Osservazioni
I controlli difensivi in senso stretto: il panorama normativo e giurisprudenziale
La sentenza in commento si colloca pienamente nel solco delle recenti pronunce con cui la Cassazione è andata precisando i contorni della figura dei controlli a distanza, oggetto di interpretazioni variegate nel corso dell'ultimo ventennio, d'un recente intervento normativo che ha proceduto al restyling dell'art. 4 Stat. Lav. e, da ultimo, di talune pronunce di legittimità che ne hanno precisato l'odierna fisionomia.
Come si è già avuto modo di osservare in altro commento (1), la versione previgente dell'art. 4 Stat. Lav. era di per sé piuttosto chiara. Il comma 1 esprimeva un assoluto divieto all'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Il comma 2 legittimava, previo accordo sindacale o dietro autorizzazione amministrativa, l'installazione di impianti e di apparecchiature di controllo, richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, «ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». Si tratta di quei controlli che vengono comunemente denominati controlli indiretti o controlli preterintenzionali.
La norma contemplava, in sostanza, due livelli di protezione della sfera privata del lavoratore: uno pieno, mediante la previsione del divieto assoluto di uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori non sorretto da ragioni inerenti all'impresa (ossia, il cd. controllo fine a se stesso); l'altro affievolito, ove le ragioni del controllo fossero state riconducibili ad esigenze oggettive dell'impresa, ferma restando l'attuazione del controllo (indiretto o preterintenzionale) con l'osservanza di determinate procedure di garanzia (l'art. 4, comma 2, consentiva, previo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa).
Accanto a queste due tipologie di controllo, basate su un solido riscontro normativo, la giurisprudenza ha nel tempo tratteggiato una terza categoria, quella dei c.d. controlli difensivi, tali in quanto rivolti “esclusivamente” ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori.
Questa categoria, forgiata a partire dall'assunto che le disposizioni dello Statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di controllare, direttamente o mediante la sua organizzazione gerarchica, l'adempimento delle prestazioni cui i lavoratori sono tenuti e, così, di accertare eventuali mancanze specifiche dei dipendenti medesimi, già commesse o in corso di esecuzione [Cass., n. 3039/2002], ha dato luogo ad una divaricazione giurisprudenziale in ordine al fatto che fossero anche ad essa applicabili i limiti e le condizioni previste dall'art. 4 St. Lav. previgente.
La circostanza, inizialmente esclusa [Cass., n. 4746/2002], trovò successiva conforme in altre pronunce, che consacrarono il principio di diritto che ammetteva l'inapplicabilità delle garanzie dello Statuto per soddisfare le finalità di “tutela del patrimonio aziendale”, ma solo a condizione che «non ne derivi anche la possibilità del controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori» [cfr., in questi termini, ex multis, Cass. n. 15892/2007; Cass., n. 4375/2010; Cass. 6498/2011; Cass., 2722/2012; Cass., n. 22662/2016].
Il dibattito trovò successivo riscontro allorché la Cassazione, con una serie di pronunce adottate all'esito della medesima “udienza tematica”, ha ricostruito i suoi punti d'approdo in termini antitetici [cfr. Cass., n. 25732/2021 e Cass., n. 32760/2021].
All'esito delle modifiche introdotte dall'art. 23, d.lgs. n. 151/2015, la questione di maggior rilievo era rappresentata dal dubbio se i controlli difensivi fossero sopravvissuti al nuovo testo normativo. La versione vigente dell'art. 4, comma 1, prevede infatti che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati non solo per «esigenze organizzative e produttive» e «per la sicurezza del lavoro», ma anche «per la tutela del patrimonio aziendale». Quest'ultima categoria pare rintracciare e offrire una disciplina anche ai c.d. controlli difensivi, da intendersi subordinati al regime autorizzatorio prescritto per i controlli preterintenzionali ed utilizzabili alle condizioni di cui alla regola forgiata ex novo dal successivo comma 3: «le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».
Ad onta dell'interpretazione letterale della disposizione novellata, la sopravvivenza della figura era già stata affermata dalla Corte di cassazione, la quale aveva enucleato per l'occasione una nuova distinzione, tratta implicitamente dalla disposizione in commento. Era stato infatti tracciato un confine tra i «controlli difensivi in senso lato», tali in quanto «riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro e che devono necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell'art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti», e i «controlli difensivi in senso stretto», ossia quelli «diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro» [Cass., n. 25732/2021]. Questi ultimi, pur collocandosi al di fuori del perimetro delineato dall'art. 4 St. Lav., potranno essere legittimi solo se attuati ex post, «ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto».
Queste acquisizioni, tuttavia, ponevano problemi di non poco conto sul pianto pratico. Alla dubbia configurazione di una categoria cui la legge non fa alcun esplicito riferimento, la Cassazione richiamata abbinava concreti problemi di carattere probatorio, atteso che l'utilizzabilità dei dati raccolti sarebbe stata inevitabilmente condizionata dalla preventiva dimostrazione dei contorni entro cui era emerso il “fondato sospetto”. Al contempo, era già stata posta in luce la necessità di dimostrare che i dati erano stati raccolti solo successivamente a questo sospetto, dovendosi escludere l'impiego di dati acquisiti in precedenza e oggetto, successivamente, solo di un esame critico (2).
La nozione di «fondato sospetto» e l'inutilizzabilità delle prove illecitamente raccolte
La pronuncia in commento si colloca esattamente nel solco di questo dibattito controverso, non ponendo in discussione la cittadinanza dei controlli in senso stretto né la loro estraneità al sistema di cui all'art. 4 St. Lav., ma facendo tesoro delle indicazioni operative essenziali fornite all'interprete dalla Corte di cassazione per risolvere questi dubbi e scrutinare, nelle vicende concrete, l'operato datoriale.
Con una recente pronuncia (3), infatti, la Corte di cassazione ha dato una definizione del “fondato sospetto”, elevato a presupposto fondamentale dei controlli in esame. In mancanza d'un addentellato normativo che ne consenta una ricostruzione letterale, la sua nozione è stata delineata in chiave teleologica, mercé la presenza di elementi concreti, anteriori al controllo, che suggeriscano in termini non ipotetici ma (almeno) con verosimiglianza – il sospetto deve essere “fondato” – che il lavoratore stia ponendo in essere un determinato comportamento illecito. In chiave processuale, il datore di lavoro deve perciò essere in grado di ricostruire, in via documentale o mediante prove costituende, il momento in cui ha avuto la notizia che ha fatto sorgere il sospetto, la sua fonte e le circostanze concrete entro cui ha eseguito gli approfondimenti necessari per attribuire fondatezza allo stesso sospetto.
Al contempo, la Suprema Corte ha provveduto anche all'individuazione dei parametri utili a valutare le concrete modalità con cui è stato esercitato il controllo. In particolare, al fine di garantire che il controllo sia eseguito non già “a tappeto”, ma che sia “mirato”, è stata chiarita la centralità del “principio di proporzionalità” nella valutazione dell'operato del datore di lavoro: egli potrà sì procedere ai controlli, ma dovrà circoscrivere le relative modalità a quanto necessario a conseguire lo scopo prefissato, evitando illegittime misure superflue e, quindi, eccessive, pena una valutazione negativa all'esito del giudizio di bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco.
Completando la propria opera di ricostruzione sistematica, la Suprema Corte ha segnalato le conseguenze in caso d'illeceità dei controlli eseguiti. In tal senso, inserendosi nel solo d'un lungo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, la Corte ha aderito alla tesi che, pur in mancanza d'un'espressa sanzione di tal fatta nel codice di procedura civile, attribuisce rilievo alla categoria dell'utilizzabilità nel processo civile e ne rimette la valutazione alla verifica che l'acquisizione della prova non abbia determinato la violazione di principi costituzionali (4).
Al lume di questa ricostruzione, la sentenza in commento – con ampia e apprezzabile motivazione – si colloca nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, di cui recepisce l'insegnamento calandolo perfettamente nel caso concreto.
Infatti, al di là dei profili propri della fattispecie, entro cui l'inutilizzabilità dei controlli poteva essere affermata già in base alle stesse disposizioni di fonte collettiva e regolamentare applicabili inter partes, è pregevole l'analisi che ha condotto a fotografare una vicenda esemplare della distinzione tra “attività d'acquisizione dei dati” e “attività d'esame dei dati”. L'actio finium regundorum fra questi due poli è invero determinante per verificare la ricorrenza del “fondato sospetto”, ossia del presupposto facoltizzante l'avvio dei controlli difensivi in senso stretto (e non già l'esame delle risultanze che questi hanno consentito d'acquisire).
In quest'ottica, la pronuncia è pienamente condivisibile, esattamente come meritano adesione le conseguenze che essa ne ha tratto sia sul versante processuale, sanzionando con l'inutilizzabilità le videoriprese eseguite, sia sul versante sostanziale, rispetto al vizio del licenziamento adottato.
In particolare, nella misura in cui la prova del fatto contestato non può essere fornita mediante le videoriprese e non viene fornita aliunde, è senz'altro congrua la sussunzione della fattispecie tra le ipotesi in cui «non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato», disciplinata dall'art. 18, comma 4, Stat. Lav..
Va perciò condivisa anche questa soluzione adottata dal Tribunale di Imperia, la cui pronuncia costituisce senz'altro un utile consolidamento della giurisprudenza recentemente intervenuta in materia.