Codice di Procedura Civile art. 669 septies - Provvedimento negativo (1).


Provvedimento negativo (1).

[I]. L'ordinanza di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda [640 3]. L'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza [669-bis] per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze [669-decies 1] o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto.

[II]. Se l'ordinanza di incompetenza o di rigetto è pronunciata prima dell'inizio della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare [91 1].

[III]. La condanna alle spese è immediatamente esecutiva (2).

(1) La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995.

(2) Comma così sostituito dall'art. 50, comma 1, della l. 18 giugno 2009, n. 69(legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Il testo precedente recitava: «La condanna alle spese è immediatamente esecutiva ed è opponibile ai sensi degli articoli 645 e seguenti in quanto applicabili, nel termine perentorio di venti giorni dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione».

Inquadramento

Abbiamo già visto nelle pagine che precedono come lo schema processuale del procedimento cautelare uniforme si articoli sostanzialmente in tre fasi: la prima è quella relativa all'istanza cautelare; la seconda è quella afferente alla sommaria istruzione e al provvedimento, di segno positivo o negativo, emanato dal giudice; la terza riguarda la riforma del provvedimento emesso all'esito della prima fase.

Il procedimento si conclude, comunque, dopo la concreta realizzazione del contraddittorio, con un'ordinanza che autorizza o nega la misura cautelare (ipotesi, rispettivamente, disciplinate dagli artt. 669-sexies e 669-septies c.p.c.).

Nell'ipotesi di provvedimento negativo, ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c., se motivato da ragioni di incompetenza, è consentita la libera riproponibilità dell'istanza; se, invece, è motivato da ragioni di merito l'istanza può essere riproposta, come vedremo, laddove si verifichino mutamenti delle circostanze o si deducano nuove ragioni di fatto o di diritto. Nell'ipotesi di provvedimento cautelare positivo, cioè che autorizzi la cautela, esso, di per sé esecutivo, deve essere attuato, ad istanza dell'interessato, secondo forme in parte mutuate dall'esecuzione forzata e specificamente disciplinate dall'art. 669-duodecies c.p.c.

Non è stata, purtroppo, accolta dal legislatore la proposta, contenuta nell'art. 705-quinquies, commi 1 e 2, c.p.c., del Progetto Tarzia, che prevedeva la necessità per l'ordinanza con cui il giudice adito si dichiarava incompetente di indicare il giudice ritenuto competente e che l'istanza potesse essere riproposta solo dinanzi a tale giudice, sicché l'art. 669-septies c.p.c. non prevede affatto la necessità di una indicazione del giudice competente né l'obbligo per le parti di adire tale giudice.

La dettagliata disciplina del provvedimento cautelare negativo, contenuta nell'art. 669-septies c.p.c., rappresenta una novità rispetto al sistema precedente. Nel modello originario, su cui poi ha inciso l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 669-terdeciesc.p.c. (al cui commento si rinvia) la disciplina del provvedimento cautelare negativo si strutturava su tre diversi presupposti: a) la domanda cautelare rigettata per motivi di competenza è sempre liberamente riproponibile; b) vi è preclusione, anche se parziale, alla riproposizione della domanda cautelare rigettata per motivi di merito, al fine di evitare la pratica scorretta del c.d. forum shopping cautelare, ossia la proposizione di diverse domande cautelari a giudici diversi per cercare il giudice favorevole; c) non è reclamabile il provvedimento negativo (nello schema originario) che, pertanto, laddove emanato prima della causa di merito, contiene anche la pronuncia sulle spese di lite con natura definitiva, salva l'opposizione.

Su questo schema articolato nei tre presupposti or ora cennati, ha inciso la pronuncia della Corte Costituzionale sul reclamo (Corte cost., n. 253/1994) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c. nella parte in cui non ammette il reclamo, ivi previsto, anche contro l'ordinanza con cui è stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare. La Corte in tale pronuncia ha affermato che l'equivalenza nell'attribuzione dei mezzi processuali esperibili dalle parti è in un rapporto di necessaria strumentalità con le garanzie di azione e di difesa sancite dall'art. 24 Cost., di modo che una distribuzione squilibrata dei mezzi di tutela, riducendo la possibilità per una delle parti di far valere le proprie ragioni, condiziona a suo danno in modo improprio e a favore della controparte l'andamento dell'intero processo.

In particolare, il legislatore, nel prevedere il reclamo con l'art. 669-terdecies c.p.c., che consente da parte di un giudice diverso e collegiale il controllo sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela, ha negato tale tutela alla parte che subisce la situazione assunta come lesiva del proprio diritto e che ha chiesto, senza ottenerla, una cautela anticipatoria o conservativa. La Consulta ha riconosciuto che in tal caso si verifica una amputazione del diritto di difesa perché si attribuisce una maggiore possibilità di far valere le proprie ragioni a chi resiste alla richiesta di provvedimento cautelare piuttosto che a chi tale richiesta avanza. Asimmetria che non ha alcuna ragione di esistere perché le due parti si trovano, rispetto all'ordinamento processuale, in posizione simmetricamente equivalente. Questo perché il provvedimento cautelare, positivo o negativo che sia, incide sulla sfera personale e patrimoniale di entrambe le parti e arreca pregiudizio all'una o all'altra in un modo e una misura che non sono in astratto valutabili. Questo squilibrio non può nemmeno, a parere della Corte costituzionale, ricondursi a una ipotetica differenza tra la situazione che si determina con l'accoglimento del provvedimento e quella che deriva dal provvedimento di rigetto perché il provvedimento positivo determina un mutamento della situazione preesistente mentre quello negativo no. Infatti, l'istanza cautelare può essere sì diretta a ottenere una modifica della situazione di fatto esistente, ma anche a impedire che questa modifica si verifichi.

Né lo squilibrio viene meno per il fatto che, a norma dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., il provvedimento negativo non preclude la riproposizione dell'istanza di provvedimento cautelare allorché si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto.

Invero, tra i due rimedi non vi è equivalenza quanto alle garanzie fornite dato che sul reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. è chiamato a decidere un giudice diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato, mentre la riproposizione dell'istanza cautelare ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c. si dirige allo stesso giudice che ha respinto la misura cautelare richiesta. La differenza del giudice dell'impugnazione rispetto al giudice che ha deciso sul provvedimento cautelare è invece una maggiore garanzia per le parti.

Infine, secondo i giudici della Consulta, rilievo fondamentale va dato al fatto che l'art. 669-septies c.p.c.non consente la riproponibilità della stessa domanda cautelare rigettata per motivi di merito, così escludendo che lo stesso giudice possa comunque pronunciarsi nuovamente su una domanda riproposta negli identici termini e in presenza della medesima situazione di fatto della prima. Questi limiti rendono, a parere del giudice delle leggi, ancora più grave ed evidente lo squilibrio tra le parti, specialmente a danno della parte che ha chiesto il provvedimento che, in mancanza di nuove prospettazioni o di circostanze sopravvenute, perderebbe in via definitiva il potere di chiedere la tutela cautelare dei diritti che ritiene siano stati lesi.

In sostanza, i due rimedi della reclamabilità e della riproponibilità dell'istanza (quest'ultima come disegnata dall'art. 669-septies c.p.c.) operano su piani differenti e non sono sovrapponibili, bensì lavorano in condizioni di complementarietà. Per tali motivi, la Corte Costituzionale con la sentenza citata ha ritenuto necessario estendere il rimedio della reclamabilità anche al provvedimento cautelare “negativo” e non solo a quello positivo.

Quale sia la ratio della introduzione di una disciplina ad hoc per il provvedimento cautelare negativo è stato spiegato da attenta dottrina. In pratica, il legislatore della riforma del 1990 ha voluto bloccare la prassi abusiva della riproposizione continua dell'istanza cautelare rigettata che si configurava come una forma di abuso del processo concretantesi in un vero e proprio forum shopping cautelare alla ricerca del giudice più favorevole (Tarzia 1988, 932). Era altresì necessario porre rimedio alla mancanza di una previsione normativa che disciplinasse i conflitti negativi di competenza (Tarzia, Giorgetti, 483).

Si è precisato che uno dei motivi che hanno spinto il legislatore a inserire la previsione è stato la mancanza di una norma relativa ai conflitti negativi di competenza, uniti o meno ai conflitti di valutazione sul provvedimento cautelare idoneo per la fattispecie: l'esempio portato dalla dottrina è quello del conflitto tra il provvedimento cautelare che dichiara l'inammissibilità del sequestro giudiziario di un credito e il provvedimento che invece, nella medesima fattispecie ma sul presupposto opposto, rigetta la richiesta di un provvedimento d'urgenza (Tarzia, Giorgetti, 483).

La competenza cautelare (cenni e rinvio)

In tema di competenza cautelare, vige – come già visto subartt. 669-ter, 669-quater e 669-quinquies c.p.c. (ai cui commenti si rinvia per approfondimenti) – il principio della coincidenza tra competenza per la cautela e competenza per il merito, sicché prima della causa di merito il ricorso cautelare va proposto al giudice che sarà competente per la causa di merito.

La disciplina della competenza, suddivisa tra gli articoli supra riportati, è stata dettata dall'esigenza di semplificare e unificare i criteri determinazione, al fine di raccordare, per quanto possibile, la cognizione cautelare a quella di merito, così accentuando il nesso di strumentalità tra il provvedimento emanato in via provvisoria e la pronuncia decisoria finale.

In base all'art. 669-ter, comma 4, c.p.c., a seguito del deposito del ricorso, il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo presenta al capo dell'ufficio affinché designi il magistrato competente, a meno che non preferisca riservare il procedimento a se stesso poiché organo che ha anche funzioni attive.

Si è precisato, nella giurisprudenza di merito, che il ricorso deve essere depositato presso la cancelleria della sede principale del tribunale anche se il merito deve essere trattato da un giudice addetto ad una sezione distaccata (Trib. Bari 11 novembre 2002).

Non sono dettati specifici meccanismi di designazione “automatica”, ragion per cui quest'ultima segue i criteri tabellari predeterminati dal Consiglio Superiore della Magistratura (d'ora in poi “CSM”). La regola in questione, certamente dettata dal favore verso il giudice monocratico, ha carattere generale e si estende anche a quelle controversie la cui cognizione è tuttora riservata all'organo collegiale ex art. 48 ord. giud.

La circolare del CSM n. 1923/17/91 del 19 luglio 1991 esclude espressamente “la possibilità di costituire una sezione specifica del tribunale, essendo chiara, dalle disposizioni degli artt. 669-ter e 669-terdecies c.p.c., l'opzione del legislatore per una distribuzione di questi affari che segua lo stesso criterio di distribuzione delle ordinarie controversie tra le sezioni e tra i magistrati di ogni singola sezione” (in tema, v. Proto Pisani, 16).

Residua il dubbio se il magistrato competente debba essere sempre direttamente designato dal presidente del tribunale ovvero se, in presenza di una pluralità di sezioni, il presidente debba limitarsi a designare una sezione, il presidente della quale procede poi alla designazione del giudice della cautela.

L'art. 669-quater c.p.c., a sua volta, disciplina la competenza cautelare lite pendente, ossia quando il provvedimento cautelare venga richiesto dopo la notifica dell'atto di citazione, pur se la parte non si sia ancora costituita, ovvero dopo il deposito del ricorso.

Il primo problema interpretativo sollevato dal disposto di legge deriva dall'affermazione, contenuta nella norma, secondo cui, “quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve essere proposta al giudice della stessa”. È, infatti, discusso se il giudice dinanzi al quale pende la causa di merito è per ciò solo competente per il procedimento cautelare, sebbene incompetente in concreto nel merito, ovvero se debba essere verificata la concreta competenza per il giudizio di merito.

Secondo una parte della dottrina, se la causa di merito pende dinanzi ad un giudice incompetente, allo stesso spetta ugualmente la competenza cautelare, radicata in relazione al semplice dato di fatto della pendenza della causa davanti ad un certo giudice (Consolo 2006, 356). Nel secondo senso, si è invece evidenziato che questa soluzione consentirebbe alla parte di scegliersi per il provvedimento cautelare il giudice che più le aggrada, semplicemente mettendo in conto di pagare alla controparte le spese conseguenti alla dichiarazione di incompetenza (Luiso 2007, 167). Per uno studio delle varie opinioni dottrinali e della giurisprudenza sul tema, v. Iannicelli, 745.

In giurisprudenza, si sono sposate entrambe le opinioni. Nel senso che la competenza cautelare va collegata alla concreta investitura per il merito, v. Trib. Napoli 20 aprile 2004; Pret. Prato 7 dicembre 1994; Pret. Torre Annunziata 25 maggio 1995; Pret. Torino 4 luglio 1997; contra, nel senso del riferimento ai criteri in astratto, con conseguente caducazione del provvedimento emanato dal giudice poi dichiaratosi incompetente, v. Trib. Sant'Angelo dei Lombardi 26 febbraio 2004; Trib. Pistoia 20 ottobre 1994; Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 febbraio 1999.

Ai sensi dell'art. 669-quinquies c.p.c., anche in caso di compromesso per arbitri non rituali, la domanda di cautela va proposta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito. La possibilità di domandare la tutela cautelare al giudice competente per il merito una volta stipulata una clausola compromissoria per arbitrato irrituale ovvero nel corso di tale procedimento, è stata riconosciuta espressamente dal legislatore soltanto con la riforma operata con la l. n. 80/2005.

Nell'assetto originario, si riteneva fosse impossibile ottenere la tutela cautelare in presenza di una convenzione per arbitrato irrituale, perché il patto compromissorio per arbitrato irrituale determina una preventiva e generale rinunzia alla tutela giurisdizionale a favore di uno strumento negoziale di composizione della controversia.

Secondo i giudici di legittimità, in presenza di una clausola compromissoria, nel vigore della disciplina dettata per il procedimento cautelare uniforme dalla novella del 1990, la tutela cautelare resta preclusa; ciò perché la clausola compromissoria per arbitrato libero o irrituale si sostanzia in una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti relativi al rapporto controverso che, in quanto tale, non può non riferirsi anche alle misure cautelari. L'esperibilità della tutela cautelare risulta pertanto incompatibile con la finalità propria dell'arbitrato libero o irrituale che è quella di affidare a terzi la composizione bonaria delle contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti (Cass. III, n. 15524/2000; Cass. I, n. 655/1996). Nella giurisprudenza di merito, si era invece affermata l'opinione opposta, ritenendosi che, a prescindere dalla qualificazione come arbitrato rituale o irrituale, il tribunale ordinario resta comunque competente in ordine alle domande proposte in via cautelare (Trib. Milano 11 novembre 2003; Trib. Lanciano 29 novembre 2001; Trib. Catania 16 ottobre 2001; Trib. Roma 24 luglio 1997).

L'orientamento della Corte di Cassazione era stato criticato dalla dottrina che aveva evidenziato come tale interpretazione del sistema fosse in contrasto con l'art. 24 Cost. che indica la tutela cautelare come costituzionalmente necessaria, poiché strumento volto a garantire l'esercizio proficuo dell'attività giurisdizionale (Fazzalari, 405; Punzi, 3; Sassani, 710; contra Attardi, 236).

Un'importante pronuncia interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale, pur dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-quinquies c.p.c. e dell'art. 669-octies c.p.c., sollevata per preteso contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., aveva però legittimato prospettive interpretative orientate a ritenere sussistente una compatibilità tra la tutela cautelare e l'arbitrato irrituale (il riferimento è a Corte cost., n. 320/2002).

L'art. 669-quinquies c.p.c., nella sua formulazione originaria, generalizzava l'intervento normativo già realizzato nella riforma del processo societario, ormai da tempo abrogato. La riforma, peraltro, lascia aperti alcuni significativi problemi interpretativi, derivanti dall'esigenza di coordinare il principio della compatibilità tra arbitrato irrituale e tutela cautelare con la natura strumentale, anche sotto il profilo strutturale, dei provvedimenti cautelari di carattere conservativo.

La riforma del 2005 sull'art. 669-quinquies c.p.c. ha, infine, risolto positivamente la questione della compatibilità della tutela cautelare con il deferimento della controversia agli arbitri irrituali. In questo modo, è anche venuta meno l'aporia che si creava tra l'arbitrato irrituale interno e l'arbitrato estero per il quale già veniva riconosciuta dalla giurisprudenza la possibilità per i giudici nazionali di concedere misure cautelari a tutela dei diritti con esso azionati.

LA RIFORMA 2022 E IL POTERE CAUTELARE DEGLI ARBITRI: La riforma 2022 attribuisce agli arbitri rituali un potere cautelare generale, previa manifestazione di volontà delle parti in tal senso o nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo ma anteriore rispetto all'instaurazione dell'arbitrato; l'art. 818 c.p.c. infatti prevede che “Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di emanare misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale”. Si è stabilito che questa determinazione debba essere anteriore alla instaurazione del giudizio arbitrale per delimitare senza incertezze l'ambito del potere attribuito agli arbitri. Questa competenza degli arbitri è esclusiva e, pertanto, dopo l'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro o dopo la costituzione del collegio arbitrale, è esclusa la possibilità di un potere cautelare che concorra con quello degli arbitri, mentre prima di tale momento la domanda di provvedimento cautelare continua a essere disciplinata dall'art. 669-quinquies c.p.c. e deve pertanto essere proposta al giudice competente.

A norma dell'art. 818-bis c.p.c. si è previsto inoltre che il provvedimento cautelare pronunciato dagli arbitri è reclamabile davanti alla Corte d'appello soltanto per i motivi indicati dall'art. 829 c.p.c. per il fatto che non sarebbe una scelta logica assegnare al giudice del reclamo un potere di sindacare il provvedimento cautelare maggiore rispetto a quello che la legge pone in sede di impugnazione del lodo. La Corte d'Appello competente è quella del distretto in cui ha sede l'arbitrato. Il provvedimento impugnabile alla stregua delle regole generali è sia quello di accoglimento che quello di rigetto.

Infine, ai sensi dell'art. 818-ter c.p.c., l'attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri è disciplinata dall'art. 669-duodecies c.p.c. e si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell'arbitrato o, se la sede dell'arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura deve essere attuata”. Resta salvo il disposto degli artt. 677 e ss. rispetto all'esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri e la competenza spetta al tribunale nel cui circondario si trova la sede dell'arbitrato.

La Riforma 2022 e il potere cautelare degli arbitri

La riforma 2022 attribuisce agli arbitri rituali un potere cautelare generale, previa manifestazione di volontà delle parti in tal senso o nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo ma anteriore rispetto all'instaurazione dell'arbitrato; l'art. 818 c.p.c. infatti prevede che “Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di emanare misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale”. Si è stabilito che questa determinazione debba essere anteriore alla instaurazione del giudizio arbitrale per delimitare senza incertezze l'ambito del potere attribuito agli arbitri. Questa competenza degli arbitri è esclusiva e, pertanto, dopo l'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro o dopo la costituzione del collegio arbitrale, è esclusa la possibilità di un potere cautelare che concorra con quello degli arbitri, mentre prima di tale momento la domanda di provvedimento cautelare continua a essere disciplinata dall'art. 669-quinquies c.p.c. e deve pertanto essere proposta al giudice competente.

A norma dell'art. 818-bis c.p.c. si è previsto inoltre che il provvedimento cautelare pronunciato dagli arbitri è reclamabile davanti alla Corte d'appello soltanto per i motivi indicati dall'art. 829 c.p.c. per il fatto che non sarebbe una scelta logica assegnare al giudice del reclamo un potere di sindacare il provvedimento cautelare maggiore rispetto a quello che la legge pone in sede di impugnazione del lodo. La Corte d'Appello competente è quella del distretto in cui ha sede l'arbitrato. Il provvedimento impugnabile alla stregua delle regole generali è sia quello di accoglimento che quello di rigetto.

Infine, ai sensi dell'art. 818-ter c.p.c., l'attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri è disciplinata dall'art. 669-duodecies c.p.c. e si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell'arbitrato o, se la sede dell'arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura deve essere attuata”. Resta salvo il disposto degli artt. 677 e ss. rispetto all'esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri e la competenza spetta al tribunale nel cui circondario si trova la sede dell'arbitrato.

La pronuncia di incompetenza: il rigetto per motivi di rito.

L'art. 669- septies , comma 1, c.p.c. stabilisce che l'ordinanza di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda.

Il primo quesito da porsi è se il disposto della norma faccia riferimento alla sola istanza cautelare proposta ante causam o se debba intendersi in qualche modo riferibile anche alla domanda cautelare proposta in corso di causa. Normalmente la pronuncia declinatoria della competenza rispetto alla domanda di provvedimento cautelare si avrà nei casi di istanza promossa ante causam, sposando la tesi che collega la competenza in corso di causa al giudizio di merito che sia effettivamente pendente e non già a quella legalmente prevista.

La dottrina ha rilevato che si avrà una decisione autonoma declinatoria della competenza anche nei casi in cui la parte proponga l'istanza cautelare ad es. al giudice di primo grado pur se nel frattempo sia già stata proposta impugnazione (Merlin, 409). Potrebbe anche verificarsi l'ipotesi in cui, in corso di causa, l'istanza sia proposta al giudice non munito della competenza «interna», per es. al giudice istruttore piuttosto che al presidente del tribunale nell'ipotesi di cui all'art. 669-quater, comma 2, c.p.c. (norma che prevede che se la causa pende davanti al tribunale la domanda si propone all'istruttore oppure, se questi non è ancora designato o il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente, che provvede ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 669-ter c.p.c.). In tale ultima ipotesi, la dottrina ha rilevato come si possa ovviare alla istanza proposta al giudice non munito di competenza interna attivando un meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 274 c.p.c. e, pertanto, tramite il presidente del tribunale che dovrà decidere con decreto non impugnabile.

Qualora, in pendenza dei termini per l'appello, sia chiesto un provvedimento cautelare e il presidente del tribunale abbia designato il giudice singolo, questi dovrà trasmettere gli atti al presidente della sezione, affinché gli stessi siano rimessi al collegio quale giudice che ha pronunciato la sentenza (Trib. Bari 20 ottobre 1993).

Poiché la norma dell'art. 669-septies c.p.c. si limita a precisare che la declinatoria di competenza da parte del giudice adito per la cautela non preclude la riproposizione della domanda, ci si chiede se in ipotesi la domanda cautelare possa essere riproposta anche allo stesso giudice che si è dichiarato incompetente.

La Relazione della Commissione giustizia del Senato n. 12.2., comma 427, si esprime in senso favorevole alla riproposizione anche al giudice dichiaratosi incompetente che potrebbe senz'altro decidere in modo diverso, re melius perpensa. Anche la dottrina dominante è di questo parere (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 479; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 642; Tommaseo 1991, 98; Merlin, 409). Non sono mancate, tuttavia, opinioni diverse perché si è affermato che laddove il giudice adito per la cautela si dichiari incompetente non sarebbe possibile riproporre la domanda al medesimo giudice, in quanto si verificherebbe una sorta di consumazione dell'accertamento compiuto dal giudice rispetto alla propria competenza (Montesano, Arieta, 135).

Questione diversa ma collegata è relativa alla possibilità o meno di esperire il regolamento di competenza contro l'ordinanza con cui il giudice della cautela si sia dichiarato incompetente. Tecnicamente la soluzione in parola – a mio parere – appare difficile da predicare per la natura del processo cautelare e la sua inidoneità al fare stato, ma anche per l'esistenza di un rimedio apposito dettato proprio per il procedimento cautelare uniforme, ossia il reclamo disciplinato dall'art. 669-terdecies c.p.c.

La dottrina prevalente, infatti, ritiene che il regolamento di competenza non possa essere esperito contro l'ordinanza con cui il giudice adito per la cautela si ritiene incompetente e ciò proprio perché esiste uno strumento apposito di controllo dell'ordinanza di rigetto per incompetenza che è, appunto, il reclamo cautelare (Proto Pisani 2009, 646; Tarzia, Giorgetti, 400). Tuttavia, altra parte della dottrina ammette la proponibilità del regolamento di competenza, alcuni anche quello d'ufficio (Attardi, 240; Tarzia 1993, 382). Secondo alcuni, la disposizione dell'art. 669-septies c.p.c. non sarebbe univoca nel consentire l'esclusione del regolamento di competenza contro l'ordinanza declinatoria del giudice della cautela, ciò perché questa ordinanza, pur non avendo l'idoneità pratica ad acquisire forza ed effetti di giudicato esterno rispetto all'accertamento dell'incompetenza del giudice adito, tuttavia, è sempre configurabile come una pronuncia sulla competenza del giudice (Nicita 1991, 245). Altri autori affermano che il regolamento di competenza sarebbe ammissibile ma soltanto laddove il giudice del reclamo cautelare presso cui venga impugnata la declinatoria di competenza, rigetti anch'esso il provvedimento (in tal senso, v. Verde 1992, 438). Infine, per un'altra dottrina, il regolamento di competenza potrebbe essere consentito unicamente per denunciare il conflitto negativo di competenza (Olivieri, 709).

L'orientamento dominante delle Sezioni Unite della Cassazione sulla proponibilità del regolamento di competenza contro il provvedimento negativo del giudice della cautela è nel senso della inammissibilità. Il supremo organo di nomofilachia, infatti, ha affermato che, in tema di procedimenti cautelari, è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza, inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, perché caratterizzati dalla provvisorietà e riproponibilità illimitata, sia perché l'eventuale decisione, pronunciata all'esito del procedimento disciplinato dall'art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi (Cass. S.U., n. 18189/2013; Cass. S.U., n. 16091/2009; più di recente, v. Cass. VI, n. 1613/2017 e Cass. VI, n. 10914/2018). Questo orientamento consolidato è successivo ad una giurisprudenza delle sezioni semplici ondivaga. Si era, ad esempio, affermato che nell'àmbito del procedimento cautelare uniforme qualora, dichiaratosi incompetente il primo giudice, anche il secondo, successivamente adito, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza, è ammissibile l'istanza di regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c. (Cass. I, n. 18680/2003). Ancora prima, si era detto che la norma dell'art. 669-septies c.p.c., nel prevedere che l'ordinanza di incompetenza emessa nel procedimento cautelare non preclude la riproposizione della stessa domanda, va interpretata nel senso che essa esclude, sì, la formazione di un giudicato, rendendo di conseguenza inammissibile l'istanza di regolamento di competenza, ma ciò limitatamente alle ipotesi in cui, dichiaratosi incompetente il primo giudice, quello indicato come competente e successivamente adito non declini a sua volta la competenza, trattenendo il processo davanti a sé. Qualora, invece, dichiaratosi incompetente il primo giudice, anche il secondo, successivamente adito, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza, deve ritenersi applicabile, rispetto a tale decisione, la norma dell'art. 42 c.p.c. e, di conseguenza, ammettersi l'istanza di regolamento di competenza, non essendo ipotizzabile che l'ordinamento non preveda alcuno strumento processuale attraverso cui dirimere una situazione in cui non vi sia, di fatto, un giudice obbligato a conoscere della domanda cautelare, a meno di non ipotizzare nel sistema delineato dall'art. 669-septies c.p.c., un potenziale vulnus ai principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost. (orientamento ormai superato dalle riportate pronunce delle Sezioni Unite; Cass. II, n. 5264/1997).

Più in generale, contro i provvedimenti cautelari ante causam, ivi compresi quelli aventi natura anticipatoria, non è proponibile il ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di pronunce prive del carattere di stabilità e inidonee al passaggio in giudicato (Cass. S.U., n. 6039/2019).

Peraltro la giurisprudenza della Cassazione nega anche che l'ordinanza di incompetenza cautelare emessa ai sensi dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. non è impugnabile mediante regolamento preventivo di giurisdizione; in particolare si è detto che il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile nell'ambito di un procedimento cautelare ante causam, poiché, finché l'istante non abbia iniziato il giudizio di merito, per il quale sorge l'oggetto del procedimento, unitamente all'interesse concreto e attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo stesso deve eventualmente proseguire, non è consentito, neanche ex art. 111 Cost., il ricorso per cassazione contro i provvedimenti conclusivi del relativo procedimento, né può ammettersi che la questione di giurisdizione sia sottoposta per altra via alla cognizione della Suprema Corte (Cass.S.U.n. 16764/2022; Cass. S.U. ,n. 6039/2019). Si è detto, altresì, che la proposizione del regolamento di giurisdizione non è preclusa dall'emanazione di un provvedimento cautelare in corso di causa, poiché questo non costituisce sentenza, neppure qualora risolva contestualmente la questione di giurisdizione, tranne che la questione medesima sia stata riferita al solo procedimento cautelare e il regolamento sia stato proposto per ragioni che attengono ad esso in via esclusiva (Cass. S.U. , n. 8774/2021).

Altro quesito concerne la possibilità di riproporre la domanda cautelare proposta ante causam e rigettata per incompetenza dal giudice adito per la cautela, ad altro giudice territorialmente competente nel caso di fori alternativi. In tale ipotesi non vi sarebbe per la parte alcuna preclusione nel riproporre la domanda non già allo stesso giudice ma ad altro giudice che sia, in base ai ricordati fori, ugualmente competente per territorio.

La dottrina si esprime sostanzialmente in questo senso, ritenendo che così come è libera la scelta di un altro giudice di merito laddove vi siano più fori concorrenti, così l'istante potrebbe riproporre la domanda cautelare ante causam anche ad un giudice diverso dal primo, purché territorialmente competente in applicazione dei criteri di legge (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 477; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 640; Tommaseo 1991, 100). Non sono mancate, tuttavia, voci in contrasto che hanno affermato che in caso di domanda cautelare proposta ante causam non vi sarebbe la possibilità, in caso di rigetto per incompetenza, di riproporre l'istanza ad un giudice diverso, pur se ugualmente competente in applicazione dei fori alternativi di competenza, perché la competenza deve continuare a radicarsi presso il giudice che per primo ha esaminato la domanda cautelare, sicché la riproposizione allo stesso giudice si concreterebbe in una domanda di revoca del precedente provvedimento di rigetto, revoca che non può che spettare allo stesso giudice che ha pronunciato il primo provvedimento in base ai criteri generali (così Saletti 1991, 371).

Resta da esaminare la questione relativa alla riproponibilità della domanda cautelare che sia stata rigettata, in rito, per motivi diversi dalla incompetenza del giudice adito. Si può pensare al rigetto per difetto di giurisdizione, ovvero per difetto di procura, ovvero nelle ipotesi di mancanza delle condizioni dell'azione. Queste ipotesi rientrano senza dubbio nella disciplina dell'art. 669-septies, comma 1, prima parte, c.p.c. La norma, infatti, si riferisce al solo rigetto per incompetenza ma con espressione che certamente può estendersi ad ogni ipotesi di rigetto in rito con esclusione delle sole ipotesi di rigetto per difetto dei presupposti, fumus boni iuris o periculum in mora, che, invece vedono la disciplina più articolata e preclusiva della seconda parte dell'articolo.

Secondo la dottrina, allorché la domanda cautelare sia stata rigettata per ragioni di rito diverse dalla incompetenza, comunque essa rimane illimitatamente riproponibile alla stregua della regola generale dettata dall'art. 669-septies c.p.c. per l'ipotesi di incompetenza. Da un lato, tuttavia, si pone quella parte della dottrina che fonda il principio sulla inidoneità delle decisioni in rito ad esplicare effetti vincolanti al di là del processo in cui sono state pronunciate (Attardi 1991, 240; Salvaneschi 1992, 333). Dall'altro lato, invece, vi è una parte della dottrina che ritiene che il mancato accoglimento della domanda cautelare per ragioni di rito diverse dalla incompetenza vada assimilata al rigetto per ragioni di merito (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 635; Proto Pisani 1991, 20). Si è, però, precisato che anche volendo sposare tale opinione il risultato pratico sarebbe comunque lo stesso visto che il vizio è comunque un vizio riparabile e, una volta corretto l'errore, l'istanza sarebbe comunque riproponibile in base alle regole generali (Luiso, in Luiso, Sassani 2006, 51).

Va, in ultimo, riferito dell'eventuale riproposizione della domanda cautelare nel corso della causa di merito. Uniformando il sistema della riproposizione della domanda cautelare con il sistema delle preclusioni che maturano nel corso del processo ordinario di cognizione si deve ritenere che la riproposizione della domanda cautelare originariamente rigettata debba avvenire prima della chiusura dell'udienza di trattazione e non possa avvenire successivamente.

In tal senso, la dottrina dominante che, per l'appunto, uniforma il regime della riproposizione ex art. 669-septies c.p.c. con quello delle preclusioni che si maturano a carico delle parti nell'ambito del processo ordinario di cognizione. Alla luce delle disposizioni dell'art. 183 c.p.c., è necessario ritenere che la domanda cautelare possa essere riproposta entro quei termini (per tutti, v. Recchioni 2015, 599).

Quid iuris qualora il rigetto della domanda cautelare sia intervenuto per ragioni di merito e i mutamenti delle circostanze o la deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto si verifichino una volta che si siano già maturate le preclusioni nella fase di trattazione del processo ordinario di cognizione?

In questo caso, la dottrina ha affermato che non sarebbe possibile la riproposizione e ciò ai sensi della previsione dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. perché sia i mutamenti delle circostanze che le nuove ragioni di fatto o di diritto già deducibili dovranno ritenersi come non esistenti (Tommaseo 1991, 100; Olivieri 1992, 712). Discorso diverso va fatto, invece, ove il mutamento delle circostanze o le nuove ragioni di fatto o di diritto sopravvengano alla chiusura della trattazione e quindi al maturarsi delle preclusioni ordinarie a carico delle parti perché in tale ipotesi la loro sopravvenienza rispetto a tale barriera preclusiva renderebbe superabili, appunto, i limiti della preclusione già maturatasi a carico delle parti. Parte della dottrina afferma che non sarebbe soggetto al regime preclusivo il mutamento delle circostanze o la novità rispetto al periculum in mora mentre vi rientrerebbero le medesime circostanze con riferimento al fumus boni iuris (Salvaneschi 1992, 333; contra Barletta 2008, 249).

 La giurisprudenza a proposito del rigetto del provvedimento cautelare per ragioni di rito ha affermato di recente che una domanda cautelare ex art. 700 c.p.c. di inibitoria urgente di una condotta di concorrenza sleale, proposta ante causam al giudice funzionalmente incompetente, deve essere rigettata con decreto inaudita altera parte e senza contestuale fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, per l'esigenza di non imporre una onerosa costituzione in giudizio della parte resistente innanzi al giudice incompetente solo per far valere la violazione di norme attinenti all'individuazione del giudice naturale (Trib. Pescara 4 maggio 2007)

Translatio iudicii e tutela cautelare

Abbiamo visto come l'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. disponga che l'ordinanza di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda. In questo caso, ossia quando il rigetto dell'istanza cautelare avviene per motivi di rito, la riproponibilità della stessa domanda cautelare è libera.

Di solito, si avrà un'autonoma pronuncia del giudice investito della domanda di provvedimento cautelare in senso declinatorio della competenza quando si verta in ipotesi di richiesta ante causam, almeno laddove si sposi la tesi che collega la competenza in corso di causa al giudizio di merito effettivamente pendente e non a quella legale.

Ci si è posti, peraltro, il problema dell'eventuale inoltro dell'istanza cautelare al giudice non munito di competenza interna, ipotesi cui si potrebbe rimediare usando per analogia l'art. 274, comma 2, c.p.c. e, pertanto, con l'intervento del presidente del tribunale che deciderà con decreto non impugnabile: tale norma infatti dispone che se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente che, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla stessa udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 641; Merlin, 409).

La norma esclude pacificamente qualunque efficacia preclusiva nel caso di mancato accoglimento dell'istanza per motivi attinenti alla competenza.

Tale disposizione, secondo alcuni interpreti, sarebbe superflua perché si limiterebbe a ribadire una regola ovvia, analoga a quella valida per il processo ordinario di cognizione (Attardi, 240); contra, si è detto che il senso e la portata effettiva della previsione normativa starebbe nel consentire la riproposizione immediata dell'istanza cautelare (Merlin, 409; Recchioni, 583).

Dalla mancanza di efficacia preclusiva – come visto anche supra – si ricavano alcuni corollari: secondo l'interpretazione dottrinale preferibile la domanda cautelare potrebbe essere riproposta anche al giudice dichiaratosi incompetente.

Ulteriore corollario è dato dal quesito sul se la pronuncia declinatoria della competenza del giudice della cautela debba o meno contenere l'indicazione del giudice ritenuto competente, analogamente a quanto disposto dall'art. 44 c.p.c. per il processo ordinario di cognizione.

Per un primo orientamento dottrinale, il giudice adito per la cautela che ritenga di essere incompetente non ha alcun obbligo in tal senso (Salvaneschi 1993, 327; Saletti, 373); per una seconda tesi, invece, nel provvedimento di rigetto dovrebbe essere necessariamente indicato il giudice ritenuto competente per l'istanza cautelare (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 642; Cecchella, 74).

La giurisprudenza di merito ha, al riguardo, affermato che la pronuncia di incompetenza del giudice cautelare adito ante causam non è vincolante per il giudice indicato come competente; con la conseguenza che deve escludersi che il procedimento cautelare possa essere riassunto davanti al giudice ad quemex art. 44 c.p.c. (Trib. Milano 11 settembre 1995).

Questo orientamento della giurisprudenza di merito consente di evidenziare l'opinione, peraltro dominante anche in dottrina, che esclude l'ammissibilità della translatio iudicii rispetto all'ordinanza di incompetenza che sia stata emessa dal giudice adito per la cautela (Consolo, 642; Consolo 1998, 13; Olivieri 709; Vaccarella 522; Besso, 693). In senso contrario, si è invece affermato che il principio posto dall'art. 44 c.p.c. sugli effetti della sentenza che dichiari l'incompetenza del giudice adito sarebbe di portata ed applicazione generale e, pertanto, nulla osterebbe ad una sua riferibilità anche al rigetto della domanda cautelare per incompetenza (Saletti, 373; Saletti 1993, 636).

Peraltro, il progetto di riforma del processo civile della Commissione presieduta dal Prof. Tarzia andava proprio in questo senso, affermandosi che doveva ritenersi vincolante l'indicazione del giudice ritenuto competente a conoscere della cautela effettuata dal giudice a quo.

Sembrerebbe preferibile la prima interpretazione, quella che esclude l'ipotizzabilità di una translatio, non solo perché non è apoditticamente estensibile l'art. 44 c.p.c. anche al processo cautelare, essendo la norma dettata per il processo ordinario di cognizione, sia perché il termine riproposizione utilizzato nell'art. 669-septies c.p.c. è assolutamente univoco nell'indicare la proposizione di un nuovo ricorso e, quindi, nell'escludere qualunque riassunzione e continuazione del processo instaurato davanti a giudice cautelare incompetente.

Si è, tuttavia, evidenziato come alcuni interventi legislativi abbiano introdotto alcune norme relative all'efficacia di provvedimenti cautelari adottati da un giudice cui la disciplina sopravvenuta toglieva competenza o giurisdizione cautelare. Ad esempio, l'art. 3 del d.l. n. 220/2003, convertito con modificazioni in l. n. 280/2003, in materia di giustizia sportiva, ha devoluto, con l'art. 3.1 alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative ad atti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano e delle federazioni sportive e, con l'art. 3.2. ha assegnato al solo T.A.R. Lazio, sede di Roma, la competenza all'emanazione delle relative misure cautelari. Entrambe le disposizioni sono state altresì dichiarate applicabili ai processi in corso, in deroga ai principi posti dall'art. 5 c.p.c. In particolare, rispetto alle misure cautelari già adottate da un T.A.R. diverso da quello del Lazio, l'art. 3.4 della legge ha previsto che la loro efficacia fosse sospesa sino alla conferma, modifica o revoca da parte del T.A.R. Lazio, sede di Roma. La possibilità, ora vista, che singole discipline transitorie possano derogare all'art. 5 c.p.c. e prevedere l'applicazione retroattiva della legge che modifica la disciplina della giurisdizione o della competenza è ammessa anche dalla giurisprudenza.

A titolo esemplificativo, si può ricordare la giurisprudenza del Supremo Collegio secondo cui il foro introdotto in via esclusiva dalla l. n. 128/1992, individuato con riferimento al domicilio in cui si svolge o si è svolta l'attività del lavoratore parasubordinato, non è applicabile nel caso di rapporto cessato precedentemente alla instaurazione del giudizio, dato che la possibilità di far riferimento al domicilio del detto lavoratore a tale momento consentirebbe allo stesso, in contrasto con l'art. 25, comma 1, Cost., di scegliere il giudice con il preventivo trasferimento del proprio domicilio: tale previsione, secondo la Corte, non trova infatti ostacolo nell'art. 5 c.p.c., essendo sufficiente rilevare come essa sia volta ad escludere la rilevanza dei mutamenti di fatto successivi all'instaurazione del giudizio, ma non precluda che, nella determinazione del criterio di coordinamento e dei singoli elementi della corrispondente fattispecie legale, si possa far riferimento alle circostanze di fatto anteriori al detto momento (Cass. IV, n. 25023/2006). O ancora si può menzionare una pronuncia secondo cui, in deroga al criterio generale della perpetuatio iurisdictionis in tema di famiglia e in ipotesi di domanda tendente ad ottenere l'esercizio della potestà genitoriale, la originaria competenza del tribunale per i minorenni viene meno ove, trascritto successivamente l'eventuale matrimonio a suo tempo contratto tra i genitori, venga introdotta eventuale domanda di separazione, ex art. 155 c.c., che affida al giudice della domanda in questione i provvedimenti relativi ai figli (Cass. I, n. 6953/2004). La giurisprudenza, in realtà, ha avuto modo di applicare in maniera ricorrente il principio della perpetuatio iurisdictionis con riferimento all'irrilevanza sulla giurisdizione e sulla competenza di mutamenti della legge sopravvenuti all'instaurazione del giudizio: ciò è accaduto, ad esempio, con riferimento al sopravvenuto ampliamento della giurisdizione tributaria disposto dall'art. 12, comma 2, della l. n. 448/2001 (Cass. S.U., n. 3599/2003); con riferimento alle controversie in materia di pubblici servizi (Cass. S.U., n. 14911/2002); con riferimento all'azione risarcitoria per responsabilità contrattuale contro un ente pubblico (Cass. S.U., n. 16319/2002).

Quanto appena esposto trova applicazione anche con riferimento alla giurisdizione e competenza sulla domanda cautelare, sicché la giurisdizione del giudice della cautela non subisce interferenze a causa di una norma sopravvenuta che cambi, senza disposizioni che ne stabiliscano la portata retroattiva, la disciplina sulla giurisdizione.

Nel senso, appunto, che la disciplina della perpetuatio iurisdictionis et competentiae trovi applicazione anche con riferimento alla giurisdizione e competenza sulla domanda cautelare, si è espressa la dottrina (Vittoria, 452).

In tema di interferenza, rispetto alla domanda proposta al giudice ordinario per la concessione di provvedimenti cautelari, di norme dettate in tema di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si è espressa in alcune occasioni la giurisprudenza del Supremo Collegio. Le Sezioni Unite hanno, infatti, precisato che contro i provvedimenti urgenti anticipatori degli effetti della sentenza di merito, emessi dell'art. 700 c.p.c., non è proponibile il ricorso straordinario per cassazioneexart. 111 Cost., perché questi atti sono privi di stabilità e inidonei al giudicato, ancorché nessuna delle parti del procedimento cautelare abbia interesse a iniziare l'azione di merito, avendo la tutela cautelare soddisfatto ogni esigenza del ricorrente e non avendo interesse il resistente a dedurre comunque l'inesistenza del diritto cautelato; tale ricorso, qualora il provvedimento urgente sia stato pronunciato ante causam, e non sia iniziato il giudizio di merito a tutela del diritto cautelato, non può valutarsi, anche se il ricorrente lo chieda, come istanza di regolamento preventivo di giurisdizioneexart. 41 c.p.c., che va qualificata come inammissibile, finché l'istante non abbia iniziato un giudizio di merito per il quale sorge l'oggetto del procedimento unitamente all'interesse concreto e attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo steso deve eventualmente proseguire, anche se diverso da quello che ha emesso il provvedimento urgente in via anticipatoria e cautelare e per fare accertare, in via definitiva e immodificabile e con effetto di giudicato anche esterno, quale sia il giudice che ha giurisdizione sulla controversia, iniziata all'esito della procedura interinale e fino a quanto il processo di merito non risulti deciso con sentenza di primo grado (Cass. S.U., n. 27187/2007). Ancora, con riferimento all'applicabilità dell'art. 5 c.p.c. alla domanda cautelare si ricorda una pronuncia del giudice delle leggi secondo cui la questione di legittimità costituzionale di una norma attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo, entrata in vigore nella pendenza davanti al giudice ordinario di un procedimento cautelare ante causam (nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale) non è di per sé inammissibile per irrilevanza, per non essere tale norma in questo applicabile, perché il giudice rimettente, in forza dell'art. 5 c.p.c., avrebbe conservato la giurisdizione attribuitagli dalla normativa vigente al momento della proposizione della domanda. Non è, infatti, implausibile che la norma denunciata, modificativa della giurisdizione, possa comunque essere rilevante in quanto il provvedimento cautelare eventualmente concesso potrebbe essere destinato alla inefficacia per l'impossibilità di promuovere il giudizio di merito (Corte cost., n. 140/2007).

Segue. Il principio di conservazione degli effetti della domanda e la tutela cautelare.

Discorso da coordinare con quello della translatio iudicii in materia cautelare è senz'altro se il principio di conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda operi in rapporto alla domanda cautelare. Di certo la domanda cautelare, pur se proposta a giudice incompetente, sul piano sostanziale produce l'effetto interruttivo della prescrizione. Discorso più problematico è stabilire se la decisione di difetto di competenza del giudice adito per la domanda di provvedimento cautelare, provochi la chiusura del procedimento cautelare o possa consentirne la prosecuzione.

La dottrina ha proposto una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 669-septiesc.p.c., soprattutto alla luce del principio per cui la generalizzazione della translatio iudicii fa sì che possa considerarsi principio generale dell'ordinamento la «regola per cui il giudizio iniziato con la domanda di giustizia si deve poter concludere con una pronuncia di merito sulla domanda come proposta» (Vittoria, 461). Con la conseguenza che sarebbe possibile ipotizzare una prosecuzione orizzontale del procedimento cautelare iniziato davanti a giudice incompetente, sulla base della stessa domanda, dinanzi al giudice indicato come competente su di essa, in base alla disciplina vigente, riferita alla data della originaria domanda di cautela (Vittoria, 462; Asprella 2010, 219). Una simile soluzione comporta anche una razionalizzazione dei rimedi previsti contro la decisione di incompetenza rispetto alla proposta cautela: allorché non venga proposto il reclamo e la domanda di provvedimento cautelare sia tempestivamente riproposta davanti al giudice indicato come competente, quest'ultimo dovrebbe provvedere sul merito della domanda, a meno che non sollevi conflitto di competenza (Vittoria, 462).

Nel senso della conservazione di quegli effetti sarebbero anche le norme di cui agli artt. 669-bis, comma 1, e 669-quater, comma 1, c.p.c. (ai cui commenti si rinvia) che individuano la prima, la competenza del giudice che sarebbe competente per il merito per la domanda di cautela proposta ante causam, la seconda la competenza del giudice del merito quando la domanda è proposta in corso di causa. Infatti, l'interpretazione dominante di queste previsioni e, in particolare della seconda disposizione normativa, è che essa determini il giudice cui proporre la domanda cautelare in quello già adito per il merito, indipendentemente dalla sua competenza.

Un altro argomento che milita in favore della conservazione degli effetti della domanda di cautela è quello che il provvedimento cautelare pronunciato dal giudice ordinario, sia anticipatorio sia conservativo, non perde efficacia con la pronuncia di difetto di competenza del giudice del merito con cui questi chiude il processo davanti a sé; perdita di efficacia che, invece, consegue quando si tratti di provvedimento cautelare conservativo e il processo non sia riassunto innanzi al giudice indicato come competente ai sensi dell'art. 669-novies, comma 1, c.p.c.

Sicché il provvedimento cautelare concesso mantiene i suoi effetti anche quando vi sia una dichiarazione di incompetenza rispetto alla domanda di merito, almeno fino a quando sulla domanda di cautela torni a provvedere il giudice per essa competente (Vittoria, 468). Alla luce dei risultati cui sia la Consulta che la Corte di Cassazione con le note pronunce in tema di translatio iudicii sono pervenute e alla luce della constatazione per cui ciò che è stato affermato per l'incompetenza deve a fortiori valere anche nel caso di chiusura del procedimento per difetto di giurisdizione, la dottrina che si è occupata dell'argomento è giunta per questo tramite ad affermare che la misura cautelare concessa da un giudice di cui poi sia dichiarato il difetto di giurisdizione, non perde efficacia a causa di questa dichiarazione (Vittoria, 475).

Lo stesso principio ritengo si possa confermare proprio alla luce dell'introduzione della disciplina legislativa della translatio iudicii per difetto di giurisdizione (art. 59 della l. n. 69/2009) che, nel consentire la translatio iudicii nel caso di difetto di giurisdizione del giudice adito, implicitamente consente la salvezza degli effetti della domanda di cautela eventualmente proposta al giudice che chiuda il processo davanti a sé pendente con una pronuncia declinatoria, appunto, della giurisdizione; almeno fino a quando di quella domanda non si occupi il giudice effettivamente munito di giurisdizione rispetto alla controversia ed adito in sede di riassunzione, salva la proposizione del conflitto.

Regolamento di competenza e provvedimento negativo.

Distinta questione cui abbiamo già accennato ma che adesso è opportuno approfondire, è quella relativa alla possibilità di esperire il regolamento di competenza avverso la pronuncia cautelare con la quale il giudice adito abbia declinato la propria competenza, possibilità esclusa dalla dottrina dominante, sia per la riproponibilità senza limiti della domanda cautelare, in ipotesi anche allo stesso giudice dichiaratosi incompetente; potendo essere richiesto per tali motivi un immediato controllo dell'ordinanza cautelare di rigetto in sede di reclamo cautelare.

Lo stesso giudice delle leggi aveva ribadito l'utilizzabilità dello strumento del reclamo cautelare contro il provvedimento negativo sulla competenza, chiarendo che una soluzione diversa avrebbe comportato una menomazione delle garanzie processuali a danno dell'attore cautelare, specialmente a seguito dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che, a fronte della disciplina del procedimento cautelare uniforme, ritiene l'ordinanza dichiarativa di incompetenza emessa nel procedimento cautelare non più soggetta a regolamento di competenza ma unicamente reclamabile.

La Corte Costituzionale, nella motivazione della suddetta sentenza, si riferisce al consolidato orientamento della Corte di Cassazione che nega l'ammissibilità del regolamento di competenza necessario o facoltativo nei confronti dei provvedimenti emessi dal giudice nell'ambito dei procedimenti cautelari disciplinati dagli artt. 669-bis ss. c.p.c. (Corte cost., n. 197/1995; il riferimento è a Cass. III, n. 6009/1999, che si fonda sulla espressa qualificazione come ordinanza anche del provvedimento adottato in tema di competenza e la prevista possibilità di riproporre la domanda a seguito di ordinanza di incompetenza; in senso conforme, v. Cass. IV, n. 13348/1999; Cass. I, n. 423/2000 si fonda sulla necessaria irretrattabilità della sentenza dichiarativa della incompetenza nel rito ordinario di cognizione e sulla differenza con i provvedimenti cautelari, nonché sull'argomento della libera riproponibilità della domanda; infine, nel senso della inammissibilità del regolamento di competenza Cass. S.U., n. 14301/2007 e Cass. III, n. 19254/2007).

L'assetto delineato dalla giurisprudenza di legittimità è stato, almeno finora, parzialmente diverso, poiché una importante sentenza del Supremo Collegio che ha aperto una sostanziale rivisitazione dell'opinione prevalente, ha ritenuto non soltanto ammissibile il regolamento di competenza d'ufficio sollevato dal secondo giudice cautelare adito ante causam, nell'ipotesi in cui il primo giudice della cautela abbia già declinato la propria competenza, ma ha altresì specificato che la previsione dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., comporta l'inammissibilità dell'istanza di regolamento di competenza limitatamente all'ipotesi in cui, dichiaratosi incompetente il primo giudice, quello indicato come competente e, successivamente adito, non declini a sua volta la propria competenza, trattenendo il processo innanzi a sé. Qualora, invece, dichiaratosi incompetente il primo giudice, anche il secondo, successivamente adito, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza, si è ritenuta applicabile, rispetto a tale decisione, la norma generale di cui all'art. 42 c.p.c. e, conseguentemente, si è ammessa l'istanza di regolamento di competenza, non essendo ipotizzabile che l'ordinamento non preveda alcuno strumento processuale attraverso il quale dirimere una situazione in cui non vi sia, di fatto, un giudice obbligato a conoscere della domanda cautelare.

In questo senso, si sono espresse alcune sentenze dei giudici di legittimità (Cass. I, n. 18680/2003; Cass. I, n. 9167/2008; Cass. IV, n. 17299/2008). La sentenza Cass. I, n. 18680/2003 si è posta nella scia di Cass. II, n. 5264/1997, secondo cui il disposto dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., consentendo la riproponibilità della domanda cautelare proposta ante causam e rigettata per incompetenza, nega l'idoneità al giudicato del provvedimento di rigetto e ne esclude pertanto anche l'impugnabilità mediante regolamento di competenza. Tale norma eccezionale non è invece applicabile e deve pertanto ritenersi ammissibile il regolamento di competenza, qualora la stessa domanda cautelare venga riproposta dinanzi al giudice indicato come competente e questi si ritenga, a sua volta, incompetente. V'è da dire che con un sostanziale ritorno al passato il giudice di legittimità, a Sezioni Unite, ha affermato che in materia di procedimenti cautelari è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, anche nell'ipotesi di duplice declaratoria di incompetenza formulata in sede di giudizio di reclamo, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori di competenza che, in sede cautelare, non possono assurgere al genus della sentenza e sono, pertanto, inidonei ad instaurare la procedura di regolamento di competenza perché caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata, sia perché l'eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall'art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, in ragione del peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi (Cass. S.U., n. 16091/2009: nella fattispecie, e a seguito di reclamo contro un'ordinanza emessa in sede cautelare, il tribunale del lavoro, in composizione collegiale, aveva declinato la propria competenza a favore della corte d'appello che, a sua volta, si era dichiarata incompetente e aveva chiesto, d'ufficio, il regolamento di competenza).

Resta da chiedersi la sorte della domanda qualora il mancato accoglimento del ricorso cautelare sia determinato da ragioni di rito diverse dalla incompetenza, ad esempio, per difetto di giurisdizione, non essendo il provvedimento eseguibile nel territorio della Repubblica ex art. 4 c.p.c., ovvero per difetto di procura al difensore, o ancora nelle ipotesi di carenza di interesse o di legittimazione ad agire; ma così pure in assenza di altri presupposti che rendono il provvedimento inammissibile.

In questi casi, si ritiene che l'istanza resti illimitatamente riproponibile, in base anche al principio della inidoneità delle decisioni di rito ad esplicare effetti vincolanti al di fuori del processo in cui sono state emesse (Attardi, 240; Verde, Di Nanni, 254; Salvaneschi 1992, 330). Alcuni assimilano, invece, il mancato accoglimento per motivi di rito diversi dalla incompetenza al mancato accoglimento per motivi di merito (Proto Pisani 20; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 635). Il diverso inquadramento è tuttavia privo di pratiche conseguenze qualora, trattandosi di vizio rimediabile, il «fatto nuovo» consistente per l'appunto nell'aver posto rimedio a quel vizio, consente comunque la riproposizione dell'istanza (Luiso, in Consolo, Luiso, Sassani, 151).

Anche la giurisprudenza di merito si è espressa nel senso della illimitata riproponibilità per tali motivi (Trib. Agrigento 23 marzo 1995; Trib. Torino 21 aprile 1994; Trib. Milano 8 luglio 1993; contra, Trib. Messina 12 luglio 2005).

Eccezione di incompetenza.

La norma – come visto – è molto generica nello stabilire che la dichiarazione di incompetenza del giudice lascia libera la parte di riproporre la «stessa» domanda cautelare. Nulla dice, invece, quanto alle ragioni che possono porsi alla base della declaratoria di incompetenza del giudice adito, sicché questa può avvenire per tutto il ventaglio di ipotesi possibili in relazione alla normativa vigente. Pertanto, la parte potrà aver sbagliato nell'individuare il giudice competente in base alle regole generali; oppure potranno essere state violate le regole derivanti dal sistema tabellare nella attribuzione della competenza ad un giudice piuttosto che ad un altro nell'ufficio giudiziario.

Se, quindi, rispetto ai motivi per i quali il giudice può dichiararsi incompetente la norma lascia poche perplessità dovendosi ricomprendere nel disposto tutte le possibili ragioni di incompetenza del giudice adito, la formulazione alquanto vaga della disposizione normativa non è scevra, però, da problemi interpretativi e applicativi. Primo fra tutti, già ricordato, è il problema se sia o meno possibile per la parte che ha adito il giudice cautelare incompetente riproporre la domanda cautelare allo stesso giudice. La soluzione, per nulla uniforme, vede – come già ricordato – chi ritiene che sia senz'altro possibile la riproposizione anche allo stesso giudice che si sia dichiarato incompetente non essendovi alcuna preclusione nella norma, e chi, invece, ritiene che sia da escludere la riproponibilità della domanda cautelare allo stesso giudice per una sorta di preclusione derivante dal provvedimento di rigetto.

Se, come detto, nessuna preclusione è prevista quanto all'ordinanza di rigetto per incompetenza, la preclusione, invece, si matura, quanto alla riproponibilità della stessa domanda cautelare, laddove il rigetto avvenga per motivi di merito. Sicché il coordinamento tra le due previsioni lascia giustamente intendere che, a differenza di quanto accadeva nel passato ove nessuna preclusione poteva mai maturarsi rispetto alla riproponibilità della domanda cautelare, invece la norma dell'art. 669-septies c.p.c. prevede, anche rispetto ai provvedimenti cautelari, che si applichi il principio della consumazione del potere di azione (così Tarzia, Saletti, 849; Saletti 1991, 372).

Con riferimento alla riproponibilità della domanda cautelare non allo stesso giudice che si è dichiarato incompetente ma, piuttosto, ad altro giudice, resta da risolvere il problema se questo giudice debba essere individuato dal primo giudice (in sostanza in applicazione analogica di quanto previsto dall'art. 44 c.p.c. per la translatio iudicii per difetto di competenza), oppure se questo secondo giudice possa essere scelto dalla parte all'atto della riproposizione della domanda cautelare. Della questione ci siamo già occupati sub 3.1, al cui commento si rinvia.

Nulla dice la norma, peraltro, quanto al regime della rilevabilità della incompetenza del giudice cautelare adito. Ci si domanda, pertanto, se anche nel processo cautelare trovi applicazione la disposizione dell'art. 38 c.p.c. sul rilievo dell'incompetenza. È opportuno ricordare quale sia la disciplina posta dall'art. 38 c.p.c. per il rilievo dell'incompetenza nel processo ordinario di cognizione. La disposizione dell'art. 38 c.p.c. è stata più volte incisa dal legislatore, specialmente dalla riforma del 1990, ma anche, successivamente, dalla riforma del 2009. Il regime che ne risulta è il seguente:

Se si tratta di incompetenza per materia, valore e territorio l'incompetenza è rilevabile sia dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, ossia 20 giorni prima dell'udienza di comparizione e trattazione della causa. Nell'ipotesi di incompetenza territoriale derogabile, l'eccezione si ha per non proposta se il convenuto non indica il giudice che ritiene competente. Questa indicazione serve a consentire alle altre parti costituite, laddove lo ritengano, di aderirvi. In questo caso il giudice adito si limita, con ordinanza, a cancellare la causa dal ruolo e la competenza del giudice ivi indicato non potrà più essere messa in discussione se la causa sia riassunta davanti a lui entro 3 mesi dalla cancellazione dal ruolo. In mancanza di riassunzione il processo si estinguerà.

L'incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile possono essere rilevate anche d'ufficio dal giudice ma non oltre l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., quindi l'udienza di prima comparizione e trattazione della causa. Tranne nel caso di adesione delle parti all'indicazione del giudice ritenuto competente, la questione di competenza deve essere decisa con ordinanza così come le altre questioni in tema di competenza. La questione, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 38 c.p.c., va risolta in base agli atti e, se necessario, assunte sommarie informazioni.

Pur se il rilievo dell'incompetenza trova senz'altro applicazione anche nel processo cautelare, la norma dell'art. 38 c.p.c. non può trovare in esso rigida applicazione, specialmente nella parte in cui pone dei limiti temporali specifici alla proposizione dell'eccezione. Come visto, infatti, l'art. 38, comma 1, c.p.c. dispone che l'incompetenza per materia, valore e territorio possono essere rilevate anche d'ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Bisogna, quindi, valutare quale udienza o adempimento del processo cautelare possano essere ritenuti speculari alla prima udienza di comparizione e trattazione del processo ai fini della preclusione alla proposizione della eccezione di incompetenza da parte del resistente.

La dottrina ha precisato che, laddove il giudice decida con ordinanza nel procedimento c.d. ordinario (si veda commento subart. 669-sexies c.p.c.), la preclusione alla proposizione dell'eccezione di incompetenza non può che verificarsi all'udienza prevista dall'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c., ossia all'udienza fissata per la comparizione delle parti ai fini della concessione del provvedimento cautelare richiesto. Laddove, invece, si verifichino le gravi ragioni che consentono di utilizzare il procedimento c.d. inaudita altera parte allora la preclusione si formerà nell'udienza prevista dall'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. cioè l'udienza fissata dal giudice dopo la concessione del provvedimento con decreto emanato senza contraddittorio, e fissata al fine di confermare, modificare o revocare il decreto in questione (Tarzia, Giorgetti, 485).

Altra questione da esaminare è relativa alle eventuali conseguenze della riforma, in sede di impugnazione e, pertanto, di reclamo cautelare, del provvedimento con cui il giudice adito rigetti la domanda cautelare per incompetenza; ci si chiede, infatti, se il collegio debba o meno decidere la domanda nel merito ovvero se debba, piuttosto, effettuare una rimessione al primo giudice ritenuto competente. Anche qui le soluzioni sono teoricamente duplici; si può infatti ritenere che anche nel processo cautelare sia necessario rispettare la garanzia del doppio grado di giudizio e pertanto considerare necessaria la rimessione al primo giudice perché effettui quella decisione nel merito che è mancata a causa dell'erronea declinatoria di competenza. In questa ipotesi, il giudizio di reclamo cautelare avrebbe unicamente funzione rescindente mentre la fase rescissoria dovrebbe essere attribuita al giudice di prime cure. L'altra soluzione, che appare sicuramente più in linea con la disciplina normativa del reclamo cautelare, è invece quella che ritiene che in ossequio al disposto dell'art. 669-terdecies c.p.c. il giudice del reclamo debba compiere sia la fase rescindente che la fase rescissoria e quindi pronunciarsi nel merito del provvedimento cautelare richiesto e originariamente rigettato per una erronea dichiarazione di incompetenza. Alla fase impugnatoria seguirebbe, a tale stregua, necessariamente un provvedimento cautelare di accoglimento o di rigetto per motivi di merito.

Nella giurisprudenza di merito, vi sono state alcune pronunce in favore della natura meramente rescindente della fase di reclamo e della conseguente necessità di rimettere la domanda cautelare al giudice ritenutosi erroneamente incompetente per la decisione nel merito. Si è detto, in proposito, che il giudice delegato ha competenza funzionale a disporre le misure cautelari ex art. 146 della l.fall., ma anche in tale procedimento speciale deve trovare applicazione l'art. 669-sexies c.p.c. e perciò il giudice delegato che abbia assunto il provvedimento cautelare ex officio, senza prima convocare avanti a sé il curatore e i soggetti destinatari del provvedimento stesso, deve poi provvedere alla loro convocazione ai sensi dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., con la conseguenza, in difetto, della revoca pura e semplice del provvedimento cautelare da parte del collegio adito mediante reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (Trib. Bologna 11 ottobre 1994). Nello stesso senso, si è precisato che, anche a seguito della novellazione del codice di procedura civile del 1990, di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c., permane in capo al giudice delegato la competenza a disporre le misure cautelariexart. 146 della l. fall.. Nell'àmbito di tale speciale procedimento cautelare, il giudice delegato ha ampiezza di poteri istruttori maggiore di quella prevista in capo al giudice designato in sede ordinaria, potendo sempre il giudice concorsuale attingere dallo stesso fascicolo fallimentare e da audizioni separate ogni notizia utile alla decisione. Il mezzo per il riesame è quello del reclamo al tribunale fallimentare ex art. 26 della l.fall., esperibile sia da parte dei soggetti incisi dal provvedimento cautelare positivo sia dallo stesso curatore se mostri di non condividere il diniego manifestato dal giudice delegato in sede autorizzatoria ex art. 146 della l.fall. (mentre va pretermessa l'instaurazione di un contraddittorio tra le parti davanti al giudice delegato, non dovendo trovare applicazione l'art. 669-sexies c.p.c.: Trib. Bologna 12 agosto 1994). Il reclamo cautelare ha natura solo limitatamente devolutiva e costituisce strumento di controllo del provvedimento adottato dal primo giudice, senza possibilità, per il giudice del reclamo, di sostituirsi a quest'ultimo nella decisione della misura richiesta. Pertanto, ove il giudice del reclamo accerti vizi di nullità del ricorso introduttivo innanzi al primo giudice deve limitarsi a dichiarare la sussistenza di quel vizio, senza alcuna possibilità di sanarlo, con conseguente revoca del provvedimento oggetto del reclamo (Trib. Napoli 30 aprile 1997).

Anche se tale giurisprudenza sembra legittimare la rimessione al primo giudice nell'ipotesi di pronuncia declinatoria di competenza poi riformata in sede di reclamo, non appare possibile che la rimessione in parola operi sulla base degli artt. 353 e 354 c.p.c. essendo queste ultime norme eccezionali che non possono trovare applicazione nell'àmbito del processo cautelare (Consolo 1998, 121; Cirulli, 122). Difettano inoltre almeno due requisiti perché possa ritenersi operante il principio posto dagli artt. 353 e 354 c.p.c. e, in particolare, non vi è un provvedimento che abbia natura – né sostanza – di sentenza e non si può ritenere che l'indicazione contenuta nel provvedimento finale emanato in sede di reclamo del giudice competente abbia natura vincolante, con la conseguenza che l'unica spiegazione utile per legittimare la necessità della rimessione al primo giudice è quella della garanzia del doppio grado di giurisdizione. Tale doppio grado opererebbe, in questo ambito, laddove almeno due giudici siano stati messi in grado di decidere nel merito della fattispecie (v., amplius, Tarzia, Giorgetti, 491).

Va, però, segnalato che la giurisprudenza di legittimità ragiona in senso diverso. Si è, infatti, affermato che la garanzia del doppio grado di giudizio è rispettata ogni qualvolta il giudice di primo grado sia stato posto nella condizione di esaminare la domanda in tutta la sua estensione, anche se il medesimo giudice, risolvendo una questione pregiudiziale, non sia entrato nel merito della controversia e non abbia esaminato gli altri punti della causa, ed il giudice di secondo grado abbia statuito nel merito superando la questione pregiudiziale (Cass. I, n. 3542/1981). Peraltro, non sussiste una garanzia costituzionale del principio del doppio grado di giurisdizione, non richiedendosi che la causa venga in concreto decisa due volte da diversi giudici di merito, perché è sufficiente che la causa sia effettivamente sottoposta alla cognizione del giudice di primo e di secondo grado, mentre è irrilevante il mancato esame della domanda di merito da parte del giudice di primo grado (Cass. II, n. 2251/1997).

Ritorna, pertanto, come unica possibilità, quella che sia il giudice del reclamo a decidere nel merito, non potendo operare la rimessione al primo giudice; ciò può verificarsi, però, purché il ricorrente cautelare abbia in sede di reclamo riproposto le proprie domande ex art. 346 c.p.c., norma che, secondo la dottrina, si applica al procedimento cautelare per la natura integralmente e necessariamente sostitutiva del reclamo cautelare (Tarzia, Giorgetti, 491).

Il rigetto della domanda cautelare per motivi di merito: la mancanza dei presupposti.

A norma dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., l'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza per il provvedimento cautelare allorché si verifichino mutamenti delle circostanze o si deducano nuove ragioni di fatto o di diritto. La norma, in parte qua, fa riferimento all'ipotesi del rigetto per mancanza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Specificamente il riferimento della disposizione normativa è, come visto, alla deduzione di «mutamenti delle circostanze» ovvero di «nuove ragioni di fatto o di diritto». Soltanto in presenza di tali deduzioni è possibile riproporre l'istanza in caso di rigetto per mancanza dei presupposti, verificandosi, diversamente, una preclusione. Pertanto, ciò che emerge con evidenza da una lettura della norma è che, in caso di rigetto per motivi di merito, ossia per mancanza dei presupposti per la concessione della misura cautelare richiesta, non può essere riproposta la «stessa» domanda cautelare bensì una domanda cautelare modificata in relazione alle circostanze mutate o alla deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto.

La giurisprudenza di merito ha più volte precisato che la riproposizione della stessa domanda cautelare, senza la deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto o senza mutamenti delle circostanze è preclusa in virtù del chiaro disposto dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. Tuttavia, la mancata deduzione di mutamenti delle circostanze a fondamento della riproposizione dell'istanza cautelare rigettata con provvedimento non sottoposto a reclamo, non può essere causa della sua inammissibilità, essendo sufficiente la deduzione di nuove ragioni di fatto e di diritto (Pret. Latina 17 giugno 1997). E, comunque, la riproposizione della stessa domanda cautelare in precedenza respinta è inammissibile quando gli intervenuti mutamenti nelle circostanze o le nuove ragioni di fatto o di diritto sottoposte all'attenzione del giudice siano irrilevanti ai fini della futura decisione. Qualora, invece, vi sia una incidenza in qualche modo apprezzabile delle novità, il giudice potrà entrare nel merito della cautela e non gli sarà in alcun modo precluso il riesame delle questioni già affrontate dal primo giudicante (Trib. Verona 17 luglio 1995).

Ciò che è, quindi, precluso ai sensi dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c.è solo la riproposizione della stessa identica domanda cautelare, fondata sulle medesime circostanze originarie e contenente la deduzione delle stesse ragioni di fatto e di diritto che hanno comportato il suo rigetto. È, dunque, ben possibile riproporre una domanda differente chiedendo un provvedimento cautelare diverso oppure a cautela di un diritto diverso rispetto a quello di cui originariamente si è chiesta la tutela (Recchioni 2015, 594). E, in ogni caso, la norma è chiara nel richiedere la deduzione alternativa di nuove ragioni di fatto o di diritto e di mutamenti delle circostanze, sicché la domanda cautelare «riproposta» potrà ben contenere o l'una o l'altra deduzione.

Resta, però, da spiegare in cosa consistano i mutamenti delle circostanze e le nuove ragioni in fatto o in diritto che consentono la riproponibilità della domanda cautelare rigettata in prima battuta.

Rispetto ai mutamenti delle circostanze, non vi è uniformità di vedute. Parte della dottrina ricomprende nella dicitura della norma la facoltà per la parte di dedurre nuovi fatti costitutivi del fumus e del periculum , nonché la allegazione di nuove prove (Proto Pisani 2009, 646). Altra dottrina, invece, ritiene che non sia possibile inserire nelle facoltà previste dalla norma la deduzione di nuovi fatti costitutivi del diritto e del periculum o le nuove allegazioni istruttorie ma, in ossequio al dato testuale che limita la deducibilità ai mutamenti delle circostanze, sarebbe possibile unicamente dedurre le eventuali sopravvenienze in fatto (Tarzia, Giorgetti, 493). In sostanza, il mutamento delle circostanze che consente di superare la preclusione e di proporre una nuova domanda cautelare concerne i fatti costitutivi del diritto dedotto, come ad esempio la allegazione di un termine scaduto o di una condizione verificatasi, ma anche l'insieme dei fatti costituenti il pericolo (Recchioni 2015, 596). In ogni caso, il mutamento delle circostanze può contenere anche profili essenzialmente giuridici (Attardi 1991, 241; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 636), ma, in ogni caso, non si tratta di una semplice modificazione della realtà, sia essa sostanziale che giuridica, ma piuttosto, si è precisato, una modificazione di quella realtà per come si atteggiava al momento della prima richiesta del provvedimento cautelare poi rigettato (Recchioni 2015, 595).

La stessa dottrina che ricomprende nei mutamenti delle circostanze la possibilità per la parte di dedurre nuovi fatti costitutivi del diritto e del periculum oltreché nuove prove, ovviamente esclude tali allegazioni dall'ambito delle nuove ragioni in fatto o in diritto, affermando che tale ultima previsione ricomprenderebbe diverse argomentazioni rispetto alla prima domanda cautelare rigettata, ovvero modifiche alla ricostruzione giuridica effettuata dalla parte o dal giudice nel provvedimento originario (Proto Pisani 2009, 646). In generale, tuttavia, il contenuto delle «nuove ragioni di fatto o di diritto» di cui all'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. viene dalla dottrina ricondotto alla allegazione di nuove ricostruzioni in fatto o di nuove ragioni di diritto in cui l'elemento della novità starebbe nella mancata precedente deduzione nella prima istanza cautelare conclusasi con il provvedimento di rigetto per mancanza dei presupposti. Nell'ambito dei provvedimenti cautelari non vi sarebbe spazio, infatti, per il principio proprio della preclusione derivante dal giudicato, ossia che esso copre il dedotto e il deducibile (ma non quanto non poteva ancora essere dedotto), mentre il confine della preclusione derivante dal precedente provvedimento cautelare di rigetto si limiterebbe al dedotto ma non anche al deducibile (in questo senso Attardi 1991, 241; Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 638; Tarzia, Giorgetti, 494). In ogni caso, per quanto concerne la deduzione di nuove ragioni di «fatto» esse vanno fatte coincidere negli avvenimenti storici attinenti alla fondatezza della pretesa e, quindi, al fumus boni iuris, ovvero al pericolo che legittima alla richiesta, e quindi al periculum in mora (Recchioni 2015, 596; Corsini, 171). Tali fatti nuovi sono quindi fatti differenti rispetto a quelli originariamente dedotti, ma comunque deducibili; sono senz'altro proponibili i fatti sopravvenuti (Corsini, 171; Barletta, 304; si è, però, evidenziato come i fatti sopravvenuti rientrerebbero, forse, a maggior ragione nei mutamenti delle circostanze e non nella deduzione di nuove ragioni di fatto: Recchioni 2015, 597).

La giurisprudenza oscilla tra chi ritiene che il deducibile non possa mai ritenersi precluso per la riproposizione dell'istanza originariamente rigettata e chi, invece, ritiene che il deducibile sia precluso ai fini della riproposizione. Nel primo senso, si è detto che la disposizione in commento, al fine della riproposizione della domanda cautelare deve necessariamente interpretarsi in modo restrittivo, sì da intendere l'istanza reiterabile solo allorché si deducano nuove circostanze comprovanti l'insorgenza di una situazione di pericolo prima inesistente o fatti nuovi o ragioni di diritto non dedotte, ovvero non deducibili nella precedente richiesta cautelare o nella successiva fase di reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (nella fattispecie si è ritenuta insufficiente la mera produzione di una certificazione ospedaliera comprovante una patologia già dedotta nella precedente istanza: Trib. Bari 24 marzo 2005). Ancora si è ritenuto che, ai fini della riproposizione, non costituisce circostanza nuova la produzione di ulteriore certificazione medica che nulla aggiunge allo stato patologico già posto a base del primo ricorso ex art. 700 c.p.c. (accolto con ordinanza annullata in sede di reclamo: Trib. Roma 12 febbraio 2007). Si precisato, sempre nel primo senso, che il giudicato cautelare, coprendo il dedotto e non il deducibile, non si forma se la riproposizione del ricorso, con lo stesso petitum, avvenga sulla base di nuove deduzioni di fatto e di diritto (Trib. Mantova 12 luglio 2002). Non è ammissibile, d'altro canto, la riproposizione, dopo un diniego, della stessa domanda cautelare sulla base di una migliore e più ampia illustrazione delle medesime ragioni di pericolo nel ritardo già senza successo rappresentate al primo giudice (Trib. Verona 21 giugno 1994). Nello stesso senso, si è specificato che la riproposizione in corso di causa della domanda di sequestro ed inibitoria per violazione della legge sui marchi, già rigettata ante causam, è preclusa ex art. 669-septies c.p.c. laddove e per la parte in cui sia fondata su ragioni già dedotte e anche solo per implicito rigettate nel primo provvedimento (Trib. Modena 7 luglio 1994). Ancor più chiaramente, si è detto che è ammissibile l'istanza di modifica del provvedimento cautelare basata su fatti preesistenti al provvedimento stesso ma non allegati nella domanda originaria (Trib. Firenze 15 maggio 1995). O ancora si è ritenuto che in forza del regime della riproponibilità della domanda cautelare disciplinato dalla norma in commento, non può ritenersi preclusa la riproposizione della domanda che sia fondata non solo su prove nuove o fatti nuovi ma anche su diverse argomentazioni o prospettazioni giuridiche, sicché, nel caso in cui la riproposizione avvenga sulla base di nuove deduzioni di fatto o di diritto non può ritenersi utilmente opposta l'eccezione ne bis in idem che per sua natura copre il dedotto e il deducibile (Trib. Bari25 luglio 2011). Sempre nel senso della copertura del dedotto ma non del deducibile, si è affermato che l'art. 669-septies c.p.c. pone una disciplina preclusiva piuttosto blanda, dovendosi attribuire rilevanza, oltre che ai fatti storici sopravvenuti, anche alle circostanze preesistenti non dedotte in precedenza; la norma infatti contempla sia i fatti o le prove successivi alla decisione negativa o conosciuti dopo la stessa, sia le nuove ragioni di fatto o di diritto, da intendersi come fatti o argomentazioni non utilizzati dalle parti o dal giudice nel primo procedimento. In sostanza la norma sottintende che il c.d. giudicato cautelare sia estremamente fievole, sì da coprire soltanto il dedotto ma non anche il deducibile, con la conseguenza della reiterabilità dell'istanza cautelare anche qualora vengano allegate circostanze di fatto o proposte argomentazioni giuridiche preesistenti all'adozione del provvedimento di rigetto. Pertanto, il motivo relativo al mutamento giurisprudenziale integra notevole elemento di novità che può ben farsi rientrare tra le nuove ragioni di diritto previste dalla norma (Trib. Paola 13 dicembre 2018).

Nel secondo senso, invece, si è ritenuto che le ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla formazione del giudicato cautelare possono condurre all'ammissibilità della proposizione di una nuova istanza cautelare solo qualora il deducente ne alleghi e dimostri la conoscibilità in epoca posteriore alla definizione del procedimento cautelare conclusosi con provvedimento negativo (nella specie, il tribunale adito aveva rigettato il reclamo contro il secondo provvedimento di rigetto nei confronti della domanda cautelare riproposta, non avendo la reclamante prospettato nuove ragioni di fatto e di diritto a supporto della riproposizione dell'istanza, essendosi invece limitata a introdurre nuovi documenti volti a corroborare i fatti ritenuti non provati in prima istanza: Trib. Napoli 5 marzo 2013). L'istanza cautelare respinta con provvedimento non assoggettato a reclamo sarebbe reiterabile solo se si deducono nuove circostanze comprovanti l'insorgenza di una situazione di pericolo prima inesistente o fatti nuovi, o ragioni di diritto non dedotte né deducibili nella precedente richiesta di provvedimento cautelare (Trib. Taranto 15 aprile 1996). Ancora, si è precisato che l'istanza cautelare può essere riproposta soltanto quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto, in ossequio al disposto dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. Infatti, dal principio della ragionevole durata del processo, così come dall'art. 669-decies, comma 1, c.p.c., che prevede l'improponibilità dell'istanza di revoca o modifica ove sia proposto reclamo, si evince che il giudicato cautelare copre il dedotto e il deducibile, per cui non è possibile addurre in sede di reiterazione della stessa domanda cautelare nuove ragioni di diritto che potevano già dedursi in prime cure, evitando così una inammissibile frantumazione e diluizione nel tempo dell'attività difensiva, a sicuro discapito di un celere svolgimento del procedimento (Trib. Bari 2 marzo 2009). Da ultimo, in questo senso si è affermato che il giudicato cautelare copre il dedotto e si estende al deducibile, sicché è inammissibile la riproposizione della domanda cautelare costruita su ragioni di fatto e di diritto preesistenti al provvedimento di rigetto, a meno che il deducente non ne alleghi e dimostri la conoscibilità in un momento successivo (Trib. Nola 29 agosto 2019).

Quanto alla deduzione di nuove ragioni di diritto, oltre a ciò che si è detto in precedenza, anche per esse vale il principio che possono senz'altro riguardare sia la fondatezza della pretesa sia il pericolo. Da un lato, si è detto che limitare la deduzione di nuove ragioni di diritto in funzione dell'applicazione del principio iura novit curia farebbe correre il rischio di consentire la riconduzione a questa clausola del solo ius superveniens e delle dichiarazioni di incostituzionalità di norme rilevanti per la decisione, fattispecie queste che rientrerebbero a pieno titolo nei mutamenti delle circostanze e che, presumibilmente, sarebbero deducibili anche in assenza della previsione dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. (v., amplius, Recchioni 2015, 598). Pertanto, potrebbe rientrare nella deduzione di nuove ragioni di diritto anche la riqualificazione giuridica del fatto, effettuata sulla base di norme diverse da quelle originariamente utilizzate, ma anche l'uso di un provvedimento cautelare diverso, senza dimenticare che questioni giuridiche possono coinvolgere anche i profili della strumentalità tra la cautela e il merito (Recchioni 2015, 598, con esempi). È stato, peraltro, esattamente rilevato come la disciplina legislativa appaia carente sotto il profilo della possibilità di chiedere con la riproposizione della domanda cautelare un provvedimento diverso da quello richiesto originariamente, e ha lasciato di fatto la spinosa questione agli interpreti (Tarzia, Giorgetti, 495). Sicché, interpretando elasticamente il concetto di nuove ragioni di diritto in esse va ricompresa senz'altro la riqualificazione giuridica delle argomentazioni originarie rispetto alla domanda cautelare, intendendo con riqualificazione anche ogni nuovo motivo di diritto non dedotto precedentemente, ma anche il cambiamento della domanda di merito cui la cautela è preordinata (Recchioni 2015, 599).

Rispetto alla modifica della domanda di merito, in giurisprudenza è stata espressa una voce contraria, ritenendosi che il mutamento della domanda di merito, nella specie modificata da tutela di mero accertamento a tutela di condanna, non può considerarsi una nuova ragione di diritto tale da consentire la riproposizione dell'istanza cautelare originariamente rigettata (Trib. Trani 14 febbraio 1996).

Va, tuttavia, riferita una diversa opinione espressa sul significato della deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto che si fonda, sostanzialmente, sul diverso impianto derivante dalla nota pronuncia di incostituzionalità dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c. È noto, infatti, che la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciare sulla legittimità della disposizione in parola, ha affermato che l'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c. è costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non ammette il reclamo ivi previsto anche avverso l'ordinanza con cui sia stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare (Corte cost., n. 253/1994). È così mutato l'àmbito applicativo del reclamo cautelare, originariamente limitato – nella versione primigenia della disposizione – alle sole ordinanze con cui era stata concessa la tutela cautelare. Con pronuncia di poco successiva, la Consulta ha poi dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, proposta sempre in riferimento agli artt. 24 e 3 Cost., dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c., nella parte in cui non prevederebbe la reclamabilità del provvedimento di rigetto della domanda cautelare per incompetenza (Corte cost., n. 197/1995; nella fattispecie il Tribunale di Verbania, nel corso di un procedimento di reclamo proposto contro un provvedimento con cui era stata rigettata una domanda di reintegrazione nel possesso sulla base della ritenuta incompetenza del giudice adito, aveva denunciato la norma per pretesa incostituzionalità).

A parere di autorevole dottrina, che si fonda su tale pronuncia di incostituzionalità, a partire da questa dichiarazione di illegittimità costituzionale, dal dettato dell'art. 669-septies c.p.c. deve ormai ritenersi eliminato il riferimento alle «nuove ragioni di fatto e di diritto», contestazioni che sarebbero ora deducibili in sede di reclamo, mentre la riproposizione della domanda cautelare potrebbe essere giustificata solo in presenza di eventuali sopravvenienze (Vaccarella, 522).

Questa posizione dottrinale sembra confermata dal legislatore dato che lo stesso ha con la riforma del 2005 modificato l'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., norma che adesso afferma che «le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento».

La dottrina ha precisato con riferimento alle nuove ragioni di fatto e di diritto che in concreto fossero deducibili anche nella fase pregressa, la disposizione dell'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c. deve essere intesa nel senso che tali ragioni di fatto o di diritto, qualora non siano dedotte in sede di reclamo, non possono poi essere poste a fondamento di una riproposizione della domanda cautelare originariamente rigettata, anche qualora il reclamo non sia proposto nei termini perentori previsti dalla norma. Si formerebbe, pertanto, una preclusione alla riproposizione della domanda cautelare originariamente rigettata, dato che le nuove ragioni in fatto e in diritto confluirebbero nel reclamo (così Petrillo 243; contra, Balena, in Balena, Bove, 361).

La norma dell'art. 669-octies, comma 5, c.p.c. secondo cui le disposizioni dello stesso articolo e quelle dell'art. 669-novies c.p.c. non si applicano ai provvedimenti d'urgenza e agli altri di carattere anticipatorio, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto, ma ciascuna delle parti può iniziare il giudizio di merito, si inserisce all'interno di una norma che presuppone l'accoglimento della misura cautelare. Per l'ipotesi di provvedimento negativo la norma dispone che la domanda cautelare respinta può essere ripresentata ove siano mutate le circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto; nulla si frappone comunque al potere della parte di agire a tutela del medesimo diritto con le forme della cognizione piena e nel momento che essa ritenga più opportuno, non essendo stata emessa una misura cautelare la cui efficacia debba essere conservata (Cass. II, n. 18535/2022).

Alcune applicazioni giurisprudenziali sulla riproposizione in caso di rigetto per motivi di merito.

Il panorama della giurisprudenza di merito sull'ammissibilità della riproposizione della domanda cautelare rigettata per mancanza di presupposti e sul contenuto della stessa, sono molto articolate. Si va, infatti, da chi ritiene che il ricorso possa essere fondato anche sulla deduzione di nuove ragioni di fatto o di diritto pur se conosciute anche in prima istanza, a chi, come visto anche supra, estende la preclusione a tutto ciò che era deducibile e non è stato dedotto. Ancora vi sono pronunce che ritengono di aderire a quella opinione dottrinale che ritiene ormai espunta dalla previsione normativa la possibilità di dedurre nuove ragioni di fatto o di diritto che fossero già deducibili ma in concreto non dedotte, ritenendosi consentita la sola proposizione di eventuali sopravvenienze, a chi invece ritiene che le nuove ragioni di fatto o di diritto, poiché non espunte dal testo dell'art. 669-septies c.p.c., ancora consentano la riproposizione della domanda cautelare rigettata per motivi di merito.

Si è così detto che, in base alla previsione dell'art. 669-septies c.p.c., l'istanza cautelare può essere riproposta soltanto quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Infatti, dal principio di ragionevole durata del processo così come dall'art. 669-decies, comma 1, c.p.c., che prevede l'improponibilità dell'istanza di revoca o modifica laddove sia proposto reclamo, si evince che il giudicato cautelare copre il dedotto e il deducibile, per cui non è possibile addurre in sede di reiterazione della medesima richiesta cautelare nuove ragioni di diritto che si potevano dedurre già prima, evitando così una inammissibile frantumazione e diluizione nel tempo dell'attività difensiva che va a sicuro discapito di un celere svolgimento del procedimento (Trib. Bari 2 marzo 2009).

Va da sé che è inammissibile l'istanza cautelare ripetitiva di precedente istanza già respinta dal tribunale per difetto del requisito del periculum in mora, allorché l'istante, proprio in relazione a tale requisito, non abbia dedotto nuove ragioni o rappresentato mutamenti delle circostanze (Trib. Roma 15 giugno 2005). Quanto al periculum in mora si è però specificato che l'art. 669-septies c.p.c., nel prevedere che l'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti nelle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto, individua le novità in presenza delle quali può essere riproposta l'istanza, fra le quali vanno ricomprese le allegazioni, nel nuovo ricorso, di ragioni di fatto o di diritto riguardanti non solo il fumus boni iuris, ma anche il periculum in mora, non proposte a sostegno del precedente ricorso: nella fattispecie si è ritenuto di accogliere il ricorso per erronea cancellazione alla centrale rischi e derubricata la segnalazione da sofferenza a credito contestato, dal momento che, a suffragio di nuove circostanze e fatti sopravvenuti, il ricorrente aveva depositato in udienza uno scambio di e-mail dalle quali emergeva che per la banca, per ogni segnalazione negativa in Centrale rischi – credito litigioso, sofferenza, sconfino – è motivo di scoring negativo nel sistema di valutazione del merito creditizio e che, pertanto, fino al permanere di tali segnalazioni non sarebbe stata possibile alcuna concessione di credito, sia sotto forma di carta di credito, sia di affidamento bancario (Trib. Milano 11 novembre 2015).

Ancora si è specificato che, qualora la domanda cautelare sia stata rigettata, in presenza di nuove deduzioni probatorie, si deve ritenere che abiliti alla riproposizione della domanda l'allegazione di fatti storici diversi, pur se preesistenti, esclusi gli stessi fatti già allegati, ancorché presentati alla luce di nuovi mezzi di prova, poiché l'elemento di novità richiesto dall'art. 669-septiesc.p.c. impone un effettivo mutamento degli strumenti attraverso cui portare all'attenzione del giudice la realtà fattuale esterna (nella specie, il giudice aveva ritenuto di non ammettere l'audizione di sommari informatori e il ricorrente aveva riproposto la domanda allegando alcune dichiarazioni scritte degli informatori non ammessi: Trib. Napoli 14 gennaio 2004). Nel senso che il ricorso cautelare può essere riproposto sulla base di motivazioni di fatto o di diritto non dedotte dal ricorrente nella prima istanza, anche se ad esse preesistenti, si sono espresse alcune pronunce di merito (Trib. Napoli 21 dicembre 1994). Nel merito dei mutamenti delle circostanze o delle nuove ragioni di fatto o di diritto, si è precisato che la riproposizione della stessa domanda cautelare in precedenza respinta è inammissibile quando gli intervenuti mutamenti delle circostanze o le nuove ragioni di fatto o di diritto sottoposte all'esame del giudice siano irrilevanti ai fini della decisione futura. Qualora, invece, vi sia una incidenza in qualche modo apprezzabile della novità, il giudice può entrare nel merito della cautela e non gli è precluso il riesame delle questioni già affrontate dal primo giudicante (Trib. Verona 17 luglio 1995).

Amplius, con riferimento alla casistica formatasi in tema di riproposizione della domanda cautelare rigettata per motivi di merito si rinvia a Celeste, 297.

Il giudicato cautelare e i limiti alla riproponibilità della domanda cautelare rigettata nel merito.

Abbiamo già potuto esaminare in precedenza la giurisprudenza formatasi sulla riproponibilità della domanda cautelare rigettata per motivi di merito e, quindi, per mancanza dei presupposti. A questo tema si collega quello annoso del c.d. giudicato cautelare. È opportuno, pertanto, sistematizzare il discorso e verificare se e in quali limiti si possa parlare, appunto, di giudicato cautelare, sempre tenendo presente che il punto di partenza è la giurisprudenza di merito sopra citata che, come visto, è ondivaga nello stabilire se il giudicato in questione copra il dedotto e il deducibile, ovvero solo il dedotto.

In particolare, sappiamo che l'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. stabilisce che l'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. A questa disposizione – come detto – si collega la preclusione alla riproposizione della «stessa» domanda cautelare e, conseguentemente, il «giudicato» connesso al provvedimento cautelare di rigetto.

Il tema è oggetto di vaste discussioni dottrinali e di esso si è occupata buona parte della dottrina; la portata del giudicato in questione altro non è che il riflesso della preclusione che la norma dell'art. 669-septies c.p.c. pone alla riproponibilità libera del provvedimento cautelare rigettato (in tema, v. Marelli, 779). Ma si è giustamente evidenziato come di stabilità del provvedimento cautelare si parli anche con riferimento ai provvedimenti di accoglimento, sia quelli anticipatori per i quali il nesso di strumentalità è debole o attenuato, sia per quelli conservativi per cui il nesso di strumentalità è forte. Si tratta, tuttavia, di due concetti di «stabilità» tra loro diversi dato che il provvedimento di accoglimento ha la funzione di disciplinare il rapporto tra le parti, sia pur provvisoriamente, mentre il provvedimento di rigetto impone alla parte di non riproporre la domanda così come originariamente strutturata ma soltanto con la deduzione di mutamenti delle circostanze o nuove ragioni di fatto o di diritto (Recchioni 2015, 608). In ogni caso il vincolo alla riproposizione della stessa domanda cautelare così come costruito nell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. quanto al rigetto per motivi di merito origina dalla necessità, evidenziata da autorevole dottrina (Tarzia 1988, 332), di porre un freno alla pratica del forum shopping cautelare costruendo così una sorta di preclusione per il secondo giudice adito per la cautela, preclusione che consente, sia pur con le dovute differenze, il richiamo alla nozione di «giudicato».

È ovvio che trattasi di un richiamo che non consente di applicare sic et simpliciter la nozione di giudicato sostanziale nel procedimento cautelare, dato che il provvedimento di accoglimento non ha mai vocazione per la stabilità e la incontrovertibilità, potendo, anche nel caso dei provvedimenti anticipatori, essere ridiscusso in sede di merito; ma anche il provvedimento negativo produce sì una preclusione ma non una incontrovertibilità degli effetti di un ipotetico accertamento. Si condivide, pertanto, l'affermazione secondo cui la preclusione derivante dal provvedimento di rigetto, sia che la si consideri forte, sia che la si ritenga debole, con copertura estesa o meno al deducibile e non soltanto al dedotto, opera in quanto preclusione di questioni a tutela di una sia pur limitata incontrovertibilità del provvedimento di rigetto del giudice, rimanendo però estranea alla disciplina del procedimento cautelare ogni tematica afferente al c.d. giudicato sostanziale (v., amplius, Recchioni 2015, 610).

Rinviando nella sua interezza all'esposizione sopra riportata della giurisprudenza di merito ondivaga sulla riproponibilità della domanda fondata sul deducibile, bisogna ricordare che anche la dottrina si è divisa tra chi valorizza una preclusione debole ammettendo anche le argomentazioni non prodotte a sostegno della prima domanda pur se già producibili, e chi, invece, ammette una concezione forte del vincolo aderendo a quella giurisprudenza che nega la ammissibilità del deducibile.

In particolare, parte della dottrina sostiene che l'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. configuri una preclusione per l'appunto debole e che, di conseguenza, nel nuovo giudizio cautelare possano essere allegati non soltanto i mutamenti delle circostanze fattuali ma anche le allegazioni relative alla fondatezza della pretesa o al pericolo di danno che non sono state prodotte a sostegno della prima istanza anche se in quel momento erano già deducibili (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 635; Attardi 1991, 240; Tarzia, Giorgetti, 493). Non solo, si è affermato che dovendo ricomprendere i fatti costitutivi del fumus e del periculum nuovi e le nuove prove nell'ambito dei mutamenti delle circostanze, la nozione di nuove ragioni di fatto o di diritto può essere riempita soltanto con riferimento ad allegazioni già possibili quando si è chiesto il primo provvedimento cautelare ma non concretamente dedotte (Luiso 2019, 214). In senso diverso, parte della dottrina ha invece affermato che gli elementi di fatto che già esistevano al momento della proposizione della prima domanda conclusasi con il provvedimento negativo e che non erano stati dedotti in prime cure e nemmeno in sede di reclamo cautelare, non possono essere oggetto di una nuova istanza in sede di riproposizione (Menchini 2006, 94; Guaglione 2007, 51; Petrillo 245; Celeste, 297). Vi è anche chi ha precisato che laddove venga proposto reclamo cautelare che si concluda con la conferma del provvedimento cautelare ivi impugnato, l'istanza cautelare si può nuovamente proporre ma soltanto allegando fatti sopravvenuti alla conclusione del procedimento (Balena, in Balena, Bove, 363).

A completamento del discorso sul c.d. giudicato cautelare, va ricordato che nella giurisprudenza più recente pare notarsi una tendenza ad intendere la preclusione in senso forte e quindi come estesa anche al deducibile. Da un lato, si ricorda quella pronuncia che ha argomentato in tale senso affermando che la copertura anche del deducibile si giustifica alla luce del principio della ragionevole durata del processo per evitare una reiterazione nel tempo dell'attività difensiva (Trib. Bari 3 marzo 2009, cit., ma anche Trib. Napoli 5 marzo 2013). Non solo, va menzionata la ancor più recente giurisprudenza secondo cui il giudicato cautelare deve coprire dedotto e deducibile con la conseguente inammissibilità della domanda cautelare che sia riproposta fondandola su ragioni di fatto e di diritto preesistenti al provvedimento di rigetto, a meno che il deducente non ne dimostri la conoscibilità soltanto in epoca posteriore (così la citata Trib. Nola 29 agosto 2019).

Va, infine, rammentato il connesso tema dell'applicabilità o meno della disciplina della litispendenza in sede cautelare che vede un atteggiamento contrastante in giurisprudenza. Vi sono, infatti, pronunce che ritengono applicabile l'art. 39 c.p.c. in quanto regola avente valenza generale e quindi operante anche al di fuori del processo ordinario di cognizione ed altre che invece escludono l'applicazione della norma perché ritengono che essa sia dettata al solo fine di anticipare l'eccezione di cosa giudicata e, quindi, di evitare il formarsi di un contrasto di giudicati, con la conseguenza che non sarebbe tecnicamente applicabile in sede cautelare.

In dottrina, si è affermato che la norma porrebbe, appunto, un principio di carattere generale e, pertanto, sarebbe applicabile al procedimento cautelare nei limiti in cui l'inammissibilità della domanda riproposta per seconda si fonda sulla mancanza dell'interesse ad agire (Recchioni 2015, 281).

La giurisprudenza recente ha ritenuto applicabile l'art. 39 c.p.c. al procedimento cautelare dichiarando inammissibile la domanda che era stata riproposta prima davanti ad un diverso ufficio giudiziario con deduzione delle stesse ragioni e allegazioni (Trib. Nola 29 agosto 2019, cit.). In senso diverso, invece, si è detto che l'istituto della litispendenza, sia nazionale che internazionale, non è invocabile in sede cautelare considerato che la pronuncia che definisce il giudizio cautelare in materia di marchi non è suscettibile di acquisire valore di giudicato e ciò anche ipotizzando l'eventuale stabilizzazione del provvedimento anticipatorio (Trib. Milano 12 marzo 2008). E ancora, si è precisato che laddove il provvedimento cautelare debba essere eseguito in due diversi fori, la precedente instaurazione del procedimento cautelare davanti ad altro tribunale, anch'esso competente in base all'art. 669-ter c.p.c., non da luogo a litispendenza, essendo la ratio di tale istituto, così come disciplinato dall'art. 39 c.p.c., incompatibile con il procedimento cautelare, non potendo portare a contrasto di giudicati (Trib. Torino 2 ottobre 1998). Si è anche detto, in senso negativo, che è inammissibile la riproposizione della domanda cautelare rigettata quando è pendente il giudizio di reclamo contro l'ordinanza di rigetto (Trib. Milano 12 marzo 2016).

I presupposti delle misure tipiche la cui mancanza può legittimare il rigetto per motivi di merito.

Il fatto che il rigetto per motivi c.d. di «merito» si fondi sulla mancanza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora rende opportuno fare una sia pur breve digressione sui presupposti richiesti dalle norme che disciplinano i provvedimenti cautelari previsti dal nostro codice di rito e, pertanto, dei sequestri, nella forma del conservativo, del giudiziario e del liberatorio, in quanto tipici provvedimenti cautelari conservativi e i provvedimenti d'urgenza, in quanto tipici (salvo alcune ipotesi) provvedimenti anticipatori, ma anche delle azioni di nunciazione, dei provvedimenti possessori, dei provvedimenti di istruzione preventiva. Senza, ovviamente, dimenticare che la panoramica dei provvedimenti cautelari del nostro ordinamento è molto più ampia rinvenendosene molti nella disciplina del codice civile e delle leggi speciali ossia. La tematica potrà – com'è ovvio – essere solo accennata, rinviandosi per un approfondimento alle opere che commentano specificamente le singole norme richiamate. Tuttavia, la generale panoramica sui presupposti delle misure tipiche e atipiche serve per comprendere in quali situazioni possa o meno configurarsi il rigetto del provvedimento richiesto per mancanza del fumus boni iuris o del periculum in mora.

I presupposti dei sequestri.

Il sequestro conservativo è disciplinato dall'art. 671 c.p.c. a norma del quale «il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento». Tale strumento cautelare, disciplinato dal codice sostanziale all'interno dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale generica sui beni del debitore, insieme all'azione surrogatoria e all'azione revocatoria, ha la funzione di assicurare la fruttuosità dell'espropriazione forzata, togliendo al debitore la libera disponibilità dei beni mobili o immobili di cui è proprietario (Picardi, 273). Per quanto concerne i presupposti del sequestro in questione, il fumus boni iuris, consiste nella esistenza di una situazione che consenta di ritenere probabile la fondatezza della pretesa vantata dal creditore; il periculum in mora consiste nel fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito. Tali presupposti devono essere entrambi presenti, sicché laddove ne manchi anche soltanto uno è inutile l'accertamento dell'esistenza dell'altro non potendo essere concessa la misura richiesta. La fondamentale differenza che intercorre con il sequestro giudiziario è che il sequestro conservativo tende a garantire il soddisfacimento dei diritti del creditore, riparando ad eventuali atti di disposizione che il debitore compia sul suo patrimonio rendendolo incapiente.

Secondo la giurisprudenza, anche la carenza del solo fumus inteso come probabile fondatezza della pretesa in contestazione, ovvero del periculum, inteso come fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, impedisca la concessione della misura cautelare, rendendo contestualmente superfluo l'accertamento sotteso all'individuazione dell'altra (Trib. Milano 11 aprile 2014; Trib. Monza 31 gennaio 2013). Si è anche precisato che il sequestro conservativo è una misura cautelare di carattere patrimoniale, finalizzata a tutelare la fruttuosità dell'eventuale espropriazione forzata, laddove vi sia il pericolo di dispersione da parte del debitore dei beni costituenti la garanzia del credito ex art. 2740 c.c. La concessione di questa misura cautelare è subordinata alla sussistenza, accertata tramite una indagine sommaria, del fumus boni iuris, ossia di una situazione che consenta di ritenere probabile la fondatezza della pretesa creditoria, e del periculum in mora, cioè del fondato timore di perdere la garanzia del credito vantato. Quanto al fumus boni iuris, il credito in relazione al quale viene domandato il sequestro, anche se non liquido o esigibile, deve comunque essere attuale, ossia non meramente ipotetico o eventuale. Per il requisito del periculum in mora, nel sequestro conservativo, non è sufficiente la sussistenza del pericolo di un pregiudizio irreparabile al diritto fatto valere ma è necessario specificamente che tale pericolo si sostanzi nel rischio di perdita e/o diminuzione del patrimonio del debitore costituente la garanzia del credito. Questo requisito va, quindi, accertato mediante un giudizio prognostico negativo in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale, da effettuarsi secondo una valutazione in concreto che può fondarsi su elementi soggettivi e/o su elementi oggettivi che possono essere valutati anche alternativamente. Questo vuol dire che non hanno rilevanza, rispetto all'accertamento del periculum in mora, tutte le condotte distrattive o comunque espressione di una capacità a dissipare il patrimonio poste in essere dal debitore, ma soltanto quelle che, avuto riguardo al momento in cui sono state poste in essere rispetto al sorgere del credito e alla loro incidenza sul patrimonio della società e/o del debitore, facciano ritenere verosimile e attuale il rischio che il sequestro mira ad evitare e cioè che il debitore possa liberarsi del suo patrimonio impedendo ai creditori di soddisfarsi (Trib. Napoli 1° aprile 2020).

L'art. 671 c.p.c., con riguardo al periculum in mora, facoltizza il creditore a vincolare con la indisponibilità, funzionale al successivo pignoramento, i beni del proprio debitore, laddove convinca il giudice della fondatezza del proprio timore di perdere la garanzia del credito, intendendosi con l'espressione «garanzia» la garanzia patrimoniale generica prevista dal codice civile. Proprio il riferimento della norma al fondato timore di perdere la garanzia generica offerta al creditore dalle componenti attive del patrimonio del debitore impone di ritenere che le condizioni per la concessione del sequestro conservativo siano sostanzialmente due: a) che la garanzia, rispetto al momento in cui il credito è sorto, si sia assottigliata o stia per assottigliarsi quantitativamente o qualitativamente, e ciò in virtù di condotte dispositive del debitore o per l'aggressione dei suoi beni fatta o che stanno per fare altri suoi creditori; b) che questo timore sia fondato, ossia si fondi su elementi oggettivamente attinenti alla sfera giuridica del debitore o all'indole fraudolenta desumibile dalle sue condotte (in tal senso, v. Trib. Milano 27 marzo 2019).

Anche la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che esso può basarsi su elementi sia di carattere oggettivo che soggettivo perché il pericolo del pregiudizio può essere desunto sia da elementi di tipo oggettivo, relativi alla capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore che lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all'adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l'eventuale depauperamento del suo patrimonio (Cass. III, n. 2081/2002; Cass. I, n. 6042/1998). Specifica, però, la giurisprudenza di merito che non è sufficiente al fine di ritenere sussistente il periculum in mora, il mero rifiuto di adempiere, perché il pericolo che giustifica la concessione della misura del sequestro conservativo deve essere ragionevolmente fondato (Trib. Napoli 5 agosto 2015) e nemmeno il periculum può essere posto alla base della mera entità del credito (Trib. Roma 26 luglio 2004). Nemmeno può essere disposto il sequestro conservativo per carenza del periculum quando esso non viene configurato sotto il profilo oggettivo ossia quando il ricorrente non fornisce la prova dell'entità del patrimonio del debitore, al fine di consentire al giudice il compimento della valutazione di proporzione quantitativa e qualitativa tra tale patrimonio e l'ammontare del credito (Trib. Patti 8 marzo 2006). Si consideri, tuttavia, che la giurisprudenza di merito ha ritenuto che nell'azione di responsabilitàexart. 146 l.fall., il periculum in mora che giustifica l'emissione della misura cautelare del sequestro in parola può essere anche rappresentato dalla sola sproporzione tra il patrimonio del debitore e l'entità del credito tutelato (Trib. Padova 12 maggio 1999). Sempre in relazione alla dichiarazione di fallimento si è precisato che ai fini della concessione del sequestro conservativo, sotto il profilo del periculum in mora, il lasso di tempo intercorso tra la dichiarazione di fallimento e il ricorso per sequestro conservativo – che nella specie era stato di due anni – a fronte della complessità degli accertamenti necessari ad acquisire gli elementi fondanti gli addebiti fatti valere ed i tempi richiesti dalla chiusura dello stato passivo, non è motivo di esclusione dell'urgenza di provvedere (Trib. Venezia 21 ottobre 2015). Nemmeno si ravvisa la sussistenza del periculum in mora nell'ipotesi in cui nel patrimonio della resistente siano presenti degli immobili di valore di gran lunga superiore all'ammontare del debito e non siano state dedotte dalla ricorrente eventuali condotte della resistente idonee ad integrare il requisito di carattere soggettivo, ossia relativo al comportamento del debitore, che renda verosimile un depauperamento del suo patrimonio ed esprima la sua intenzione di sottrarsi all'adempimento dei suoi obblighi in modo da ingenerare nel creditore il ragionevole dubbio che la sua pretesa non verrà soddisfatta (Trib. Bari 18 ottobre 2012).

Sempre con riferimento al periculum in mora nel sequestro conservativo, si è posto un problema interpretativo nella giurisprudenza di merito con riferimento alle obbligazioni solidali dal lato passivo. La questione riguarda essenzialmente il tema se il giudice debba valutare l'esistenza del periculum con riguardo al patrimonio complessivo di tutti i condebitori in solido, sicché non si potrebbe concedere il sequestro conservativo a favore del creditore di un'obbligazione solidale nei confronti solo di alcuni dei debitori. In sostanza, bisogna capire se è ammissibile una richiesta di concessione di sequestro conservativo quando il creditore prospetti in sede giudiziale una situazione di pericolo soltanto con riferimento ad alcuni dei condebitori solidali. Se, in altre parole, è necessario che il creditore fornisca la prova del periculum solo rispetto alle condizioni del debitore nei cui confronti chiede il sequestro ovvero se debba fornire la prova che il pericolo per il proprio credito deriva dalle condizioni di tutti i condebitori in solido.

Secondo parte della giurisprudenza, poiché l'obbligazione solidale crea un un'unica situazione giuridica passiva che fa capo a più soggetti e non ad una pluralità di rapporti di debito credito distinti ed autonomi poiché è una la prestazione dedotta in giudizio, ai fini della concessione del sequestro conservativo si deve prendere in considerazione la valutazione complessiva del pericolo con riguardo a tutti i condebitori in solido. In sostanza poiché il creditore può ottenere il pagamento da ognuno dei debitori in solido e ognuno di essi è obbligato per l'intero, il pericolo di perdere il credito non esiste sino a quando vi è un debitore solidale che possa soddisfare l'intero credito. Con la conseguenza che non si può concedere il sequestro conservativo in corso di causa in favore del creditore di una obbligazione solidale nei confronti di alcuni soltanto dei debitori convenuti, gli unici rispetto ai quali sia stata provata la sussistenza del requisito del periculum in mora (Trib. Roma 11 giugno 2015; Trib. Santa Maria Capua Vetere 20 gennaio 2014; Trib. Milano 22 ottobre 1997; Trib. Bari 13 marzo 1996). In senso diverso, però, nella giurisprudenza di merito si è detto che la tutela conservativa nei confronti di un solo condebitore solidale è ammissibile senza che vi sia la necessità per il creditore di agire nei confronti degli altri obbligati perché altrimenti si priverebbe il creditore della facoltà di scegliere il debitore nei cui confronti esperire l'azione esecutiva e il vincolo di solidarietà indebolirebbe la posizione del creditore anziché rafforzarla (Trib. Milano 19 febbraio 2016).

Con riferimento al periculum in mora rispetto all'emissione di un sequestro conservativo inaudita altera parte, la giurisprudenza ha risolto la questione caso per caso.

A mero titolo esemplificativo, si può ricordare una pronuncia che ha ritenuto che possono essere sottoposti a sequestro conservativo con provvedimento inaudita altera parte i beni dell' ex amministratore di una società a tutela del credito risarcitorio di quest'ultima derivante dalla mala gestio dell'amministratore (Trib. Modena, 6 marzo 2003). Mentre è stata ritenuta inammissibile la richiesta di sequestro conservativo diretta a garantire il diritto risarcitorio azionato ex art. 2935 c.c., a tutela di piccoli azionisti, stante la difficoltà di isolare, nella notoria aleatorietà del mercato azionario, la quota di danno causalmente connessa con comportamenti illeciti degli amministratori, rispetto a quella attinente alle più varie dinamiche del mercato (Trib. Milano 24 agosto 2002).

Il sequestro giudiziario può essere autorizzato, a norma dell'art. 671 c.p.c., rispetto a: 1) beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea; 2) libri, registri, documenti, modelli, campioni e ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea.

L'art. 671, n. 1), c.p.c. concerne il sequestro giudiziario di beni il cui presupposto, come indicato dalla norma, è l'esistenza di una controversia sulla proprietà o sul possesso del bene che si ritiene opportuno sottoporre a vincolo per garantire sia l'utilità del provvedimento finale, sia la fruttuosità dell'esecuzione.

Si tratta di un provvedimento cautelare strumentale alla conservazione e gestione di beni mobili o immobili, aziende, o altre universalità di beni oggetto di una controversia attuale o anche solo potenziale (Picardi, 273). Generalmente si ritiene, soprattutto nell'interpretazione dottrinale, che rispetto al fumus boni iuris sia sufficiente dare rilievo al dato oggettivo della esistenza di una controversia sulla proprietà o sul possesso, in linea con quanto indicato dalla previsione normativa, mentre non sarebbe consentita una indagine sia pur sommaria sulla probabile esistenza del diritto vantato (in tema, v. Satta 1959, 160).

Secondo una parte della giurisprudenza, tuttavia, sarebbe necessario valutare anche la probabile fondatezza della domanda proposta dal richiedente. Ad esempio, si è detto che accertato il fondamento dell'eccezione di inadempimento proposta dal compratore, il sequestro giudiziario della res venduta con riserva di proprietà non può essere convalidato perché il diritto fatto valere dal venditore si trova in stato di quiescenza, mancando l'avveramento della condizione preordinata al suo esercizio, ossia l'inadempimento (Cass. III, n. 4122/1983). Lo stesso si è detto con riferimento alle ipotesi in cui il diritto non sia temporaneamente azionabile; ad esempio, si è affermato che il divieto imposto dall'art. 705 c.p.c. al convenuto nel giudizio possessorio di promuovere il giudizio petitorio si applica anche all'istanza diretta ad ottenere l'autorizzazione al sequestro giudiziario, perché ha natura strumentale rispetto alla proposizione della causa petitoria relativa al bene sequestrato (Cass. II, n. 1339/1981). Nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, si è rilevato che è da respingere per difetto di legittimazione attiva il ricorso cautelare volto ad ottenere un sequestro giudiziario sui beni ereditari proposto ante causam da chi è stato dichiarato figlio del de cuius con sentenza di primo grado di cui sia pendente l'appello, in quanto tale sentenza non può esplicare ancora efficacia di accertamento dello status che costituisce il presupposto indispensabile affinché possa riconoscersi la legittimazione attiva alla causa di merito nei confronti degli eredi (Trib. Lucca 15 novembre 1996).

Per quanto concerne il periculum in mora nel sequestro giudiziario, è sufficiente che lo stato di fatto che esiste in pendenza del giudizio comporti la possibilità che vi siano situazioni pregiudizievoli per l'attuazione del diritto controverso, indipendentemente dal timore di una sottrazione, alterazione o dispersione dei beni.

La dottrina ha evidenziato come la forma di periculum in mora che maggiormente può venire in considerazione rispetto alla domanda di sequestro giudiziario è quella relativa all'opportunità di custodia o gestione temporanea del bene che, se lasciato nel tempo occorrente per la pronuncia di merito, nelle mani del debitore, potrebbe essere danneggiato, distrutto o disperso sicché sarebbe vanificata la fruttuosità dell'esecuzione per consegna al termine del processo di merito (Caponi 2000,157). Un ulteriore pericolo, come ha evidenziato la dottrina, deriva dall'art. 1153 c.c. ossia dalla possibilità, dato il regime di circolazione dei beni mobili in base alla regola del possesso vale titolo, che il bene sia acquistato da un terzo di buona fede a titolo originario dal soggetto sequestrato; grazie alla concessione del sequestro giudiziario viene meno in capo al sequestrato la materiale disponibilità del bene e quindi la salvezza dell'acquisto in buona fede dei beni mobili garantita dall'art. 111 c.p.c. (in tema, v. Luiso, 194).

Secondo la giurisprudenza di merito, in tema di sequestro giudiziario, ai fini della realizzazione del periculum in mora è sufficiente che lo stato di fatto esistente in pendenza di giudizio comporti la possibilità che si determinino situazioni tali da recare pregiudizio all'attuazione del diritto controverso, indipendentemente dal timore di sottrazione, alterazione o dispersione dei beni: il periculum può sussistere anche nelle ipotesi in cui viene richiesto un provvedimento di sequestro giudiziario, ma in tale accezione esso non costituisce condizione necessaria per la concessione del sequestro, posto che lo stesso art. 670 c.p.c. richiede solo ragioni che rendano opportuna la custodia (Trib. Brescia 11 febbraio 2016). In giurisprudenza, si è ritenuta ammissibile la concessione del sequestro giudiziario anche nelle ipotesi in cui sia opportuna la custodia o gestione temporanea del bene: ad es. si è detto che il requisito del periculum in mora sussiste anche quando la natura produttiva del bene rende opportuna la custodia dello stesso (Trib. Roma 12 luglio 2005). Nello stesso senso, si è detto che ricorrono i requisiti, compresa l'opportunità, per ottenere il sequestro giudiziario dei beni ereditari, allorché alcuni eredi abbiano il godimento esclusivo di tali beni e gli altri chiedano che se ne attui la divisione, previo accertamento dei loro diritti sulla massa ereditaria. In particolare, secondo questa giurisprudenza, per la concessione del sequestro giudiziario non si richiede, come per il sequestro conservativo, che ricorra il pericolo, concreto e attuale di sottrazione o alterazione del bene, essendo invece sufficiente, ai fini dell'estremo dell'opportunità richiesta dall'art. 670, n. 1), c.p.c., che lo stato di fatto esistente in pendenza del giudizio comporti la mera possibilità, sia pure astratta, che si determinino situazioni tali da pregiudicare l'attuazione del diritto controverso (Trib. Savona 30 ottobre 2013).

Il c.d. sequestro di prove, disciplinato dall'art. 670, n. 2), c.p.c., riguarda come visto libri, registri, documenti, modelli, campioni e qualunque altra cosa da cui si pretenda di desumere elementi di prova in un processo futuro allorché vi sia controversia sul diritto all'esibizione o alla comunicazione e sia necessario evitare che nell'attesa del giudizio tali prove siano disperse o sottratte. Il primo presupposto perché possa richiedersi il sequestro c.d. di prove è che vi sia una controversia sul diritto all'esibizione o alla comunicazione del documento. Su questo tema, è sorto un complesso dibattito dottrinale relativo alla possibilità di ottenere tale esibizione o comunicazione in giudizio della prova senza una collaborazione della controparte o del terzo, così superando i ristretti limiti che l'art. 210 c.p.c. pone all'esibizione.

Secondo la dottrina dominante, bisogna distinguere le funzioni e finalità del sequestro di prove dall'esibizione; pertanto, tramite il sequestro sarà identificato il bene oggetto di prova in modo da evitare possibilità di distruzione o di deterioramento e preservarlo al fine del futuro giudizio affidandolo ad un custode. Il custode non diventerà titolare del diritto all'esibizione della prova con la conseguenza che laddove il giudice emani l'ordine di esibizione nel corso del giudizio, il sequestrato avrà a sua disposizione le facoltà previste dall'art. 118 c.p.c. (Lancellotti, 522; Cavallone 1970, 155; Montanari, 956).

In giurisprudenza di merito sul tema, si è detto che il sequestro giudiziario di documenti previsto dall'art. 670, n. 2), c.p.c. rappresenta lo strumento cautelare per garantire la fruttuosità dell'ordine di esibizioneex art. 210 c.p.c., il cui presupposto va ravvisato nella sussistenza di una controversia sul «diritto all'esibizione» del documento, senza che occorra che il richiedente prospetti un diritto sostanziale di proprietà o di possesso su di esso, come invece richiesto dall'art. 670, n. 1), c.p.c. (Trib. Verona 5 giugno 2006). In senso contrario, invece, si è rilevato che è ultronea e inammissibile la domanda di sequestro probatorio in caso di mancata ottemperanza all'ordine di esibizione di sequestro cautelare, perché già l'inottemperanza deve apprezzarsi come esempio di comportamento processuale da cui trarre argomenti di prova (Trib. Salerno 5 dicembre 2006).

Ulteriore presupposto per la concessione del sequestro in parola è l'opportunità di provvedere alla custodia temporanea della prova. Anche su questo profilo è opportuno rifarsi alle prassi applicative.

La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato che il sequestro giudiziario di libri, registri, documenti, modelli, campioni, regolato dalla norma, non è condizionato all'esistenza di una controversia sul diritto all'esibizione ma è consentito ogni qual volta la cosa serva come prova e se ne riveli indispensabile l'acquisizione ai fini dell'accertamento dei fatti: nella fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto che fosse corretta la decisione del giudice del merito che aveva ravvisato la necessità di autorizzare il sequestro di documenti, fatture e scritture contabili in vista di un giudizio per risarcimento danni per contraffazione di marchio in concorrenza sleale, sussistendo il pericolo di dispersione, alterazione o distruzione dei documenti stessi (Cass. I, n. 12705/1993). Sempre nella giurisprudenza del Supremo Collegio, si è detto che l'istanza di sequestro giudiziario di atti e documenti di un ente pubblico non economico (nel caso di specie, un'istituzione pubblica di assistenza e beneficenza) che si avanzata da un componente del suo consiglio di amministrazione, come mezzo al fine di controllo sulla gestione dell'ente stesso, in relazione alla dedotta inosservanza di norme interne cui si deve uniformare la sua attività (Cass. S.U., n. 2101/1986).

Per quanto concerne, infine, il sequestro liberatorio, bisogna far riferimento alla previsione dell'art. 687 c.p.c. a norma del quale il giudice può ordinare il sequestro delle somme o delle cose che il debitore ha offerto o messo comunque a disposizione del creditore per la sua liberazione, quando è controverso l'obbligo o il modo del pagamento o della consegna, o l'idoneità della cosa offerta. Si tratta di una forma autonoma di sequestro, generalmente, appunto, definito sequestro liberatorio e ci si interroga sul se esso possa essere ricondotto alla mora credendi di cui agli artt. 1206 ss. c.c., ossia si risolva in un'anticipazione del deposito, la cui opportunità va ravvisata nella esistenza di una controversia sull'adempimento e sull'esistenza dell'obbligo; oppure se abbia una funzione diversa ed autonoma rispetto alla mora credendi e si colleghi ad ipotesi di mora debendi.

Nella prassi, si è detto che, posto che la funzione del sequestro liberatorio è quella di consentire al debitore di evitare la mora debendi, in attesa che la controversia sul merito sia definita all'esito del giudizio, e non quella di garanzia tipica del sequestro conservativo, o quella di determinare un temporaneo vincolo del bene oggetto di controversia tipica del sequestro giudiziario, spetta al giudice che dispone il sequestro liberatorio di stabilirne le concrete modalità (Cass. III, n. 12727/2019). Con riferimento alla differenza tra il sequestro di cui all'art. 1216 c.c. e il sequestro liberatorio, si è chiarito che le due misure hanno finalità ed effetti diversi oltreché differenti presupposti e natura; i due rimedi si distinguono anche quanto alla diversa condotta del creditore, poiché il rifiuto di quest'ultimo nel primo caso disciplinato dalle norme sostanziali è immotivato, mentre nel secondo caso presuppone che sia in contestazione l'esistenza dell'obbligo ovvero l'oggetto o il modo della prestazione; che su ciò si chieda la pronuncia del giudice e che il debitore voglia evitare di incorrere medio tempore nelle conseguenze della mora, laddove sia poi ritenuto esistente l'obbligo o dovuta la prestazione; il sequestro liberatorio, pertanto, a differenza del sequestro di cui all'art. 1216 c.c.è una misura cautelare autorizzabile dal giudice ove ricorrano i presupposti previsti dalla norma, la cui definitiva efficacia è connessa alla decisione del merito della controversia (Trib. Napoli 27 aprile 2001). Quanto ai presupposti che, quindi, condizionano la concessione della misura in questione, in giurisprudenza di merito si è precisato che poiché questo sequestro liberatorio configura un sottotipo del sequestro giudiziario, per la sua adozione il giudice, oltre al fumus boni iuris, deve accertare l'opportunità di una custodia e gestione temporanea della res di cui viene chiesto il sequestro (Trib. Napoli 4 marzo 2003).

I presupposti dei provvedimenti d'urgenza.

La ben nota norma di cui all'art. 700 c.p.c., regolativa delle condizioni per la concessione dei provvedimenti d'urgenza, afferma che, «fuori dei casi regolati dalle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».

Con riferimento alla valutazione del fumus boni iuris, la norma fa esplicito riferimento al pericolo che incombe sul diritto della parte istante, così esplicitando che per ottenere la tutela in parola il richiedente deve vantare un diritto soggettivo. Ne sono pertanto esclusi gli interessi di fatto o semplici. Come si è giustamente notato la specificazione, apparentemente semplice, in realtà nasconde la difficoltà insita nello stabilire la natura di diritto soggettivo di alcune situazioni giuridiche soggettive che certamente necessitano di tutela, ad esempio gli interessi collettivi o diffusi. Rispetto al fumus il riferimento generico della norma al «diritto» vantato dalla parte istante fa sì che non si possano distinguere situazioni da situazioni all'interno della categoria «diritto soggettivo» e che, pertanto, tutti i diritti soggettivi siano ugualmente elevabili alla tutela urgente prevista dall'art. 700 c.p.c. Questo sgombra il campo dal dubbio che i diritti soggettivi tutelati dalle misure cautelari tipiche non possano essere oggetto di tutela innominata, dato che, invece, il diritto se anche tutelato da un provvedimento cautelare tipico, potrebbe essere minacciato da un pregiudizio che non rientra nella fattispecie delineata dalla norma di riferimento e potrebbe, di conseguenza, necessitare di una tutela non nominata. Poiché nel paragrafo precedente ci siamo occupati dei sequestri, può ad esempio, per meglio farsi comprendere la situazione, farsi riferimento all'ipotesi del diritto di credito ad una prestazione pecuniaria. A norma dell'art. 671 c.p.c., già esaminato, esso è tutelabile con il sequestro conservativo ove il creditore prospetti il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito e, quindi rispetto al pericolo c.d. di infruttuosità.

Se, tuttavia, si intende tutelare il diritto dell'istante non già dalla infruttuosità ma dalla tardività, non è più utilizzabile il sequestro conservativo e si riconosce la tutelabilità con il provvedimento d'urgenza (Panzarola, 808).

In giurisprudenza, si confrontino le pronunce che hanno affermato che a nulla rileva la precedente decisione giudiziale di concedere sequestro conservativo sui beni del datore di lavoro essendo questo idoneo ad ovviare al pericolo di infruttuosità della futura sentenza di merito, ma non a quello del ritardato soddisfacimento dei propri crediti (Trib. Roma 17 ottobre 1997). Ancor più specificamente, si è detto che deve ammettersi la possibilità di utilizzare il ricorso per la tutela urgenteexart. 700 c.p.c. anche per tutelare diritti di credito, quale alternativa al sequestro conservativo, perché quest'ultima misura soddisfa l'esigenza di preservare il creditore contro l'impossidenza del debitore allorché vi sia fondato timore di perdere la garanzia del credito, mentre l'art. 700 c.p.c. può servire allo scopo diverso di evitare al creditore i danni derivanti dalla mancata disponibilità della somma per tutta la durata del processo, ogniqualvolta il proprio diritto sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile (Trib. Modena 5 maggio 2005: nel caso in questione, il debitore si trovava in un'evidente e documentata situazione prefallimentare e il creditore aveva giudizialmente richiesto, con provvedimento d'urgenza, il pagamento di una consistente somma di denaro come residuo credito derivante da un contratto di appalto; sebbene astrattamente ammissibile sulla scorta del principio di diritto affermato, il giudice nella fattispecie aveva rigettato il ricorso per la tutela d'urgenza perché ha ritenuto che in concreto difettasse il presupposto del fumus boni iuris perché il credito azionato in via cautelare, ad un sommario esame, non era parso dovuto).

La norma coordina la tutela del diritto con l'esercizio in via ordinaria dello stesso e, pertanto fra i presupposti che la legge impone per la concessione della tutela d'urgenza vi è il «processo». Non può, però, trattarsi di un qualunque processo atteso che la disposizione preordina la tutela al diritto che si debba far valere in via ordinaria perché è la durata del processo che crea il pericolo del ritardo e consente alla parte di domandare la tutela urgente.

Il riferimento viene normalmente inteso come se la norma volesse far riferimento al processo ordinario a cognizione piena, atteso che, invece nei procedimenti speciali sommari già di per sé è connaturale una tutela urgente (con ulteriori riferimenti e approfondimenti, v. Panzarola, 817).

Con riferimento al periculum in mora, la norma parla di pregiudizio irreparabile ed imminente. Rinviando per l'esame concreto della innumerevole giurisprudenza e dottrina sul tema, siano sufficienti in questa sede alcune precisazioni. L'irreparabilità del pregiudizio è stata oggetto di una lunga querelle interpretativa che è finita per ampliare lo spettro applicativo originario della disposizione normativa.

Per un primo orientamento dottrinale, la tesi sattiana, si sarebbero potuti tutelare in via d'urgenza solo i diritti assoluti, quali ad esempio, il diritto al nome, il diritto all'immagine ecc. ma non i diritti relativi. Ciò perché questi ultimi non potrebbero mai essere danneggiati irreparabilmente dato che per essi il danno è sempre riparabile attraverso il risarcimento. Per un altro orientamento, infine prevalso, il provvedimento d'urgenza può essere utilizzato anche per tutelare diritti relativi che non abbiano contenuto esclusivamente patrimoniale ma per i quali emerga un profilo personalistico della tutela, come ad esempio i crediti alimentari o, nell'àmbito del diritto del lavoro. Giustamente si è evidenziato come la tesi sattiana finisca per attribuire soltanto ai diritti assoluti il rango di diritto soggettivo escludendo del tutto i diritti di credito (Montesano 1955, 78). Sicché, all'elemento strutturale si è finito per anteporre l'elemento funzionale valorizzando il principio di effettività (critiche alla tesi sattiana, oltre che in Montesano, anche in Arieta 1985, 110, e in Proto Pisani 1982, 377).

Anche la giurisprudenza di merito intende l'irreparabilità del pregiudizio che giustifica l'accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c. non solo nel senso di irreversibilità del danno alla situazione soggettiva di cui si invoca la cautela, ma anche come insuscettibilità di tutela piena ed effettiva della situazione stessa all'esito del giudizio di merito. Questa fattispecie ricorre laddove l'istante abbia a disposizione strumenti risarcitori per la riparazione del pregiudizio sofferto ma gli stessi non appaiano concretamente in grado di assicurare una tutela satisfattoria completa, con conseguente determinarsi di uno scarto intollerabile tra danno subìto e danno risarcito (Trib. Lecce 8 gennaio 2013; Trib. Lamezia Terme 25 marzo 2011). Nello stesso senso, anche la giurisprudenza che ribadisce come la tutela cautelare in via d'urgenza possa essere ammessa per un diritto di credito solo a condizione che essa sia diretta a salvaguardare non già il diritto di credito per se stesso, ma situazioni giuridiche soggettive a rilevanza non patrimoniale che siano collegate a tale diritto di credito in modo indissolubile e ad esso immediatamente collegate, quali il diritto alla salute, il diritto ad una vita libera e dignitosa, che potrebbero essere suscettibili di un pregiudizio irreparabile laddove il diritto di credito venisse soddisfatto in ritardo (Trib. Bari 30 giugno 2009). Allorché il diritto abbia contenuto del tutto patrimoniale, pertanto, l'irreparabilità del pregiudizio si deve poter ravvisare o nella funzione svolta dal diritto stesso o nello scarto, per l'appunto «intollerabile» tra il danno e subito e il risarcimento che sarà attribuito con la futura decisione a cognizione piena (Trib. Nocera Inferiore 23 febbraio 2005). Pertanto, il pregiudizio irreparabile di cui all'art. 700 c.p.c. sussiste solo quando siano messe in discussione posizioni soggettive di carattere assoluto o relativo, principalmente attinenti alla sfera personale del soggetto, spesso dotate anche di rilievo costituzionale, che rendono necessario un pronto e immediato intervento cautelare per assicurarne la completa tutela, a pena di definitiva e irreversibile compressione della posizione minacciata, non già quando il pregiudizio che si intende evitare sia di natura esclusivamente patrimoniale (Trib. Nola 9 ottobre 2008). A livello probatorio, ovviamente, il periculum in mora non può ritenersi sussistente in re ipsa, né può essere ravvisato in una qualunque violazione dei diritti del ricorrente in sé e per sé considerata, ma solo quando tale lesione, in quanto incidente su posizioni giuridiche soggettive a contenuto non patrimoniale e a rilevanza generalmente costituzionale a quel diritto strettamente collegate, sia suscettibile di pregiudizio non riparabile per equivalente. Dunque, in base al principio dell'onere della prova, grava sul ricorrente l'onere di provare il rischio di un pregiudizio imminente e irreparabile a tale categoria di diritti. Ne deriva la necessità per il ricorrente, secondo la giurisprudenza, di allegazioni puntuali che consentano alle parti processuali e al giudice di operare una verifica finalizzata alla tutela di un pregiudizio concretamente e non teoricamente irrimediabile. Soddisfatto l'onere di allegazione, grava sull'istante l'onere di fornire la prova sui fatti dedotti che rendono necessario un provvedimento urgente (Trib. Palermo 9 agosto 2019).

L'ulteriore profilo del periculum in mora è quello dell'imminenza del pregiudizio, inteso come vicinanza della verificazione. Sicché sono esclusi dalla tutela urgente i pregiudizi che si siano già verificati, ovvero che siano ancora da verificarsi ma non siano vicini nel tempo. L'evento dannoso, in sostanza, perché si concreti il presupposto dell'imminenza, deve essere incombente con estrema probabilità e non soltanto ipoteticamente e remotamente possibile. La giurisprudenza, in ogni caso, afferma che l'attualità del pregiudizio che sola legittima alla concessione del provvedimento, deve collegarsi ad un danno che, laddove si sia già manifestato, ancora sia idoneo alla produzione di pregiudizio.

In giurisprudenza, vi sono molte pronunce che ribadiscono la impossibilità di tutelare in via d'urgenza quei pregiudizi distanti, perché già realizzatisi da tempo, oppure lontani nel senso che il pregiudizio non incombe e il danno non appare di prossima verificazione. Ad esempio, si è detto che non può ritenersi sussistente il requisito del periculum in mora richiesto per la proposizione del procedimento d'urgenza quando per l'inattività del ricorrente sia decorso un periodo di tempo pari alla normale durata dell'azione esperita in via ordinaria, senza che venga allegata la sopravvenienza di fatti nuovi che abbiano determinato un diverso pregiudizio imminente e irreparabile, nel senso di pregiudizio che minaccia di determinare una lesione irreversibile alla realizzazione del diritto azionato (Trib. Savona 9 agosto 2007). Nello stesso senso, si è ritenuto insussistente il periculum in mora essendo trascorso un periodo di circa quattro mesi dal fatto contestato al momento della proposizione del ricorso (Pret. Milano 25 novembre 1996). L'evento dannoso deve, quindi, essere incombente, non di remota probabilità. Sulla base di questo principio, si è affermato che il giudice del procedimento cautelare può emettere i suoi provvedimenti prima del verificarsi dell'evento dannoso, oltreché nel corso della produzione del danno. Tuttavia, con riferimento al «prima» l'imminenza del pregiudizio, più che ad un criterio cronologico, deve essere parametrata alla possibilità di ravvisare elementi di fatto diretti già alla produzione del pregiudizio che deve essere iniziato, o almeno direttamente e univocamente preparato, così da poter ritenere in base ad una valutazione probabilistica che l'evento dannoso possa verificarsi e in tempi brevi. La tutela cautelare, in altri termini, trova il suo limite nell'impossibilità di essere meramente preventiva di eventuali lesioni giuridiche connesse a futuri comportamenti (Pret. Milano 10 agosto 1996). Non sussistono di conseguenza i presupposti per l'emanazione di un provvedimento urgente a tutela del diritto alla salubrità dell'ambiente e alla salute dei cittadini, ove non sia provata l'attualità del danno denunciato, esulando dalla funzione giurisdizionale apprezzare la mera possibilità di un pericolo per la salute (Trib. Udine 18 ottobre 1995). Sempre in linea con gli orientamenti sopra riferiti, la giurisprudenza ha affermato che il notevole lasso di tempo intercorso tra la risoluzione del rapporto di lavoro e la proposizione del ricorso d'urgenza, esclude ex se la sussistenza del periculum in mora. Tale elemento, infatti, contrasta, da un lato, con le caratteristiche di celerità ed immediatezza che caratterizzano la procedura cautelare e, dall'altro, è sintomatico del fatto che il ricorrente non si trova in situazioni tali da giustificare il ricorso alla procedura in questione (Trib. Bari 31 gennaio 2005).

I presupposti delle azioni di nunciazione.

Per quanto concerne le azioni di nunciazione, esse sono disciplinate congiuntamente dal codice civile e dal codice di rito. A norma dell'art. 1171 c.c., la denuncia di nuova opera può essere intrapresa dal proprietario, dal titolare di altro diritto reale di godimento o dal possessore che abbiano ragione di temere che da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso; in tal caso egli può denunciare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purché questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo inizio. Invece, a norma dell'art. 1172 c.c., la denuncia di danno temuto è esperibile dal proprietario, dal titolare di altro diritto reale di godimento o dal possessore che abbia ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o possesso; egli può denunciare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo.

Per quanto riguarda i presupposti di queste due azioni, bisogna distinguere le due, ricordando che mentre la denuncia di nuova opera presuppone che venga iniziata una nuova opera, invece, la denuncia di danno temuto deriva da una situazione oggettiva, indipendente da un'attività dell'uomo, pur se derivante da un'opera umana.

I presupposti richiesti dalla norma per la denuncia di nuova opera sono, ai sensi dell'art. 1171 c.c. la novità e attualità dell'opera, la situazione giuridica da tutelare, la qualità del soggetto attivo sub specie della legittimazione attiva; sicché, ad esempio, andrà rigettata la domanda se i lavori sono diretti alla manutenzione di un edificio già esistente e non alla costruzione di un'opera nuova; deve peraltro essere un'opera stabile e non finita al momento in cui si propone la domanda. In mancanza di tali presupposti la domanda cautelare va respinta dal giudice adito.

La giurisprudenza di legittimità ha specificato che l'azione di denuncia di nuova opera – che è diretta ad ottenere le misure più immediate per evitare danni alla cosa posseduta mediante un procedimento sommario che si esaurisce con l'emanazione del provvedimento di rigetto o di accoglimento della pretesa – e quella di spoglio che è destinata a tutelare nel merito, anche se preceduta da una fase interdittale, il possessore nei confronti dell'autore dello spoglio, hanno finalità e presupposti diversi, e la loro autonomia esclude che in virtù del principio di specialità possa ravvisarsi l'esperibilità solo della prima in caso di contestuale esistenza delle condizioni legittimanti l'esercizio di entrambe (Cass. II, n. 24026/2004).

Per quanto riguarda la denuncia di danno temuto, i presupposti, a norma dell'art. 1172 c.c. vanno ravvisati nella legittimazione, nel fondato timore che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa esistente sul fondo vicino possa derivare il pericolo di un danno grave alla cosa oggetto della proprietà o possesso.

In particolare, in giurisprudenza si è precisato che i presupposti di diritto sostanziale dell'azione nunciatoria di danno temuto sono: 1) un pericolo di danno futuro, minacciato da cosa a cosa; 2) la gravità del pericolo che minacci di distruggere o danneggiare gravemente la cosa che sovrasta; 3) la prossimità, in ordine spazio-temporale, del pericolo sovrastante la cosa (Trib. Civitavecchia 3 febbraio 2006). Pertanto, qualora sia proposta denuncia di danno temuto, in considerazione del rischio di crollo di un tratto di cinta muraria e di una torre medievale in evidente stato di dissesto, che si trovino in una zona assoggettata a un vincolo storico-artistico indiretto, e venga accertato un incombente pericolo di danno per il fondo appartenente agli istanti, sussistono i presupposti per accogliere il ricorso nei confronti dei proprietari dei beni pericolanti, cui va ordinato di attuare le opere necessarie ad impedire il verificarsi di ulteriori pregiudizi (Trib. Salerno 27 novembre 2009). Tuttavia, la denuncia di danno temuto non presuppone l'esclusiva altruità della cosa da cui deriva il pericolo, perché l'art. 1172 c.c. indica espressamente quale fonte generatrice di danno «qualsiasi edificio, albero o altra cosa» in tale generica formulazione dovendo ritenersi compresa anche la cosa di cui è comproprietario l'istante, che non sia in grado di ovviarvi autonomamente, perché anche in questo caso risulta integrato il rapporto tra cosa e cosa che ne costituisce il rapporto essenziale (Cass. II, n. 1778/2007).

Di recente si è affermato che nell'ambito del procedimento cautelare uniforme il procedimento di nuova opera o danno temuto introdotto ante causam, al pari d'ogni altro diretto all'emissione di una misura cautelare di carattere anticipatorio, è esclusivamente monofasico e termina con il provvedimento, d'accoglimento o di rigetto, emesso dal giudice monocratico o dal collegio adito in sede di reclamo. Il successivo giudizio di merito instaurato dalla parte che, nelle more, sia stata convenuta in un procedimento possessorio avente ad oggetto la medesima situazione giuridica, non differendo in nulla da un comune processo dichiarativo instaurato a prescindere da una pregressa cautela, soggiace all'improponibilità prevista dall'art. 705 c.p.c. (Cass. II, n. 18535/2022).

I presupposti dei provvedimenti possessori.

Le azioni possessorie, così come le nunciatorie, sono azioni di origine romanistica, dirette alla tutela del possesso in quanto situazione di fatto sulla res. Anche le azioni possessorie trovano, come le nunciatorie, la loro disciplina divisa tra il codice sostanziale e quello processuale. In particolare, la disciplina sostanziale è regolata dagli artt. 1168-1170 c.c.L'azione di spoglio o di reintegrazione nel possesso può essere proposta nei confronti dell'autore dello spoglio entro un anno dallo stesso e legittimato attivo è colui che è stato arbitrariamente spogliato del possesso. L'azione di manutenzione è, invece, tesa alla tutela del possessore contro le molestie e turbative del proprio possesso, anche se di fatto, e contro lo spoglio non violento e non clandestino.

In relazione all'elemento psicologico dell'attentato al possesso che è il presupposto che deve essere valutato non soltanto nella fase c.d. interdittale ma anche in quella a cognizione piena, non ogni distruzione, alterazione o mutazione del bene posseduto da altri costituisce un attentato al possesso perché tali eventi, sebbene si possano risolvere in una lesione all'altrui possesso, possono assumere la configurazione di meri fatti illeciti civili, generatori di una semplice obbligazione risarcitoria ma non di presupposti per la tutela possessoria, in assenza di riscontro dell'elemento soggettivo richiesto dalla norma sostanziale.

In applicazione di tale principio, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anche il comportamento immediatamente successivo al fatto lesivo da parte del suo autore, materiale o morale, va valutato per accertare, in concorso con la valutazione di ogni altro dato, se questo autore abbia agito con la consapevole determinazione di porsi contro la volontà, manifesta o presunta, del possessore (Cass. II, n. 3187/1983). L'elemento soggettivo che completa i presupposti dell'azione di spoglio risiede nella coscienza e volontà dell'autore di compiere l'atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio, indipendentemente dalla convinzione dell'autore di operare secondo diritto (Cass. II, n. 2316/2011). In ossequio ai presupposti richiesti dalla norma, chi propone l'azione a tutela del possesso deve dimostrare di possedere, appunto, i presupposti dell'azione ovvero di essere possessore del bene e di aver proposto l'azione tempestivamente (Cass. II, n. 3975/2013).

La distinzione tra lo spoglio e la molestia non è una distinzione quantitativa ma di concetto, ossia fondata sulla natura dell'aggressione all'altrui possesso; lo spoglio incide in modo diretto sul bene oggetto dell'aggressione di cui il titolare viene privato totalmente o parzialmente, mentre la molestia si dirige contro il godimento del titolare, alterandone l'esercizio o rendendolo non agevole. La dottrina ritiene che l'azione di manutenzione nel possesso trovi i suoi presupposti in un rapporto possessorio qualificato e nel porre in essere un comportamento che costituisce molestia o turbativa.

L'ipotesi della molestia o turbativa si configura solo attraverso un comportamento dell'autore che abbia un congruo e apprezzabile contenuto di disturbo del possesso altrui e che renda in modo più gravoso e notevolmente difficoltoso l'estrinsecarsi della posizione del possesso (Trib. Palermo 4 novembre 2010). In generale la giurisprudenza, concorda sulla configurazione oggettiva della molestia, intesa come elemento materiale e oggettivo, e traducentesi in qualunque atto che rappresenti un attentato materiale o giuridico all'altrui possesso sul bene (Cass. II, n. 6415/1984; Cass. II, n. 4835/1986; Trib. Cagliari 9 dicembre 2008).

Per un'ulteriore casistica in tema di provvedimenti possessori rigettati per mancanza dei presupposti si rinvia a Celeste, 316.

I presupposti dei provvedimenti di istruzione preventiva.

A norma dell'art. 696 c.p.c., colui che abbia fondato motivo di temere che stiano per mancare uno o più testimoni le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da proporsi, può chiedere che ne sia ordinata l'audizione a futura memoria.

L'ipotesi più comune è la probabile morte del testimone, causata da malattia o da vecchiaia, mentre in dottrina si dubita sull'applicabilità ad ipotesi che non comportino la mancanza, come, ad esempio, il trasferimento in altra parte del mondo. Se, quindi, il presupposto oggettivo è quello del possibile venir meno del teste, l'accertamento del periculum in mora è rimesso al prudente apprezzamento del giudice adito con valutazione non sindacabile, sicché, quando sia stata acquisita la prova richiesta, non può poi essere dedotta, nel successivo giudizio, la mancanza del periculum. Rispetto all'accertamento del fumus boni iuris, il giudice della cautela lo valuta sommariamente e discrezionalmente; trattasi, a detta della dottrina dominante, di un accertamento di natura provvisoria, non tale da poter pregiudicare la successiva soluzione che il giudice prenderà in sede di processo ordinario.

A mente dell'art. 696 c.p.c., chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la condizione delle cose, può chiedere, a norma degli artt. 692 ss. c.p.c., che sia disposto un accertamento tecnico o un'ispezione giudiziale che possono essere disposti anche sulla persona dell'istante e se vi è il consenso, anche sulla persona nei cui confronti l'istanza è proposta.

Quanto alla verifica dei presupposti per la concessione di quest'ultimo strumento preventivo, in giurisprudenza di merito si è rilevato come in materia di vendita di cose mobili il procedimento ex art. 696 c.p.c. sia lo strumento principale e privilegiato con cui accertare lo stato e la consistenza della cosa e la esistenza di danni, vizi e/o difformità, non postulando l'esistenza di una situazione di urgenza (Trib. Taranto 21 febbraio 2017). Ma nel senso che non può essere concesso un accertamento tecnico o un'ispezione giudiziale nella fattispecie in cui si dimostri che non esiste l'urgenza di fare accertare il nesso eziologico tra la patologia riscontrata nel lavoratore e il mezzo di lavoro da esso adoperato perché verificabile in qualsiasi momento del giudizio, v. Trib. Bari 15 gennaio 2009. Si è ritenuto che sussistesse il periculum in mora e la conseguente urgenza di disporre l'accertamento tecnico della situazione patrimoniale di una società bancaria in amministrazione straordinaria, dal momento che le vicende in corso relative alla società potrebbero portare alla sua estinzione, con conseguente perdita delle prove da acquisire in un futuro giudizio, ossia azione risarcitoria dei soci contro i commissari straordinari, o anche con la sola maggiore difficoltà di reperirle (Trib. Potenza 3 dicembre 1987).

Un'altra ipotesi di procedimento di istruzione preventiva è quello disciplinato dall'art. 696-bis c.p.c. rubricato «Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite», che disciplina la possibilità di esperire in via preventiva una consulenza tecnica, anche al di fuori delle condizioni previste dall'art. 696 c.p.c., per accertare e determinare i crediti che derivano dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o, più genericamente, da fatto illecito. Il consulente tecnico così incaricato ha l'onere di tentare prima la conciliazione delle parti con la relativa formazione del processo verbale ove la conciliazione in parola riesca. Il verbale ha efficacia di titolo esecutivo ai fini dell'espropriazione e dell'esecuzione in forma specifica ed è altresì titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. In assenza di conciliazione ad istanza di ciascuna delle parti, può essere avanzata la richiesta di acquisizione agli atti del giudizio di merito successivo. Rispetto a questo procedimento, si dubita della natura propriamente cautelare avendo esso una più specifica funzione deflattiva del contenzioso giudiziario e, pertanto, avrebbe dovuto forse trovare migliore collocazione sistematica.

Per una ulteriore casistica in tema di provvedimenti di istruzione preventiva rigettati per mancanza dei presupposti si rinvia a Celeste, 318.

Il conflitto tra provvedimenti cautelari

Se, come è stato giustamente rimarcato, quando si parla di contrasto di decisioni si fa riferimento al tema complesso del contrasto tra decisioni che abbiano la forza del giudicato formale e che questa tematica esula dal possibile contrasto tra provvedimenti cautelari che per la loro natura non hanno efficacia dichiarativa (Recchioni 2015, 611).

È, invece, certamente possibile che tra due provvedimenti cautelari si verifichi un contrasto pratico; ad esempio, laddove un provvedimento imponga l'adempimento di un contratto e l'altro, invece, la restituzione del bene che ne è oggetto (Consolo, Merlin, 111); o ancora l'ipotesi in cui il giudice riconosca esistente quanto alla fondatezza della pretesa lo stesso diritto sia al ricorrente che al resistente: è l'ipotesi ad es. di due provvedimenti pronunciati ex art. 700 c.p.c. con cui si ordina in favore di entrambe le parti lo stesso comportamento a carico dell'altra, ovvero di due diversi provvedimenti cautelari a contenuto speculare (ad esempio, un provvedimento d'urgenza e un sequestro giudiziario che ordinino la consegna dello stesso bene l'uno ad una delle parti e l'altro all'altra: Recchioni 2015, 612). Mentre l'eventuale contrasto tra un provvedimento cautelare e una sentenza passata in giudicato non crea problemi quanto alla risoluzione, dovendosi ritenere che l'eccezione di giudicato proposta nel processo cautelare impedisce l'accoglimento della domanda di provvedimento cautelare (Recchioni 2015, 612). Invece, l'esistenza di due provvedimenti cautelari suscettibili entrambi di attuazione e dal contenuto incompatibile rende necessario risolvere il conflitto.

Se pure è possibile che vi sia il contrasto tra due diversi provvedimenti negativi (sul tema, v. Tarzia 1993, 385), i maggiori problemi si pongono nel caso siano concessi due diversi provvedimenti di accoglimento rispetto a domande tra loro non compatibili.

Si è ben evidenziato che non è possibile ipotizzare un contrasto tra un provvedimento cautelare positivo ed uno negativo, perché alla preclusione che deriva dal rigetto della domanda cautelare non può essere predicato un effetto accertativo che possa contrastare in qualche modo con un provvedimento differente che abbia invece contenuto positivo (Consolo, Merlin, 112; v. anche Recchioni 2015, 613). Con la conseguenza che il provvedimento positivo prevale sempre sul provvedimento negativo (Recchioni 2015, 613).

Tornando, quindi, all'ipotesi del contrasto tra due provvedimenti positivi a contenuto incompatibile, si è proposto di risolvere il contrasto pratico utilizzando analogicamente le soluzioni che vengono utilizzate per risolvere il contrasto tra giudicati incompatibili e, precisamente, usando il criterio della prevalenza del provvedimento cautelare successivo (Recchioni 2015, 614).

Si ricorda, in proposito, che il sistema più utilizzato per risolvere il contrasto di giudicati è quello dell'eccezione di cosa giudicata che viene sollevata dalla parte interessata nel secondo processo; il giudice adito, verificata la fondatezza dell'eccezione in questione, dovrà pronunciare una sentenza con cui chiuderà in rito il processo stesso, oppure dovrà decidere in conformità al comando relativo alla questione pregiudiziale già deciso con sentenza passata in giudicato. Se, invece, l'eccezione di cosa giudicata non venga proposta, contro la sentenza successiva in contrasto con il precedente giudicato sarà spendibile il mezzo di impugnazione della revocazione ordinariaexart. 395, n. 5), c.p.c. Tuttavia, laddove le parti non abbiano sollevato l'eccezione di cosa giudicata né utilizzato la revocazione e, pertanto, passi in giudicato anche la seconda sentenza, il secondo giudicato, più recente, annulla il primo e prevale su di esso.

Si è detto al riguardo che questo orientamento si fonda sul carattere sostanziale della cosa giudicata, intesa come bene della vita riconosciuto ad un soggetto nei confronti di un altro, con la conseguenza che il secondo giudicato annulla il primo, avendo l'effetto suo proprio di coprire il dedotto e il deducibile (Picardi 2019, 424).

Questo a tacere della giurisprudenza delle Sezioni Unite che nel tempo ha temperato la regola in questione affermando che il giudice ha il potere di rilevare officiosamente il giudicato esterno nel secondo giudizio (soluzione che ovviamente non evita il conflitto laddove il giudice del secondo processo non sia posto in grado di rilevare officiosamente l'eccezione; per questo orientamento, v. Cass. S.U., n. 226/2001; Cass. S.U., n. 9050/2001).

La questione va, però, completata con il riferimento al caso del conflitto tra un provvedimento cautelare e una sentenza o tra due provvedimenti cautelari nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

È opportuno riassumere brevemente la vicenda di fatto che ha originato la giurisprudenza della Corte di Giustizia (il riferimento è a Corte Giust. Comunità Europee, 6 giugno 2002, in causa C-80/00). Una società italiana che distribuisce mobili in pelle aveva concesso ad una società tedesca il diritto di distribuire le proprie merci per cinque anni in una determinata area geografica, in forza di un contratto di «esclusiva». Nel 1998 la società tedesca contestava alla società italiana un inadempimento contrattuale e, di conseguenza, avvertiva che non avrebbe diramato un messaggio pubblicitario comune in occasione delle successive fiere del mobile e che, invece, avrebbe presentato il proprio personale marchio. La società italiana citava la società tedesca dinanzi al Tribunale di Coblenza, giudice competente in base alla sede della debitrice, chiedendo di emettere nei confronti di quest'ultima un provvedimento cautelare per inibire la commercializzazione di prodotti in pelle con il marchio italiano. Il Tribunale di Coblenza, adito in applicazione dell'art. 24 della Convenzione di Bruxelles, respingeva con sentenza la domanda perché riteneva non esistenti i presupposti per un provvedimento d'urgenza. Tuttavia, qualche giorno prima, la società italiana aveva chiesto l'emanazione di un provvedimento cautelare al Tribunale di Bari e quest'ultimo, valutando in modo diverso il presupposto dell'urgenza, lo aveva concesso. Esistendo tale contrasto, su ricorso della società tedesca, la Corte d'Appello competente riformava l'ordinanza di exequatur del provvedimento cautelare «italiano» ritenendo che la decisione del magistrato barese fosse in contrasto, ex art. 27, n. 3), della Convenzione di Bruxelles, con la sentenza del Tribunale di Coblenza, con cui era stata respinta la domanda cautelare presentata dalla società italiana.

La Corte di Giustizia, constatava il contrasto tra le decisioni emanate in sede di procedimenti sommari come quelli oggetto della fattispecie in questione, poiché il Tribunale di Bari aveva accolto l'istanza proposta dalla società italiana contro la tedesca, dopo che il Tribunale di Coblenza aveva respinto una identica domanda presentata dalla stessa ricorrente nei confronti della stessa convenuta. La Corte dichiarava che l'art. 27, n. 3), della Convenzione di Bruxelles va interpretato nel senso che una decisione straniera, pronunciata all'esito di un procedimento sommario che imponga al debitore di astenersi dal compiere determinati atti è in contrasto con una decisione che nega tale provvedimento pronunciata al termine di un procedimento sommario tra le stesse parti da un giudice dello Stato richiesto. Per quanto concerne le conseguenze che derivano da tale contrasto tra decisioni sommarie-cautelari, la Corte affermava che non è revocabile in dubbio che l'ordine sociale di uno Stato sarebbe turbato se la parte si potesse giovare di due sentenze in contrasto tra di loro. Peraltro, l'art. 27, n. 3), della Convenzione prevede che le decisioni non sono riconosciute se la decisione di cui si chiede il riconoscimento è in contrasto con una decisione resa tra le stesse parti nello Stato richiesto. Sarebbe, secondo la Corte di Giustizia, in contrasto con il principio di certezza del diritto interpretare l'art. 27, n. 3), della Convenzione di Bruxelles nel senso che esso conferisca al giudice dello Stato richiesto la facoltà di autorizzare il riconoscimento di una decisione straniera anche qualora quest'ultima sia in contrasto con una pronuncia giurisdizionale emanata in tale Stato contraente. Di conseguenza, secondo la Corte di Giustizia, laddove vi sia il contrasto tra una decisione di un giudice di un altro Stato contraente e una decisione pronunciata tra le stesse parti da un giudice dello Stato richiesto, il giudice di quest'ultimo Stato è tenuto a negare il riconoscimento alla sentenza straniera.

La dottrina ha in proposito rilevato che, sia pur dovendo concordare con l'affermazione della Corte di Giustizia secondo cui le misure cautelari rientrano nell'àmbito delle «decisioni» ai sensi dell'art. 25 della Convenzione di Bruxelles (art. 32 Reg. n. 44/2001, ora Reg. n. 1512/2012), alle quali si applica il regime del riconoscimento e dell'esecuzione, non è condivisibile l'affermazione secondo cui ciò sarebbe sufficiente per equiparare quanto agli effetti un provvedimento cautelare alla «decisione» che, in base agli articoli citati, vieta il riconoscimento di una sentenza straniera pronunciata fra le stesse parti (Recchioni 2015, 615). Si è, infatti, giustamente rilevato che l'accoglimento delle conclusioni cui la Corte di Giustizia è pervenuta provoca il paradossale effetto di considerare il provvedimento cautelare come decisione ostativa al riconoscimento di qualsiasi altra decisione straniera, anche di una sentenza (Recchioni 2015, 615). Ciò perché se nello Stato adito per l'esecuzione del provvedimento cautelare o nello Stato in cui è stato pronunciato un provvedimento di rigetto rispetto alla richiesta di provvedimento cautelare, viene rifiutato l' exequatur della sentenza finale sulla base delle considerazioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia, il rapporto inter partes finirebbe per essere regolamentato solo dal provvedimento cautelare che, pertanto, perderebbe la sua natura provvisoria e strumentale finendo per disciplinare definitivamente e compiutamente l'assetto di interessi sottostante, in contrasto con le norme che pongono limiti alla circolazione dei provvedimenti cautelari nella Comunità Europea (v., amplius, Recchioni 2015, 615; Biagioni, 717).

Il rapporto tra riproposizione, reclamo cautelare, revoca e modifica del provvedimento cautelare.

Resta da spendere ancora qualche parola sul rapporto tra riproposizione dell'istanza cautelare e il reclamo del provvedimento di rigetto. Il problema del rapporto tra i due strumenti sorge per la concorrenza dei due rimedi quanto ai motivi spendibili; se, infatti, i mutamenti delle circostanze e le nuove ragioni di fatto e di diritto alla base della riproposizione possono essere dedotti anche in sede di reclamo contro il provvedimento di rigetto, allora è necessario coordinare i due strumenti.

Anche se, infatti, si è detto che tra i due rimedi non si può ritenere esistente un vero e proprio concorso (Barletta, 290), tuttavia è innegabile che la deducibilità dei medesimi motivi rende necessario coordinarli.

Le possibilità sono sostanzialmente due, o ritenere che sia applicabile il meccanismo posto dall'art. 39 c.p.c. e quindi la litispendenza, ovvero ritenere che il procedimento debba essere sospeso fino alla definizione del giudizio di reclamo.

Premesso che, secondo una dottrina, la riproposizione della domanda cautelare originariamente rigettata prima della definizione del giudizio di reclamo non sarebbe una vera riproposizione della domanda essendo ancora pendente l'impugnazione e pertanto non essendosi maturate le preclusioni che la norma dell'art. 669-septies c.p.c. collega alla definizione del provvedimento negativo, la soluzione sarebbe quella di ritenere che la parte abbia duplicato i procedimenti cautelari con conseguente applicazione dell'art. 39 c.p.c. (Barletta, 294). La soluzione dell'applicazione del meccanismo della litispendenza è sposata da chi ritiene, appunto, che il procedimento cautelare risulti pendente in due sedi e, di conseguenza, la domanda cautelare riproposta debba andare incontro al rigetto in rito in applicazione dell'art. 39 c.p.c. (Consolo 1994, 412). In particolare, si è rilevato che i due strumenti non sono tra loro cumulabili atteso che non è possibile alla luce delle regole generali ritenere che la medesima domanda cautelare sia proposta in due diversi procedimenti (Recchioni 2015, 605; Carratta 2013, 237). Vi è, invece, chi ritiene che la pendenza del reclamo, invece che comportare il rigetto della domanda cautelare riproposta in applicazione della litispendenza, renda necessario sospendere il relativo procedimento (Merlin, 412). Nello stesso senso, si è espresso chi ritiene che i presupposti per la riproposizione, ossia mutamenti delle circostanze e nuove ragioni di fatto e di diritto, se dedotti in sede di reclamo non possono essere utilizzati in sede di riproposizione e, nell'eventualità della contestualità tra riproposizione e reclamo fondata su motivi differenti ritengono necessaria la sospensione del procedimento relativo alla riproposizione (Tarzia, Saletti, 855). Sembra potersi condividere la soluzione che ritiene che, essendo impossibile il cumulo dei due rimedi si debba applicare analogicamente l'art. 39 c.p.c. allorché i due procedimenti, quello derivante dalla riproposizione della domanda cautelare rigettata in prima istanza e quello del reclamo contro il provvedimento di rigetto, siano del tutto identici; si dovrebbe, invece, applicare la sospensioneexart. 295 c.p.c. al procedimento attivato con la riproposizione fino alla conclusione del procedimento di reclamo (in questo senso, v. Recchioni 2015, 606) anche perché le preclusioni a carico della domanda cautelare rigettata possono maturare, ritengo, solo all'esito del procedimento di reclamo.

Restano da esaminare altri due profili.

Il primo è stabilire se tutti i fatti che si potevano dedurre quando si è proposta la domanda cautelare e non dedotti in sede di reclamo, possono essere posti alla base della riproposizione dell'istanza ove questa sia in prime cure rigettata. Come già visto in precedenza, la dottrina quasi unanime ritiene che i fatti in questione, deducibili in prima istanza ma in concreto non dedotti né in quella sede né nel procedimento di reclamo, sono ormai preclusi e pertanto non deducibili neppure in sede di riproposizione ex art. 669-septies c.p.c. (Menchini 2006, 94; Cipriani, Monteleone, 50; Petrillo, 245; Recchioni 2015, 606).

Il secondo e ultimo profilo concerne invece l'ipotesi in cui i fatti deducibili in prima richiesta ma in concreto non dedotti e non utilizzati in sede di reclamo perché non proposto, siano deducibili in sede di riproposizione. Se secondo parte della dottrina ciò è possibile (Balena 363; Petrillo, 247), la soluzione più conforme alla logica del sistema appare piuttosto quella della preclusione alla loro deducibilità. Sembra questa anche la soluzione sposata dalla giurisprudenza che si è occupata della questione.

La giurisprudenza di merito ha, infatti, precisato che in ipotesi di istanza ex art. 669-septies c.p.c., allorquando la pretesa cautelare sia già stata formulata anteriormente alla proposizione del giudizio di merito e, sebbene accolta dal giudice designato, sia stata poi rigettata all'esito del reclamo, si deve ritenere che le ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla formazione del giudicato cautelare possano condurre all'ammissibilità della proposizione di una nuova istanza cautelare solo quando il deducente ne alleghi e dimostri la conoscibilità in epoca posteriore alla definizione del procedimento cautelare concluso con provvedimento negativo, sì da equiparare la norma in esame a quella dell'art. 669-decies, comma 1, c.p.c. (Trib. Urbino 23 febbraio 2011). Nello stesso senso, si è detto che l'istanza cautelare può essere riproposta soltanto quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto; ciò perché dal principio della ragionevole durata del processo, così come dall'art. 669-decies, comma 1, c.p.c., che prevede l'improponibilità dell'istanza di revoca o modifica laddove sia proposto reclamo, si evince che il giudicato cautelare copre il dedotto e il deducibile per cui non è possibile addurre in sede di reiterazione della stessa richiesta cautelare nuove ragioni di diritto che potevano già dedursi prima, così evitando una inammissibile frantumazione e diluizione nel tempo dell'attività difensiva che va a discapito di un celere svolgimento del procedimento (Trib. Bari 2 marzo 2009, cit.). Però, si è rilevato che è ammissibile la riproposizione ex art. 669-septies c.p.c. di un ricorso cautelare quando vengano dedotte nuove ragioni di diritto non prospettate nella precedente azione cautelare (Trib. Milano 8 ottobre 2005).

Sul concorso tra riproposizione e reclamo cautelare.

Potrebbe verificarsi una ipotesi di concorso tra la riproposizione della domanda cautelare che sia stata rigettata ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c.e il reclamo cautelare proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. Infatti, il ricorrente che si è visto rigettare il provvedimento cautelare potrebbe esperire contemporaneamente sia l'uno che l'altro rimedio, ossia riproporre la domanda cautelare e esperire il mezzo di impugnazione contro il provvedimento di rigetto.

Prima di discorrere della risoluzione dell'eventuale contrasto tra riproposizione e reclamo è opportuno, con riferimento al reclamo, infatti, e con riserva di ulteriori approfondimenti nel relativo commento subart. 669-terdecies c.p.c., fornire alcuni cenni esplicativi. Il nostro legislatore configura il reclamo cautelare come un rimedio generale contro i provvedimenti emanati in sede cautelare, sia di accoglimento che di rigetto; è un rimedio sostanzialmente impugnatorio, a critica libera e con carattere devolutivo; il reclamo deve essere proposto allo stesso ufficio giudiziario che ha emanato il provvedimento reclamato, ufficio che decide sempre in composizione collegiale anche quando si tratta di tribunale che, in prime cure, ha provveduto in composizione monocratica. Il procedimento si svolge in contraddittorio, secondo il rito camerale exartt. 737 e 738 c.p.c.

L'attuale art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., introdotto dalla riforma del 2005, nella parte in cui stabilisce che «le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento», non soltanto cerca di delineare più armoniosamente rispetto prima il concorso tra revoca e reclamo delle misure cautelari, ma costituisce anche un'espressa presa di posizione legislativa sulla problematica dell'ambito del sindacato del giudice del reclamo cautelare ed, a monte, sulla ricostruzione della natura di un tale mezzo di gravame. Non vi è più alcun dubbio, pertanto, sulla possibilità di dedurre con tale mezzo di impugnazione sia gli errores in procedendo che gli errores in iudicando commessi dal primo giudice, sia le circostanze sopravvenute rispetto al momento entro le quali le stesse potevano essere fatte valere nel procedimento cautelare. Il reclamo cautelare è, pertanto, stato configurato in termini di nuovo giudizio piuttosto che di revisio prioris instantiae chiusa alle nuove allegazioni, alle sopravvenienze ed ai nuovi mezzi di prova.

Vi sono pronunce di merito discordanti sulla questione della natura del reclamo; se, da un lato, vi sono infatti pronunce che, partendo dal presupposto della natura del reclamo quale revisio prioris instantiae, hanno affermato che esso non può fondarsi né su circostanze di fatto preesistenti ma non dedotte, né su nuove prove relative a circostanze già dedotte (Trib. Catania 23 marzo 1995; più di recente, v. Trib. Locri 9 novembre 2006; Trib. Marsala 18 novembre 2004), dall'altro lato, alcune pronunce di merito hanno, in linea con quanto detto supra, affermato che il reclamo cautelare è un vero e proprio mezzo di impugnazione e non una mera revisio prioris instantiae. Con la conseguenza che, nella fase del reclamo, è consentito al ricorrente introdurre domande nuove rispetto a quella azionata con il ricorso introduttivo, se fondate su fatti sopravvenuti (Trib. Roma 6 maggio 2002; nel senso che trattasi di un mezzo di impugnazione di natura devolutiva non soggetto a particolari requisiti formali, v., altresì, Trib. Santa Maria Capua Vetere 16 agosto 2016).

In dottrina, si è evidenziato che, data l'assenza di specifiche preclusioni normative, in sede di reclamo possono essere compiute per la prima volta attività quali l'allegazione di fatti e la rilevazione di eccezioni, anche in senso stretto, nonché dedotte disposti nuovi mezzi di prova utili per la definizione del procedimento (Balena 2006, 361; Menchini 2006, 94).

Prima della riforma effettuata nel 2005, in giurisprudenza, ad un indirizzo più rigoroso, si era contrapposta un'altra tesi favorevole a conferire rilevanza ai fatti sopravvenuti o all'esame di questioni già sollevate ma non esaminate in prime cure. Nel primo senso, si era detto che il reclamo contro l'ordinanza con cui è stato concesso un provvedimento cautelare implica un controllo circoscritto alla valutazione degli eventuali errores in procedendo e in iudicando senza che il giudice del riesame possa sostituirsi a quello della fase cautelare nella concessione del provvedimento sulla base di altre ragioni non prese in esame dal primo giudice ancorché regolarmente dedotte in ricorso (Trib. Napoli 25 marzo 1993). Infine, si era precisato che l'indagine del giudice in sede di reclamo contro un provvedimento cautelare non è limitata al mero controllo degli errores in iudicando e in procedendo del primo giudice, potendosi, invece, prendere in considerazione fatti, anche sopravvenuti, comunque emersi nel corso del procedimento, che possano incidere sulla valutazione dell'utilità e attualità del provvedimento richiesto; in tal senso, assume rilievo decisivo l'art. 669-terdecies, ultimo comma, c.p.c., laddove, sia pure ai fini dell'inibitoria e al danno causato dal provvedimento cautelare, si fa riferimento ai «motivi sopravvenuti» essendo evidente la non plausibilità della diversa opinione che porterebbe a concludere che i motivi che possono giustificare la sospensione dell'esecuzione non possano poi essere conosciuti in sede di decisione del reclamo (Trib. Roma 15 marzo 1996).

Per quanto concerne, invece, i poteri istruttori del giudice del reclamo cautelare, l'art. 669-terdecies c.p.c., affermando che il tribunale può sempre assumere nuove informazioni ed acquisire nuovi documenti, risolve in senso positivo, alla pari di quanto stabilito dall'art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003, il dibattito sulla possibilità per il giudice del reclamo di assumere informazioni anche alla luce del richiamo all'art. 738 c.p.c.

Il legislatore assegna chiaramente al collegio gli stessi poteri istruttori spettanti al giudice monocratico della cautela in primo grado e ciò indipendentemente dalla deduzione di sopravvenienze in sede di ricorso (Luiso, Sassani, 229).

Ci si è domandati, peraltro, se il potere del giudice del reclamo di assumere sommarie informazioni induca anche ad attribuire allo stesso poteri istruttori officiosi, secondo un modello inquisitorio di istruzione probatoria, così come avviene nei procedimenti camerali.

La soluzione negativa si basa sull'opportunità di coordinare il richiamo alla possibilità del giudice di assumere sommarie informazioni con la regola della disponibilità della prova che costituisce tratto caratterizzante del procedimento camerale in primo grado (Saletti 2006, 71). Per altri, tuttavia, dovrebbero essere riconosciuti al giudice, nei limiti in cui ciò è ammesso nel procedimento cautelare ex art. 669-sexies c.p.c., anche poteri istruttori di iniziativa officiosa (Menchini 2006, 94; Petrillo, 239).

L'ultimo periodo dell'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c. chiarisce che, all'esito del reclamo cautelare, non è consentita la rimessione al primo giudice, in tal modo privilegiando le ragioni dell'economia processuale rispetto a quella di assicurare sempre e comunque un doppio grado di giurisdizione. La precisazione legislativa è espressione della scelta di attribuire al reclamo cautelare la natura di gravame di carattere sostitutivo e devolutivo, nel quale la controversia cautelare è integralmente devoluta al giudice del reclamo e decisa dallo stesso con una pronuncia di portata sostitutiva rispetto alla prima.

La possibilità per il giudice del reclamo cautelare di rimettere la questione al primo giudice nei casi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. era stata invece oggetto di ampio dibattito prima della riforma del 2005.

In particolare, secondo parte della dottrina, la ricostruzione del reclamo cautelare come mezzo di impugnazione di carattere devolutivo poteva condurre ad escludere la rimessione al primo giudice, consentita soltanto in via eccezionale per l'appello dagli artt. 353 e 354 c.p.c. (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 534; Vaccarella 1995, 527; Corsini 2002, 128).

Un opposto orientamento, affermatosi soprattutto in giurisprudenza, sull'assunto per il quale il reclamo cautelare andrebbe piuttosto considerato un rimedio di carattere rescindente, aveva ritenuto ammissibile la rimessione al primo giudice nelle ipotesi di cui agli artt. 353-354 c.p.c. In tal senso, si era, ad esempio, detto che poiché il principio del doppio grado di merito è applicabile anche nell'ambito della procedura cautelare, il giudice del reclamo, che riforma la pronuncia di incompetenza di primo grado, deve limitarsi a pronunciare la revoca dell'ordinanza impugnata e poi rimettere la causa all'organo della prima fase (Trib. Bologna 30 luglio 1998; Trib. Catania 23 marzo 1995; Trib. Torino 3 dicembre 1993).

Il legislatore ha escluso espressamente la possibilità per il collegio adito in sede di reclamo cautelare di rinviare al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c., sicché ci si è chiesti se da tale previsione normativa debba inferirsi l'impossibilità per il giudice del reclamo di emanare, in presenza di nullità processuali, una pronuncia di chiusura in rito del giudizio di carattere meramente rescindente.

La soluzione più condivisa dalla dottrina ritiene che, in presenza di nullità sanabili, previa rinnovazione delle relative attività ex art. 162 c.p.c., il giudice debba sempre decidere nel merito, sicché la possibilità di chiudere in rito il procedimento di reclamo deve ritenersi confinata al riscontro di vizi insanabili o non più sanabili (Balena, in Balena, Bove 2006, 360; Luiso, Sassani, 229).

Tornando al concorso tra riproposizione e reclamo cautelare, i rimedi possono essere diversi. In ipotesi si potrebbe ritenere applicabile l'art. 39 c.p.c. ovvero la sospensione del procedimento cautelare in pendenza del procedimento di reclamo. Ovvero si potrebbero configurare i rapporti tra reclamo e riproponibilità della domanda cautelare a seconda che siano occorsi, dopo l'intervenuto rigetto dell'istanza cautelare, dei mutamenti delle circostanze e risolvere la questione a seconda dell'ipotesi.

Per una prima tesi, laddove sia stato proposto il reclamo non è possibile riproporre la domanda cautelare che sia stata già rigettata ex art. 669-septies c.p.c. e di conseguenza l'eventuale proposizione di una nuova domanda cautelare andrà sanzionata con l'applicazione dell'art. 39 c.p.c. e pertanto dovrà essere rigettata in rito per litispendenza (Consolo 1998, 185); secondo una diversa tesi, invece, piuttosto che ad una pronuncia di rigetto in rito per litispendenza dovrà configurarsi una sospensione del procedimento conseguente alla proposizione della nuova domanda, in pendenza del giudizio di reclamo (Merlin 1996, 11). Infine, per una terza tesi, come anticipato, il concorso tra riproposizione e reclamo deve essere costruito in modo diverso a seconda dell'ipotesi che dopo il rigetto della domanda si siano verificati dei mutamenti delle circostanze. Se ciò è accaduto e la parte ha intenzione di dedurre unicamente le circostanze sopravvenute senza impugnare il provvedimento di rigetto, le sarà consentita la riproposizione della domanda cautelare; viceversa, laddove non vi siano sopravvenienze – e salva l'ipotesi prevista dall'art. 669-septies c.p.c. in cui la parte sia in grado di argomentare diversamente in fatto o in diritto la propria istanza – sarà necessario utilizzare il mezzo di impugnazione previsto contro i provvedimenti cautelari e quindi sarà ammissibile il reclamo ma non la riproposizione (Arieta 2011, 1114).

In giurisprudenza, rispetto a tale quesito si è affermato che, attesa la sua natura di revisio prioris instantiae, il reclamo cautelare non si può fondare su nuove circostanze di fatto preesistenti ma non dedotte, né su nuove prove relative a circostanze già dedotte (Trib. Catania 23 marzo 1995). Nel secondo senso, si era affermato, invece, che deve ritenersi preclusa la deduzione di fatti nuovi o diversi in sede di reclamo contro l'ordinanza di rigetto dovendosi in tal caso ricorrere alla riproposizione dell'istanza ex art. 669-septies c.p.c. (Trib. Firenze 11 marzo 1997).

La forma del provvedimento di rigetto.

L'art. 669-septies c.p.c. indica chiaramente che la forma del provvedimento di rigetto, sia che esso avvenga per ragioni di rito sia che avvenga per ragioni di merito, è l'ordinanza. Ci si domanda se, laddove soccorrano esigenze di economia processuale, sia possibile per il giudice adito adottare un provvedimento di rigetto nella forma del decreto inaudita altera parte. In senso favorevole a questa soluzione militerebbe la considerazione che il provvedimento negativo non preclude la riproposizione della domanda cautelare (pur se, va evidenziato, la preclusione alla riproposizione della stessa domanda cautelare non opera per il provvedimento di rigetto in rito ma opera rispetto al provvedimento di rigetto nel merito). In senso contrario, milita, invece, il dato testuale della norma dell'art. 669-septies c.p.c. che, a differenza dell'art. 669-sexies c.p.c., parla unicamente di ordinanza e quindi sembrerebbe presupporre che il provvedimento di rigetto, per l'uno o per l'altro motivo, venga adottato con tale forma e in contraddittorio tra le parti. È, però, vero che l'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., nel consentire la pronuncia con decreto senza contraddittorio, lo fa purché vi sia il pericolo di pregiudizio nell'attuazione del provvedimento; e, pertanto, parlando di «attuazione» presuppone che il provvedimento cautelare sia di accoglimento e non di rigetto. Pertanto, il sistema delineato dalle norme citate sembra chiaro; l'art. 669-septies c.p.c., limitandosi a disciplinare il provvedimento di rigetto, prevede che questo sia adottato solo con ordinanza non soccorrendo alcuna esigenza di pericolo nell'attuazione. L'art. 669-sexies, c.p.c., invece, prevede un sistema differenziato, quello dell'adozione del provvedimento cautelare inaudita altera parte, purché soccorrano le ricordate esigenze di pregiudizio e, unicamente, nell'ipotesi dell'accoglimento.

È, quindi, utile, vedere quale sia l'orientamento della giurisprudenza di merito al riguardo per verificare se vi siano spazi applicativi per l'adozione, in caso di provvedimento negativo, della forma del decreto inaudita altera parte.

Una parte della giurisprudenza di merito ritiene che il provvedimento negativo possa essere pronunciato soltanto con ordinanza. Ciò sarebbe confermato dal testo di legge che menziona unicamente l'ordinanza e dal confronto con l'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. che – come visto – consente l'emanazione con decreto in caso di pericolo di pregiudizio nell'attuazione del provvedimento che, pertanto, si presuppone positivo (Trib. Lecce 13 settembre 2000; Trib. Firenze 2 ottobre 1999; Trib. Roma 30 aprile 1999). In senso contrario, si è osservato che, ancorché l'art. 669-septies c.p.c. imponga declaratoria di rigetto solo a seguito di comparizione delle parti e tramite ordinanza, ragioni di economia processuale inducono a ritenere che la dichiarazione di rigetto per mancanza palese di presupposti di fondatezza possa essere resa anche senza la previa audizione della controparte, anche in considerazione della mancanza di effetti preclusivi del rigetto stesso e della sua reclamabilità, nonché della libera riproponibilità del ricorso cautelare (Trib. Modena 13 settembre 2007). E ancora si è precisato che una domanda cautelare proposta ex art. 700 c.p.c. con cui si chiede l'inibitoria urgente di una condotta di concorrenza sleale, proposta ante causam innanzi al giudice funzionalmente incompetente, deve essere rigettata con decreto inaudita altera parte senza contestuale fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, per la esigenza di non imporre una onerosa costituzione in giudizio della parte resistente innanzi al giudice incompetente solo per far valere la violazione di norme attinenti all'individuazione del giudice naturale precostituito per legge (Trib. Pescara 4 maggio 2007). Un'altra pronuncia ha fondato la possibilità di adottare il decreto inaudita altera parte in caso di rigetto dell'istanza cautelare sul fatto che in tal modo si risparmiano per l'istante le spese processuali che altrimenti su di lui graverebbero, quale unico effetto del contraddittorio provocato con la controparte (Trib. Monza 26 aprile 1997). Infine, si è detto che, secondo la nuova disciplina sui procedimenti cautelari, il provvedimento di rigetto per motivi di rito può essere emesso nella forma del decreto inaudita altera parte, perché non ha alcun effetto preclusivo per la successiva ripresentazione dell'istanza cautelare (Trib. Milano 8 luglio 1993).

Vi è da dire, tuttavia, che la dominante dottrina è nel senso negativo, ossia ritiene che non sia superabile il testo della norma dell'art. 669-septies c.p.c. che limita la forma del provvedimento negativo all'ordinanza e che tale limitazione sia a fortiori confermata dal disposto dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., norma che – come ricordato – prevede l'ammissibilità della pronuncia con decreto senza contraddittorio del provvedimento cautelare solo nell'ipotesi dell'accoglimento perché la confina ai casi di pericolo nell'attuazione, attuazione che ontologicamente non può predicarsi per il provvedimento di rigetto (v., in tema, Attardi, 238; Tarzia, Giorgetti, 497; Montesano, Arieta, 134).

Il reclamo contro il provvedimento negativo.

Nel sistema originario del procedimento cautelare uniforme disciplinato dagli artt. 669-bis ss. c.p.c., la norma sul reclamo cautelare, ossia l'art. 669-terdecies c.p.c., prevedeva unicamente la reclamabilità del provvedimento positivo, quindi di accoglimento. La situazione creatasi appariva evidentemente discriminatoria tra la posizione del ricorrente e quella del resistente, potendo il resistente sempre impugnare il provvedimento di accoglimento, dovendo, invece il ricorrente accontentarsi della riproponibilità, riproponibilità che, però, non è libera nel caso di rigetto per motivi di merito.

La dottrina che si era occupata dell'argomento aveva rilevato, infatti, tale discriminazione tra le posizioni, quella del resistente che aveva a disposizione il mezzo di impugnazione del reclamo contro il provvedimento cautelare che avesse ritenuto ingiusto, e il ricorrente che, invece, aveva a disposizione soltanto la riproposizione nei limiti dell'art. 669-septies c.p.c. (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1991, 473; Consolo 1990, 445; Saletti 1991, 376). Da altri, si era invece evidenziato che il sistema doveva considerarsi coerente nel negare la reclamabilità del provvedimento negativo, dato che sottesa a questa scelta vi era una evidente esigenza di funzionalità del processo cautelare (Proto Pisani 1991, 369).

La sperequazione tra le parti del processo cautelare non era sfuggita alla giurisprudenza che in più pronunce aveva sollecitato l'intervento del giudice delle leggi chiedendo che fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c.

Era stata, a tale stregua, ritenuta fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-terdeciesc.p.c., in combinato disposto con l'art. 669-septies c.p.c., per il giudicato destinato a formarsi su di un provvedimento di rigetto di un'istanza cautelare, come tale discriminatorio, ai sensi dell'art. 3 Cost., rispetto alla possibilità di reclamo sempre ammissibile da parte del resistente con il provvedimento positivo (Trib. Verona 28 gennaio 1994; nello stesso senso, v. Trib. Bologna 21 luglio 1993). Se tali ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale avevano ravvisato l'illegittimità costituzionale della norma utilizzando quali parametri gli artt. 3 e 24 Cost., una ulteriore ordinanza aveva affermato che l'art. 669-terdecies, commi 1 e 5, c.p.c., appariva di dubbia legittimità non solo per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ma anche dell'art. 101 Cost. e del principio della soggezione del giudice solo alla legge ivi contemplato, laddove assicura il reclamo solo contro le decisioni di accoglimento e non contro quelle di rigetto, così consentendo che si accumulino sul giudice di primo grado e incidano sulla formazione del suo convincimento destinato al giudizio di merito, o anche solo all'esame di ulteriori istanze di cautela, differenti opportunità delle parti di ottenere da un giudice diverso solo pronunzie sfavorevoli al diritto cautelato (in questi termini, v. Trib. Roma 3 novembre 1993).

La Corte Costituzionale, decidendo sulle citate ordinanze di rimessione, aveva affermato che in un processo come quello civile, in cui le parti si contrappongono in modo paritario, il principio posto dall'art. 3 Cost. impone che esse abbiano uguali poteri davanti al giudice e che il legislatore ripartisca poteri e doveri in modo equilibrato tra di esse. Ciò perché l'equivalenza nei mezzi processuali garantiti alle parti, salvo che la disciplina differenziata sia resa necessaria dal principio di uguaglianza sostanziale, è in rapporto di necessaria strumentalità con la garanzia del diritto di azione e di difesa di cui all'art. 24 Cost. Secondo la Consulta, mentre con l'art. 669-decies c.p.c. il legislatore ha voluto ridurre il regime di stabilità dei provvedimenti cautelari introducendo un controllo su di essi tramite la revoca e la modifica da parte del giudice istruttore della causa di merito, invece la revisio prioris instantiae in cui si concreta il reclamo cautelare, è stata negata alla parte che ha chiesto, senza ottenerla, una cautela anticipatoria o conservativa. Per dirlo con le parole della Corte, «si realizza così un'amputazione del diritto di difesa, in quanto si attribuisce maggiore possibilità di far valere le proprie ragioni a chi resiste alla richiesta di provvedimento cautelare, rispetto a chi tale richiesta propone». Disparità che non trova giustificazioni possibili dato che le parti rivestono, nell'ordinamento processuale, posizioni speculari. Con riferimento all'art. 669-septies c.p.c. e alla riproponibilità dell'istanza la Corte Costituzionale ha precisato che la sperequazione tra le parti determinata dalla reclamabilità dei soli provvedimenti di accoglimento, non è compensata dal fatto che, a norma dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c., il provvedimento negativo non preclude la riproposizione dell'istanza di provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Ciò perché tra i due rimedi, quello del reclamo cautelare e quello della riproposizione dell'istanza rigettata, non vi è un rapporto di equivalenza in termini di garanzie processuali, dato che sul reclamo cautelare decide un giudice diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento cautelare impugnato, mentre la riproposizione dell'istanza ex art. 669-septies c.p.c. si dirige allo stesso giudice che ha già rigettato la richiesta di provvedimento cautelare. Ma, precisa la Consulta, l'alterità del giudice dell'impugnazione è, nel nostro ordinamento, un fattore di maggiore garanzia. Né può sottacersi dei limiti di ammissibilità che l'art. 669-septiesc.p.c. pone alla riproposizione dell'istanza, così escludendo che lo stesso giudice si possa pronunciare nuovamente su una domanda «identica» ossia riproposta negli stessi termini e in presenza della stessa situazione di fatto, per rimediare ad un errore precedente. Questi limiti rendono ancora più evidente e grave la sperequazione tra le parti atteso che in mancanza di nuove prospettazioni e di circostanze sopravvenute, la parte ricorrente perderebbe definitivamente il potere di chiedere l'emanazione di un provvedimento cautelare a tutela dei propri diritti. Ne deriva che i rimedi della reclamabilità e della riproponibilità dell'istanza cautelare operano su piani differenti, che sono sì complementari ma non pienamente sovrapponibili, con la conseguenza che la disponibilità dello strumento della riproposizione non esclude che sia necessario per la tutela delle parti garantire anche la esperibilità del reclamo con la precipua funzione di riequilibrare i loro poteri. La Corte Costituzionale, conseguentemente, dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui non ammetteva il reclamo cautelare anche contro l'ordinanza con cui era stato rigettato il provvedimento cautelare, oltreché contro quella di accoglimento (Corte cost., n. 253/1994).

Questa prima dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 669- terdecies c.p.c. non aveva – come visto – preso esplicita posizione sulla questione dell'impugnabilità delle pronunce dichiarative di incompetenza da parte del giudice della cautela. Se anche gli interpreti avevano in parte segnalato che il dispositivo della pronuncia di incostituzionalità dovesse ricomprendere tanto le ipotesi di rigetto per motivi di merito quanto di rigetto per motivi di rito, tuttavia si poteva porre in modo serio il dubbio che la dichiarazione di illegittimità si limitasse ai soli provvedimenti per i quali era esclusa la riproponibilità libera.

Una successiva ordinanza di rimessione aveva, a tal proposito, sollevato la questione. In particolare, si era prospettata l'incostituzionalità dell'art. 669-terdecies, comma 1, c.p.c.nella parte in cui non prevedeva la reclamabilità del provvedimento di rigetto della domanda cautelare per incompetenza. Il giudice remittente aveva osservato che la mancata previsione del reclamo rappresentava una violazione del diritto di difesa che non poteva ritenersi esclusa per il fatto che, a norma dell'art. 669-septies c.p.c., il provvedimento di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda cautelare allo stesso giudice che ha respinto la richiesta, dato che sul reclamo è chiamato a decidere un giudice diverso, fattore questo di maggiore garanzia per le parti (Trib. Verbania 22 settembre 1994). La Corte Costituzionale, pur ritenendo non fondata la questione di legittimità, prendeva posizione sulla portata del dispositivo di incostituzionalità precedente, affermando che attraverso la dichiarata illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c. in forma additiva, essa aveva esteso il reclamo contro ogni provvedimento di diniego dell'invocata tutela cautelare, senza possibilità di distinguere a seconda delle ragioni, di merito e di rito, ivi comprese quelle attinenti alla competenza, del diniego stesso. Né, precisavano a tal fine i giudici della Consulta, si potrebbe addurre, per infirmare la portata della pronuncia, il diverso grado di stabilità che l'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. attribuisce all'ordinanza di incompetenza piuttosto che all'ordinanza di rigetto in senso stretto (e quindi per motivi di merito), consentendo la libera riproponibilità solo nella prima ipotesi. Infatti, questo dato normativo non elimina la disparità di trattamento fra le parti del processo; se, infatti, si leggesse il dispositivo di incostituzionalità come non comprendente il provvedimento negativo per ragioni di incompetenza, vi sarebbe sempre una disparità di trattamento tra le parti dato che contro il provvedimento concessivo della misura cautelare il reclamo sarebbe sempre ammissibile anche per contestare la competenza, esplicitamente o implicitamente ritenuta dal giudice, mentre contro il provvedimento negativo per ragioni di rito ciò non sarebbe possibile. Con la conseguenza che la formulazione dell'art. 669-septiesc.p.c. non è, secondo il giudice delle leggi, ostativa ad una lettura costituzionalmente conforme della norma dell'art. 669-terdeciesc.p.c., così come essa risulta dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Corte cost., n. 197/1995).

La pronuncia sulle spese.

L'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. stabilisce che, se l'ordinanza di incompetenza o di rigetto è pronunciata prima dell'inizio della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare. La condanna alle spese, a mente del comma 3 della norma, è immediatamente esecutiva.

La norma fa esclusivo riferimento all'ordinanza ante causam che rigetta il provvedimento, o per ragioni di rito o per motivi di merito. Il senso della disposizione è palese; infatti, non sorge l'esigenza di liquidare le spese quando l'ordinanza accoglie la misura cautelare, ciò perché, almeno per i provvedimenti cautelari conservativi è necessario instaurare tempestivamente il giudizio di merito. Il discorso è diverso quanto ai provvedimenti cautelari anticipatori visto che per essi è stato adottato il regime della strumentalità debole, o attenuata, sicché il giudizio di merito può in ipotesi anche non essere mai instaurato dalle parti. Il tema della pronuncia sulle spese in tali ipotesi, prima non compreso nel testo dell'art. 669-octies c.p.c., è stato poi introdotto dal legislatore proprio per ovviare al rischio che le parti fossero costrette ad iniziare il giudizio di merito al solo fine di ottenere la pronuncia sulle spese (sul punto, si rimanda al commento subart. 669-octies c.p.c.).

L'esigenza di provvedere sulle spese non vi è nemmeno rispetto ai provvedimenti pronunciati in corso di causa, per il fatto che in tale ipotesi la condanna alle spese confluirà nel provvedimento conclusivo del giudizio di merito, pur se – come vedremo nel prosieguo – il principio non è univocamente condivisibile.

Nel disciplinare la condanna alle spese come pronuncia accessoria ai provvedimenti cautelari emanati ante causam, il legislatore ha avuto come modello un orientamento giurisprudenziale emanato con riferimento ai provvedimenti d'urgenza prima della introduzione del rito cautelare uniforme e sostanzialmente inaugurato da una nota pronuncia delle Sezioni Unite la quale aveva stabilito che la liquidazione delle spese doveva accedere al provvedimento pronunciato ex art. 700 c.p.c. proprio al fine di evitare alla parte vittoriosa l'onere di instaurare un autonomo giudizio di cognizione per ottenere il pagamento delle spese di lite.

L'importanza di tale orientamento nella disciplina dell'assetto attuale dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. è tale che risulta opportuno soffermarci sul punto. La Corte di Cassazione, infatti, adita in sede di ricorso straordinario contro l'ordinanza di rigetto di un provvedimento d'urgenza sul rilievo che il provvedimento in questione recava la condanna al pagamento delle spese di giudizio, in violazione, secondo il ricorrente, del disposto dell'art. 91 c.p.c. che stabilisce che la condanna alle spese può accedere alla sentenza conclusiva del processo e non ad un provvedimento interinale, ha risolto la questione nel senso sopra menzionato.

A tale pronunciamento delle Sezioni Unite, si è pervenuti a seguito di un contrasto di giurisprudenza sorto sulla possibilità di far accedere al provvedimento d'urgenza «negativo», ossia di rigetto, la condanna alle spese. In particolare, secondo un primo indirizzo della giurisprudenza di legittimità il provvedimento che rigetti l'istanza ex art. 700 c.p.c. non possa contenere la condanna del ricorrente alle spese in favore dell'altra parte, stante la non configurabilità, nel procedimento cautelare, di un vero e proprio contraddittorio e quindi di una soccombenza in senso tecnico; secondo un diverso orientamento, invece, l'art. 91 c.p.c. trova applicazione con riferimento ad ogni provvedimento, anche se reso in forma di ordinanza o di decreto che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiuda il procedimento innanzi al giudice che lo emette, quando si rende necessario ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale derivante dall'iniziativa dell'avversario. Questa norma, secondo tale interpretazione, opererebbe anche con riferimento ai procedimenti sommari e cautelari.

Secondo la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, il primo orientamento, quello negativo, si ancora ad un principio aprioristico, ossia al fatto che la locuzione «sentenza che chiude il processo» contenuta nell'art. 91 c.p.c., debba essere intesa strettamente in senso tecnico-giuridico, e che quindi non possa far riferimento ad altro che al processo ordinario di cognizione. Questo orientamento sconta il rischio, dice la Corte, di trasformare la norma dell'art. 91 c.p.c. in una norma processuale rigida e riduttiva che lascia priva di tutela giurisdizionale una molteplicità di casi come, ad esempio, la tutela risarcitoria dei resistenti che riescano vittoriosi nei procedimenti cautelari. Diversamente, il secondo indirizzo giurisprudenziale, quello che riconosce l'ammissibilità della condanna alle spese nei procedimenti cautelari ha il pregio di utilizzare il criterio ermeneutico della interpretazione estensiva per consentire una soluzione che il legislatore non ha espressamente disciplinato ma la cui soluzione si inserisce logicamente nella politica legislativa da lui perseguita; ciò è dimostrato anche dal fatto che tale soluzione presenta il vantaggio di garantire l'economia dei giudizi e di evitare lo spreco di attività giurisdizionale in una concezione dinamica del lavoro del giudice che non necessita della sollecitazione delle parti con la proposizione di un giudizio autonomo per provvedere alla determinazione delle spese processuali in favore del resistente vittorioso.

A parere della Corte, l'attività interpretativa in sede giurisdizionale è stata sempre ritenuta necessaria per risolvere tutti i casi non espressamente disciplinati dal legislatore ma che possono essere definiti utilizzando le norme già emanate; peraltro, la concentrazione dei giudizi, come espressione della partecipazione attiva del giudice alla conclusione del processo, trova il suo fondamento anche nella Relazione al Re ove si trova la affermazione secondo cui «il giudice anche nel processo civile deve essere fornito in ogni caso dei poteri indispensabili per amministrare la giustizia in modo attivo, rapido e proficuo» (v., amplius, Cass. S.U., n. 2021/1989).

L'esigenza di liquidare le spese con il provvedimento cautelare sorge – come visto – se il provvedimento è negativo mentre non nasce se il provvedimento è positivo, cioè di accoglimento, perché in tale caso le spese sono liquidate insieme con la sentenza che definisce il giudizio di merito, a meno che non si tratti di provvedimento cautelare anticipatorio nel qual caso, a norma della formulazione dell'art. 669-octies, comma 7, c.p.c. il giudice provvede anche sulle spese del procedimento cautelare (sulla questione, culminata con la modifica del comma 7, si rinvia al commento subart. 669-octies c.p.c.); ovvero a meno che non si tratti di provvedimento cautelare emanato in corso di causa.

Secondo i giudici di legittimità, il provvedimento cautelare richiesto al giudice istruttore della causa pendente nel merito, concreta un subprocedimento incidentale inserito nel procedimento principale e pertanto la regolamentazione delle spese processuali del primo, essendo questo privo di autonomia, non può che essere disposta, come per tutte le altre spese processuali che si sostengono nel corso del procedimento principale, con il provvedimento che chiude quest'ultimo. Di conseguenza, il provvedimento sulle spese adottato in un'ipotesi del genere dal giudice istruttore della causa di merito deve essere considerato abnorme, perché emesso in difetto del relativo potere giurisdizionale, ed il relativo vizio può essere fatto valere anche nel corso del giudizio nel quale il provvedimento stesso è stato emesso, sulla base del principio del potere revisionale spettante al collegio sulle ordinanze del giudice istruttore (Cass. I, n. 7921/1996). Ancora, si è precisato che la statuizione sulle spese, mentre deve essere adottata in caso di rigetto della domanda o di dichiarazione di incompetenza, non è prevista quando la misura richiesta dalla parte istante sia concessa, o confermata in sede di reclamo, in ragione del carattere temporaneo e provvisorio della relativa pronuncia, destinata ad essere superata o assorbita con la decisione nel merito, e comunque suscettibile di successiva modifica o revoca (Cass. I, n. 5566/1996). In giurisprudenza di merito, si è osservato, nello stesso senso, che quando viene rigettata una domanda cautelare proposta in corso di causa, la regolamentazione delle spese della fase cautelare avviene con la sentenza che definisce il giudizio di merito, in applicazione della regola generale di cui all'art. 91 c.p.c.; posto che il provvedimento cautelare richiesto al giudice istruttore della causa pendente nel merito è privo di autonomia e concreta un subprocedimento incidentale inserito nel procedimento principale, l'art. 669-septies c.p.c. ammette, infatti, la liquidazione delle spese solo in caso di rigetto della misura cautelare richiesta ante causam o di dichiarazione di incompetenza a provvedere su di essa (Trib. Palermo 26 aprile 2004). 

Il provvedimento emesso ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c., confermativo dell'ordinanza con la quale il giudice di prime cure abbia rigettato la richiesta di reintegra nel possesso, costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle spese di giudizio, sostituendo integralmente, in conseguenza dell'effetto devolutivo, l'ordinanza reclamata, sicché se l'esecuzione non ha avuto inizio in base al primo titolo esecutivo, va notificato il solo provvedimento emesso sul reclamo (Cass. III, n. 3291/2022).

Ci si interroga sull'effettiva possibilità di ritenere definitiva la pronuncia di condanna alle spese ai sensi dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. Ciò perché potrebbe verificarsi l'ipotesi che nel successivo giudizio di merito il soccombente in sede di procedimento cautelare risulti invece vittorioso in tale sede.

La dottrina che si è occupata della questione ha affermato che la soluzione normativa comunque è giustificabile sotto un profilo teorico dato che i due procedimenti sono diversi tra di loro a livello strutturale; in tale situazione potrebbe trovare senz'altro applicazione il principio di globalità (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani, 646).

Questione connessa alla liquidazione delle spese del provvedimento è quella relativa alla possibilità di effettuare la condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. Sulla questione va ricordato che la norma dell'art. 96 c.p.c. disciplina la c.d. responsabilità aggravata prevedendo, al comma 1, che «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza». A norma del comma 2, «il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente». Infine, ai sensi dell'ultimo comma della disposizione, il giudice in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91 c.p.c., anche d'ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. In sostanza l'ipotesi disciplinata dal comma 1 prevede che il vincitore possa chiedere al giudice della causa di merito non solo il rimborso delle spese, ma anche la condanna di controparte al risarcimento dei danni, se questi ha agito o resistito in mala fede o con colpa grave. La seconda ipotesi, invece, si riferisce ad iniziative processuali che possono arrecare immediato pregiudizio alla parte che le subisce. Infine, il comma 3 detta non già una nuova forma di responsabilità per lite temeraria, bensì un istituto diverso, caratterizzato dal potere discrezionale del giudice di irrogare una pena pecuniariaexart. 279 c.p.c., al soccombente che ha tenuto un comportamento quantomeno incauto. In sostanza, qualora ricorrano gli estremi della responsabilità aggravata in una delle ipotesi prima viste, il giudice, anche d'ufficio, può condannare il soccombente a pagare una somma, equitativamente determinata, in favore della controparte, indipendentemente dalla prova del danno da essa subìto in conseguenza del comportamento del soccombente.

La giurisprudenza di merito ha precisato che la condanna per lite temeraria, prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c., è applicabile anche nei procedimenti cautelari che si concludono con una pronuncia sulle spese, sul presupposto che l'espressione sentenza contenuta nel comma 1 dell'art. 96 c.p.c. ben può essere intesa come provvedimento che definisce il procedimento (Trib. Verona 21 marzo 2011). Sempre nel senso dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c., si è espressa la giurisprudenza che nega l'ammissibilità della regola dell'art. 39 c.p.c. affermando che il comportamento della parte che propone la stessa domanda cautelare a due giudici diversi o che ripropone la domanda cautelare ad un giudice diverso da quello competente per il giudizio di reclamo, integra un abuso dello strumento processuale, sanzionabile, per l'appunto ex art. 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Milano 12 marzo 2016). Nella stessa fattispecie, ossia la riproposizione della domanda cautelare a due giudici diversi, pur ritenendo sempre inapplicabile la norma dell'art. 39 c.p.c., una recente giurisprudenza ha invece ritenuto di disporre la compensazione integrale delle spese tra le parti, adottando pertanto una decisione di maggior favore nei confronti della parte ricorrente (Trib. Nola 29 agosto 2019, cit.).

La dottrina ha precisato che la disposizione dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. sembra applicarsi alle sole ipotesi di condanna alle spese ma è estensibile alla liquidazione dei danni derivanti da responsabilità aggravata, nell'ipotesi dell'art. 96, comma 1, c.p.c., mentre sarebbe sempre preclusa nelle ipotesi di cui al comma 2 della norma perché esso presuppone che si sia svolto anche il giudizio di merito e sia stato eseguito il provvedimento cautelare (Consolo, in Consolo, Luiso, Sassani 1996, 647; contra, Cecchella, 87). Ne deriva che l'applicazione del comma 2 della disposizione dell'art. 96 c.p.c. presuppone che il provvedimento cautelare sia stato concesso e non negato e, pertanto, sarebbe ontologicamente non possibile l'esecuzione del provvedimento di rigetto e la conseguente condanna per lite temeraria (Celeste, 314).

Il controllo sulla decisione relativa alle spese.

Prima delle modifiche apportate alla norma dalla l. n. 69/2009, l'art. 669-septies, comma 3, c.p.c. prevedeva che «la condanna alle spese è immediatamente esecutiva ed è opponibile ai sensi degli articoli 645 e seguenti in quanto applicabili, nel termine perentorio di venti giorni dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione». Successivamente, la l. n. 69/2009 ha eliminato la previsione dell'opposizione in parola sicché contro i provvedimenti cautelari emanati ante causam ovvero contro le misure cautelari già coperte dal cosiddetto giudicato cautelare rimane proponibile il solo rimedio generale del reclamo cautelare ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c.

La proposizione del reclamo comporta una nuova regolamentazione delle spese del procedimento cautelare che sostituisce quella contenuta nel provvedimento originario e che può avere senz'altro effetto sospensivo ai sensi dell'art. 623 c.p.c. delle eventuali azioni esecutive che siano state poste in essere (Morotti, 542).

Sull'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., vi era stata un'importante pronuncia delle Sezioni Unite la quale aveva chiarito che, in tema di spese del procedimento cautelare e dopo l'intervento della nota Corte cost., n. 253/1994, gli artt. 669-septies, comma 3 e 669-terdecies c.p.c. vanno interpretati nel senso che, contro l'ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare con compensazione delle spese, è ammissibile il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. mentre, contro il provvedimento adottato sul reclamo, ovvero dopo il decorso dei termini per la proposizione del reclamo stesso, è ugualmente legittima l'opposizione di cui all'art. 669-septies c.p.c., i cui termini iniziano a decorrere, rispettivamente, o dalla scadenza del termine per proporre il reclamo o dalla pronuncia, se resa in udienza, o dalla comunicazione dell'ordinanza del giudice del reclamo che rende definitiva la pronuncia sulle spese. Ne deriva che, qualora la domanda cautelare venga rigettata con dichiarazione di compensazione delle spese processuali, la parte che si dolga di tale ultima pronuncia ha a disposizione due mezzi di gravame: il reclamoex art. 669- terdecies c.p.c. e, definito il procedimento di reclamo o decorsi i termini per la sua proposizione, l'opposizione di cui agli artt. 669-septies, comma 3, c.p.c. e 645 c.p.c., opposizione che non è proponibile sino a quando siano pendenti i termini per reclamare o sia in corso il relativo procedimento (Cass. S.U., n. 16214/2001). Successivamente, si è precisato che il giudizio di opposizione contro la condanna alle spese disciplinato dall'abrogato art. 669-septies, comma 3, c.p.c., non presenta caratteri di autonomia rispetto alla domanda introduttiva del procedimento cautelare, poi coltivato con il reclamo, costituendo una prosecuzione dell'iniziale pretesa alle spese, né si può ritenere che a seguito dell'opposizione si instauri un separato giudizio di cognizione, trattandosi di una fase che trova origine nella domanda iniziale; con la conseguenza che, in analogia con quanto previsto in caso di appello proposto contro la sentenza resa all'esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ai fini della operatività del termine semestrale di decadenza dal gravame, la pendenza va individuata con riferimento non alla notificazione dell'atto di opposizione ma all'instaurazione del procedimento cautelare (Cass. II, n. 28629/2017). Di recente, la Cassazione ha affermato che, in tema di procedimento cautelare o ad esso equiparato contro il provvedimento di condanna alle spese, non è proponibile il ricorso per cassazione ma trova applicazione l'art. 669-septies, comma 3, c.p.c., nella formulazione ratione temporis vigente, sicché la condanna alle spese, anche se emessa all'esito del reclamo, è opponibile ai sensi degli artt. 645 e ss. c.p.c., avendo tale norma valenza generale volta com'è a ricondurre al sistema oppositorio menzionato ogni statuizione sulle spese adottata in sede di procedimento cautelare (Cass. II, n. 28607/2020).

Si è, tuttavia, giustamente obiettato che l'attuale art. 669-septies, comma 3, c.p.c. non prevede affatto che il capo relativo alle spese debba essere impugnato con reclamo cautelare, ma la giurisprudenza inferisce tale soluzione dal fatto che il reclamo cautelare è configurato nel sistema del procedimento cautelare uniforme come mezzo di controllo dei provvedimenti cautelari sia positivi che negativi (Recchioni 2015, 626).

La dottrina, argomentando sulla base del contenuto differente del capo sulle spese e del provvedimento cautelare, ha rilevato come la natura decisoria del capo in questione che afferisce senz'altro ad un diritto soggettivo, imponga un diverso strumento di controllo e, segnatamente, il ricorso straordinario in cassazione (Luiso 2019, 199; Balena 2009, 771). Peraltro, si è rilevato che il reclamo cautelare appare mezzo di controllo non adeguato per la tutela della parte che intenda impugnare la decisione ingiusta sulle spese del provvedimento cautelare; non solo e non tanto perché trattasi di cognizione sommaria ma, piuttosto, per il fatto che la decisione sulle spese è decisione su diritti soggettivi e la relativa pronuncia è idonea al passaggio in giudicato, con la conseguenza che è necessario prevedere un mezzo di impugnazione tale da impedire questo passaggio (Recchioni 2015, 627).

Ci si domanda, di conseguenza, quale sia la sorte del provvedimento sulle spese, più in particolare, del provvedimento sulle spese reso dopo l'esperimento del reclamo cautelare ovvero a corredo di provvedimenti cautelari che non siano stati reclamati. In, particolare ci si chiede se sia possibile l'esperimento del ricorso straordinario in cassazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, tale pronuncia alle spese accede ad un provvedimento per sua natura non decisorio né definitivo e pertanto non ricorrono i presupposti che l'art. 111 Cost. pone per la garanzia del ricorso straordinario in cassazione.

La Cassazione ha avuto modo di esprimersi recentemente sulla questione ed ha affermato che l'ordinanza di rigetto del reclamo cautelare non è ricorribile per cassazione, neppure in ordine alle sole spese perché è un provvedimento inidoneo a divenire cosa giudicata formale e sostanziale, conservando i caratteri della provvisorietà e della non decisorietà. Pertanto, dopo la novellazione dell'art. 669-septies c.p.c. da parte della l. n. 69/2009, la contestazione delle spese, ove il soccombente abbia agito ante causam e non intenda iniziare il giudizio di merito, va effettuata in sede di opposizione al precetto ovvero all'esecuzione se iniziata, trattandosi di giudizio a cognizione piena in cui la condanna alle spese può essere ridiscussa senza limiti come se l'ordinanza sul reclamo fosse sul punto titolo esecutivo stragiudiziale; qualora, invece, il giudizio di merito sia instaurato, resta comunque sempre impregiudicato il potere del giudice di rivalutare, all'esito, la pronuncia sulle spese adottata nella fase cautelare, in conseguenza della strumentalità, mantenuta dalla l. n. 80/2005, tra tutela cautelare e merito (Cass. VI, n. 6180/2019; Cass. IV, n. 11800/2012; Cass. III, n. 11370/2011). Su questo profilo, già si erano espressi, nel medesimo senso, i giudici di legittimità, affermando lo stesso principio con riferimento ai procedimenti di nunciazione (Cass. VI, n. 16259/2017).

Il principio esposto nelle richiamate sentenze è stato criticato non solo per l'erronea assimilazione del capo sulle spese ad un titolo stragiudiziale, ma anche perché la soluzione prospettata dai giudici di legittimità appare difficilmente praticabile ove il capo sulle spese contenga semplicemente una compensazione delle stesse e non una condanna, oppure manchi del tutto la pronuncia sulle spese (Recchioni 2015, 627). In tale ipotesi, infatti, non essendovi la condanna non potrebbe utilizzarsi il rimedio della opposizione all'esecuzione che presuppone, ovviamente, che una esecuzione sia iniziata. Con la conseguenza che, in tale ipotesi, nessun rimedio avrebbe a disposizione la parte che intenda dolersi della pronuncia di compensazione o della mancata pronuncia sulle spese.

In tale ultimo caso, ovvero quando manchi del tutto la pronuncia sulle spese, si è prospettata la possibilità, per il resistente vittorioso, di utilizzare lo strumento del reclamo per far valere tale omissione di pronuncia che, necessariamente, lo pregiudica costringendolo a sopportare le spese del procedimento cautelare in cui è rimasto, per l'appunto, vittorioso.

La soluzione prospettata è, quindi, quella di consentirgli il reclamo cautelare per far valere la sua soccombenza e chiedere al giudice del reclamo la condanna del ricorrente – soccombente in prime cure – alla refusione delle spese di lite (Recchioni 2015, 628). Da altri, invece, si è proposto anche in tale ipotesi l'uso del ricorso straordinario in cassazione (Corsini, 359) soluzione che per alcuni parrebbe preferibile dato che la pronuncia sulle spese, pur se omessa, è pronuncia su diritto soggettivo e, di conseguenza, così come il giudice del reclamo non sarebbe idoneo ad impugnare il capo sulle spese ove contenuto nel provvedimento di rigetto, allo stesso modo non lo si potrebbe ritenere idoneo a rimediare alla omissione della relativa pronuncia. In nessun caso sarebbe comunque utilizzabile la procedura relativa alla correzione degli errori materiali (Corsini, 359).

La giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'omessa liquidazione delle spese processuali non integra una omissione emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali, perché la sentenza non è affetta da mera mancanza di documentazione della volontà del giudice, comunque implicitamente desumibile, ma è affetta dalla mancanza di un giudizio sull'attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa, con la conseguenza che la relativa omissione può essere emendata soltanto a seguito di gravame (Cass. I, n. 7274/1999).

Contro i provvedimenti sulle spese contenuti nella pronuncia sostitutiva resa all'esito del reclamo cautelare ovvero afferenti a provvedimenti cautelari non reclamati, si è proposto anche di utilizzare l'opposizione a precetto ovvero l'opposizione all'esecuzione già iniziata ai sensi dell'art. 615 c.p.c. Ciò perché si potrebbe qualificare il capo sulle spese come un titolo esecutivo stragiudiziale sicché il giudice dell'esecuzione potrebbe entrare nel merito del procedimento cautelare e valutare se correttamente sono state liquidate le spese di quella fase.

In tal senso, si è osservato che tale controllo operato dal giudice dell'esecuzione in sede di opposizione a precetto ovvero opposizione già iniziata ex art. 615 c.p.c. sarebbero ovviamente alternativi alla possibilità per la parte soccombente di iniziare il giudizio di merito (Morotti, 544).

La giurisprudenza di legittimità ha sposato la soluzione appena ricordata affermando che il provvedimento con cui il tribunale, provvedendo ante causam, rigetti il reclamo avvero l'ordinanza di rigetto del ricorso cautelare, ovvero dichiari la cessazione della materia del contendere, e condanni il reclamante alle spese del giudizio, non ha natura di sentenza e non è ricorribile per cassazione con ricorso straordinarioex art. 111 Cost.; ne consegue che il reclamante soccombente, ove non intenda iniziare il giudizio di merito ma intenda contestare la sola liquidazione delle spese in esso contenuta, deve farlo attraverso l'opposizione a precetto intimato sulla base di questo provvedimento o all'esecuzione iniziata sulla base di esso (Cass. III, n. 11370/2011; Cass. VI, n. 19276/2012; Cass. IV, n. 11800/2012). Qualora, invece, il giudizio di merito sia instaurato, resta, comunque, sempre impregiudicato il potere del giudice di rivalutare, all'esito, la pronuncia sulle spese adottata nella fase cautelare, in conseguenza della strumentalità tra tutela cautelare e merito (Cass. VI, n. 6180/2019).

Lungi dall'essersi sistematizzato questo orientamento della giurisprudenza di legittimità vede parecchie voci difformi tra cui alcune pronunce anche molto recenti.

Si è rilevato che, nel procedimento di separazione personale dei coniugi, il decreto con cui la corte d'appello abbia deciso sul reclamo contro l'ordinanza emessa dal presidente del tribunale ai sensi dell'art. 708, comma 3, c.p.c., non deve contenere una distinta pronuncia sulle spese dovendo la regolamentazione delle stesse trovare spazio nella sentenza emessa a conclusione del giudizio che dovrà tenere conto, a tal fine, dell'esito complessivo della lite e delle modalità di svolgimento delle singole fasi in cui il processo si è articolato; il decreto con cui la corte d'appello abbia deciso il reclamo ai sensi dell'art. 708, comma 4, c.p.c., non è impugnabile ai sensi dell'art. 111 Cost. rispetto ai provvedimenti temporanei e urgenti adottati nell'interesse dei coniugi e della prole che hanno carattere provvisorio e comunque strumentale rispetto al giudizio di merito. In ogni caso, secondo la Corte, l'impugnazione in parola è ammissibile rispetto al capo del decreto che contiene la regolamentazione delle spese di lite che si configura come una statuizione riguardante posizioni giuridiche soggettive di debito/credito che discendono da un rapporto obbligatorio autonomo e idonea a passare in giudicato (Cass. I, n. 8432/2020).

La Corte di Cassazione, nella pronuncia ora ricordata, partendo dal presupposto che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo riconosciuto la natura cautelare dei provvedimenti di cui all'art. 708, comma 3, c.p.c., con particolare riguardo a quello con cui venga fissato in via provvisoria l'assegno di mantenimento per il coniuge che, secondo la Corte, sotto il profilo sostanziale tiene luogo del mantenimento cui l'obbligato sarebbe stato comunque tenuto in costanza della convivenza, e sotto il profilo processuale esprime l'esigenza propria della tutela cautelare in cui è preminente l'interesse pubblico alla conservazione dello status quo. In sostanza, questi provvedimenti sono diretti a regolare, per il tempo necessario allo svolgimento del giudizio di merito, quegli aspetti della vita dei figli e dei coniugi che troveranno sistemazione definitiva nella sentenza finale, al fine di evitare che per effetto del tempo del processo i componenti del nucleo familiare siano pregiudicati nei loro diritti. In particolare, la attenuazione della strumentalità per i provvedimenti cautelari anticipatori, effettuata con le modifiche all'art. 669-octies c.p.c. dalla riforma 2005-2006, e l'introduzione, ad opera della l. n. 54/2006 dell'art. 708, comma 3, c.p.c. che consente di proporre reclamo contro i provvedimenti in questione, ha indotto la giurisprudenza di legittimità ad accostare la loro disciplina a quella dei provvedimenti cautelari. Secondo la sentenza in parola, poiché l'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. e l'art. 669-octies, comma 7, c.p.c., impongono di provvedere sulle spese del cautelare solo se la domanda venga proposta ante causam, sia in caso di accoglimento che di rigetto o dichiarazione di incompetenza, mentre nulla dispongono sui procedimenti promossi in corso di causa, per essi si deve intendere che il regolamento delle spese deve avere luogo all'esito del giudizio di merito.

I rilievi della Corte sono condivisibili. In effetti, le disposizioni degli artt. 669-septies, comma 2, c.p.c. e dell'art. 669-octies, commi 7 e 8, c.p.c. trovano la loro ragione d'essere nella ultrattività del provvedimento cautelare che consente di evitare l'instaurazione del giudizio di merito solo per ottenere la liquidazione delle spese processuali, ove le parti siano disposte ad accontentarsi della decisione cautelare; qualora invece il provvedimento cautelare sia concesso in corso di causa, non c'è necessità di una pronuncia immediata sulle spese del procedimento cautelare stesso che si innesta nel procedimento di merito come se ne fosse una fase incidentale e ne condivide l'esito perché è destinato a rimanere assorbito dalla sentenza definitiva, tranne nel caso di estinzione del giudizio stesso.

Proprio in ragione di quanto premesso, la giurisprudenza di legittimità ha pertanto, con tale ultima pronuncia, finito per ritenere che la natura provvisoria dei provvedimenti di cui all'art. 708 c.p.c. e il carattere incidentale del procedimento preordinato alla loro adozione, non consentita ante causam, consentono di estendere agli stessi provvedimenti le considerazioni svolte in riferimento ai provvedimenti cautelari emessi in corso di causa ed escludere la necessità di una distinta pronuncia sulle spese anche in sede di reclamo.

Ma ancor più la sentenza interessa sotto il profilo in cui ammette l'impugnazione straordinaria in cassazione contro il capo sulle spese contenuto nella pronuncia emessa all'esito del reclamo dell'ordinanza emessa dal presidente del tribunale ex art. 708, comma 3, c.p.c., perché il capo dello stesso decreto che reca il regolamento delle spese processuali si configura come una statuizione relativa a posizioni giuridiche soggettive di debito e di credito che derivano da un autonomo rapporto obbligatorio ed idonea al giudicato.

Questa affermazione si pone in una scia di continuità con quanto affermato nella giurisprudenza precedente all'introduzione del rito cautelare uniforme e segue quanto auspicato dalla dottrina dopo l'eliminazione del rimedio dell'art. 645 c.p.c. (in termini, v. Luiso 2021, 198; Saletti, in Saletti, Sassani, 220; Morotti, 544). Escludere, infatti, il ricorso straordinario in cassazione contro il capo sulle spese del provvedimento cautelare rischia di determinare un inutile aumento del contenzioso, senza tacere delle difficoltà connesse alla determinazione del giudice competente per l'opposizioneexart. 615 c.p.c. (Sassani 2011, 473; Delle Donne 2011, 482); ma la stessa natura delle opposizioni di merito all'esecuzione forzata ai sensi dell'art. 615 c.p.c. non sembra essere istituto adatto per la contestazione del capo sulle spese dato che in quella sede il giudice dovrebbe riesaminare nel merito l'intero procedimento cautelare per valutare se il giudice della cautela ha fatto corretto uso del proprio potere di regolamentare le spese di lite (Morotti, 545). Pur ritenendo che la garanzia del ricorso straordinario sia a livello attuale la più adatta all'impugnazione del capo sulle spese, certamente presentando meno complessità e problemi applicativi rispetto al prospettato uso dell'opposizione a precetto o dell'opposizione all'esecuzione, tuttavia, si condivide il rilievo della dottrina secondo cui l'uso del ricorso ex art. 111 Cost. avrebbe l'effetto di aumentare il contenzioso di una già oberata Corte di Cassazione e soltanto al fine di ottenere la cassazione della pronuncia sulle spese. Sicché in una con quanto affermato recentemente forse sarebbe il caso di optare per una introduzione legislativa di un rimedio apposito per i provvedimenti sulle spese dei procedimenti cautelari che siano stati resi dopo l'esperimento del reclamo ovvero che non siano stati reclamati (Morotti, 547 che prospetta l'ipotesi dell'introduzione di un «reclamo del reclamo» non potendosi ipotizzare un istituto analogo a quello della abrogata opposizione ai sensi dell'art. 645 c.p.c. contro la pronuncia sulle spese del provvedimento cautelare). Uno strumento di tal fatta consentirebbe una effettiva revisione della decisione impugnata e una limitazione del rischio di un ricorso eccessivo al controllo di legittimità (sulle conseguenze dell'applicazione dell'art. 111, comma 7, Cost. e sulle prospettive per garantire la garanzia del controllo, v. Proto Pisani 2020, 1192).

Per quanto concerne l'ulteriore affermazione contenuta nella pronuncia citata secondo cui la necessità di provvedere sulle spese del provvedimento cautelare sarebbe individuabile soltanto nelle ipotesi in cui la domanda sia stata proposta ante causam, deve condividersi il rilievo svolto recentemente dalla dottrina secondo cui questo assunto non è universalmente vero. Ciò perché le ragioni poste alla base della introduzione della norma di cui all'art. 669-octies, comma 7, c.p.c. secondo cui «il giudice, quando emette uno dei provvedimenti di cui al sesto comma prima dell'inizio della causa di merito, provvede sulle spese del procedimento cautelare», dettate per evitare il proliferare di giudizi rispetto a provvedimenti cautelari che per la loro natura sono destinati a poter permanere efficaci nel tempo indipendentemente dall'inizio del giudizio di merito, sono applicabili anche nell'ipotesi in cui la domanda cautelare in questione sia proposta in corso di causa.

Ciò perché l'art. 669-octies, comma 8, c.p.c. assegna ultrattività in ipotesi sine die a tutti i provvedimenti cautelari anticipatori, sia che vengano emessi ante causam, sia che vengano pronunciati in corso di causa, con la conseguenza che l'omessa liquidazione delle spese potrebbe costringere le parti a proseguire nel giudizio di merito mentre esse, diversamente ragionando, potrebbero essere indotte a lasciarlo estinguere (con ulteriori riferimenti, v. Morotti, 548).

La pronuncia sulle spese e la dichiarazione di cessazione della materia del contendere.

Altra questione connessa alla condanna alle spese è senz'altro quella relativa al rapporto con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere. In particolare, la questione riguarda le modalità di liquidazione delle spese sostenute nel corso di un procedimento cautelare proposto ante causam e che si sia definito con una pronuncia di cessazione della materia del contendere. Le soluzioni prospettabili sono sostanzialmente due; da un lato l'applicazione analogica dell'art. 669-septies c.p.c. e la liquidazione delle spese adottando il criterio della soccombenza virtuale; dall'altro lato, invece, si ritiene che l'art. 669-septies c.p.c sia applicabile solo alla fattispecie ivi prevista e, quindi, che la condanna alle spese possa accedere, nell'ipotesi di procedimento cautelare ante causam, solo alla pronuncia di rigetto.

In giurisprudenza, vi sono sostanzialmente tre diverse opinioni giurisprudenziali sul tema:

a) secondo alcune pronunce, la declaratoria di cessazione della materia del contendere nel processo cautelare per spontanea attuazione da parte del resistente del provvedimento richiesto costituisce un provvedimento che conclude il processo cautelare; in applicazione analogica dell'art. 669-septies c.p.c.il giudice è pertanto tenuto a statuire sulle spese processuali utilizzando il principio della soccombenza virtuale (Trib. Salerno 12 dicembre 2006; Trib. Roma 28 aprile 2004; Trib. Milano 2 giugno 1998). Secondo altre, sempre in linea con questo orientamento, è legittimo il provvedimento di condanna al pagamento delle spese processuali emesso a seguito della chiusura del procedimento cautelare ante causam per cessazione della materia del contendere (Trib. Ferrara 24 gennaio 1997, il quale applica in via analogica l'art. 669-septies c.p.c.). Anche la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabile in via analogica la disciplina dell'art. 669-septies c.p.c. alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere emessa in sede cautelare, pur se pronunciata dal giudice del reclamo, perché, presupponendo la rinuncia all'azione, equivale ad una statuizione di rigetto con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro il provvedimento di condanna (Cass. II, n. 9766/2001).

b) per altre pronunce, le spese processuali, qualora venga dichiarata la cessazione della materia del contendere all'esito del procedimento cautelare, potranno essere liquidate solo al termine del giudizio di merito che sarà instaurato dal ricorrente laddove, applicando il criterio della soccombenza virtuale, le spese debbano essere sostenute dalla parte resistente (Pret. Monza 22 luglio 1993, secondo cui è inammissibile la domanda di liquidazione delle spese di lite proposta nel procedimento cautelare concluso per cessazione della materia del contendere); una giurisprudenza simile afferma ugualmente che le spese possono essere in questo caso liquidate solo all'esito del successivo giudizio di merito ma si differenzia dalla tesi appena menzionata perché ritiene che il giudice adito per la cautela debba attribuire al ricorrente il termine per instaurare il giudizio di merito ai sensi dell'art. 669-octies c.p.c. (Trib. Pescara 4 dicembre 1993, ad avviso del quale l'avvenuta pubblicazione della rettifica nel corso del procedimento d'urgenza di cui all'art. 42 della l. n. 416/1981 determina la cessazione della materia del contendere ma nell'ipotesi di soccombenza virtuale del resistente la pronuncia sulle spese va rinviata alla successiva pronuncia di merito).

La dottrina che aderisce all'opinione che sembra preferibile, ossia quella sub a), afferma che a tale soluzione si può pervenire ritenendo che l'art. 669-septiesc.p.c. sia un'applicazione del principio della soccombenza all'interno del procedimento cautelare uniforme e che, in ossequio a tale principio, non si possa condannare alle spese la parte che è risultata formalmente vittoriosa. Pertanto, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere diventa autonoma e consente, per il tramite del principio della soccombenza virtuale, che le spese sostenute nel procedimento cautelare non vengano addossate alla parte che aveva ragione. In questo àmbito, l'accertamento della soccombenza virtuale dovrà essere fatto dal giudice della cautela con tutti gli strumenti idonei a verificare il fumus e la soccombenza virtuale, ovviamente entro i limiti posti dall'art. 669-sexies c.p.c. (v., amplius, Scala, 2179). Pertanto, secondo la dottrina, la disposizione dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. a mente della quale la liquidazione delle spese deve avvenire solo nell'ipotesi del rigetto della domanda cautelare e soltanto nel caso di rigetto ante causam, non sarebbe stata ostativa all'applicazione del criterio della soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese del procedimento cautelare, poiché la disposizione veniva ritenuta applicabile in via analogica a tutti i casi in cui il procedimento cautelare non abbia seguito nel giudizio di merito (Recchioni 2015, 620).

A questa opinione dottrinale, ha fatto seguito una importante pronuncia delle Sezioni Unite che ha avuto l'effetto di cambiare il quadro di riferimento in ipotesi di dichiarazione di cessazione della materia del contendere perché ha affermato che la pronuncia con cui viene dichiarata la cessazione della materia del contendere riveste natura di merito e la relativa disciplina delle spese da parte del giudice va effettuata secondo il criterio generale della soccombenza ai sensi dell'art. 91 c.p.c. laddove le parti espressamente lo richiedano, mentre in mancanza di una richiesta esplicita in tal senso il giudice ha l'obbligo di compensare le spese del processo.

La pronuncia in questione ha affermato che qualora, nel corso del giudizio di legittimità, le parti definiscano la controversia con un accordo convenzionale, la Corte deve dichiarare cessata la materia del contendere con conseguente venir meno dell'efficacia della sentenza impugnata, non essendo inquadrabile la situazione in una delle tipologie di decisione indicate dagli artt. 382, comma 3, 383 e 384 c.p.c. e non potendosi configurare un disinteresse sopravvenuto delle parti per la decisione sul ricorso e, quindi, un'inammissibilità sopravvenuta del ricorso stesso (Cass. S.U., n. 8980/2018; Cass. III, n. 30728/2019; Cass. IV, n. 6442/2020; in senso contrario, v. Cass. I, n. 3662/2020).

Si è rilevato come, con riguardo al procedimento cautelare, a partire da questa pronuncia delle Sezioni Unite, si può ricavare il principio che, laddove intervenga una pronuncia che dichiari la cessazione della materia del contendere, la domanda cautelare potrà essere riproposta entro limiti molto ristretti, dato il passaggio in giudicato della pronuncia di dichiarazione della cessazione della materia del contendere in virtù della sua natura di merito; con riferimento alle spese del procedimento cautelare, dalla pronuncia in questione si ricava la considerazione che, in caso di cessazione della materia del contendere, il giudice deve provvedere alla compensazione integrale di esse, oppure, solo se le parti lo chiedano, oppure se vi sia contestazione tra loro, secondo il criterio della soccombenza virtuale. Un'ulteriore conclusione ricavata dalla pronuncia in questione è che il giudice della cautela può regolare le spese di lite del procedimento cautelare anche al di fuori delle ipotesi rigorosamente disciplinate dall'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. e 669-octies, comma 7, c.p.c. che, di conseguenza, non possono essere ritenute un elenco tassativo dei casi di regolamentazione delle spese, emergendone, quantomeno, un altro nell'ipotesi di cessazione della materia del contendere (v., amplius, Morotti, 548).

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