisprudenza più recente ha affermato l'opposto. Secondo tale orientamento più recente è onere della parte beneficiaria del provvedimento cautelare inaudita altera parte, anche in caso di errore del giudice, procedere alla notifica del ricorso e del decreto entro il termine perentorio di otto giorni, derivandone, in mancanza, l'inefficacia dell'ordinanza confermativa del decreto. Ancora si è detto che il termine di otto giorni per la notifica del provvedimento reso inaudita altera parte non è derogabile da parte del giudice e la parte ha l'onere di rispettarlo, anche se apparentemente derogato; di conseguenza, la notifica effettuata oltre il termine comporta l'inefficacia del decreto. Tale inefficacia si estende all'ordinanza resa a seguito dell'udienza fissata per il contraddittorio ove, con essa, il giudice abbia confermato, modificato o revocato il provvedimento reso inaudita altera parte (Trib. Torino 29 agosto 2012). Sempre nel senso dell'inefficacia del provvedimento nell'ipotesi in cui il giudice adìto emetta un provvedimento cautelare concedendo un termine per la notifica superiore a otto giorni, v. Trib. Roma 29 novembre 2002. La norma nulla dice quanto al dies a quo per la decorrenza del termine per la notifica, anche se in applicazione del principio generale secondo cui è necessario che tutti gli atti che abbiano rilevanza esterna vadano comunicati alla parte, tale decorrenza dovrebbe essere individuata nel momento del deposito in cancelleria del decreto pronunciato dal giudice. In dottrina, vi sono opposte vedute. Vi è, infatti, chi ritiene che tale dies a quo vada individuato nel giorno stesso della pronuncia del decreto (Olivieri, 704) e chi, invece, ritiene che esso vada fatto coincidere con il deposito in cancelleria o, meglio ancora, con la data della comunicazione del decreto alla parte (Lapertosa, 431; Oberto, 35). La perentorietà del termine degli otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto è, invece, pacifica nella giurisprudenza e, anzi, risulta applicata in modo estremamente rigido pena l'inefficacia del concesso decreto. La sanzione è senz'altro quella della inefficacia pur se, in alcune pronunce, essa viene definita revoca o nullità del decreto stesso. In tema, la stessa Cassazione ha affermato che per evitare che un decreto cautelare reso in corso di causa inaudita altera parte diventi inefficace, è sufficiente che lo stesso sia notificato al destinatario entro otto giorni dalla sua adozione e che sia fissata, nei quindici giorni dalla medesima data, l'udienza che ripristini il contraddittorio mancato nella fase precedente (Cass. I, n. 23674/2013). Nello stesso senso, anche la giurisprudenza di merito (Trib. Milano 25 febbraio 1998; Trib. Torino 21 aprile 1994; Trib. Milano 11 novembre 1993; Trib. Verona 21 settembre 1993, in un'ipotesi peculiare in cui la notifica andava effettuata all'estero e l'autorità straniera aveva rifiutato di provvedere per la limitatezza dei termini). In senso parzialmente diverso – come accennato – si è detto che in caso di mancato rispetto del termine perentorio per la notifica del decreto emanato inaudita altera parte, il provvedimento cautelare va revocato e non dichiarato inefficace con il subprocedimento di cui all'art. 669-novies c.p.c. (Trib. Torino 21 aprile 1994). Un ultimo orientamento fuori dal coro rispetto alla sanzione ha affermato che il decreto cautelare pronunciato inaudita altera parte è nullo per violazione del principio del contraddittorio, ex art. 101 c.p.c., quando non viene notificato e/o comunicato alla controparte e quando il giudice rigetta la richiesta di provvedimento cautelare (nella specie, sequestro conservativo) senza sentire l'altra parte (Trib. Salerno 2 giugno 2000). Un'ultima opinione ancora vuole che il vizio di mancato rispetto del decreto nel termine di otto giorni sia sanato nell'ipotesi in cui il resistente si costituisca ugualmente all'udienza senza eccepire il vizio (Trib. Como 10 maggio 2011). La norma parla testualmente di notifica del ricorso e del decreto. È sorto il dubbio sul se una eventuale notifica del solo decreto sia di per sé sufficiente a rispettare il disposto della previsione. Può senz'altro ritenersi che la logica della disposizione normativa sia quella di notificare il ricorso e il decreto per la completezza dell'informazione alla controparte considerando che il decreto può essere motivato de relato. Ma nell'eventualità che il decreto sia invece compiutamente motivato non vi sarebbe alcuna necessità di notificare anche il ricorso. L'art. 669-sexies c.p.c., nel prevedere la notifica del ricorso e del decreto di concessione del provvedimento cautelare reso inaudita altera parte nel termine perentorio di otto giorni, tende ad assicurare il rispetto del principio del contraddittorio che non si sottrae alla regola della sanatoria degli atti nulli per raggiungimento dello scopo. Pertanto, la notifica del solo decreto è sufficiente laddove lo stesso risulti ampiamente motivato, anche con riferimento al contenuto del ricorso e ove all'udienza di comparizione il resistente abbia avuto modo di esaminare gli atti ed i documenti di controparte (Trib. Salerno 2 febbraio 1994). All'udienza di comparizione delle parti, il giudice provvede con ordinanza, sentite le parti e compiuti gli atti istruttori necessari per verificare le sommarie informazioni acquisite per la pronuncia del decreto inaudita altera parte. Con tale ordinanza, il giudice conferma, modifica o revoca il decreto precedentemente emesso in assenza di contraddittorio. È questo il provvedimento contro il quale sarà possibile esperire il reclamo in quanto atto conclusivo del procedimento cautelare. In sostanza, all'udienza di comparizione delle parti, il provvedimento cautelare emesso in via urgente e senza contraddittorio viene sottoposto alla valutazione delle parti e all'esame del giudice che potrà rivedere il proprio convincimento sulla base delle difese del resistente e delle eventuali ulteriori deduzioni del ricorrente. In questa udienza il decreto può perdere efficacia ove sia revocato e ciò può accadere anche per la totale mancanza delle condizioni di efficacia nel rito (ad esempio, la mancata notificazione entro gli otto giorni previsti dalla norma) ovvero per motivi di merito cioè per mancanza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora; può anche essere sostituito da un provvedimento diverso. Questo provvedimento mantiene la pregressa efficacia del precedente decreto cautelare laddove il giudice ne riconosca la continuità, altrimenti produce efficacia ex tunc. Infine, il provvedimento può essere del tutto confermato perché anche all'udienza di comparizione il giudice riscontra, anche ex officio, in mancanza di sollecitazione delle parti, l'esistenza dei presupposti sia di rito che di merito per la concessione della misura. Il giudice non è tenuto ad una conferma a forma vincolata perché può senz'altro emettere un provvedimento univocamente consequenziale, in tal modo confermando implicitamente il provvedimento precedente. Secondo la Cassazione, vanno distinte le condizioni di efficacia (notificazione entro otto giorni e fissazione dell'udienza nel termine di quindici giorni dall'adozione del decreto) relative agli adempimenti posti a carico della parte ricorrente nella fase a contraddittorio non integro, da quelle proprie della fase a contraddittorio pieno che si esplicano nell'udienza fissata ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. In questa udienza, infatti, nel rispetto del principio della domanda e delle prospettazioni difensive delle parti, non è tenuto a pronunciare un provvedimento a forma predeterminata, specialmente nell'ipotesi in cui la misura cautelare è stata chiesta in corso di causa. Ciò perché in tale ipotesi l'udienza in questione può chiudersi con un provvedimento di prosecuzione delle attività proprie del giudizio a cognizione piena che si aggiunge a quello di conferma del decreto inaudita altera parte o che lo contiene implicitamente. Ciò che rileva ai fini dell'efficacia del decreto è la fissazione di un'udienza di comparizione delle parti che ripristini il contraddittorio mancato nella fase conclusasi con decreto e la successiva adozione di un provvedimento che si possa univocamente ricondurre alla misura cautelare precedente (Cass. I, n. 23674/2013). Sempre con riferimento alla decorrenza del termine per gli effetti della misura, la giurisprudenza di legittimità ha avuto di recente la possibilità di esprimersi con riferimento all'ipotesi in cui un provvedimento di sequestro conservativo sugli immobili del debitore venga: 1) prima concesso con decreto inaudita altera parte; 2) poi revocato dallo stesso giudice che lo ha concesso all'esito dell'udienza di discussione, con ordine di cancellazione della trascrizione; 3) nuovamente concesso dal collegio in sede di reclamo cautelare. In tal caso, ha specificato la Corte di Cassazione, gli effetti del sequestro conservativo si producono rispetto ai terzi sin dalla data della trascrizione del primo decreto concesso inaudita altera parte, qualora prima della pronuncia collegiale non si sia comunque provveduto alla sua cancellazione (Cass. III, n. 14190/2012). Compatibilità dei termini posti ex artt. 669-sexies, comma 2, c.p.c., con la tutela cautelare nel diritto industriale Premessa l'applicabilità della disciplina dell'art. 669-sexies c.p.c. alla tutela cautelare nel diritto industriale, resta da chiedersi se i termini posti dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. siano compatibili con la stessa. Per risolvere il quesito è opportuno verificare gli orientamenti della giurisprudenza di merito. Il termine di otto giorni decorre dalla pronuncia del provvedimento e non dal conseguimento della correzione dell'errore materiale che inficiava il decreto, la cui richiesta non fu accompagnata da un'istanza di rimessione in termini (Trib. Napoli 5 dicembre 2019). Nella fattispecie oggetto della pronuncia ora riportata e collegata al rispetto del termine perentorio per la notifica del ricorso e del decreto, trattavasi di procedimento per reclamo cautelare contro un'ordinanza che disponeva una inibitoriaexart. 130 c.p.i., un sequestro e un ritiro dal commercio di alcuni prodotti. In particolare, con riferimento al rispetto del termine de quo, il resistente, soggetto passivo del provvedimento cautelare reclamato, affermava, appunto, che il ricorrente non avesse rispettato il termine perentorio previsto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. Il giudice adito, infatti, aveva concesso i provvedimenti in questione con decreto inaudita altera parte; il giorno successivo alla concessione del provvedimento senza contraddittorio il ricorrente aveva proposto istanza di correzione del decreto perché non si potevano individuare i beni soggetti alle dette cautele. Solo dopo la correzione del decreto il ricorrente notificava lo stesso al resistente ma ormai era decorso il termine perentorio degli otto giorni individuato dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. Il Tribunale partenopeo, accogliendo il reclamo proposto dal resistente, affermava il principio di cui in massima, ritenendo, con pronuncia senz'altro criticabile, appunto, che il termine in parola decorre dalla pronuncia del provvedimento originario, anche se esso non sia concretamente eseguibile perché inficiato da un errore materiale e non già dalla correzione del provvedimento stesso. In realtà, il principio affermato dalla sentenza ora citata è in contrasto con quanto emerso dalla giurisprudenza dominante in materia di tutela cautelare nel diritto industriale. Questa pronuncia del Tribunale di Napoli è stata criticamente commentata perché in contrasto con l'orientamento dominante formatosi presso il Tribunale di Milano che è l'ufficio giudiziario con il maggior carico di contenzioso industriale; tale ufficio ha più volte affermato che la norma dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. che fissa i termini per la notifica del provvedimento cautelare concesso inaudita altera parte non è il primo e diretto riferimento normativo per il procedimento di descrizione, trovando questo la sua primigenia fonte di disciplina negli artt. 129 e 130 c.p.i.: il codice della proprietà industriale, infatti, fa riferimento all'applicazione del libro IV, titolo I, del codice di procedura civile solo limitatamente ai casi in cui tale applicazione sia compatibile con le misure speciali della disciplina industriale (Trib. Milano 4 luglio 2011; Trib. Milano 30 agosto 2011). L'orientamento dei giudici meneghini sostanzialmente ritiene, sulla base della ricordata clausola di compatibilità posta dall'art. 129 c.p.i., che la disciplina del codice di rito possa essere applicata nei limiti in cui non contrasta con la disciplina dei provvedimenti cautelari nel diritto della proprietà industriale e che, pertanto, il termine di notifica del decreto cautelare possa essere anche superiore agli otto giorni previsti dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. purché anche l'udienza venga spostata oltre i termini di 15 giorni previsti dalla stessa norma e purché siano rispettati i termini a difesa dell'intimato. Questo orientamento ha trovato conferma in diverse pronunce dei tribunali nell'intera nazione. Si è ad esempio affermato che la notifica senza il rispetto del termine del ricorso cautelare con pedissequo decreto, se non produce conseguenze sulla integrità del contraddittorio e sul diritto di difesa, non incide sulla regolarità della procedura cautelare improntata al principio della deformalizzazione (Trib. Bologna 19 aprile 2002; Trib. Roma 2 aprile 2015). In dottrina, con riferimento critico alla soluzione prescelta dalla sentenza ora citata del Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia di impresa, si è posta il dubbio se il termine perentorio di otto giorni per la notifica del ricorso e del decreto posto dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., sia compatibile con il diritto industriale. Necessaria premessa del discorso è la norma di cui all'art. 129, comma 4, prima parte, c.p.i. ai sensi della quale i procedimenti di descrizione e di sequestro sono disciplinati dalle norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti cautelari, in quanto compatibili e non derogate dal presente codice. Peraltro, come visto supra, la giurisprudenza del Tribunale di Milano, in tema di contenzioso industriale, si è attestata in senso diverso rispetto alla pronuncia sopra ricordata, atteso che si è più volte detto che il termine di notifica del decreto di sequestro può essere fissato anche oltre gli 8 giorni previsti dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. perché è sufficiente che l'udienza in contraddittorio sia anch'essa differita oltre i quindici giorni e che comunque siano rispettati i termini di difesa che devono essere in base alle regole generali assegnati all'intimato (per la ricostruzione del principio Ferrari 2016, 116). L'Autrice rileva come questa interpretazione pretoria trovi riscontro senz'altro nella norma dell'art. 132, comma 2, ultima parte, c.p.i. secondo cui «... se sono state chieste misure cautelari ulteriori alla descrizione unitamente o subordinatamente a quest'ultima, ai fini del computo del termine si fa riferimento all'ordinanza del giudice designato che si pronuncia anche su tali misure». Dal combinato disposto di queste norme del c.p.i. risulta che il regime dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., per la pronuncia di provvedimenti cautelari inaudita altera parte trova applicazione nei limiti di compatibilità con la tutela cautelare industriale che, invece, viene regolamentata direttamente dall'art. 129, comma 2, c.p.i. prima citato. Alla luce di quanto ora esposto e della giurisprudenza contraria supra richiamata deriva, a parere della dottrina che si è occupata del tema, la censurabilità della soluzione sposata dal Tribunale di Napoli, sia quanto alla decorrenza del termine, sia quanto alla necessità predicata di una rimessione in termini (funditus, criticamente, Ferrari 2020, 1673). Sempre con riferimento alla notifica del decreto cautelare inaudita altera parte, pur se non con riferimento al termine, si è recentemente affermato che qualora il procedimento di descrizione exartt. 129 e 130 c.p.i. sia emesso inaudita altera parte in seguito all'assunzione da parte del giudice di sommarie informazioni ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., la successiva notifica al resistente a cura dell'istante deve riguardare il ricorso e il pedissequo decreto, non anche il verbale delle sommarie informazioni assunte, prevedendo il codice di rito la notifica del solo ricorso e del decreto emanato inaudita altera parte ed essendo il verbale delle sommarie informazioni conservato agli atti del fascicolo d'ufficio e dunque liberamente accessibile alla parte resistente unitamente ai documenti prodotti dal ricorrente a sostegno del proprio ricorso (Trib. Milano 17 aprile 2018). La cognizione e la valutazione del giudice sul fumus boni iurisResta da esaminare il profilo dell'àmbito e della struttura della cognizione del giudice sul fumus boni iuris, tenendo conto della sommarietà del processo cautelare. All'interno degli studi compiuti sul tema, si va da chi ritiene che il giudice possa emettere il provvedimento cautelare senza praticamente effettuare attività istruttoria e, dunque, compiendo un giudizio di pura verosimiglianza, a chi, invece, ritiene che la natura dell'accertamento compiuto dal giudice debba rimanere identica a quella di qualsiasi altro provvedimento sommario non cautelare con l'unica differenza della incapacità in astratto del provvedimento cautelare a regolamentare in modo pieno e definitivo l'assetto di interessi inter partes. Si è, infine, prospettata la soluzione che incasella l'àmbito del fumus boni iuris al giudizio di verosimiglianza inteso in senso prognostico rispetto alla possibile fondatezza della domanda poi proposta nel merito. Premesso che il tema risulta complicato dalle modifiche legislative in termini di strumentalità, atteso che, pur non acquisendo mai definitività il provvedimento cautelare anticipatorio può, comunque, disciplinare in modo praticamente, pur se non teoricamente, definitivo l'assetto di interessi inter partes, è opportuno riassumere le opinioni dottrinali sulla complessa questione della valutazione del fumus boni iuris. Ho già riferito dell'opinione dottrinale che ritiene che la cognizione del giudice della cautela si strutturi nella possibilità per il giudice stesso di concedere il provvedimento cautelare richiesto anche senza compiere attività istruttoria, effettuando una valutazione di verosimiglianza che si fonda unicamente su ciò che il richiedente ha allegato (Montesano 1999, 310; Tommaseo 1983, 270). Vi è, invece, chi ritiene che la cognizione compiuta dal giudice della cautela per l'accertamento del fumus boni iuris non sia dissimile rispetto a quella compiuta in qualsiasi altro procedimento sommario, differenziandosi i due procedimenti soltanto nell'esito, visto che il provvedimento cautelare è inidoneo a disciplinare in modo definitivo la situazione sostanziale tra le parti (Proto Pisani 1991, 9; Carratta 1997, 305). Vi è, infine, chi ritiene che la cognizione del giudice della cautela possa ricondursi alla ipotetica prognosi di accoglibilità della domanda nel futuro giudizio di merito; sposando questa tesi si dice, giustamente, come l'oggetto del giudizio sulla cautela debba prescindere dal modello probatorio ordinario. Sicché nel decidere sull'esistenza del fumus boni iuris il giudice dovrà compiere quello che è stato definito «accertamento in fieri» il cui nucleo principale è dato dai fatti secondari che, presuntivamente, consentano di prognosticare l'esito del futuro giudizio di merito. Con la conseguenza che tutto il materiale probatorio sottoposto all'esame e alla cognizione del giudice cautelare può rilevare, ai fini della concessione del provvedimento in questione, come presunzione ai sensi dell'art. 2727 c.c. (v., amplius, con ulteriori rilievi, Recchioni 2015, 447). Con la conseguenza che la sommarietà della cognizione cautelare non è tale rispetto all'accertamento del fatto ma, piuttosto, quanto alla valutazione delle risultanze probatorie (così Recchioni 2015, 450). Resta da domandarsi quale ruolo rivesta nell'àmbito della cognizione cautelare la regola dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. Va condivisa quell'opinione secondo cui la regola dell'onere della prova non è compatibile con la cognizione cautelare; ciò perché l'ambito della cognizione nel processo cautelare si fonda non tanto sull'effettivo riscontro dei fatti allegati dalle parti, bensì sul bilanciamento degli interessi di parte (Recchioni 2015, 462). Il bilanciamento diventa la regola preponderante sostituendosi alla regola dell'onere della prova, nei limiti in cui è necessario valutare se la posizione processuale del resistente prevalga su quella del ricorrente o viceversa (v., amplius, Cavallone, 174). È certo che nel giudizio cautelare il principio dell'onere della prova si atteggia in modo diverso rispetto al giudizio di merito. In sede di tutela cautelare, infatti, quel principio deve essere bilanciato con la tipologia dell'accertamento che vi si compie e che si concreta in un mero giudizio di verosimiglianza. Sulla portata dell'onere della prova nel giudizio cautelare rispetto al giudizio di merito, basti rinviare a quanto affermato dalla Corte Costituzionale. La stessa ha detto, infatti, con riferimento al sindacato disimpegnato dal giudice civile nella emanazione di un provvedimento cautelare che la concessione della misura cautelare si fonda sui soli presupposti del pregiudizio irreparabile e del fumus boni iuris; quest'ultimo in particolare deve risultare da un semplice giudizio di verosimiglianza, concretizzantesi in una «valutazione probabilistica circa le buone ragioni dell'attore, le quali vanno preservate dal rischio di restare irreversibilmente compromesse durante il tempo necessario a farle valere in via ordinaria». Da ciò deriva il carattere strumentale del provvedimento cautelare e la connessa struttura sommaria della cognizione. Quest'ultima, lungi dall'identificarsi con una normale istruzione probatoria, si configura come assunzione, nel modo che il giudice ritiene più opportuno, degli atti istruttori indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. Essa, quindi, non conduce ad esprimere una valutazione di tipo contenutistico sui fatti che rilevano ai fini della causa di merito ma, al contrario è finalizzata solo alla verifica dei presupposti in questione, ossia il fumus boni iuris e il periculum in mora, e non può, per definizione, interferire con la cognizione piena, al cui esito soltanto si definisce la causa di merito. Il materiale probatorio raccolto ante causam non è, di per sé, destinato ad assumere una sua evidenza nel successivo giudizio, rilevando semmai come argomento di prova. La cognizione che il codice di procedura civile attribuisce al giudice in sede di provvedimenti cautelari ante causam lascia, dunque, assolutamente irrisolto il quesito relativo all'esito del giudizio di merito e non anticipa la decisione del merito, essendo diretta soltanto a tutelare temporaneamente un preteso diritto onde salvaguardarlo dal pregiudizio grave e irreparabile ravvisato sulla base di una valutazione provvisoria e di semplice verosimiglianza (Corte cost., n. 326/1997). La cognizione del giudice sul periculum in mora.Rispetto al periculum in mora, vale senz'altro l'insegnamento secondo cui rispetto al pericolo – che è il principale elemento di distinzione di questa tutela rispetto alle altre, ordinaria e sommarie – non è possibile formulare un giudizio meramente ipotetico perché è necessario, sia pur entro i limiti del giudizio di probabilità, che il giudice raggiunga un certo grado di convincimento. Trattasi, comunque, di un giudizio di probabilità o, se si preferisce, di verosimiglianza, non potendosi condividere l'opinione diversa secondo cui il pericolo andrebbe comunque accertato in modo rigoroso e non meramente prognostico. La cognizione del pericolo nel ritardo sarebbe quindi una cognizione di verità e non già di mera verosimiglianza; è un giudizio sul pericolo e non sul pregiudizio perché non è possibile, entro i limiti della cognizione cautelare, valutare se effettivamente esiste il diritto a cautela del quale il provvedimento è concesso (in termini Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 469; Consolo 1978, 33). Da altri, si è detto che anche la cognizione del periculum in mora deve essere effettuata in termini di probabilità (così Proto Pisani 2009, 599; Montesano 1955, 85). Che il giudizio sul periculum in mora debba essere comunque compiuto in termini di probabilità o di verosimiglianza è stato affermato anche in relazione al disposto dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. Infatti, si è ritenuto che la teoria, su cui oltre, secondo cui lo stato di pericolo debba essere accertato in concreto e non mero oggetto di giudizio di verosimiglianza, si scontra contro la previsione normativa richiamata secondo cui il provvedimento cautelare può essere concesso anche in assenza di contraddittorio e senza attività istruttoria laddove ricorra il pericolo del ritardo nell'attuazione del provvedimento (in termini, v. Recchioni 2015, 473). In giurisprudenza di merito soprattutto vi sono esempi, invece, dell'opinione diversa che pretende, come accennato, che il pericolo vada accertato rigorosamente nel rispetto degli oneri della prova che incombono sul ricorrente e non possa essere fondato semplicemente su una valutazione prognostica o probabilistica. Alcune pronunce, in particolare, hanno richiesto la prova effettiva del pericolo. Si è detto, ad esempio, che in difetto di prova circa l'effettiva sussistenza della minaccia di un pregiudizio imminente e irreparabile, va revocato il provvedimento cautelare con cui era stato accertato l'inadempimento dei patti parasociali di non concorrenza stipulati a beneficio di una società operante nel settore delle telecomunicazioni. Nella specie, si è rilevato che, pur sussistendo la possibilità di un danno all'immagine della società: a) i soci erano in grado di sopperire, in caso di necessità, a qualsiasi esigenza della società; b) l'autore della violazione era in grado di far fronte ad ogni obbligazione risarcitoria; c) non vi era alcuna incidenza sull'acquisizione dei clienti del servizio; d) non risultava avviata alcuna iniziativa da parte delle autorità di controllo e vigilanza del settore; e) non vi era alcun pericolo concreto di prosecuzione della condotta. In relazione a ciò, il giudice ha ritenuto che l'esistenza di una semplice possibilità di pregiudizio avente le caratteristiche previste dall'art. 700 c.p.c. non è sufficiente per l'emissione di un provvedimento cautelare d'urgenza (e va quindi accolto il reclamo contro l'ordinanza che lo ha concesso), richiedendosi a tal fine la prova dell'effettiva minaccia di un pregiudizio imminente e irreparabile (situazione che in concreto si è ritenuta insussistente a fronte dell'ottimo andamento della società esposta al pregiudizio) (Trib. Roma 28 agosto 1999). E ancora si è ritenuto che manchi il presupposto del periculum in mora qualora il lavoratore, ricorrendoexart. 700 c.p.c. contro il licenziamento, si limiti a dedurre la sussistenza del pregiudizio irreparabile sul presupposto della sola natura del diritto vantato, senza esporre elementi di effettivo valore probatorio e deducendo in udienza una generica indicazione di disagio economico derivante dal fatto di trovarsi in una zona economicamente poco sviluppata (Trib. Viterbo 20 settembre 1999). Più di recente, si è precisato, sempre in materia di lavoro, che il periculum in mora non può identificarsi, sic et simpliciter, con il danno derivante dal provvedimento datoriale in sé considerato, ma è dato dal pregiudizio che può derivare al lavoratore dall'attesa della decisione di merito. Spetta, pertanto, a colui che promuove il giudizio cautelare allegare e provare, con fatti specifici, che il protrarsi della situazione ritenuta antigiuridica possa arrecargli gravi danni, non ristorabili neppure successivamente. Consegue che l'esistenza del requisito del periculum in mora deve essere verificata in concreto in relazione all'effettiva situazione personale, professionale o socioeconomica del lavoratore, sul quale incombe l'onere di allegazioni concrete e puntuali sulle circostanze di fatto dalle quali possa desumersi il concreto rischio che, nel tempo occorrente per l'espletamento del processo di merito, la sua professionalità venga effettivamente a depauperarsi o ne venga compromessa la situazione personale e familiare o il suo equilibrio psicofisico; e dalle quali emerga che la situazione lavorativa attuale, nel tempo occorrente per il giudizio ordinario, possa configurarsi quale fonte di pregiudizio irreparabile (Trib. Caltanissetta 20 settembre 2019). Nello stesso senso, sempre a titolo esemplificativo di questa tendenza della giurisprudenza, si è statuito che, nell'eventualità di ricorso ex art. 700 c.p.c. nei confronti di un licenziamento, non può ritenersi che il periculum in mora sia implicito nella perdita del posto di lavoro, dovendosi ritenere che incomba sul lavoratore la prova della concreta ricorrenza dello stesso periculum in mora, con specifiche ragioni di urgenza ulteriori e aggiuntive rispetto a quelle date dalla natura della causa (Trib. Forlì 21 marzo 2000). Anche rispetto alla prova della verificabilità della lesione (insita nella cognizione sul periculum in mora) si riscontrano opinioni discordanti. Mentre la dottrina sembra incline a ritenere che anche rispetto alla lesione il giudizio del giudice della cautela debba esprimersi in termini di probabilità del verificarsi della stessa, la giurisprudenza, invece, tende a volere la prova rigorosa del pericolo, così concentrandosi solo su uno degli elementi dello stesso. Ciò perché, ovviamente, non possibile chiedere una prova rigorosa e specifica di una lesione che non potrà prodursi che in un momento futuro e incerto. Il rigore che la giurisprudenza richiede nella prova del pericolo sconta il rischio di rigettare del tutto il giudizio sia di verosimiglianza, sia probabilistico e finisce per chiedere anche nella cognizione cautelare lo stesso grado di certezza richiesto nell'ambito del processo ordinario di cognizione. Questo modus operandi è a parere della dottrina «inaccettabile, perché snatura la cognizione cautelare». Se è vero che il giudizio del giudice della cautela non può essere arbitrario ma comunque razionale, l'unico modo non è richiedere la prova rigorosa del pericolo all'istante ma basare il convincimento del giudice su una prognosi fondata su ragionamenti probabilistici (v., amplius, Recchioni 2015, 476 con ulteriori riferimenti anche alla dottrina che ritiene che il giudizio sul periculum in mora debba essere formulato in termini probabilistici). Si è precisato che sarebbe paradigmatica di questa tendenza giurisprudenziale alla ricerca della prova rigorosa del pericolo finendo per pretendere un grado di certezza pari a quello necessario nel processo di cognizione, una sentenza di merito (così Recchioni 2015, 476, nota 158). La sentenza in questione ha affermato che il pregiudizio derivante dall'applicazione di clausole abusive deve essere ancorato a situazioni e rapporti determinati, cioè a specifici contratti con riferimento ai quali, successivamente alla loro conclusione, le clausole abusive siano state fatte valere o, quantomeno, siano maturati i presupposti per la loro applicazione. Una mera potenzialità dannosa delle clausole abusive contenute nelle condizioni generali e non un pregiudizio concreto non giustifica l'emissione di un provvedimento inibitorio ex art. 1469-sexies c.c. In particolare, va pertanto respinta la richiesta di inibitoria cautelare avanzata da un'associazione rappresentativa degli interessi dei consumatori che lamenti l'uso, da parte di una società importatrice di autoveicoli e dei suoi concessionari, di condizioni generali di contratto vessatorie (Trib. Torino, 16 agosto 1996). Sempre negli stessi termini una pronuncia che ha affermato che in caso di trasferimento del lavoratore sussiste il periculum in mora necessario per l'emanazione di un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. quando dal provvedimento derivino al lavoratore comprovati pregiudizi alla vita familiare e di relazione, non risarcibili per equivalente (Trib. Roma 26 gennaio 2000). Il rapporto tra il fumus boni iuris e il periculum in mora nella cognizione del giudice della cautela.Resta da esaminare il problema del rapporto tra la probabile fondatezza della pretesa e l'altrettanto probabile pericolo e il ruolo che questi due presupposti hanno ai fini della concessione del provvedimento e, quindi, nell'ambito della cognizione del giudice della cautela. Parte della dottrina ritiene che il fumus e il periculum siano due presupposti del tutto distinti ma che, ai fini della concessione del provvedimento cautelare richiesto, sia necessario valutare la rilevanza dell'uno e dell'altro autonomamente; detto in altri termini basta che manchi uno dei due presupposti perché la domanda di cautela possa senz'altro essere rigettata (così, ad esempio, Attardi 1955, 166). Secondo un'altra opinione, i due elementi lungi dal porsi in una posizione di reciproca autonomia e di sostanziale indifferenza, si pongono in termini di reciproca funzionalità, ragion per cui uno dei due presupposti concorre alla determinazione dell'esistenza dell'altro (Consolo 1998, 35). Valorizzando i risultati cui perviene questa tesi si può arrivare a ritenere che i due presupposti per la cautela, fumus boni iuris e periculum in mora, siano, ai fini della cognizione cautelare, non già due separati ed autonomi ma sostanzialmente unitari e interdipendenti (Consolo 1998, 36). In relazione a tale tesi si è infatti sottolineato come una conferma indiretta di questa unitarietà e interdipendenza derivi dal fatto che si formula spesso una equazione tra i due presupposti, arrivando a dire che maggiore è il grado di probabilità del fumus, minore è il grado di probabilità del verificarsi del periculum e viceversa (così Recchioni 2015, 508). L'ultimo autore sottolinea, tuttavia, come pur essendo i due elementi in rapporto di dipendenza funzionale del fumus boni iuris rispetto al periculum in mora, purtuttavia i due presupposti restano comunque tra loro logicamente e funzionalmente distinti; ne è prova quello che l'autore definisce principio di assorbimento, ossia il fatto che per rigettare la domanda di provvedimento cautelare è sufficiente che il giudice della cautela verifichi che non esiste o l'uno o l'altro dei due presupposti (v., amplius, Recchioni 2015, 509). La nuova ordinanza di condanna con riserva tra Commissione Luiso e legge delega n. 206/2021La grande novità del progetto di riforma del processo civile predisposto dalla Commissione Luiso, rispetto alla semplificazione dei riti, stava nell'introduzione di uno speciale procedimento preordinato all'emanazione di una ordinanza di condanna con riserva. La l. n. 206/2021 non ha recepito – come vedremo – il modello nella forma elaborata dalla Commissione Luiso, ma ha delegato il legislatore a prevedere che, nell'ipotesi di accoglimento della domanda, nel corso del giudizio di primo grado, nelle controversie di competenza del tribunale che hanno ad oggetto diritti disponibili: Il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate; Che l'ordinanza di accoglimento sia reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. e non acquisti efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c. né possa rivestire autorità in altri processi; Che in caso di accoglimento del reclamo il procedimento di merito prosegua davanti ad un giudice diverso che appartiene allo stesso ufficio giudiziario. Invece, nel caso di rigetto della domanda, il legislatore delegato deve prevedere che nel corso del giudizio di primo grado nelle controversie di competenza del tribunale in materia di diritti disponibili: All'esito della prima udienza di comparizione e di trattazione della causa il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando quest'ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall'art. 163, comma 3, c.p.c. ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al n. 4) del comma 3; Che l'ordinanza in questione sia reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. e non acquisti efficacia di giudicato ai sensi dell'art. 2909 c.c. né possa avere autorità in altri processi; Che in caso di accoglimento del reclamo il procedimento prosegua davanti ad un giudice diverso appartenente allo stesso ufficio giudiziario; Coordinare la disciplina dell'art. 164, commi 4, 5, e 6 c.p.c. con quanto previsto dal n. 1). Invece, nel progetto della Commissione Luiso, si prevedeva l'introduzione nel processo civile di una novella ordinanza di condanna con riserva diretta a far conseguire rapidamente un titolo esecutivo modellato su tipologie di provvedimento da noi già note, come ad es. quelle disciplinate dagli artt. 35 e 648 c.p.c. o anche dall'art. 1462 c.c., ma anche mutuata dall'esame comparatistico e dai modelli di riferimento esteri, primo fra tutti il référé provision francese (su cui v. il commento subart. 669-octies c.p.c.). Il primo modello di riferimento è senz'altro quello previsto dall'art. 19, comma 2-bis, del d.lgs. n. 5/2003, secondo cui al termine dell'udienza il giudice, laddove ritenesse sussistenti i fatti costitutivi della domanda e manifestamente infondata la contestazione del convenuto, poteva pronunciare ordinanza immediatamente esecutiva di condanna, disponendo sulle spese ai sensi degli artt. 91 ss. c.p.c. Tale ordinanza costituiva titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. Il procedimento nel progetto della Commissione Luiso aveva caratteristiche di autonomia rispetto al processo ordinario di cognizione ma anche natura incidentale e funzione di anticipatorietà al pari delle ordinanze anticipatorie di condanna di cui agli artt. 186-bis ss. c.p.c. Il rito richiamava in più punti il procedimento cautelare uniforme prevedendosi sia l'applicabilità dell'art. 669-sexies c.p.c. nella pronuncia dell'ordinanza, sia la reclamabilità ex art. 669-terdecies c.p.c. In particolare in tale progetto si chiariva come tale provvedimento abbia finalità acceleratorie e di semplificazione della decisione e si tratti di una misura sommaria e provvisoria con efficacia esecutiva, sulla base, appunto, di modelli di riferimento di altri ordinamenti, come il référé provision dell'art. 809 del code de procédure civile francese o il summary judgment di cui alle civil procedure rules anglosassoni, e modulato, appunto, sulle fattispecie similari già previste nel nostro ordinamento e prima richiamate. Il presupposto per la pronuncia di questo provvedimento sommario e provvisorio è dato dal raggiungimento della prova dei fatti costitutivi della domanda e dalla valutazione giudiziale di manifesta infondatezza delle difese del convenuto. La delega prevede che il provvedimento in questione possa essere pronunciato, con funzione anticipatoria, nel corso del giudizio di primo grado, oppure, in via autonoma, prima dell'inizio del processo, seguendo il procedimento sommario di cui all'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. e provvedendo alla liquidazione delle spese processuali, ferma la sua reclamabilità ex art. 669-terdecies c.p.c. e la sua inidoneità al passaggio in giudicato. La dottrina che si è occupata dell'argomento ha chiarito come il rinvio al rito cautelare uniforme fosse nel progetto di riforma della Commissione Luiso soltanto un riferimento procedimentale, ma come non avesse alcuna attinenza con la natura e i presupposti della tutela cautelare perché da questo provvedimento «nuovo» esula il periculum in mora, sicché lo stesso si differenzia anche dal modello di riferimento, ossia il référé provision che, pur avendo una funzione non cautelare, viene utilizzato anche in casi di urgenza che rivestono natura tipicamente cautelare (Tiscini 2021, 1217). Secondo tale dottrina, il disegno di legge approvato in Senato nella prima parte rispecchia quasi fedelmente il progetto della Commissione Luiso introducendo una condanna con riserva delle eccezioni che si può anche pronunciare autonomamente, ossia prima dell'instaurazione del giudizio di cognizione, e non necessariamente in via incidentale nello stesso. Questo modello, che non riveste natura cautelare e si appoggia al cautelare solo sotto l'aspetto procedimentale, è diretto ad ottenere rapidamente un titolo esecutivo. La sua introduzione è da valutare positivamente visto che si propone di realizzare immediatamente il titolo esecutivo indipendentemente dalla stabilizzazione degli effetti propria della funzione della tutela di cognizione, pur se non vi è alcuna certezza del possibile successo del meccanismo nella realtà dei fatti (Tiscini 2021, 1217). Ugualmente si è rilevato che l'ordinanza in parola può avere senz'altro l'effetto di aumentare l'effettività della tutela dichiarativa permettendo all'attore di ottenere rapidamente e, comunque, prima del termine del giudizio di merito, l'oggetto del suo diritto. Non si tratta, tuttavia, di una «rivoluzione copernicana» pur se la valutazione della previsione è senz'altro positiva perché separa gli effetti anticipatori dalla esigenza di accertamento del periculum in mora proprio della tutela cautelare (Tombolini, 4). Va segnalato che il modello procedimentale poi trasfuso nella legge delega n. 206/2021 elimina la previsione contenuta nel progetto della Commissione Luiso secondo cui tale ordinanza poteva essere pronunciata anche ante causam e, pertanto, si elimina il riferimento all'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. quale modello procedimentale per la relativa adozione, mentre si prevede, sia per l'ordinanza di accoglimento che per quella di rigetto, che sia affidata ad altro giudice in caso di accoglimento del reclamo proposto ex art. 669-terdecies c.p.c.Viene meno pertanto la possibilità di un utilizzo del modello procedimentale sommario di cui all'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c. per la pronuncia di un'ordinanza sommaria ma non cautelare. 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