Decreto legislativo - 31/03/2023 - n. 36 art. 209 - Modifiche al codice del processo amministrativo di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 .

Marco Giustiniani
Paolo Fontana
Alessandro Paccione
Codice legge fallimentare

Artt. 3, 32, 76, 204


1. Al codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) l'articolo 120 è sostituito dal seguente:

«Art. 120 - (Disposizioni specifiche ai giudizi di cui all'articolo 119, comma 1, lettera a)) - 1. Gli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinate dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge 21 giugno 2022, n. 78, comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative a esse connesse, i quali siano relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione in materia di contratti pubblici, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente. In tutti gli atti di parte e in tutti i provvedimenti del giudice è indicato il codice identificativo di gara (CIG); nel caso di mancata indicazione il giudice procede in ogni caso e anche d'ufficio, su segnalazione della segreteria, ai sensi dell'articolo 86, comma 1.

2. Per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale, e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, sono proposti nel termine di trenta giorni. Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 90 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell'articolo 36, commi 1 e 2, del medesimo codice. Per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara che siano autonomamente lesivi, il termine decorre dalla pubblicazione di cui agli articoli 84 e 85 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022. Il ricorso incidentale è disciplinato dall'articolo 42.

3. Nel caso in cui sia mancata la pubblicità del bando, il ricorso è comunque proposto entro trenta giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione o della determinazione di procedere all'affidamento in house al soggetto partecipato o controllato. Per la decorrenza del termine l'avviso deve contenere la motivazione dell'atto di aggiudicazione e della scelta di affidare il contratto senza pubblicazione del bando e l'indicazione del sito dove sono visionabili gli atti e i documenti presupposti. Se sono omessi gli avvisi o le informazioni di cui al presente comma oppure se essi non sono conformi alle prescrizioni ivi indicate, il ricorso può essere proposto non oltre sei mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto comunicata ai sensi del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022.

4. Se la stazione appaltante o l'ente concedente è rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, il ricorso è notificato anche presso la sede dell'Amministrazione, ai soli fini della operatività della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto.

5. Se le parti richiedono congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, il giudizio è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo, dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, è comunque definito con sentenza in forma semplificata a una udienza fissata d'ufficio, da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente e nel rispetto dei termini per il deposito dei documenti e delle memorie. Della data di udienza è dato immediato avviso alle parti a cura della segreteria, a mezzo posta elettronica certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito è rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, a una udienza da tenersi non oltre trenta giorni.

6. In caso di istanza cautelare, all'esito dell'udienza in camera di consiglio e anche in caso di rigetto dell'istanza, il giudice provvede ai necessari approfondimenti istruttori.

7. I nuovi atti attinenti alla medesima procedura di gara sono impugnati con ricorso per motivi aggiunti, senza pagamento del contributo unificato.

8. Salvo quanto previsto dal presente articolo e dagli articoli da 121 a 125, si applica l'articolo 119.

9. Anche se dalla decisione sulla domanda cautelare non derivino effetti irreversibili, il collegio può subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento di tale valore. La durata della misura subordinata alla cauzione è indicata nell'ordinanza. Resta fermo quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119.

10. Nella decisione cautelare il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione.

11. Il giudice deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro quindici giorni dall'udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall'udienza.

12. Le disposizioni dei commi 1, secondo periodo, 5, 6, 8, 9, 10 e 11 si applicano anche innanzi al Consiglio di Stato nel giudizio di appello proposto avverso la sentenza o avverso l'ordinanza cautelare, e nei giudizi di revocazione o opposizione di terzo. La parte può proporre appello avverso il dispositivo per ottenerne la sospensione prima della pubblicazione della sentenza.

13. Nel caso di presentazione di offerte per più lotti l'impugnazione si propone con ricorso cumulativo solo se sono dedotti identici motivi di ricorso avverso lo stesso atto.»;

b) l'articolo 121 è sostituito dal seguente:

«Art. 121 - (Inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni) - 1. Il giudice che annulla l'aggiudicazione o gli affidamenti senza bando di cui al comma 2 dell'articolo 120 dichiara l'inefficacia del contratto nei seguenti casi:

a) se l'aggiudicazione è avvenuta senza pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara [nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana,] quando tale pubblicazione è prescritta dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

b) se l'aggiudicazione è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l'omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara [nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana,] quando tale pubblicazione è prescritta dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

c) se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall'articolo 18 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, qualora tale violazione abbia impedito al ricorrente di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento;

d) se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione, ai sensi dell'articolo 18, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento.

2. Il giudice precisa, in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante o dell'ente concedente e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o se essa opera in via retroattiva.

3. Il contratto resta efficace, anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1, qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l'altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall'esecutore attuale. Gli interessi economici sono presi in considerazione come esigenze imperative solo quando l'inefficacia del contratto condurrebbe a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all'eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara. Non costituiscono esigenze imperative gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono fra l'altro i costi derivanti dal ritardo nell'esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell'operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia.

4. A cura della segreteria, le sentenze che provvedono in applicazione del comma 3 sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei ministri -Dipartimento per le politiche europee.

5. Quando, nonostante le violazioni, il contratto è considerato efficace o l'inefficacia è temporalmente limitata, si applicano le sanzioni alternative di cui all'articolo 123.

6. La inefficacia del contratto prevista dal comma 1, lettere a) e b), non si applica quando la stazione appaltante o l'ente concedente ha seguito la seguente procedura:

a) con atto motivato anteriore all'avvio della procedura di affidamento ha dichiarato che la procedura senza pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara [nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea ovvero nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana] è consentita dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

b) rispettivamente per i contratti di rilevanza europea e per quelli sotto soglia, ha pubblicato [nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea oppure nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana] un avviso volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell'articolo 86 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, in cui manifesta l'intenzione di concludere il contratto;

c) il contratto non è stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni decorrenti dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell'avviso di cui alla lettera b).»1;

c) all'articolo 123, comma 1, alinea, le parole: «di cui all'articolo 121, comma 4» sono sostituite dalle seguenti: «di cui all'articolo 121, comma 5»;

d) l'articolo 124 è sostituito dal seguente:

«Art. 124 - (Tutela in forma specifica e per equivalente) - 1. L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e di stipulare il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se non dichiara l'inefficacia del contratto, il giudice dispone il risarcimento per equivalente del danno subito e provato. Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo.

2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile.

3. Ai sensi dell'articolo 34, comma 4, il giudice individua i criteri di liquidazione del danno e assegna un termine entro il quale la parte danneggiante deve formulare una proposta risarcitoria. La mancata formulazione della proposta nel termine assegnato o la significativa differenza tra l'importo indicato nella proposta e quello liquidato nella sentenza resa sull'eventuale giudizio di ottemperanza costituiscono elementi valutativi ai fini della regolamentazione delle spese di lite in tale giudizio, fatto salvo quanto disposto dall'articolo 91, primo comma, del codice di procedura civile.».

Inquadramento

L'art. 209 del d.lgs. n. 36/2023 riscrive gli artt. 120,121,123 e 124 del Codice del processo amministrativo (di seguito anche “c.p.a”) di cui al d.lgs. n. 104/2010, contenenti, per la maggior parte, la disciplina del rito processuale dei contratti pubblici.

Si tratta, nello specifico, di un intervento che riguarda norme extra-codicistiche, ma di diretta afferenza alla materia poiché gli articoli emendati regolano le controversie in materia di contratti pubblici.

Come si vedrà in seguito, l'art. 209 ha, in primo luogo, apportato degli aggiornamenti all'art. 120 c.p.a., sostituendo i vecchi riferimenti al d.lgs. n. 163/2006 con riferimenti aggiornati al d.lgs. n. 36/2023 e aggiungendo le concessioni come oggetto di applicazione del rito in commento, che ha chiarito una questione profondamente dibattuta in giurisprudenza sul punto. Sono state altresì introdotte ulteriori novità in materia di applicazione del cosiddetto rito “a doppia specialità” anche per gli atti che deliberano l'affidamento di una commessa ad una società in house; nell'inclusione di tutti i provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione in materia di contratti pubblici nell'ambito di applicazione del rito in questione e sul tema del momento di decorrenza del termine di impugnazione.

Agli artt. 121 e 123 sono state apportate delle modifiche meramente formali.

L'art. 124, invece, è stato modificato rispetto alla previgente disciplina, estendendo la cognizione del giudice amministrativo alle azioni risarcitorie e all'azione di rivalsa della stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che ha concorso a determinare un esito illegittimo della gara e adattando il meccanismo di liquidazione del danno al giudizio in materia di appalti.

Scopo di tale novella è incrementare la tutela risarcitoria per equivalente e favorire la rapida definizione del tema risarcitorio nell'ambito dell'unico giudizio di cognizione, prevenendo la necessità di ricorrere al giudizio di ottemperanza. Come chiarito dalla Relazione illustrativa del Consiglio di Stato, le innovazioni introdotte dall'art. 124 rappresentano un segnale dell'importanza che assumerà in futuro la tutela risarcitoria per equivalente.

Di seguito si illustreranno le modifiche introdotte dall'art. 209 commentando singolarmente gli artt. 121,122,123 e 124 del c.p.a. Per completezza, nell'ottica di fornire una panoramica completa del processo nell'ambito disciplinare di interesse, verranno altresì commentati gli articoli 125 e 133, relativi rispettivamente alle controversie relative ad infrastrutture strategiche e alle materie in cui ricade la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il decreto correttivo (D. Lgs. 209/2024)

Il Decreto correttivo interviene a modificare l’art. 209 del Codice, nella parte in cui sono disciplinati i casi di inefficacia del contratto aggiudicato a seguito di gravi viola­zioni commesse dalla stazione appaltante (art. 121 c.p.a.). In particolare, la modifica si limita ad abrogare i riferimenti della disposizione processuale alla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, rispetto alle ipotesi di inefficacia dovuta a mancata pubblicazione del bando o dell’avviso (art. 121, comma 1, c.p.a.), nonché alla speculare ipotesi di disapplicazione della sanzione dell’inefficacia per motivata mancata pubblicazione del bando o dell’avviso (art. 121, comma 6, c.p.a.). Si tratta di un intervento fina­lizzato meramente ad allineare la disciplina processuale con le disposizioni interne al Codice.

Art. 120 c.p.a.: un inquadramento

Il rito accelerato speciale (rectius “super-speciale”) relativo alle controversie in materia di contratti pubblici trova oggi la sua compiuta disciplina negli artt. 119,120,121,122,123,124 del c.p.a.

Quello che oggi appare come un processo giunto – quantomeno apparentemente – al suo ultimo stadio di evoluzione costituisce l'esito di un travagliato processo evolutivo. Si consideri, sul punto, la successione di riti processuali – e delle conseguenti riforme – di seguito elencata per ragioni di completezza:

i) le prime norme acceleratorie sui contenziosi in materia di opere pubbliche risalenti all'art. 31-bis della l. n. 109/1994;

ii) il rito speciale introdotto dall'art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67;

iii) l'ulteriore rito speciale (di impostazione però più generale) previsto dall'art. 23-bis della l. n. 1034/1971, come introdotto dall'art. 4 della l. n. 205/2000, che trovava la propria ratio ispiratrice nell'esigenza di evitare che l'azione amministrativa, in taluni settori particolarmente sensibili, rimanesse a lungo sub iudice, in guisa che la durata dei processi non potesse arrecare pregiudizio agli interessi pubblici perseguiti dai provvedimenti gravati da impugnazione in sede giurisdizionale;

iv) il rito di cui al d.lgs. n. 53/2010 (di recepimento della Direttiva ricorsi n. 2007/66/CE), che ha vissuto di vita breve restando in vigore solo dal 27 aprile 2010 al 15 settembre dello stesso anno, ma che ha segnato profondamente il processo appalti (intervenendo sul testo del d.lgs. n. 163/2006, innestando anche una specifica fase pre-contenziosa) con un salto in avanti in parte confermato dal Codice del processo amministrativo, e che in parte si ritrova nell'ultima riforma del d.l. n. 90/2014;

v) le specifiche norme processuali contenute agli artt. 119 e 120 ss. c.p.a. come modificato dai due correttivi di cui al d.lgs. n. 195/2011, e al d.lgs. n. 160/2012;

vi) le sostanziose novità introdotte dall'art. 40 del d.l. n. 90/2014 (come modificato dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114), intervenuto in modo sostanziale sulle richiamate disposizioni di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a.;

vii) la riforma operata con l'art. 204 del d.lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici previgente) che ha – inter alia – introdotto un nuovo sub-rito per le impugnazioni delle ammissioni e delle esclusioni dalle gare;

viii) la “riforma della riforma” operata con il d.l. n. 32/2019 (c.d. 'decreto Sblocca-cantieri), convertito con la l. n. 55/2019, che ha abrogato il rito super-accelerato introdotto soltanto tre anni prima;

ix) l'ulteriore “riforma della riforma” recata dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), così come convertito dalla l. n. 120/2020, che ha innovato il diritto dei contratti pubblici anche sotto il profilo processuale, sia con novelle “temporanee” sia con modifiche permanenti al codice processuale;

x) da ultimo, la riforma operata con l'art. 209 del d.lgs. n. 36/2023 (nuovo Codice dei contratti pubblici) che, come anticipato in Premessa, ha modificato gli artt. 120, 121 e 124 in termini che saranno meglio chiariti nel prosieguo della trattazione.

La continua spinta riformistica degli ultimi venti anni, che ha reso il settore una sorta di unicum nel panorama processuale italiano, è invero in buona parte dovuta allo stretto condizionamento discendente dal diritto dell'Unione europea. Si pensi alle tre successive c.d. ‘direttive ricorsi' che si sono susseguite a partire dal 1989, al fine di garantire – mediante l'introduzione di norme a valenza processuale – una tutela effettiva contro le violazioni inerenti le procedure di affidamento di appalti pubblici di rilevanza comunitaria, nella direzione di un mercato comune delle commesse pubbliche.

Il diritto processuale dei contratti pubblici finisce dunque per rappresentare – un po' per ragioni lato sensu emergenziali, un po' per l'elevato numero di giudizi che si registrano – un banco di prova per il legislatore, anche al fine di ‘esplorare' nuove soluzioni: una sorta di testa di ponte o avamposto di sperimentazione per nuove tecniche di tutela processuale che sovente vengono poi estese all'intero processo amministrativo. La linea di tendenza che deve registrarsi è quella di voler creare una duplice versione del medesimo giudice amministrativo a seconda delle cause sulle quali sia chiamato a pronunciarsi: un giudice amministrativo 'ordinario' e un giudice amministrativo in funzione di giudice degli appalti, che giudica secondo regole peculiari. In questo senso, si è parlato anche di una disciplina c.d. ‘a doppia specialità', per cui al rito in esame si applicano – per tutto quanto non espressamente previsto in funzione derogatoria dagli artt. 120 e ss. c.p.a. – le regole dettate dall'art. 119 c.p.a. nonché, in via residuale, la disciplina vigente in materia di rito ordinario (Giustiniani, Fontana).

Il massimo distacco tra i due giudici amministrativi è stato segnato dal d.l. n. 90/2014 e successivamente rimarcato dal d.lgs. n. 50/2016, con i quali sono state introdotti:

i) un ulteriore sub-rito processuale da applicarsi ai giudizi di impugnazione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione dalle gare, ora tuttavia abrogato ad opera del d.l. n. 32/2019, convertito con la legge n. 55/2019;

ii) una serie di disposizioni finalizzate ad accelerare la celebrazione dell'udienza di merito e la conseguente definizione del giudizio;

iii) disposizioni che intervengono sulla fase cautelare dei giudizi;

iv) disposizioni inerenti tipologia e termini di formazione e pubblicazione delle sentenze.

A titolo di considerazione generale è possibile, sin d'ora, affermare che ogni soluzione che sia diretta a velocizzare la conclusione dei processi (anche passando attraverso una progressiva separazione dei riti) deve sicuramente essere accolta in modo positivo. Ciò con l'ovvio limite – tuttavia – che non si alteri quello spesso instabile equilibrio che si crea tra una sentenza veloce e una sentenza giusta. Infatti, se per un verso è vero che una decisione tardiva è di per sé stessa ingiusta (in quanto rischia di essere inutiliter data), per altro verso è altrettanto vero che una corsa processuale spinta dalla sola esigenza di rendere una decisione in tempi ristretti potrebbe non garantire quell'approfondimento necessario della questione che sta alla base, appunto, di una sentenza giusta (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici).

Ambito di applicazione del processo sui contratti pubblici

L'applicabilità alle “procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”

Con riferimento all'ambito applicativo del c.d. rito appalti, occorre considerare che l'art. 133, comma 1, lett.e), c.p.a., devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie “relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell'aggiudicazione ed alle sanzioni alternative”.

Sul piano soggettivo, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prescinde dalla natura pubblica o privata della stazione appaltante, operando quindi anche nei casi in cui le procedure ad evidenza pubblica siano poste in essere da soggetti privati, purché questi ultimi siano comunque tenuti (per legge e non già per auto-vincolo) all'applicazione della disciplina sull'evidenza pubblica.

Ai fini del riparto di giurisdizione, pertanto, è irrilevante la questione della natura giuridica del soggetto che pone in essere la procedura di gara, in quanto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene condizionata alla sola sottoposizione del medesimo soggetto all'osservanza del Codice dei contratti pubblici. Si opta, dunque, anche in questo campo, per una nozione allargata di P.A., idonea a comprendere, con riferimento ad attività soggette a regime pubblicistico, anche soggetti formalmente privati: questi ultimi, laddove operanti ex lege alla stregua di P.A. aggiudicatrici, vengono qualificati quali pubbliche amministrazioni in senso soggettivo (Giustiniani, Fontana).

Sul piano oggettivo, l'art. 133, comma 1, lett. a ), c.p.a., si riferisce a tutte le procedure di affidamento di contratti pubblici.

A parere di chi scrive, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie relative alla mancata stipula del contratto – da parte dell'amministrazione – con il soggetto individuato quale aggiudicatario.

L'espressione “procedure di affidamento”, infatti, evoca un concetto più ampio della semplice procedura di aggiudicazione, atteso che il vero e proprio affidamento al contraente privato del lavoro, della fornitura o del servizio messo a gara si realizza nel momento in cui il contratto viene effettivamente stipulato.

Soltanto con la stipula del contratto sorge in capo all'operatore economico l'obbligo privatistico di procedere all'esecuzione delle prestazioni dedotte in obbligazione.

In tale contesto, la fase successiva alla stipula del contratto rientra quindi nella giurisdizione del giudice ordinario, in base all'ordinario criterio di riparto fondato sulla consistenza della posizione soggettiva.

Devono altresì essere ricomprese nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie risarcitorie sorte nell'ambito di procedure di affidamento di contratti pubblici, nonché le controversie relative all'inefficacia del contratto eventualmente consequenziale all'annullamento dell'aggiudicazione. Ciò, del resto, trova anche conferma nella recente novella – ad opera dell'art. 209 del nuovo Codice dei contratti pubblici – dell'art. 124 c.p.a., il quale ora espressamente estende l'ambito di cognizione del giudice amministrativo alle azioni risarcitorie e di rivalsa proposte dalle stazioni appaltanti nei confronti degli operatori economici che, con un comportamento illecito, abbiano concorso a determinare un esito della gara illegittimo.

L'art. 119 c.p.a., lett. a), c.p.a., prevede che il “rito abbreviato comune a determinate materie” si applichi anche ai giudizi relativi a “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, salvo quanto previsto dagli articoli 120 e seguenti”.

Il successivo art. 120, comma 1, c.p.a., nella versione oggetto dell'ultima riforma, precisa ulteriormente che sono assoggettate al rito speciale in materia di contratti pubblici le controversie inerenti “gli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinate dal codice dei contratti pubblici, comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrativo a esse connesse, i quali siano relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione in materia di contratti pubblici (...)”.

In passato si discuteva se tale formula – utilizzata dal legislatore per perimetrare l'ambito di applicazione del rito-appalti – dovesse ritenersi comprensiva unicamente delle procedure finalizzate all'aggiudicazione di pubblici appalti ovvero, al contrario, anche alle gare per l'affidamento di concessioni.

La questione è oggi risolta – in maniera definitiva – dal Legislatore che, in sede di modifica dell'art. 120 c.p.a. nel contesto della riforma generale della materia dei contratti pubblici del 2023, ha espressamente disposto che il rito speciale in esame trovi applicazione in relazione agli atti delle procedure di affidamento e di concessione. Di fatto, la novella ha recepito le conclusioni raggiunte sul tema dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, già nel 2016, aveva chiarito come il rito speciale in esame dovesse trovare applicazione anche con riferimento alle concessioni (Cons. St., Ad. Plen., n. 22/2016). Con la pronuncia in questione, infatti, era stato definitivamente riconosciuto che “il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a. trova applicazione anche nelle controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di servizi in concessione”.

Ciò in quanto, sulla scorta di una doverosa interpretazione letterale della disciplina di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a., l'Adunanza Plenaria aveva rilevato come l'espressione “procedure di affidamento” fosse stata oggetto di una definizione puntuale da parte del legislatore all'art. 3, lett. rrr), d.lgs. n. 50/2016, secondo cui sono “procedure di affidamento” ai sensi e per gli effetti della disciplina sui contratti pubblici quelle inerenti “l'affidamento di lavori, servizi o forniture o incarichi di progettazione mediante appalto; l'affidamento di lavori o servizi mediante concessione; l'affidamento di concorsi di progettazione e di concorsi di idee”.

In tale contesto, benché l'ultimo intervento riformatore abbia concettualmente distinto procedure di affidamento da procedure di concessione nel corpo dell'art. 120 c.p.a. evidentemente ritenendole l'una diversa dall'altra, il risultato è il medesimo e, per l'effetto, sono definitivamente fugati eventuali residui dubbi in ordine all'applicabilità del rito de quo alle procedure di affidamento di concessioni.

La giurisprudenza più recente si è, altresì, orientata nel senso di ritenere il rito processuale accelerato degli appalti pubblici applicabile anche alle controversie aventi ad oggetto provvedimenti di revoca e/o annullamento d'ufficio di provvedimenti concernenti gare pubbliche.

È stato infatti chiarito che “l'atto di annullamento – in ragione di asseriti vizi di legittimità, ed in presenza di ragioni di interesse pubblico attuali e concrete – costituisce espressione di un potere di riesame avente valenza ‘uguale e contraria' rispetto a quello di ‘amministrazione attiva' che si è concretato con l'aggiudicazione definitiva”, con conseguente pacifica applicabilità della dimidiazione dei termini processuali di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., e 120, comma 1, c.p.a., che si riferiscono rispettivamente ai “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture” e agli “atti delle procedure di affidamento (...) relativi a pubblici lavori, servizi o forniture” (T.A.R. Lombardia (Milano) I, 2 luglio 2018, n. 1637).

Il provvedimento di auto-annullamento dell'aggiudicazione, invero, è senz'altro “concernente” la procedura di gara, inserendosi indubitabilmente – sia pure in guisa caducatoria, con efficacia ex tunc – in una “procedura di affidamento”, quale ‘contrarius actus' rispetto al provvedimento di aggiudicazione.

Anche dal punto di vista funzionale, la potestà di riesame in autotutela ha ad oggetto fatti, atti e vizi che affliggono la procedura, ossia le medesime questioni che, nel caso di ricorso avverso gli atti di gara, sarebbero rimesse al giudice amministrativo in un processo governato dal rito accelerato exartt. 119 e 120 c.p.a.

A fronte della omogeneità delle questioni sollevabili dinanzi al giudice – direttamente ovvero attraverso il ‘filtro' del provvedimento in autotutela dalla P.A. – appare ragionevole assicurare altresì l'uniformità delle relative regole processuali.

Diversamente opinando, “si condizionerebbe la applicazione dello speciale rito in materia di appalti al mero ‘accidente' costituito dalla esistenza di un procedimento di riesame, e si determinerebbe altresì – a fronte di atti e situazioni giuridiche affatto omogenee – una irragionevole disparità di trattamento tra:

– la posizione dei soggetti ab origine e direttamente lesi dagli atti della procedura e dal provvedimento di aggiudicazione, in quanto non collocati utilmente in graduatoria, tutelabile nelle forme e nei modi di cui all'art. 120 c.p.a.; – la posizione dei soggetti che, inizialmente aggiudicatari, risultino lesi dai successivi atti di ritiro e di riesame incidenti sulla medesima procedura, esaminabile di contro in un giudizio governato dal ‘rito ordinario' (per quel che qui interessa, non assoggettato alla dimidiazione dei termini processuali, ivi compresi quelli per il deposito delle memorie conclusionali e delle repliche)” (T.A.R. Lombardia (Milano) I, n. 1637/2018).

Tale ricostruzione è ampiamente condivisa dalla giurisprudenza, che già in precedenza aveva avuto modo di precisare che “il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a. si applica anche allorché oggetto di gravame sia la revoca dell'aggiudicazione, atteso che anche in tale fattispecie emergono le esigenze di celerità connesse al rito, il quale, peraltro, se comprende le procedure di affidamento dei contratti pubblici, deve logicamente essere applicato anche al contrarius actus che ne dispone la revoca o l'annullamento (ex multis: Cons. St. V, n. 3025/2018; T.A.R. Lazio (Roma) n. 5273/2015)” (T.A.R. Lombardia (Milano) I, n. 1637/2018).

In estrema sintesi, sono soggetti al rito in questione tutti gli atti e provvedimenti assunti dalle stazioni appaltanti nel corso di procedure di affidamento di commesse pubbliche, siano esse qualificabili in termini di appalto o di concessione, ivi compresi eventuali provvedimenti emessi all'esito di procedimenti di secondo grado e aventi ad oggetto la revoca e/o l'annullamento d'ufficio di provvedimenti emessi nel contesto di procedure ad evidenza pubblica.

A tale orientamento, ancorché maggioritario, se ne contrappone uno di segno opposto che, sulla scorta di una interpretazione restrittiva del rito di cui all'art. 120 c.p.a., ritiene sottratti all'ambito di applicazione del regime speciale i provvedimenti di secondo grado (cfr. Cons. St. III, n. 1352/2013; T.A.R. Sardegna, I, n. 516/2020). Al di là del dato normativo letterale (che effettivamente non include i provvedimenti emessi in autotutela), appare scarsamente intellegibile la ragione di differenziare il regime processuale di provvedimenti di secondo grado rispetto a quelli su cui i medesimi intervengono.

L'applicabilità agli affidamenti “in house”

In passato, si è anche discusso in ordine all'applicabilità o meno del rito ‘a doppia specialità' in materia di contratti pubblici a contenziosi inerenti agli affidamenti diretti di pubblici lavori, servizi e forniture effettuati in favore di enti in house . La giurisprudenza maggioritaria si è orientata in senso favorevole all'applicazione del rito agli affidamenti a enti in house , con conseguente dimezzamento dei termini per proporre impugnazione (ex multis: T.A.R. Lombardia (Brescia) I, 28 marzo 2019 n. 117; Cons. St. III, n. 326/2018; Cons. St. V, n. 2533/2017).

In adesione al prevalente indirizzo pretorio, in sede di modifica dell'art. 120 c.p.a. ad opera dell'art. 209 del nuovo Codice dei contratti pubblici, il Legislatore ha testualmente risolto la questione interpretativa specificando che “nel caso in cui sia mancata la pubblicità del bando, il ricorso è comunque proposto entro 30 giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione o della determinazione di procedere all'affidamento in house al soggetto partecipato o controllato” (si veda art. 120, comma 3). Nello scenario tratteggiato, l'applicazione del termine dimezzato di trenta giorni per la proposizione del ricorso avverso le delibere di aggiudicazione di commesse a organismi in house è la conferma definitiva dell'estensione dell'ambito applicativo del rito in esame anche a siffatte tipologie di affidamenti.

In effetti, sebbene l'in house providing sia un fenomeno antitetico all'evidenza pubblica – che si traduce nell'affidamento di un servizio nell'ambito di una relazione qualificabile alla stregua di un rapporto interorganico, per il quale non vi è il ricorso alla gara – a ben vedere ciò non può comportare, sul piano processuale, l'inapplicabilità a tale modulo organizzativo del rito appalti e dei suoi termini dimidiati (Dagradi).

L'ampiezza delle formule utilizzate dal legislatore (“procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture” e “atti delle procedure di affidamento”) conduceva (e conduce tanto più ora a seguito delle ultime modifiche normative) inevitabilmente a questa conclusione. Tali formule, infatti, si incentrano sul concetto di “procedure” che, nella sua latitudine semantica, è idoneo “a racchiudere tutta l'attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo”.

Sulla scorta della riportata considerazione, anche l'affidamento diretto di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house deve ritenersi riconducibile al concetto di “procedure” utilizzato dagli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120, comma 1, c.p.a.

L'applicabilità ai provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione

Ai sensi dell'art. 120 c.p.a. allo speciale rito processuale ivi previsto sono soggetti anche i provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) “in materia di contratti pubblici”.

La versione attuale dell'art. 120 c.p.a. sul punto, all'esito della novella apportata dall'art. 209 del nuovo Codice dei contratti pubblici, è diversa rispetto all'antecedente: la formula previgente, infatti, estendeva l'applicazione del rito in esame ai provvedimenti dell'ANAC “riferiti” alle procedure di affidamento; l'attuale formulazione, invece, ne amplia il raggio applicativo alla totalità di provvedimenti dell'Autorità anticorruzione in materia di contratti pubblici.

In tale contesto, ancorché apparentemente superata dalle modifiche apportate al dato normativo, è utile dar conto del dibattito giurisprudenziale sull'estensione applicativa della locuzione “riferiti”. Tema controverso era se, in base alla richiamata formulazione, dovessero intendersi attratti nell'orbita del rito ‘a doppia specialità' – e quindi soggetti al regime processuale accelerato – tutti gli atti dell'Autorità (quali, a titolo esemplificativo, l'iscrizione nel casellario informatico o l'applicazione di sanzioni) conseguenti a provvedimenti di esclusione dalle gare adottati dalle singole stazioni appaltanti ovvero i soli atti avvinti da un rapporto di intima connessione con i provvedimenti precedentemente assunti da stazioni appaltanti nell'esercizio delle proprie funzioni. Al riguardo, la giurisprudenza maggioritaria ha sposato l'interpretazione più restrittiva, ritenendo che l'art. 120 c.p.a. trovasse applicazione limitata sostanzialmente alla sola ipotesi in cui gli atti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione fossero impugnati unitamente agli atti della procedura selettiva cui si riferivano e non anche nel caso in cui ne fossero meramente conseguenti (T.A.R. Lazio (Roma) I, 17 settembre 2018, n. 9414; T.A.R. Lazio (Roma) I, 22 dicembre 2020, n. 13878; T.A.R. Lazio I, Decreto del 3 marzo 2021, n. 845).

Nello scenario tratteggiato, la modifica apportata all'art. 120 c.p.a. pare estendere il raggio applicativo del relativo rito a tutti i provvedimenti adottati dall'ANAC in materia di contratti pubblici, determinando potenzialmente un ampliamento del regime processuale de quo non solo agli atti di iscrizione nel casellario informatico o lato sensu sanzionatori, ma anche a quegli atti che, ancorché non connessi a procedure di gara, sono comunque adottati dall'Autorità nell'esercizio delle proprie funzioni in materia di contratti pubblici (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai provvedimenti che dichiarano la decadenza della SOA).

L'improponibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica

Sotto altro profilo, l'art. 120, comma 1, c.p.a., stabilisce che “gli atti” in materia di contratti pubblici, come sopra individuati, sono impugnabili “unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente”.

Tale previsione deve essere intesa nel senso che avverso gli atti delle procedure di affidamento non è proponibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (Salomone).

Si tratta di una soluzione interpretativa rigorosamente fedele alla lettera della norma e rispondente all'esigenza di risolvere con (estrema) rapidità le controversie che riguardano le procedure di affidamento dei contratti pubblici. È del resto notorio che il ricorso straordinario, nella pratica, si rivela un rimedio adottabile nei casi in cui siano decorsi i termini per la contestazione dei provvedimenti amministrativi dinanzi all'autorità giurisdizionale.

In definitiva, quindi, la proposizione del ricorso straordinario allungherebbe notevolmente i tempi per la soluzione delle controversie, tradendo in tal modo le esigenze di celerità che contraddistinguono le controversie in materia di affidamento dei contratti pubblici (Sandulli).

Nel caso in cui venisse proposto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso un atto riferito a una procedura di gara, il ricorso sarebbe senz'altro inammissibile. La relativa inammissibilità, tuttavia, non potrebbe più essere eccepita dalla controparte dopo la trasposizione del giudizio dinanzi al giudice amministrativo. L'eccezione di inammissibilità della controparte può quindi avere ad oggetto unicamente il ricorso straordinario al Capo dello Stato e soltanto in tale sede può essere proposta.

Una volta che il ricorso straordinario sia stato trasposto in sede giurisdizionale, pertanto, l'inammissibilità del ricorso straordinario non può più essere fatta valere dalla parte interessata (T.A.R. Lazio (Roma) II, 15 marzo 2017, n. 3540).

La fase introduttiva dei giudizi: la dimidiazione dei termini per proporre impugnazione e decorrenza

La fase introduttiva dell'azione processuale in materia di contratti pubblici (e dei relativi termini) deve essere letta nell'ottica della ratio acceleratoria che caratterizza l'intero rito, volto a configurare un processo lampo, la cui durata ne esce concentrata sia rispetto al rito codicistico ordinario, sia rispetto a quello (già) speciale disciplinato dall'art. 119 c.p.a.

Sotto questo profilo, ciò che appare come l'eccezione più evidente è la dimidiazione (anche) del termine per la proposizione del ricorso introduttivo: da sessanta a trenta giorni.

Secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza, non trova poi applicazione l'aumento del termine di impugnazione previsto dall'art. 41, comma 5, c.p.a. (secondo cui “Il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di trenta giorni, se le parti o alcune di esse risiedono in altro Stato d'Europa, o di novanta giorni se risiedono fuori d'Europa”), atteso che il termine legale accelerato per l'impugnazione degli atti di gara non tollera deroghe ed è destinato a prevalere sulla disciplina generale dei termini processuali (cfr. Cons. St. IV, n. 1896 /2015; Cons. St. V, n. 4257/2021).

La legge fissa il medesimo termine di trenta giorni anche per l'introduzione del ricorso per motivi aggiunti, nonché per la proposizione del ricorso incidentale.

Sempre in punto di decorrenza del termine di impugnazione, qui risiede una delle maggiori innovazioni apportate all'impianto dell'art. 120 dalla recente riforma della materia dei contratti pubblici: la versione attuale dell'art. 120, comma 2, c.p.a. (corrispondente al vecchio comma 5) prevede testualmente:

i) in relazione agli atti terminali di una procedura di gara, che il termine dimezzato per la proposizione del ricorso introduttivo decorra “dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell'articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici”;

ii) in relazione ai bandi e agli avvisi con cui si indice una gara autonomamente lesivi, che il termine (parimenti dimezzato) decorra “dalla pubblicazione di cui agli articoli 84 e 85 del codice dei contratti pubblici”.

In buona sostanza, la legge prevede un principio generale per cui il termine per impugnare un atto inerente a una procedura di affidamento decorre dal momento in cui tale atto venga comunicato al soggetto leso nelle forme prescritte dalla legge ovvero dal momento in cui la stazione appaltante adempia ai propri obblighi di comunicazione e ostensione sul proprio portale web degli atti di gara. Non vi è, invece, più alcun riferimento alla decorrenza del termine di impugnazione in relazione al momento in cui il soggetto asseritamente leso ne sia venuto a conoscenza: evidentemente il Legislatore, nel contesto della più recente riforma, ha considerato non contemplabile tale ipotesi in virtù dell'obbligatorietà delle pubblicazioni previste dalla disciplina sostanziale. Ad ogni buon conto, alla stregua dei principi generali (si veda art. 42, comma 2, c.p.a.), deve ritenersi che, nella sia pur remota ipotesi in cui un provvedimento di aggiudicazione (o altro atto lesivo inerente a una procedura di gara) non sia comunicato al soggetto che se ne assume leso, il termine di impugnazione decorra dalla piena conoscenza.

Ciò posto in termini generali, la decorrenza del termine di impugnazione degli atti inerenti a gare pubbliche presenta peculiarità differenti a seconda del tipo di atto che si prenda in considerazione, come vedremo nei paragrafi che seguono.

La decorrenza del termine per impugnare il bando di gara e il relativo regime impugnatorio

I bandi di gara, di norma, sono impugnabili soltanto unitamente all'atto applicativo conclusivo della procedura, in quanto solo quest'ultimo atto – generalmente – è idoneo a produrre una lesione concreta e attuale di situazioni giuridiche soggettive.

Pertanto, di norma, la decorrenza del termine per l'impugnazione del bando di gara si ricollega alla decorrenza del termine per l'impugnazione del relativo atto applicativo, i.e. il provvedimento di aggiudicazione.

Talvolta, tuttavia, i bandi di gara contengono clausole tali da produrre una lesione immediata di situazioni giuridiche soggettive.

In casi simili il bando deve essere impugnato immediatamente, senza attendere l'esito finale della procedura e senza che vi siano controinteressati a cui dover notificare il ricorso (cfr. Cons. St.V, n. 5926/2019).

L'art. 120, comma 2, c.p.a. (corrispondente al comma 5 della versione dell'art. 120 antecedente all'ultima novella normativa), contempla espressamente l'ipotesi in cui il bando di gara possa configurarsi quale atto autonomamente lesivo, prevedendo – per tali casi – la sua immediata impugnabilità nel termine decadenziale di trenta giorni dalla pubblicazione.

In particolare, tale disposizione prevede testualmente che il termine decadenziale per l'impugnazione dei bandi di gara autonomamente lesivi decorra dalla pubblicazione degli stessi in ambito unionale ex art. 84 del nuovo Codice dei contratti pubblici (mediante la trasmissione dei bandi all'Ufficio pubblicazione dell'Unione Europea) e dalla successiva ostensione dei medesimi bandi sulla Banca dati nazionale dei contratti pubblici dell'ANAC ex art. 85 (per la cui trattazione si rinvia ai commenti agli articoli citati). Dal momento che le disposizioni di cui ai citati artt. 84 e 85 del nuovo Codice dei contratti pubblici prevedono una scansione temporale per cui la pubblicazione in ambito euro-unitario è poziore rispetto a quella nazionale, un primo profilo di incertezza interpretativa inerente all'odierna formulazione dell'art. 120, comma 2, c.p.a. potrebbe porsi in relazione al seguente tema: se la decorrenza del termine di trenta giorni si calcoli dalla pubblicazione sovra-nazionale o da quella interna. La prospettata problematica parrebbe ragionevolmente risolta dal Legislatore con la formulazione dell'ultimo capoverso del comma 4 dell'art. 84, laddove si prevede che “gli effetti giuridici degli atti oggetto di pubblicazione decorrono dalla data di pubblicazione nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici”. Appare logico ritenere che tra gli effetti giuridici discendenti dalla pubblicazione nazionale vi siano anche quelli lesivi che legittimano (rectius impongono) l'impugnazione immediata del bando.

L'intervento modificativo apportato all'art. 120, comma 2, c.p.a. è da salutarsi con favore anche in ordine al rinvio ‘attualizzato' alla vigente disciplina sostanziale. Infatti, come noto, il corrispondente comma 5 della versione antecedente della disposizione in esame conteneva ancora il rinvio alla disciplina delle modalità di pubblicazione dei bandi di gara con riferimento alla normativa di cui al vecchio Codice del 2006, facendo per l'effetto decorrere il termine di impugnazione dei bandi e delle relative clausole immediatamente escludenti dalla pubblicazione degli stessi sulla G.U. della Repubblica italiana.

Si osservi che, in pendenza del d.lgs. n. 50/2016, il Legislatore aveva previsto che la pubblicità nazionale dei bandi fosse realizzata in una duplice forma: in primo luogo, tramite pubblicazione sulla piattaforma digitale dei bandi di gara istituita presso l'ANAC; in secondo luogo, non oltre due giorni lavorativi successivi alla pubblicazione sulla piattaforma digitale ANAC, tramite pubblicazione sul profilo del committente.

Tale regime di pubblicazione, tuttavia, non è mai divenuto operativo in quanto la piattaforma digitale dei bandi di gara dell'ANAC non è mai stata attivata.

Nelle more di tale attivazione mai avvenuta, i bandi hanno continuato a essere pubblicati sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, la quale è dunque rimasta il riferimento temporale per la decorrenza del termine di impugnazione di bandi immediatamente escludenti.

In merito al regime di impugnabilità dei bandi di gara, si rilevano due questioni problematiche.

Il primo tema riguarda l'esatta individuazione dei casi in cui il bando di gara deve essere considerato autonomamente lesivo e, pertanto, direttamente impugnabile senza attendere la conclusione della procedura.

Il secondo tema riguarda la precisa identificazione dei soggetti legittimati a impugnare i bandi di gara nonché, più in generale, gli atti relativi a procedure ad evidenza pubblica, in assenza di domanda di partecipazione.

In merito all'esatta perimetrazione dell'onere di immediata impugnazione dei bandi, nonché in merito alla legittimazione al ricorso nel rito appalti, nel corso degli anni si è consolidato un orientamento giurisprudenziale che ha preso le mosse dall'insegnamento impartito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le pronunce 11 giugno 2003, n. 1, 7 aprile 2011, n. 4 e 25 febbraio 2014, n. 9.

In primo luogo, tale orientamento pone una regola generale secondo cui soltanto i soggetti che abbiano partecipato alla gara sono legittimati ad impugnarne l'esito, in quanto solo in capo a questi ultimi è riscontrabile una posizione giuridica differenziata.

Infatti, in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto, il tema della legittimazione al ricorso deve essere declinato nel senso di correlare tale legittimazione “ad una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione” (Cons. St., Ad. plen., n. 9/2014).

Pertanto, “chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione non è dunque legittimato a chiederne l'annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione – per lui res inter alios acta – venga nuovamente bandita” (Cons. St., Ad. Plen., n. 9/2014, recentemente richiamata da Cons. St. V, n. 2276/2021 e da T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 31 marzo 2021, n. 3858).

Al tempo stesso, il medesimo orientamento tradizionale precisa che a tale regola si può derogare – per esigenze di tutela della concorrenza – qualora: ( i ) si contesti in radice l'indizione della gara; ( ii ) all'inverso, si contesti l'assenza di gara, avendo l'amministrazione proceduto all'affidamento diretto del contratto; ( iii ) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano autonomamente lesive.

In ordine al punto (iii) supra, il principio è quello dell'impugnazione del bando solo unitamente agli atti terminali della procedura di gara (e da parte di un soggetto che abbia effettivamente partecipato alla competizione), in quanto solo questi ultimi atti identificano in concreto il soggetto leso e rendono attuale e concreta la lesione della sfera giuridica dell'interessato.

Al tempo stesso, il medesimo orientamento precisa che i bandi di gara devono considerarsi autonomamente lesivi – e pertanto direttamente impugnabili – qualora contengano clausole ‘escludenti' (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. III, 5 luglio 2018, n. 1551/2018), ossia aventi l'effetto di impedire la partecipazione alla procedura di gara a determinati operatori.

Hanno quindi valenza immediatamente lesiva le clausole c.d. ‘espulsive', che individuano requisiti di partecipazione non posseduti dall'interessato, tali da precludergli con certezza e con immediatezza la possibilità di partecipare alla procedura nonché, in ultima analisi, di conseguire l'aggiudicazione.

Vanno ricomprese nel genus delle clausole immediatamente escludenti (e quindi immediatamente impugnabili) le clausole che risultino manifestamente incomprensibili o che implichino oneri del tutto sproporzionati, “che comportino sostanzialmente l'impossibilità per l'interessato di accedere alla gara ed il conseguente arresto procedimentale. Fra le ipotesi sopra richiamate può, sul piano esemplificativo, essere ricompresa quella di un bando che, discostandosi macroscopicamente dall'onere di clare loqui, al quale, per i suoi intrinseci caratteri, ogni bando deve conformarsi, risulti indecifrabile nei suoi contenuti, così impedendo all'interessato di percepire le condizioni alle quali deve sottostare precludendogli, di conseguenza, direttamente ed immediatamente la partecipazione” (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 luglio 2020, n. 7661).

Secondo la medesima giurisprudenza, è necessario procedere all'impugnativa immediata del bando di gara anche qualora si ritenga che le clausole dello stesso impediscano, indistintamente a tutti i concorrenti, una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica.

Si ritiene rientri nella casistica dei bandi immediatamente impugnabili anche la fattispecie in cui la stazione appaltante abbia posto a base d'asta un prezzo meramente “simbolico”, sganciato dai valori di mercato, che obblighi chiunque voglia partecipare alla gara a presentare un'offerta al rialzo. Non avrebbe, infatti, alcun senso imporre all'operatore economico di presentare un'offerta destinata ineludibilmente ad essere esclusa in quanto caratterizzata da un prezzo superiore all'importo determinato dalla pubblica amministrazione; in tale fattispecie, si ritiene che “l'ostacolo alla partecipazione alla gara abbia natura obiettiva e non meramente soggettiva (o di mera opportunità)”, così da integrare senz'altro un'ipotesi di immediata impugnabilità della clausola senza bisogno di presentare previamente domanda di partecipazione alla gara (cfr., ex multis, T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, I, n. 418/2018).

Nei casi rappresentati, infatti, risulta pregiudicato il corretto esercizio della gara, in violazione dei princìpi di libera concorrenza e di par condicio tra i partecipanti. Ciò – oltre che di fronte a clausole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile, o impongano obblighi contrari alla legge, o prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta – avviene in presenza di disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, a condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente, oppure a gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (cfr., ex multis, Cons. St. III, 15 marzo 2021, n. 2238, T.A.R. Lazio, Roma, II-bis, n. 3858/2021; T.A.R. Lazio (Roma) II-bis, 11 marzo 2021, n. 2986).

Di converso, tutte le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al relativo atto applicativo, e soltanto dall'operatore economico che abbia partecipato alla gara o che abbia comunque manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura.

Il tradizionale regime di impugnabilità dei bandi di gara, come sopra enucleato, è stato messo in discussione dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato, con l'ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria n. 5138/2017, la quale ha auspicato un ripensamento della tradizionale perimetrazione dell'onere di immediata impugnazione dei bandi “alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici e dell'evoluzione della giurisprudenza della CGUE”, sollecitando l'Adunanza Plenaria ad affermare la sussistenza di tale onere anche per il caso di erronea adozione del criterio del prezzo più basso in luogo dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nonché – più in generale – per tutte le clausole “attinenti le regole formali e sostanziali di svolgimento della procedura di gara, nonché con riferimento agli altri atti concernenti le fasi della procedura precedenti l'aggiudicazione, con la sola eccezione delle prescrizioni generiche ed incerte, il cui tenore eventualmente lesivo è destinato a disvelarsi solo con i provvedimenti attuativi” (Cons. St. III, n. 5138/2017).

L'ordinanza in parola ha preso atto che una recente sentenza del Consiglio di Stato si discostava dall'indirizzo tradizionalmente fatto proprio dall'Adunanza Plenaria, affermando l'ammissibilità di un ricorso proposto immediatamente contro il bando, anche in assenza di atti applicativi della lex specialis, tutte le volte in cui essa individui un criterio di aggiudicazione ritenuto illegittimo (Cons. St. III, n. 2014/2017).

L'Adunanza Plenaria, disattendendo i rilievi della Sezione rimettente, ha tuttavia ribadito la perdurante validità dell'orientamento giurisprudenziale tradizionale, affermando che la normativa vigente non consente di “rinvenire elementi per pervenire all'affermazione che debba imporsi all'offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata: versandosi nello stato iniziale ed embrionale della procedura, non vi sarebbe infatti né prova né indizio della circostanza che l'impugnante certamente non sarebbe prescelto quale aggiudicatario; per tal via, si imporrebbe all'offerente di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica lesione, al fine di tutelare un interesse (quello strumentale alla riedizione della gara) certamente subordinato rispetto all'interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non realizzabilità” (Cons. St., Ad. Plen., n. 4/2018).

Ciò, innanzitutto, in ragione del tenore testuale dell'art. 120, comma 5, c.p.a., che ha previsto l'onere di impugnare direttamente non già tutti i bandi di gara, ma unicamente quelli “autonomamente lesivi” (formulazione mantenuta anche nell'odierno comma 2 dell'art. 120).

Secondo l'Adunanza Plenaria, tale inciso può essere interpretato “in un unico senso: e cioè che tale eventualità sia ravvisabile soltanto nell'ipotesi in cui il bando presenti clausole escludenti, pur nell'accezione ampliativa fatta propria dalle Adunanze Plenarie n. 1/2003 e n. 4/2011 (Cons. St., Ad. Plen. , n. 4/2018).

La mancata impugnazione immediata del criterio di aggiudicazione non può pertanto essere assimilata a una tacita acquiescenza rispetto al criterio medesimo, in quanto ciò si risolverebbe in una “implausibile compressione del diritto di difesa” (Cons. St., Sez. V, 5 settembre 2018, n. 5202).

Tale conclusione è conforme al principio per cui “nelle gare pubbliche l'accettazione delle regole di partecipazione non comporta l'inoppugnabilità delle clausole del bando regolanti la procedura che fossero, in ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non può mai opporre ad un concorrente un'acquiescenza implicita alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione dei princìpi fissati dagli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale” (T.A.R. Lombardia (Milano) II, 29 aprile 2020, n. 710; Cons. St. III, n. 1491/2019; Cons. St. III, n. 1350/2019).

L'Adunanza Plenaria ha altresì confermato – sulla scia del proprio precedente n. 4/2011 – che la legittimazione a ricorrere avverso gli atti di una procedura di gara spetta, di regola, a coloro che abbiano presentato domanda di partecipazione.

La legittimazione al ricorso, in sostanza, deve essere “correlata ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione” (Cons. St., Ad. Plen., n. 4/2011).

Rispetto a tale regola possono essere individuate soltanto tre eccezioni.

La prima deroga riguarda la legittimazione dell'operatore che intenda impugnare una clausola del bando che prescriva determinati requisiti palesemente non posseduti dall'operatore stesso e che sia, pertanto, direttamente escludente.

In siffatte circostanze, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la presentazione di una domanda di partecipazione così come l'adozione di un atto esplicito di esclusione.

Tale deroga mira a evitare che un soggetto palesemente non in possesso dei requisiti richiesti, per poter impugnare la lex specialis, sia costretto a presentare una domanda di partecipazione inutile, che si tradurrebbe in un onere del tutto formalistico e pleonastico.

La seconda deroga riguarda la legittimazione del soggetto che voglia contrastare in radice la scelta della stazione appaltante di indire la procedura.

Tale soggetto, pur senza partecipare alla gara, è legittimato ad impugnarne il bando nei soli casi in cui dimostri “una adeguata posizione differenziata, costituita, per esempio, dalla titolarità di un rapporto incompatibile con il nuovo affidamento contestato” (Cons. St. III, n. 2535/2019).

La terza e ultima deroga attiene alla legittimazione dell'operatore economico che intenda contestare un affidamento diretto.

La legittimazione si spiega alla luce del giudizio di assoluto disvalore manifestato dal diritto dell'Unione europea nei confronti di atti contrastanti con il principio di concorrenza.

Del resto, la mancanza di una procedura selettiva impedisce di collegare la legittimazione al ricorso alla partecipazione ad un procedimento che – in radice – è del tutto mancato.

Al di fuori di queste ipotesi, l'Adunanza Plenaria ha stabilito che deve restare fermo il principio per cui “la legittimazione al ricorso nelle controversie riguardanti l'affidamento di contratti pubblici spetta esclusivamente ai partecipanti alla gara, poiché solo da tale qualità deriva il riconoscimento di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela” (Cons. St. III, n. 2535/2019).

Secondo l'Adunanza Plenaria, non vi sarebbe ragione di discostarsi da tali princìpi in quanto “l'operatore del settore che non ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di un interesse di mero fatto alla ceduazione dell'intera selezione (ciò, in tesi), al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara), ma tale preteso interesse ‘strumentale' avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto, infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell'interesse differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione, essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non trovandosi al cospetto di alcuna clausola “escludente” (...); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta dall'operatore del settore, in quanto questi, pur potendo presentare l'offerta si è astenuto dal farlo” (Cons. St., Ad. plen., n. 4/2018).

Nelle ipotesi di mancata pubblicità del bando, a valle della novella apportata dall'art. 209 del nuovo Codice dei contratti pubblici, l'art. 120, comma 3, c.p.a., stabilisce che “il ricorso è comunque proposto entro 30 giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di aggiudicazione o della determinazione di procedere all'affidamento in house al soggetto partecipato o controllato. Per la decorrenza del termine l'avviso deve contenere la motivazione dell'atto di aggiudicazione e della scelta di affidare il contratto senza pubblicazione del bando e l'indicazione del sito dove sono visionabili gli atti e i documenti presupposti. Se sono omessi gli avvisi o le informazioni di cui al presente comma oppure se essi non sono conformi alle prescrizioni ivi indicate, il ricorso può essere proposto non oltre sei mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto comunicata ai sensi del codice dei contratti pubblici”. Com'è facile desumere da una mera comparazione testuale con il previgente comma 2 dell'art. 120, la nuova enunciazione normativa non si discosta in maniera sostanziale da quella antecedente.

La ratio della norma in esame è da individuare nell'intento di sollecitare la stazione appaltante a espletare gli adempimenti notiziali prescritti dalla legge.

Aspetto positivo della riforma risiede nella risoluzione di un nodo problematico che il Consiglio di Stato, con il parere sullo schema di codice processuale, aveva messo puntualmente in evidenza. In particolare, i giudici di Palazzo Spada avevano sottolineato che la norma, per come scritta nella precedente formulazione, era potenzialmente idonea a rendere inattaccabili contratti stipulati senza alcuna gara (anche considerata la scarsa pubblicità a cui tale tipologia di contratti era sottoposta).

In tale contesto, la specificazione che il termine di sei mesi decorra non dal giorno successivo alla stipula del contratto, bensì dal giorno successivo alla data della comunicazione di siffatta stipula dovrebbe sciogliere le problematiche poste dai giudici di Palazzo Spada.

La decorrenza del termine per impugnare l'aggiudicazione della procedura

Per quanto concerne l'impugnabilità dei provvedimenti di aggiudicazione di gare pubbliche, occorre in primo luogo sottolineare che l'art. 204 del d.lgs. n. 50/2016 aveva inserito nell'abrogato comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a. una disposizione che sanciva espressamente – a pena di inammissibilità del ricorso – la non impugnabilità della proposta di aggiudicazione (ossia di quella che nel regime previgente era denominata “aggiudicazione provvisoria”) e di tutti gli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività.

Sennonché, abrogando interamente il comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., il legislatore del c.d. decreto “Sblocca-cantieri” ha finito (non si sa quanto volontariamente) per abrogare anche tale disposizione; con specifico riferimento alla proposta di aggiudicazione (ex aggiudicazione provvisoria), non è quindi chiaro se dopo l'abrogazione della disposizione che ne specificava la “non impugnabilità” essa debba comunque continuare a essere considerata quale atto non direttamente impugnabile in quanto meramente endoprocedimentale, oppure se debba considerarsi “facoltativamente impugnabile” al pari della vecchia aggiudicazione provvisoria, della quale era possibile (ma non obbligatorio) dolersi già prima dell'aggiudicazione definitiva, con l'onere di proporre poi motivi aggiunti nei confronti di quest'ultima.

Sul punto, in assenza di interventi chiarificatori da parte del legislatore, a parere di chi scrive sembra preferibile l'opzione più conservativa, che depone in senso favorevole alla perdurante non immediata impugnabilità della proposta di aggiudicazione (Giustiniani, Fontana).

In relazione all'aggiudicazione (definitiva), nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016, si è consolidata la tesi che il relativo termine di impugnazione iniziasse a decorrere dal momento in cui l'impresa non aggiudicataria riceveva la comunicazione di cui all'art. 76, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 50/2016 e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante concludeva con esito positivo la verifica della sussistenza dei requisiti di gara in capo all'aggiudicatario, ai sensi dell'art. 32, comma 7, del medesimo d.lgs. n. 50/2016.

Ciò in quanto l'esito positivo della verifica di cui all'art. 32, comma 7, del Codice, integra una mera condizione di efficacia dell'aggiudicazione (per tale intendendosi quella che nel regime previgente era denominata “aggiudicazione definitiva”), la quale è “suscettibile di produrre effetti giuridici rilevanti già prima di detta verifica e indipendentemente da essa” (Cons. St. V, n. 726 /2018) e va pertanto impugnata a prescindere dall'esito della successiva verifica dei requisiti.

Si tratta di una tesi che verrà verosimilmente confermata anche in applicazione delle norme del nuovo Codice dei contratti pubblici, considerato che, ai sensi dell'odierno comma 2 dell'art. 120 (come novellato), si prevede che il termine di impugnazione decorra dalla ricezione delle comunicazioni di cui all'art. 90 del d.lgs. n. 36/2023 ovvero dal momento in cui gli atti di gara sono resi disponibili online ai sensi dell'art. 36, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 36/2023.

Dopo aver chiarito che il termine di impugnazione dell'aggiudicazione (definitiva) decorre di norma dalla relativa comunicazione (ovvero dalla pubblicazione degli atti di gara ai sensi del citato art. 36), occorre interrogarsi se tale principio operi anche in presenza di una comunicazione irregolare e/o comunque incompleta.

Sono prospettabili diverse teorie circa l'idoneità di una comunicazione non completa a provocare il decorso dei termini di impugnazione.

Secondo un primo indirizzo ipotizzabile, il termine dovrebbe sempre decorrere dal momento della comunicazione dell'aggiudicazione definitiva, ancorché tale comunicazione non possa considerarsi completa e quindi satisfattiva, fermo restando il diritto del ricorrente di proporre motivi aggiunti nel momento in cui, realizzato l'accesso agli atti, egli venga a conoscenza di altre ragioni di illegittimità. Tale conclusione poteva apparire prima confermata dal tenore testuale del vecchio art. 120, comma 5, c.p.a., nella parte in cui la decorrenza del termine di impugnazione era ricondotta, “in ogni altro caso”, alla conoscenza dell'atto (ipotesi ora non contemplata, come anticipato, dall'attuale comma 2).

Secondo un diverso orientamento, il termine di trenta giorni decorrerebbe solo dal momento in cui la parte abbia piena contezza di tutti gli eventuali profili di legittimità del provvedimento, anche mediante l'esercizio del diritto di accesso agli atti del procedimento.

Tale orientamento valorizza la circostanza per cui – qualora la stazione appaltante trasmetta una comunicazione incompleta ovvero, pur in presenza di una comunicazione esaustiva e completa, sia indispensabile conoscere gli elementi tecnici dell'offerta dell'aggiudicatario per aver chiare le ragioni che hanno spinto la P.A. a preferirla – il potenziale ricorrente non può avere piena contezza dei profili di illegittimità dell'atto senza prima accedere agli atti (Giustiniani, Fontana, Il processo dei contratti pubblici dinanzi al giudice amministrativo).

Qualora l'impresa possa avere piena cognizione dei potenziali vizi del provvedimento di aggiudicazione solo tramite l'accesso agli atti, il termine decadenziale per l'impugnazione subirebbe quindi uno slittamento in avanti di un numero di giorni pari a quello necessario per acquisire la piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto e dei suoi profili di illegittimità (cfr. T.A.R. Calabria (Reggio Calabria) I, 13 aprile 2017, n. 366).

L'orientamento in esame è meritevole di apprezzamento nelle sue linee generali ed è ormai significativamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, sebbene alcune recenti pronunce ne abbiano parzialmente ridimensionato la portata.

Da un lato, infatti, è stata ribadita la perdurante validità del principio generale di estrazione pretoria secondo cui, in caso di comunicazione incompleta, il termine d'impugnazione non può decorrere, dovendosi in tal caso aver riguardo, ai fini della decorrenza del citato termine, alla conoscenza comunque acquisita (anche in sede di accesso agli atti) di tutti gli elementi necessari per il potenziale ricorrente a verificare non solo la lesività dell'atto impugnando, ma anche dei suoi profili di illegittimità.

Dall'altro lato, è stato tuttavia chiarito che – per considerare il provvedimento di aggiudicazione talmente “incompleto” da evitare il decorso del termine per l'impugnazione – è necessario che al candidato non aggiudicatario (e quindi potenziale ricorrente) sia stato comunicato unicamente il “dispositivo” del provvedimento medesimo (Giustiniani, Fontana).

Soltanto in tal caso – oltreché, ovviamente, nel caso in cui la comunicazione dell'aggiudicazione sia stata omessa tout court – il termine decadenziale di trenta giorni può essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso dall'aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell'atto e dei relativi profili di illegittimità.

Tale incremento del termine decadenziale (“slittamento in avanti”) non può tuttavia ritenersi potenzialmente infinito.

Nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016, era ragionevole ritenere che tale “slittamento in avanti” del termine non potesse essere superiore ai quindici giorni necessari per esercitare l'accesso c.d. “semplificato” e “accelerato” di cui all'art. 76, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016.

Infatti, qualora la mancata tempestiva conoscenza dei profili di illegittimità dell'aggiudicazione fosse dovuta (non solo all'incompletezza della comunicazione della stazione appaltante, ma anche) all'inerte contegno dell'operatore economico ricorrente, il quale non avesse diligentemente e tempestivamente esercitato le facoltà ad esso attribuite dall'ordinamento per acquisire con prontezza la documentazione di gara (i.e. la richiesta di accesso “semplificato” e “accelerato” ex art. 76, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016), tale circostanza non poteva ridondare a danno del principio di certezza dei rapporti giuridici, presidiato dall'inoppugnabilità degli atti amministrativi una volta che sia inutilmente decorso il relativo termine di impugnazione.

In buona sostanza, si riteneva che il termine per impugnare l'aggiudicazione potesse subire uno “slittamento in avanti” i ) soltanto nel caso in cui la stazione appaltante si fosse limitata a comunicare il solo “dispositivo” del provvedimento, e ii ) comunque per un periodo massimo di quindici giorni (Giustiniani, Fontana).

Tali conclusioni – da ritenersi valide laddove affermano il principio che sarebbe ingiusto far decorrere il termine di impugnazione da una conoscenza solo generica e superficiale del contenuto del provvedimento di aggiudicazione – necessitano tuttavia di un aggiornamento alla luce del novellato art. 120 c.p.a. e della nuova disciplina sostanziale.

Infatti, l'accesso “semplificato” di cui al previgente art. 76 del d.lgs. n. 50/2016 non è più contemplato, essendo al contrario previsto un obbligo generalizzato di pubblicazione degli atti di gara (incluse le offerte dei partecipanti) da parte della stazione appaltante. In altre parole, non sarà più necessario presentare un'istanza di accesso (ancorché semplificata) per avere i documenti essenziali della procedura evidenziale. In tale contesto, resta fermo che, ove il soggetto aggiudicatore dovesse omettere la pubblicazione degli “atti, dati e informazioni presupposti all'aggiudicazione”, sarebbe onere del concorrente interessato presentare istanza di accesso; in una ipotesi di questo tipo, il termine di impugnazione non potrebbe comunque decorrere fino al momento in cui sia acquisita conoscenza di tali atti, dati e informazioni. Al contempo, una eccessiva dilazione del momento di formulazione e presentazione dell'istanza di accesso agli atti potrebbe compromettere la ricevibilità di un ricorso proposto tardivamente avverso l'aggiudicazione definitiva.

In via generale, la conoscenza legale del provvedimento di aggiudicazione (ossia la conoscenza maturata a seguito di rituale comunicazione della stazione appaltante) deve ritenersi sufficiente a inverare e cristallizzare la lesione della sfera giuridica del concorrente non aggiudicatario, ormai irrimediabilmente pretermesso; da quel momento sorge l'interesse attuale e concreto all'impugnazione dell'aggiudicazione e dal medesimo momento, pertanto, non può che iniziare a decorrere il termine decadenziale di trenta giorni, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio del ricorrente, garantito in ogni caso dalla possibilità di proporre motivi aggiunti qualora la (successiva) compiuta conoscenza degli atti procedimentali valga a “disvelare e lumeggiare la effettiva latitudine della “ingiustizia” dell'agere amministrativo e dei vizi che eventualmente la affliggono” (ex multis, T.A.R. Lombardia (Milano) I, 15 gennaio 2019, n. 71).

Diversamente, qualora si affermasse tout court il principio per cui il dies a quo per impugnare l'aggiudicazione andrebbe sempre individuato nel momento in cui l'interessato assuma piena cognizione del vizio del provvedimento, si “renderebbe mutevole e in definitiva incerto il momento in cui gli atti di gara siano divenuti inoppugnabili, e dunque il momento in cui l'esito di questa possa ritenersi consolidato. Da questa notazione emerge come una simile ricostruzione non possa essere accettata, per via dell'elevato tasso di incertezza sulle procedure di affidamento di contratti pubbliche che essa produrrebbe, ed a tutela del quale è posto il termine a pena di decadenza per proporre il ricorso giurisdizionale (che è addirittura dimezzato, ex art. 120, comma 2, c.p.a., a conferma delle esigenze di celerità che permeano il settore dei contratti pubblici, pur nel rispetto del diritto di difesa dell'operatore economico)” (Cons. St. V, n. 2015/2020).

Si segnala che, nell'applicazione pretoria del quinto comma (ora secondo) dell'art. 120 c.p.a. e del primo comma dell'art. 29 del d.lgs. n. 50/2016, si è posto, proprio con specifico riguardo ai provvedimenti di aggiudicazione, il problema se la pubblicazione generalizzata degli atti di gara realizzata dalle stazioni appaltanti ai sensi dell'art. 29 del d.lgs. n. 50/2016 potesse, usualmente, ritenersi idonea a far decorrere il relativo termine di impugnazione al pari della comunicazione individuale di cui all'art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50/2016.

La questione è stata recentemente risolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 12/2020 e deve ora ritenersi definitivamente superata dall'odierna formulazione del comma 2 dell'art. 120 che ricollega pacificamente la decorrenza del termine di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, oltre che alla comunicazione ex art. 90 del d.lgs. n. 36/2023, anche alle pubblicazioni ex art. 36 del medesimo decreto.

Ad ogni buon conto, è utile ripercorrere l'iter argomentativo della sentenza della Plenaria che si pone alla base dell'ultima innovazione normativa.

Tale pronuncia, dopo aver ricostruito i vari passaggi dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale sul punto, ha chiarito in via generale che la pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione su profilo di committente ai sensi dell'art. 29 del d.lgs. n. 50/2016, potesse senz'altro ritenersi idonea a far decorrere il relativo termine di impugnazione, essendo anch'essa una data “oggettivamente riscontrabile” e non potendosi obliterare il dato testuale dell'ultimo periodo del primo comma del citato art. 29.

Secondo l'Adunanza Plenaria, l'individuazione della data da cui far decorrere il termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione deve dipendere dal rispetto delle disposizioni sulla formalità inerenti tanto alla informazione degli offerenti, quanto alla pubblicazione degli atti, in via (tendenzialmente) paritaria.

Ciò posto, resta ferma la necessità – imposta dal diritto eurounitario – di non costringere gli offerenti alla proposizione di un ricorso “al buio”: qualora la pubblicazione dell'aggiudicazione sul profilo di committente sia tale da non consentire l'apprezzamento dei profili di illegittimità dell'atto (ad esempio perché priva dei necessari allegati e/o delle eventuali giustificazioni rese nell'ambito del sub-procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta) il decorso del termine di impugnazione deve essere differito per il tempo necessario a consentire il tempestivo accesso agli atti di gara da parte del soggetto interessato.

L'Adunanza Plenaria ha poi ulteriormente precisato che, al pari della pubblicazione generalizzata degli atti di gara ai sensi dell'art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, sono altresì idonee a far decorrere termine di impugnazione tutte le “forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara e accettate dai partecipanti alla gara”, ma a condizione che “gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati” (Cons. St., Ad. Plen., n. 12/2020).

Infine, a conclusione della disamina sul regime di impugnabilità del provvedimento di aggiudicazione della procedura, è appena il caso di ricordare che “costituisce principio assolutamente consolidato quello per cui il concorrente che abbia impugnato gli atti della procedura di gara precedenti l'aggiudicazione – tipicamente, il provvedimento che ne abbia disposto l'esclusione ovvero quello che abbia reciprocamente disposto l'ammissione di un controinteressato – è tenuto ad impugnare anche il provvedimento di aggiudicazione (...), a pena di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, l'utilità finale che l'operatore economico intende conseguire attraverso il giudizio avverso gli atti della procedura di aggiudicazione è l'affidamento dell'appalto, quale che sia il provvedimento impugnato e, nel caso di atto diverso dall'aggiudicazione, quale che sia l'utilità strumentale immediatamente perseguita (nel caso, ad esempio, dell'impugnazione dell'esclusione, la riammissione alla procedura); passaggio necessario, a tal fine, è comunque l'eliminazione dell'aggiudicazione ad altro concorrente” (T.A.R. Lazio (Roma) III, 10 giugno 2019, n. 7557; Cons. St. V, n. 5179/2018).

La decorrenza del termine per impugnare gli esiti della verifica dei requisiti dopo l'aggiudicazione

A valle dell'introduzione dell'art. 17, comma 5, del nuovo Codice dei contratti pubblici, vale ora il principio per cui l'aggiudicazione definitiva non possa essere disposta prima del controllo sul possesso dei requisiti di partecipazione in capo al soggetto designato nella proposta di aggiudicazione e, una volta disposta, essa diventi immediatamente efficace. Tale formulazione ha, pertanto, eliminato dal “panorama” della contrattualistica pubblica la figura ibrida dell'aggiudicazione “non ancora efficace”.

Tale circostanza dequota, dunque, l'importanza del tema trattato dalla giurisprudenza nella vigenza dell'art. 32, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016: ossia se gli esiti dei controlli sul possesso dei requisiti (a valle dell'aggiudicazione definitiva ma prima che questa acquisisse efficacia) potessero essere impugnati a seguito della comunicazione della data di avvenuta stipulazione del contratto, senza una previa impugnazione tempestiva del provvedimento definitivo di aggiudicazione non ancora efficace.

Per mera completezza espositiva, si fa presente che, nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016, un orientamento giurisprudenziale (minoritario) sosteneva che gli esiti della verifica sul possesso dei requisiti di partecipazione fossero impugnabili solo a seguito della comunicazione della data di avvenuta stipulazione del contratto (in tal senso, T.A.R. Abruzzo (Pescara) I, 2 dicembre 2016, n. 373). Tale affermazione, tuttavia, si esponeva all'obiezione di sovrapporre “(...) due piani, che invece vanno tenuti distinti, relativi, l'uno, all'individuazione del provvedimento impugnabile, l'altro, all'individuazione del termine di decorrenza per la relativa impugnazione” (Cons. St. V, n. 726/2018).

Il ricorso cumulativo nel caso di gare suddivise in lotti

Il d.lgs. n. 50/2016 ha introdotto nel corpo del testo dell'art. 120 c.p.a. una ulteriore previsione, relativa alle impugnazioni cumulative delle gare a più lotti.

Tale previsione, dapprima contenuta nel comma 11-bis dell'art. 120 c.p.a., a seguito delle modifiche apportate dall'art. 209 del d.lgs. n. 36/2023, è ora enunciata nel comma 13 dello stesso art. 120. Nella sostanza, essa dispone che – nelle ipotesi di presentazione di offerte per più lotti – l'impugnazione si possa proporre con ricorso cumulativo (e, quindi, con un conseguente risparmio in termini di contribuzione unificata) solo se siano dedotti identici motivi di gravame avverso lo stesso atto.

Tale innovazione legislativa ha recepito un indirizzo giurisprudenziale consolidatosi già prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, che ammetteva in via eccezionale il gravame di più atti con un solo ricorso, solo quando tra di essi fosse ravvisabile una connessione procedimentale o funzionale (da accertarsi in modo rigoroso al fine di evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato), tale da giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (cfr. T.A.R. Emilia Romagna (Bologna) II, 14 giugno 2017, n. 452).

Il deposito del ricorso

Il deposito del ricorso principale (così come quello del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, nonché dell'appello avverso l'ordinanza cautelare) deve avvenire – al pari del rito di cui all'art. 119 c.p.a. – nel termine di quindici giorni che decorre dall'ultima notificazione degli atti, in via telematica.

Per l'intervento volontario, viceversa, non è previsto un termine per la notifica; il suo deposito, in ogni caso, deve avvenire entro quindici giorni dall'ultima notifica dell'atto stesso e fino a quindici giorni prima dell'udienza.

La decorrenza del termine per impugnare le sentenze e le ordinanze cautelari di primo grado

Per quanto concerne i giudizi di secondo grado:

i ) l'appello avverso l'ordinanza cautelare collegiale deve essere notificato nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione del provvedimento, se esso non è stato notificato, ovvero nel termine di trenta giorni dalla sua notificazione; l'appello dovrà poi essere depositato nel termine di quindici giorni dalla notifica. L'abbreviazione riguarda soltanto i termini di deposito, dato che, come si evince dall'art. 119, comma 2, c.p.a., la tutela cautelare nel giudizio amministrativo è “generale”, e si estende anche al rito speciale in materia di contratti pubblici;

ii ) il termine per appellare le sentenze o il dispositivo è stabilito in trenta giorni dalla notifica; in difetto, entro tre mesi dalla pubblicazione. Il termine di deposito, inoltre, è determinato in quindici giorni.

La notifica alla stazione appaltante (oltreché all'Avvocatura dello Stato)

Sempre in relazione alla fase introduttiva del giudizio, l'art. 120, comma 4, c.p.a. stabilisce innovativamente che – in caso di impugnazione dell'aggiudicazione (definitiva) – se la stazione appaltante fruisce del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, il ricorso debba essere notificato, oltre che presso l'Avvocatura, anche alla stazione appaltante nella sua sede reale, in data non anteriore alla notifica presso l'Avvocatura. Ciò al solo fine di consentire l'operatività della sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto. Tale precisazione legislativa, meramente riproduttiva di quanto già previsto dal d.lgs. n. 163/2006 in sede di recepimento della c.d. Direttiva Ricorsi, è finalizzata a consentire all'amministrazione procedente di adottare tutti i provvedimenti necessari e connessi al giudizio sull'aggiudicazione.

Come appena accennato, tale previsione è resa necessaria dalla disposizione contenuta all'art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 36/2023 (in precedenza, art. 32, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 e, ancora prima, art. 11, comma 10-ter, del d.lgs. n. 163/2006), in quanto prevede l'effetto sospensivo derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale contro l'aggiudicazione definitiva.

La notifica del ricorso con riferimento alle procedure di gara svolte in forma aggregata

Qualora si intenda impugnare una procedura di gara svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell'interesse anche di altri enti, è sufficiente che il ricorso sia notificato esclusivamente alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato e non anche agli altri enti. Lo ha recentemente chiarito l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, così interpretando il dettato dell'art. 41, comma 2, c.p.a. (Cons. St., Ad. Plen. , n. 8 /2018).

I motivi aggiunti

Per quanto riguarda il rito processuale ordinario, l'istituto dei motivi aggiunti è previsto dall'art. 43 c.p.a. secondo cui “i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”.

La medesima norma prevede che: i) ai motivi aggiunti si applichi la medesima disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini; ii) le notifiche alle controparti costituite avvengano ai sensi dell'art. 170 c.p.c.; iii) se la nuova (e connessa) domanda è stata proposta con ricorso separato dinanzi allo stesso tribunale, il giudice provveda alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 70 c.p.a.

In buona sostanza, mediante l'istituto dei motivi aggiunti si vuole consentire alla parte ricorrente – in determinate ipotesi – di ampliare il thema decidendum del giudizio.

Sussistono differenti tipologie di motivi aggiunti.

In particolare, i motivi aggiunti possono essere “propri” o “impropri”.

Sono detti “propri” i motivi aggiunti che determinano l'introduzione di ulteriori motivi a sostegno delle domande già proposte (ampliando così la causa petendi, senza incidere sul petitum e senza, dunque, modificare le conclusioni rassegnate); sono detti “impropri” i motivi aggiunti che introducono nuove domande connesse a quelle già proposte (ampliando, dunque, il petitum).

I motivi aggiunti propri consentono di “compensare il carattere fittizio della piena conoscenza. Invero, se da un lato la legge obbliga il privato leso (o ritenuto tale) dall'agere amministrativo ad impugnare con ricorso “al buio” quando ancora non ha accortezza piena del provvedimento impugnato, dall'altro si consente allo stesso ricorrente di ampliare le proprie censure entro sessanta giorni dalla conoscenza effettiva (e non più̀ “piena”, cioè̀ – come visto – fittizia) del provvedimento impugnato” (Caringella, Giustiniani).

Dall'altro lato, i motivi aggiunti “impropri” consentono al ricorrente – quando in pendenza di un giudizio amministrativo sopravvenga un nuovo provvedimento sfavorevole connesso a quello già impugnato – di impugnare il nuovo atto nel contesto del medesimo giudizio.

È stato chiarito, per quanto attiene al rito ordinario, come l'utilizzo da parte del ricorrente di quest'ultima tipologia di motivi aggiunti (in luogo della proposizione di un ricorso autonomo) sia una mera facoltà e non già un obbligo previsto a pena di inammissibilità dell'impugnativa, fermo restando l'obbligo imposto al giudice dal terzo comma dell'art. 43 c.p.a. di disporre la riunione dei ricorsi proposti dinanzi al medesimo tribunale contro atti connessi che avrebbero potuto essere impugnati con motivi aggiunti (Pittoni).

Per quanto concerne l'applicazione dell'istituto dei motivi aggiunti al rito speciale in materia di contratti pubblici, l'art. 120 c.p.a. contiene una disciplina sostanzialmente nuova, che si compendia in due disposizioni.

Innanzitutto, il comma 2 dell'art. 120 unifica il termine per la proposizione dei motivi aggiunti: a differenza di quanto previsto dalla disciplina di recepimento della Direttiva Ricorsi (d.lgs. n. 53/2010), l'attuale normativa prevede che il termine per la proposizione dei motivi aggiunti – avverso gli atti impugnati o avverso atti diversi da quelli già impugnati – sia pari a trenta giorni.

Ulteriore profilo di novità recato dalla disciplina codicistica riguarda l'impugnativa avverso i nuovi atti che riguardano la medesima procedura di gara. Ai sensi dell'art. 120, comma 7, c.p.a., essi devono necessariamente essere impugnati a mezzo di ricorso per motivi aggiunti, a differenza di quanto previsto con riferimento al rito ordinario (in cui, come si è visto nel paragrafo precedente, la proposizione dei motivi aggiunti è meramente facoltativa, fermo restando l'obbligo del giudice di disporre la riunione ai sensi dell'art. 43, comma 3, c.p.a.).

Sul punto si segnala una novella apportata dall'art. 209 del d.lgs. n. 36/2023 che, pur confermando l'onere di proposizione di motivi aggiunti avverso nuovi atti di gara connessi a provvedimenti già impugnati della medesima procedura (pena l'inammissibilità di un eventuale ricorso autonomo), esonera dal pagamento del contributo unificato. Si tratta di una modifica da accogliere con favore perché, in attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, contribuisce a ridurre i costi di accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici. Infatti, se si considera che in quest'ambito le cause hanno un costo già di per sé più elevato rispetto alla contribuzione standard richiesta nel rito ordinario, il cumulo di contributi unificati poteva determinare (e ha nei fatti determinato) un effetto di sostanziale disincentivo al ricorso alla tutela giurisdizionale, a detrimento del diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto.

La previsione che impone i motivi aggiunti a pena di inammissibilità risponde all'esigenza di concentrazione nel medesimo giudizio di tutte le censure che attengono alla stessa operazione di gara. Stante il tenore letterale della norma, dalla quale trapela un principio di doverosità nell'adozione dell'istituto dei motivi aggiunti per la contestazione dei nuovi atti attinenti alla medesima procedura, tale regola deve essere intesa come preclusiva di altri mezzi di tutela (Giustiniani, Fontana).

L'applicazione giurisprudenziale dell'istituto dei motivi aggiunti nel rito appalti conosce diverse questioni problematiche.

Una di queste è quella concernente l'eventuale possibilità, per un operatore economico la cui esclusione da una gara sia ritenuta legittima, di vedersi scrutinati nel merito i motivi aggiunti eventualmente proposti contro la mancata esclusione dell'aggiudicatario nel contesto del medesimo giudizio.

Sul punto, paiono meritevoli di pregio le argomentazioni sviluppate da una sentenza (cfr. T.A.R. Lazio, (Roma) II-ter, 8 aprile 2019, n. 4517) che, pur ponendosi in controtendenza rispetto a un orientamento giurisprudenziale consolidato (cfr. Cass. S.U., n. 31226/2017), ha ritenuto sussistente la legittimazione ad agire di una impresa che, con il ricorso originario, aveva impugnato la propria esclusione dalla gara, ad impugnare con motivi aggiunti la mancata esclusione della aggiudicataria, al fine di ottenere la rinnovazione della gara, nonostante il ricorso avverso l'esclusione fosse stato ritenuto infondato.

Ciò anche sulla base dell'evoluzione giurisprudenziale formatasi sulla base dei noti pronunciamenti della Corte di giustizia UE in materia di rapporti tra ricorso incidentale escludente e ricorso principale, con particolare riferimento alle sentenze Fastweb (Corte giust. UE, Sez. X, 4 luglio 2013, C-100/12) e Puligenica (Corte giust. UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016 in causa C-689/13).

Non rilevando che si tratti di due ricorsi incrociati o di un unico ricorso corredato da motivi aggiunti, il punto nodale della questione riguarda “il carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara”.

In tale contesto il T.A.R. Lazio ha ritenuto che, nonostante non si ravvisassero nel caso di specie due ricorsi incrociati, si vertesse comunque in un caso di “carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara”, trattandosi di una fattispecie speculare ma sostanzialmente identica a quella relativa al ricorso incidentale escludente. Per tale ragione i giudici amministrativi capitolini hanno riconosciuto sussistenti, nel caso di specie, tanto l'interesse che la legittimazione ad agire in relazione all'interesse strumentale alla ripetizione della gara.

In buona sostanza, il T.A.R. Lazio ha affermato che – nel caso in cui un operatore economico impugni con il ricorso principale la propria esclusione e con motivi aggiunti la mancata esclusione dell'aggiudicataria – i motivi aggiunti dovrebbero comunque essere scrutinati nel merito anche in caso di ritenuta infondatezza del ricorso principale, posto che il ricorrente conserva comunque un interesse giuridicamente rilevante alla riedizione della gara (cfr. T.A.R. Lazio, (Roma) II-ter, n. 4517/2019).

Ancorché entro limiti ben precisi, nel processo amministrativo è riconosciuta la possibilità di proporre motivi aggiunti direttamente in sede di appello.

L'art. 104, comma 3, c.p.a., prevede infatti che in appello “possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. In particolare, non è possibile impugnare con motivi aggiunti in sede di appello atti sopravvenuti in corso di giudizio. È invece possibile proporre motivi aggiunti direttamente in appello allorché si tratti di censurare vizi già insiti nei provvedimenti originariamente impugnati, purché – ovviamente – tali vizi non fossero conosciuti (né conoscibili) in primo grado, essendo affiorati soltanto dopo la conoscenza di nuovi documenti.

Tale regola generale è applicabile anche con riferimento al rito appalti, “ove l'art. 120, comma 7, c.p.a. – nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 50 del 2016 – prevede che «i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti» solo con riferimento al primo grado di giudizio, ma non già per il grado di appello, per il cui svolgimento l'art. 120, comma 11, c.p.a. non richiama la regola del comma 7 – ma solo quelle dei commi 3, 6, 8 e 10 e, dopo la novella del 2016, anche dei commi 2-bis, 6-bis, 8-bis e 9 – per l'ovvia ragione che, in virtù del generale principio di cui all'art. 104, comma 3, c.p.a., non è possibile impugnare, con motivi aggiunti, un atto sopravvenuto alla sentenza già gravata né, a fortiori, è possibile impugnare la sentenza di prime cure che si sia pronunciata sulla legittimità dell'atto di gara sopravvenuto alla prima sentenza” (Cons. St. III, n. 1633/2017).

In buona sostanza, anche nel rito appalti è possibile proporre motivi aggiunti in grado di appello, ma al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado. In tali casi, infatti, non ci si trova tanto in presenza di una nuova domanda, quanto di una mera articolazione della domanda già proposta dinanzi al giudice di primo grado. Viceversa, i motivi aggiunti non sono ammessi qualora si intenda impugnare nuovi atti, sopravvenuti rispetto alla sentenza di prime cure (Giustiniani – Fontana).

Il ricorso incidentale.

Per quanto riguarda il rito processuale ordinario, l'istituto del ricorso incidentale è previsto dall'art. 42 c.p.a. secondo cui “le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale”.

Il ricorso incidentale “è l'atto con il quale, a seguito della proposizione di un ricorso principale, il soggetto controinteressato nell'ambito di un processo amministrativo (...) propone una propria impugnazione (derivata dalla proposizione del ricorso principale e, per tale ragione, denominata “incidentale”) avverso il medesimo atto oggetto di impugnazione principale (...) censurandolo sotto profili diametralmente opposti rispetto a quelli denunciati con il ricorso principale” (Lubrano).

L'interesse del controinteressato alla proposizione del ricorso incidentale sorge unicamente nel momento in cui viene proposto il ricorso principale.

Il termine per la proposizione del ricorso incidentale è pari a sessanta giorni, decorrenti dall'avvenuto ricevimento della notifica del ricorso principale. Per i soggetti intervenuti il termine decorre dall'effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale. Il ricorso incidentale – che deve avere gli stessi contenuti richiesti dalla legge per il ricorso principale – deve essere depositato in via telematica nel termine perentorio di trenta giorni, decorrenti dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto si è perfezionata anche per il destinatario (art. 45, comma 1, c.p.a.).

Nel rito appalti, il ricorso incidentale è soggetto alla dimidiazione dei termini previsti per la relativa notifica e per il relativo deposito. Ciò comporta che il ricorso incidentale, in materia di appalti, debba essere: i) notificato alle controparti nel termine di trenta giorni dal ricevimento della notifica del ricorso principale; ii) depositato telematicamente nel termine di quindici giorni dal perfezionamento dell'ultima notifica dell'atto medesimo.

L'ordine di esame tra il ricorso principale e il ricorso incidentale. Il ricorso incidentale escludente

Si è visto che l'interesse del controinteressato a proporre il ricorso incidentale sorge proprio a causa della presentazione del ricorso principale. Ciò vale anche per il rito appalti.

Si pensi ad esempio all'aggiudicatario di una gara pubblica: egli non ha, in origine, alcun interesse ad impugnare un provvedimento a lui favorevole, anche qualora ritenga che il punteggio attribuitogli sia stato inferiore al dovuto. Qualora il secondo classificato contesti in sede giurisdizionale l'ammissibilità dell'offerta dell'aggiudicatario, quest'ultimo maturerà tuttavia un interesse a contestare anch'egli il provvedimento impugnato con il ricorso principale, deducendo a propria volta l'inammissibilità dell'offerta del ricorrente principale.

In tali situazioni, si pone il problema di determinare l'ordine in cui il giudice amministrativo è tenuto ad esaminare le questioni sottoposte alla sua attenzione.

Fin da epoca risalente, la giurisprudenza amministrativa si è posta il problema di definire i rapporti intercorrenti – nel rito appalti – tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. “escludente”.

Sul punto si è sviluppato un vivacissimo dibattito giurisprudenziale, in cui hanno recitato un ruolo di primo piano l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di giustizia dell'Unione europea.

In un primo momento, l'Adunanza Plenaria era giunta alla conclusione secondo cui il giudice avrebbe dovuto in ogni caso pronunciarsi sia sul ricorso principale che su quello incidentale, nel rispetto dei princìpi processuali sull'interesse e sulla legittimazione a ricorrere, al fine di garantire la tutela dell'interesse strumentale di ciascuna impresa alla ripetizione della gara (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 9/2008).

A seguito di alcune criticità emerse nella prassi operativa, l'Adunanza Plenaria aveva poi ritenuto di tornare sui propri passi, attribuendo all'esame del ricorso incidentale c.d. “escludente” un carattere necessariamente preliminare rispetto all'esame del ricorso principale, e stabilendo che la fondatezza del ricorso incidentale – implicando l'assenza di una posizione legittimante in capo al ricorrente principale – dovesse determinare l'improcedibilità del ricorso principale, anche laddove il ricorrente principale medesimo avesse allegato la sussistenza di un interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 4/2011).

Dopo qualche tempo si è inserita nel dibattito la Corte di giustizia dell'Unione europea, con la nota sentenza Fastweb, la quale ha affermato che “qualora per mezzo di un ricorso incidentale l'aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un appalto deduca che l'offerta del ricorrente principale sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione appaltante, sì da rendere inammissibile l'impugnazione (a sua volta incentrata sulla non conformità dell'offerta dell'aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche) proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una gara a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel merito da parte del giudice investito della controversia” (Corte giust. UE, Sez. X, 4 luglio 2013, C-100/12).

Sollecitata dunque ad un nuovo intervento che tenesse conto delle conclusioni a cui era pervenuta la Corte di giustizia, l'Adunanza Plenaria è ritornata sulla questione, riconoscendo l'obbligo dell'esame (anche) del ricorso principale, pur successivamente alla riconosciuta fondatezza del ricorso incidentale, ma soltanto a condizione che i) si versasse all'interno del medesimo procedimento, che ii) gli operatori rimasti in gara fossero soltanto due e che iii) il vizio rilevato fosse il medesimo per entrambe le offerte (c.d. “simmetria invalidante”) (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 9/2014).

La Corte di giustizia dell'Unione europea, tuttavia, chiamata anch'essa a pronunciarsi nuovamente sulla medesima questione, con la celebre sentenza Puligienica ha precisato i) come i princìpi affermati nella sentenza Fastweb dovessero considerarsi applicabili anche nel caso di gare con più di due concorrenti, e ii) come l'interesse del ricorrente principale non dovesse essere ricollegato all'iniziativa giurisdizionale, ma all'operato dell'amministrazione, la quale avrebbe comunque potuto agire in autotutela e annullare l'intera procedura, con conseguente eventuale riedizione della gara medesima (Corte giust. UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016, C-869/13).

A seguito della sentenza Puligienica, nessuno dubita più che – nel caso in cui siano rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi reciprocamente escludenti – si imponga la disamina di entrambi i ricorsi, quali che siano i motivi di censura ivi contenuti.

Allo stesso modo, nessuno dubita più che alle medesime conclusioni debba pervenirsi – anche in presenza di una pluralità di contendenti rimasti in gara – qualora il ricorso principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo della procedura in quanto: “I) si censuri la regolarità della posizione – non soltanto dell'aggiudicatario e di tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore della propria ma, anche – dei rimanenti concorrenti collocati in posizione deteriore; II) ovvero perché siano proposte censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad invalidare l'intera selezione” (Cons. St., Ad. Plen., ord. n. 6/2018).

Non vi è, invece, unanimità di vedute circa l'ipotesi in cui, essendo rimasti in gara una pluralità di concorrenti, “ a) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero purtuttavia alcune offerte non attinte” dai vizi riscontrati; b ) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso la lex specialis tese ad invalidare l'intera gara e determinanti – ove accolte – la certa ripetizione della procedura” (Cons. St., Ad. Plen., ord. n. 6/2018).

Secondo un primo orientamento, la sentenza Puligienica imporrebbe anche in tali casi “la disamina del ricorso principale, pur dopo l'avvenuto accoglimento del ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di ricorso principale poiché la domanda di tutela può essere evasa soltanto con l'esame di tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria l'aggiudicazione del contratto all'impresa successivamente classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre ritenere opportuno, dinanzi all'esclusione delle prime classificate, riesaminare in autotutela gli atti di ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti spazio effettivo per aggiudicare a un'offerta regolare e si addivenga alla ripetizione della procedura” (Cons. St., Ad. Plen., ord. n. 6/2018).

Vi è poi un differente orientamento, secondo cui “l'esame del ricorso principale si imporrebbe soltanto laddove l'accoglimento dello stesso produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura dell'offerente parte della controversia” (Cons. St., Ad. plen., ord. n. 6/2018).

Nuovamente investita della questione, l'Adunanza Plenaria ha ritenuto di chiamare in causa (ancora una volta) la Corte di giustizia dell'Unione europea, chiedendo se il diritto eurounitario “possa essere interpretato nel senso che esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell'autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell'interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell'ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell'interesse affermato (art. 2697 c.c.), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 c.c.)” (Cons. St., Ad. plen., ord. n. 6/2018).

Così sollecitata sul tema, la Corte di giustizia si è pronunciata mettendo (forse) la parola fine alla questione, statuendo che il diritto eurounitario “deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un ricorso principale, proposto da un offerente che abbia interesse ad ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono quest'ultimo, ed inteso ad ottenere l'esclusione di un altro offerente, venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell'appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorsi” (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18).

In buona sostanza, i giudici eurounitari hanno puntualizzato come il principio che impone di esaminare il ricorso principale anche in caso di fondatezza del ricorso incidentale debba essere applicato anche quando abbiano presentato offerta anche soggetti ulteriori rispetto alle parti del giudizio e anche se le offerte di questi ultimi non siano state attinte da alcuna censura.

Ciò in quanto “qualora il ricorso dell'offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l'amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell'amministrazione stessa” (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18).

In buona sostanza, anche se in caso di accoglimento di tutte le censure proposte dal ricorrente principale e dai ricorrenti incidentali sopravvivessero alcune offerte perfettamente regolari e non attinte da censura alcuna, il giudice conserverebbe la facoltà di non aggiudicare la gara qualora nessuna delle offerte rimaste sia giudicata soddisfacente: ciò basta perché il ricorrente principale mantenga sempre un interesse giuridicamente rilevante a che il suo ricorso venga scrutinato, potendo comunque sperare nella riedizione della gara da parte della stazione appaltante.

Alla luce di tali circostanze, la Corte ha chiarito che “la ricevibilità del ricorso principale non può – a pena di pregiudicare l'effetto utile della direttiva 89/665 – essere subordinata alla previa constatazione che tutte le offerte classificate alle spalle di quella dell'offerente autore di detto ricorso sono anch'esse irregolari. Tale ricevibilità non può neppure essere subordinata alla condizione che il suddetto offerente fornisca la prova del fatto che l'amministrazione aggiudicatrice sarà indotta a ripetere la procedura di affidamento di appalto pubblico. L'esistenza di una possibilità siffatta deve essere considerata in proposito sufficiente” (Corte giust. UE, sent. 5 settembre 2019, causa C-333/18).

La tutela cautelare

La fase cautelare nel processo in materia di contratti pubblici ha sempre rivestito, e riveste tuttora, un ruolo molto significativo nello sviluppo dell'intero rito processuale.

Nel giudizio cautelare, infatti, si concentrano le maggiori aspettative delle parti, emergendo in tale sede valutazioni che inevitabilmente finiscono con il condizionare il giudizio di merito.

Analogamente, è nel contesto della fase cautelare che finisce per concretizzarsi il c.d. effetto bloccante del contenzioso amministrativo sulle commesse pubbliche (in verità limitato a meno dell'1% del totale delle procedure bandite e a poco più di un quarto dei ricorsi proposti).

Al fine di contemperare i confliggenti interessi della fase cautelare, il legislatore è intervenuto più volte a disciplinare e a re-disciplinare tale momento processuale, sino alle profonde innovazioni operate con il d.l. n. 90/2014, con la successiva legge di conversione n. 114/2014, con il d.lgs. n. 50/2016, con il d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni) convertito dalla l. n. 120/2020 ed infine, da ultimo, con il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023).

Ad oggi, dunque, la disciplina relativa alla tutela cautelare è rinvenibile nel combinato disposto degli artt. 120 e 55 ss. c.p.a., nonché nell'art. 18 del d.lgs. n. 36/2023.

La tutela cautelare ante causam e il periodo di sospensione automatica (c.d. stand still)

L'art. 61 c.p.a. generalizza la tutela presidenziale monocratica ante causam, prima di allora prevista solo dall'art. 245 del d.lgs. n. 163/2006.

In definitiva, quindi, la tutela cautelare ante causam è attualmente ammessa in tutti i giudizi riservati alla cognizione del giudice amministrativo, ad eccezione di taluni riti speciali, ontologicamente incompatibili con lo strumento cautelare (si pensi, ad esempio, al giudizio elettorale disciplinato dall'art. 129 c.p.a.).

Vengono in tal modo superati i numerosi dubbi di costituzionalità del previgente art. 245 del d.lgs. n. 163/2006, tacciato di disparità di trattamento “allorché si (fosse evidenziato) anche in altre materie (che si era) in presenza della medesima situazione giuridica soggettiva tutelata nella materia degli appalti” (cfr. Cons. St. I, parere 1 febbraio 2010, n. 355/2010).

Peraltro, l'ambito della delega conferita per il recepimento della Direttiva Ricorsi non aveva consentito al legislatore delegato di operare diversamente e, pertanto, l'organo consultivo suggeriva di dare corso ad “una urgente e specifica iniziativa legislativa diretta a prevedere la tutela cautelare (ante causam) per la generalità dei casi di giurisdizione amministrativa”.

La delega al Governo per la formulazione del codice del processo amministrativo ha accolto detti rilievi.

In particolare l'art. 44, comma 2, lett. f), della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha indicato, tra i criteri direttivi della codificazione, anche la necessità di generalizzare la tutela cautelare ante causam.

In attuazione della legge delega, l'art. 61 c.p.a. ha introdotto in via ordinaria e generale la tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo.

La norma in commento, in particolare, dispone che il provvedimento che accoglie l'istanza cautelare ante causam perda effetto se entro quindici giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare, ed esso non venga depositato nei successivi cinque giorni corredato da istanza di fissazione di udienza.

Una tutela analoga a quella testé descritta è prevista dall'art. 56 c.p.a.: ossia la tutela cautelare monocratica in corso di causa.

La disciplina sin qui tratteggiata, tuttavia, trova oramai poco spazio di utilizzo pratico nella materia dei contratti pubblici; infatti, salvo casi di natura eccezionale, nelle ipotesi di contestazioni giudiziali contro l'aggiudicazione è sufficiente la proposizione del ricorso a produrre de facto la sospensione dell'efficacia del provvedimento gravato, con la conseguenza che la proposizione dell'istanza cautelare ante causam appare superflua.

Il riferimento è all'art. 18, comma 4, d.lgs. n. 36/2023 (corrispondete al previgente art. 32, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016), il quale dispone che “se è proposto ricorso avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante o all'ente concedente fino alla pubblicazione del provvedimento cautelare di primo grado o del dispositivo o della sentenza di primo grado, in caso di decisione del merito all'udienza cautelare. L'effetto sospensivo cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell'articolo 15, comma 4, del codice del processo amministrativo di cui all'Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza pronunciarsi sulle misure cautelari con il consenso delle parti, valevole quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare”.

Tale periodo si somma a quello precedente di trentacinque giorni di cui al comma 3 della medesima disposizione, che impone lo stand-still per la stipula del contratto a decorrere dall'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione.

Lo stand-still processuale ha subito alcune modifiche rispetto all'assetto previgente all'esito della promulgazione del nuovo Codice dei contratti pubblici.

Non si prevede, infatti, più una sospensione ex lege di durata temporale pari a venti giorni (decorrenti dalla notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante), bensì una sospensione che, a decorrere dalla notifica del ricorso corredato da richiesta di misura interinale, si prolunga fino all'ordinanza cautelare ovvero anche sino alla sentenza di merito (o al relativo dispositivo) se il Collegio, a valle della camera di consiglio, trattiene direttamente la causa in decisione sul merito. La nuova formulazione dello stand-still processuale si può accogliere con favore: essa elimina, infatti, un elemento di ambiguità della regolazione antecedente nei casi in cui il provvedimento cautelare ovvero di merito tardasse oltre il termine di venti giorni fissato dal legislatore.

Può essere opportuno ricordare che il legislatore del decreto Semplificazioni, al fine di evitare applicazioni eccessivamente 'estensive' del termine di stand still e quindi di incentivare la stipula dei contratti pubblici entro il termine di sessanta giorni, si era premurato di intervenire sul testo dell'art. 32, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016, per specificare che “non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”. Si osserva che tale specificazione, ancorché non letteralmente trasposta nell'odierno art. 18 del d.lgs. n. 36/2023, si evince dalla disposizione da ultimo citata e, in particolare, dalla previsione – contenuta nel comma 7 – per cui “la mancata o tardiva stipula del contratto al di fuori delle ipotesi di cui ai commi 5 e 6 costituisce violazione del dovere di buona fede, anche in pendenza di contenzioso”.

In ogni caso, la cessazione dell'effetto sospensivo ex lege – e quindi, la reviviscenza della potestà di addivenire alla stipula dello strumento negoziale – coincide: i) con la declaratoria di incompetenza, resa dall'adito organo di giustizia in sede di esame della domanda cautelare; ii) con la fissazione, con ordinanza, della data di discussione del merito senza che vengano concesse misure cautelari, previo assenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame della domanda cautelare. Le ragioni della sospensione automatica sono da ricondurre all'esigenza di evitare il reciproco condizionamento tra il giudizio sull'aggiudicazione e la stipulazione del contratto in sede amministrativa, al fine di garantire la tutela effettiva degli interessi delle parti in campo (Giustiniani, Fontana, Il nuovo processo degli appalti pubblici).

Si è già anticipato che l'effetto sospensivo automatico rende sostanzialmente superflua, per il ricorrente, la tutela cautelare ante causam e quella con decreto presidenziale.

Tuttavia, sul punto è stato opportunamente evidenziato che la perdurante rilevanza di tale istituto potrebbe venire in considerazione nelle seguenti ipotesi:

i) nei casi in cui non si applica il termine dilatorio previsto dalla legge (art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 36/2023 che corrisponde al precedente art. 32, comma 10, lett. a) e b), del d.lgs. n. 50/2016);

ii) nei casi in cui, anche qualora venga impugnata l'aggiudicazione, il ricorrente voglia utilizzare una tutela d'urgenza in quanto si siano verificate circostanze eccezionali di mancato rispetto del termine dilatorio.

Tali casi, enucleati nei primi commenti alla disciplina del d.lgs. n. 50/2016, consistono essenzialmente:

i) nell'avvio dell'esecuzione d'urgenza dell'appalto, da parte della stazione appaltante, pur in assenza di un contratto formalmente stipulato;

ii) nella violazione dell'effetto sospensivo automatico da parte della stazione appaltante;

iii) qualora dette forme di tutela vengano richieste direttamente dalla stazione appaltante resistente o dai controinteressati, per ottenere il prima possibile una pronuncia cautelare ad essi favorevole, che renda possibile la stipulazione del contratto (Giustiniani - Fontana).

I termini della tutela cautelare collegiale.

Per quanto riguarda la domanda cautelare collegiale, in applicazione dell'art. 119, comma 2, c.p.a., i termini – ordinatori – stabiliti dall'art. 55, comma 5, c.p.a. sono dimezzati.

Il collegio, pertanto, si pronuncia sulla domanda cautelare nella prima camera di consiglio successiva al decimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell'ultima notificazione, nonché al quinto giorno dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a un giorno libero prima della camera di consiglio.

La “sospensiva dietro cauzione” e la “sospensiva temporizzata”

Uno step importante nell'evoluzione della disciplina della fase cautelare del rito-appalti è stato rappresentato dal d.l. n. 90/2014.

Nella versione originaria del decreto, precedente alle modifiche apportate in sede di conversione, le innovazioni recate alla disciplina de qua erano due:

i) l'imposizione di un obbligo generalizzato, sebbene non del tutto inderogabile, di subordinazione della concessione della misura cautelare collegiale alla prestazione di una apposita cauzione;

ii) la previsione di una “temporalizzazione” (ossia una durata massima) della misura cautelare, da concedersi per un periodo non superiore a sessanta giorni.

Per quanto riguarda l'introduzione di una forma di cauzione obbligatoria (peraltro, senza nemmeno fissare un parametro per il suo calcolo) per la concessione della tutela interinale, il predetto decreto aveva previsto che il giudice avrebbe dovuto sempre accompagnare la concessione della misura cautelare richiesta con la prestazione di una adeguata cauzione, salvo che ricorressero eccezionali ragioni.

Si andava così a snaturare il sistema previgente, posto che la cauzione, da tutela della parte processuale suscettibile di essere danneggiata dall'applicazione della misura interinale, diveniva un disincentivo per la parte potenzialmente “nel giusto” a domandare anche la tutela cautelare.

Ciò comportava inoltre un ulteriore innalzamento degli oneri che un operatore avrebbe dovuto sostenere per poter accedere alla giustizia nel settore degli appalti, aggiungendosi a quelli già imposti i) dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in ordine agli speciali (per valore) contributi unificati dovuti per la presentazione di ricorsi e motivi aggiunti ex art. 120 c.p.a., e ii) dall'art. 41 dello stesso d.l. n. 90/2014, in ordine alla condanna aggravata per lite temeraria che può arrivare sino all'1% del valore del contratto, così superando i tetti previsti per i restanti contenziosi.

Le suddette considerazioni rendevano evidente la duplice illegittimità della previsione, al contempo contrastante con la Costituzione e con il diritto eurounitario, nella misura in cui obbligava in via indefettibile la parte ricorrente a sostenere un esborso pecuniario per vedere tutelato il proprio diritto e soprattutto nella misura in cui limitava fortemente il diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale (Giustiniani, Fontana).

Sulla scorta delle argomentazioni svolte, il nuovo regime è stato immediatamente cassato sin dalla primissima giurisprudenza applicativa del d.l. n. 90/2014, che ha proceduto alla sua disapplicazione diretta per contrarietà al diritto eurounitario senza previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea. In particolare, il T.A.R. Milano, esprimendosi in sede cautelare sulla richiesta di sospensione del provvedimento con il quale una stazione appaltante aveva esercitato il diritto di recesso da un contratto stipulato con un R.T.I. a seguito della trasmissione di un'informativa antimafia a carico della mandataria, ritenne di concedere la sospensiva, non subordinandola tuttavia ad alcuna forma di cauzione (cfr. T.A.R. Lombardia (Milano) IV, 30 luglio 2014, n. 1044).

I giudici milanesi ritennero infatti “l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione di una cauzione, in quanto l'art. 40, comma 1 lett.b), del d.l. n. 90/2014, deve essere disapplicato per incompatibilità comunitaria, nella parte in cui stabilisce l'obbligo di subordinare necessariamente l'efficacia della misura cautelare alla prestazione di una cauzione, atteso che tale previsione risulta contrastante con gli artt. 1 e 2 della direttiva comunitaria 2007, n. 66, che impongono agli Stati membri l'adozione di misure idonee a garantire, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalle Direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE, procedure di ricorso accessibili ed efficaci, senza alcuna discriminazione tra i vari operatori in dipendenza della loro diversa capacità finanziaria”.

Una analoga sterilizzazione della neo-introdotta disciplina in materia di tutela cautelare si registrò anche ad opera del T.A.R. Napoli (cfr. T.A.R. Campania (Napoli) IV, 16 luglio 2014, n. 1199). I giudici partenopei, pur seguendo una diversa via rispetto ai giudici milanesi, arrivarono comunque a una disapplicazione de facto dell'art. 40, comma 1, lett. b), d.l. n. 90/2014. Il T.A.R. infatti, pur accogliendo l'istanza cautelare e pur subordinando effettivamente la sospensiva alla prestazione di una cauzione da parte del ricorrente, per un verso fissò a carico di quest'ultimo un importo di cauzione sostanzialmente irrisorio (500 euro), e per un altro verso condannò l'amministrazione soccombente nella fase cautelare a rifondere le spese legali sostenute dal ricorrente medesimo per l'esatto ammontare della cauzione versata (ossia sempre 500 euro).

Anche a seguito di tali sollecitazioni giurisprudenziali, in sede di conversione in legge alcune delle problematiche descritte sono state affrontate e risolte.

Il Parlamento ha infatti separato l'originario binomio imposto dal decreto-legge (cautela-cauzione), sostituendo l'obbligatorietà della sospensiva con cauzione con una sospensiva con facoltà di cauzione, nonché stabilendo un parametro per il suo calcolo (valore del contratto) e un tetto oltre il quale il giudice non possa comunque spingersi (0,5 per cento del valore del contratto medesimo).

Sotto altro quanto connesso profilo, come si vedrà meglio più avanti, va altresì osservato che le criticità esposte risultano oggi ammortizzate anche in ragione della previsione i ) della definizione del merito del giudizio in sede cautelare come regola generale – seppur non incondizionata – e non più come eccezione, nonché ii ) di un meccanismo marcatamente acceleratorio per la fissazione dell'udienza di merito, da attivarsi ove non vi siano i presupposti per la definizione del giudizio già all'esito dell'udienza fissata per la discussione dell'istanza cautelare.

Tali novelle hanno infatti notevolmente ristretto gli spazi della tutela cautelare nel rito-appalti, de facto ormai limitata ai soli casi in cui i) non siano trascorsi almeno venti giorni dalla notificazione dell'istanza cautelare, ovvero ii) l'istruttoria e il contraddittorio siano incompleti, oppure iii) una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione, ovvero iv) la complessità della causa sia tale da non consentirne una definizione 'eccessivamente anticipata'.

Come anticipato, la seconda rilevante novità introdotta al rito cautelare dal d.l. n. 90/2014 è rappresentata dalla temporizzazione della sospensiva.

Nell'assetto antecedente al d.lgs. n. 36/2023, tale temporizzazione era fissata a una soglia massima di sessanta giorni (per cui si veda vecchio comma 8-bis dell'art. 120); ora, invece, si specifica che “la durata della misura subordinata alla cauzione è indicata nell'ordinanza”. In altre parole, non sono previsti più limiti temporali massimi.

L'innovazione normativa da ultimo enunciata neutralizza le eccezioni di potenziale non conformità con il diritto dell'Unione europea e con quello costituzionale a cui si esponeva il quadro normativo previgente.

Del resto, immaginando un ordinario ricorso avverso l'aggiudicazione di un appalto, la peculiare funzione della sospensiva è quella di evitare che, prima della definizione del giudizio, la stazione appaltante possa stipulare il contratto con la parte processuale controinteressata a danno del ricorrente.

In tale contesto, il regime della cautela temporizzata antecedente all'ultima riforma era in grado di “reggere” all'impatto con i principi unionali e costituzionali solo se entro i sessanta giorni previsti dal vecchio comma 8-bis dell'art. 120 c.p.a. fosse pubblicata la decisione di primo grado (o quantomeno il suo dispositivo).

Tuttavia, considerato che, ai sensi dell'art. 120, comma 6 (ora comma 5), c.p.a., il termine entro cui fissare l'udienza di discussione era (ed è tuttora) pari a quarantacinque giorni dalla scadenza di quello per la costituzione delle parti, nonché la prevista possibilità di slittamento di quest'ultima di ulteriori trenta giorni per esigenze istruttorie o di integrazione del contradditorio, il rischio che il periodo di sospensione non coincida (per difetto) con quello di completamento del processo di primo grado era pertanto assai elevato.

In queste ipotesi, la parte che avesse ottenuto la prima sospensiva sarebbe stata costretta a riattivarsi per domandare la concessione di una nuova misura cautelare, incorrendo così in ulteriori costi e costringendo ad un'ulteriore (quanto superflua) attività anche gli uffici giudiziari.

Le novità introdotte in tema di tutela cautelare dal d.lgs. n. 50/2016

La tutela cautelare nel rito speciale degli appalti pubblici è stata incisa anche dal d.lgs. n. 50/2016, che ha portato con sé due novità sostanziali.

In primo luogo, la previsione di un sub-rito (ancora più) speciale (ed oggi abrogato) relativo ai provvedimenti di ammissione e di esclusione dei concorrenti, caratterizzato da termini processuali estremamente ristretti e da decidersi direttamente in camera di consiglio, aveva di fatto escluso la necessità di una tutela di tipo cautelare. In secondo luogo, l'introduzione del nuovo comma 8-ter (ora comma 10) nel corpo dell'art. 120 c.p.a. secondo cui “nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione” si pone l'evidente finalità di collegare in modo diretto la decisione assunta in sede cautelare alle medesime valutazioni che devono orientare le scelte – in sede di merito – in ordine alla pronuncia di inefficacia del contratto eventualmente stipulato.

Al tempo stesso, quanto al profilo procedurale, il legislatore ha introdotto un nuovo onere motivazionale dei provvedimenti cautelari specifico per la materia degli appalti.

In dottrina, la disposizione ha ricevuto numerose critiche. In particolare, vi è chi, per un verso, ritiene che “l'effettiva utilità della norma, che recepisce in modo pressoché letterale un puntuale criterio di delega, è assai discutibile, poiché, in linea generale, il nesso con gli esiti possibili del merito è sempre presente nella motivazione cautelare” (Lipari); e chi, per un altro, ritiene tale norma addirittura dannosa se sommata al ristrettissimo termine per proporre ricorso e ai tempi – forse troppo rapidi – per concludere i giudizi (Lipari).

In senso favorevole all'introduzione è stato, invece, notato che “quando il legislatore dice che già nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, significa che se il contratto è stato già stipulato in violazione dello stand still o con violazione degli obblighi di evidenza pubblica, il giudice amministrativo non deve limitarsi a sospendere l'aggiudicazione, o addirittura giungere a ritenere insussistente il periculum essendosi ormai verificato l'evento della stipulazione, ma piuttosto deve sospendere il contratto, a meno che esigenze imperative lo sconsiglino” (Veltri).

Le novità introdotte in tema di tutela cautelare dal d.l. n. 76/2020

Se già prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, il comma 8-ter (ora comma 10) dell'art. 120 c.p.a. 'indirizzava' in un certo modo la decisione cautelare del giudice, prevedendo che quest'ultimo tenesse conto “di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione”, il decreto Semplificazioni ha introdotto, seppur in via temporanea, un ulteriore criterio a cui il giudice amministrativo è tenuto ad ispirarsi nella propria decisione cautelare.

Il d.l. n. 76/2020 prevedeva infatti che – in tutti i giudizi relativi alle procedure di gara (rectius: a tutte le procedure di gara, indipendentemente dal loro oggetto e dal loro importo) avviate in vigenza del decreto Semplificazioni e prima del 31 luglio 2021 – dovesse trovare applicazione il secondo comma dell'art. 125 c.p.a.

Più precisamente, con riferimento a tutti i giudizi che avessero ad oggetto l'impugnazione di provvedimenti adottati nel contesto di procedure avviate nel periodo sopra indicato, l'art. 4, comma 2, d.l. n. 76/2020 disponeva i ) che in sede di pronuncia del provvedimento cautelare si dovesse tenere conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi suscettibili di essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e ii ) che, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si dovesse valutare anche l'irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse doveva essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione della procedura.

Un'ulteriore e ben più incisiva novità apportata dal d.l. n. 76/2020 in tema di tutela cautelare nel rito-appalti è rappresentata dall'elevazione a regola generale (seppur non incondizionata) della definizione del merito del giudizio già in esito all'udienza cautelare (confermata anche nell'attuale assetto normativo successivo al d.lgs. n. 36/2023).

Nella sua formulazione precedente alle modifiche apportate dal Parlamento in sede di conversione, il decreto Semplificazioni aveva ritenuto di “unificare” il giudizio cautelare e quello di merito, con la sola condizione della ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a., ossia a condizione i) che fossero trascorsi almeno venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso, ii) che fosse stata accertata la completezza di istruttoria e contraddittorio, iii) che fossero state sentite sul punto le parti costituite e iv) che nessuna parte avesse dichiarato l'intenzione di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione.

In tutte le predette ipotesi, la novella in esame integrava una sostanziale eliminazione della tutela cautelare, de facto sostituita dall'anticipazione della definizione del merito dei giudizi.

La legge di conversione del decreto (l. n. 120/2020) ha parzialmente “depotenziato” la novella in esame, condizionando la definizione del merito del giudizio in sede cautelare alla sussistenza di presupposti ulteriori, richiedendo i) che le parti abbiano fatto richiesta congiunta di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, ovvero, in mancanza di tale richiesta congiunta, ii) che tale definizione anticipata del merito del giudizio sia compatibile con le esigenze di difesa di tutte le parti, in relazione alla complessità della causa.

Sul punto, si rileva quanto segue: posto che il giudizio di merito sarebbe funzionalmente preordinato a garantire una tutela piena ed effettiva a fronte di un giudizio cautelare idoneo a tutelare le ragioni del ricorrente solamente in via provvisoria ed interinale, la sua sostanziale “incorporazione” nelle ristrette tempistiche del giudizio cautelare (seppur limitatamente alle ipotesi in cui sussistano i presupposti indicati dal nuovo art. 120, comma 5, c.p.a.) rischia di pregiudicare la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale. Infatti, delle due l'una: i) o le tempistiche previste per il giudizio cautelare sono effettivamente idonee ad assicurare una tutela piena ed effettiva (e ciò equivarrebbe ad ammettere la sostanziale inutilità del giudizio cautelare, in guisa da far sorgere spontanea una domanda: perché il legislatore non ha pensato prima ad eliminare la tutela cautelare, prevedendo sin da subito per il giudizio di merito le ristrette tempistiche previste – invece – per il giudizio cautelare medesimo?), ii) oppure, con il pretesto di comprimere ulteriormente le tempistiche del rito-appalti, il legislatore ha posto in essere un'illegittima compressione delle garanzie costituzionali dei cittadini ed in particolar modo del diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, garantito tanto dalla Costituzione quanto dal diritto eurounitario (Giustiniani, Fontana).

La fase di merito del giudizio alla luce delle novità apportate dal d.l. n. 76/2020

La prospettiva acceleratoria dell'intero rito super-speciale è confermata anche nella fase finale del giudizio, relativa alla definizione della causa nel merito.

Ciò è ancor più vero sol che si considerino le modifiche apportate al comma 6 (ora comma 5) dell'art. 120 c.p.a. dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), il quale, come è noto, ha recato importanti novelle nella disciplina della contrattualistica pubblica anche sotto il profilo processuale.

In modo particolare, il legislatore del d.l. n. 76/2020, prima che il Parlamento modificasse il testo del decreto in sede di conversione in legge, aveva elevato a regola generale la definizione del merito del giudizio già in sede di definizione dell'istanza cautelare, anche qualora non si versasse in una delle ipotesi di cui all'art. 74 c.p.a. (manifesta fondatezza ovvero manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso), a condizione i) che fossero trascorsi almeno venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso, ii) che fosse stata accertata la completezza di istruttoria e contraddittorio, iii) che fossero state sentite sul punto le parti costituite e iv) che nessuna parte avesse dichiarato l'intenzione di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione.

La primissima giurisprudenza applicativa della norma in esame ne aveva già evidenziato l'applicabilità – secondo il principio tempus regit actum – alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva all'entrata in vigore del decreto Semplificazioni (T.A.R. Lazio (Roma) II, 6 agosto 2020, n. 9044).

Si trattava di una modifica normativa estremamente incisiva, potenzialmente idonea a impattare pesantemente sulla quotidianità del contenzioso amministrativo, per quanto non si ignori certamente che, nel contesto del rito-appalti, siano tutt'altro che infrequenti i casi in cui le parti abbiano necessità di proporre motivi aggiunti o ricorso incidentale, con conseguente inapplicabilità in concreto della novella in parola, già nella sua formulazione primigenia (Fontana, Madeo).

Su tale impianto si è innestata la legge di conversione n. 120/2020, che ha parzialmente “ridimensionato” la novella in parola, circoscrivendone l'applicabilità ai casi in cui “le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa”.

In buona sostanza, a seguito delle modifiche apportate dal Parlamento in sede di conversione in legge del d.l. n. 76/2020, affinché possa operare la definizione anticipata del merito del giudizio in sede cautelare, non è più sufficiente la ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a., occorrendo altresì i) che le parti abbiano richiesto congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione ovvero, in assenza di tale richiesta congiunta delle parti, ii) che tale anticipazione della definizione del giudizio sia compatibile con le esigenze difensive delle parti medesime, tenendo conto della complessità della causa.

La ratio perseguita dal legislatore della legge di conversione n. 120/2020 è stata quella di evitare che, nei giudizi in cui il thema decidendum sia particolarmente complesso e problematico, una definizione del merito eccessivamente accelerata finisca per pregiudicare il diritto delle parti ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva.

In linea di principio, non pare inappropriato che il legislatore si sia preoccupato di circoscrivere con più puntualità ed attenzione i casi in cui la sostanziale unificazione della discussione cautelare con la discussione di merito possa consentire alle parti di concludere il processo in tempi oggettivamente molto rapidi, in maniera tale da evitare che la velocità nella definizione del giudizio possa pregiudicare il buon funzionamento della giustizia amministrativa: “fare in fretta” non necessariamente significa “fare bene”.

Sennonché, posto che il tenore letterale della novella (“(...) compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa (...)”) sembra rimettere al giudice l'onere di decidere se la complessità di una causa sia tale da consentirne una definizione anticipata, si ritiene che tale soluzione non sia scevra da possibili criticità. Se da un lato non è chiaro su quali parametri il giudice debba basarsi per “misurare” la complessità della causa, dall'altro lato non è chiaro nemmeno se la scelta del giudice di definire in sede cautelare il merito del giudizio possa essere sindacata dalle parti in sede di appello (Giustiniani, Fontana).

In sede di prima applicazione della novella, l'atteggiamento del giudice amministrativo è stato di sostanziale conservazione dello status quo ante, con lievissimo incremento della definizione immediata e, piuttosto, con mera limitazione nella motivazione delle ordinanze cautelari della dicitura di stile indicante l'incompatibilità del tipo del giudizio alla definizione immediata.

Del resto, la durata di un giudizio può considerarsi ragionevole solo qualora consenta un corretto spiegamento del contradditorio e del diritto di difesa. Un giudizio eccessivamente rapido rischia, nel lungo periodo, di essere un fattore di rallentamento e non già di accelerazione, nella misura in cui potrebbe provocare ulteriore contenzioso in appello (Goggiamani).

Ciò premesso, si evidenzia che per le ipotesi di impossibilità di definire il merito del giudizio già in sede di definizione dell'istanza cautelare, resta valido quanto stabilito dal legislatore del d.l. n. 90/2014, che ritenne di stabilire un termine massimo per lo svolgimento dell'udienza di merito.

Tale termine, che il predetto decreto aveva originariamente indicato in trenta giorni, è stato elevato a quarantacinque giorni in sede di conversione. Il dies a quo è stato, invece, individuato nella scadenza del termine di costituzione in giudizio delle parti diverse dal ricorrente: ossia trenta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso introduttivo. Il termine complessivo è dunque di settantacinque giorni dal perfezionamento della notificazione del ricorso.

Uniche eccezioni al novellato meccanismo di fissazione delle udienze di discussione sono rappresentate da:

i) eventuali esigenze istruttorie;

ii) la necessità di integrare il contraddittorio;

iii) la necessità di rispetto dei termini a difesa.

In queste ipotesi la data d'udienza può essere differita di non oltre trenta giorni.

Il sistema che discende da quanto sin qui illustrato, dunque, delinea un processo lampo che dovrebbe concludersi i) di norma già in esito all'udienza cautelare ii) ovvero, in assenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. e al nuovo sesto comma dell'art. 120 c.p.a., con la celebrazione dell'udienza finale di discussione in un arco temporale variabile tra i settantacinque e i centocinque giorni dal perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo per l'ultima delle parti intimate.

A tale periodo – come si avrà modo di vedere nel paragrafo successivo – deve essere esclusivamente aggiunto il termine di quindici giorni dall'udienza entro cui deve intervenire i) la pubblicazione della sentenza ovvero, qualora la stesura delle motivazioni sia particolarmente complessa, quantomeno ii) la pubblicazione del relativo dispositivo con l'indicazione delle domande eventualmente accolte e delle misure disposte per garantirne l'attuazione.

L'opzione acceleratoria seguita dal legislatore con riferimento alla calendarizzazione delle udienze di merito è condivisibile. Infatti, nonostante il meccanismo “accelerato” di fissazione delle udienze rischi di non tenere conto delle peculiarità dei singoli casi concreti (ad esempio obbligando ad una rapida definizione giudizi in cui né l'interesse delle parti, né l'interesse pubblico sarebbero tali da giustificare in senso assoluto un processo lampo), si ritiene che l'innalzamento sproporzionato del costo della giustizia in questo specifico settore debba avere come controprestazione un servizio di giustizia in grado di fornire risposte sempre più in linea con le celeri tempistiche dettate dal mercato (Giustiniani, Fontana).

In chiave critica, al netto delle scelte lessicali del decreto Semplificazioni – secondo cui, nell'ambito del rito-appalti, in presenza dei relativi presupposti il giudizio è “di norma” definito già in sede di udienza cautelare – non è chiaro se e in che misura – in tali ipotesi – residuino in capo al giudice margini di discrezionalità circa l'eventuale scelta di mantenere la separazione tra il giudizio cautelare e quello di merito, e di riservarsi quindi la definizione di quest'ultimo all'esito di una successiva udienza all'uopo fissata nel rispetto dei termini di cui al sesto comma dell'art. 120.

In altre parole, i quesiti che si pongono sono i seguenti:

i) qualora in sede di udienza cautelare ravvisi la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. e al nuovo sesto comma dell'art. 120 c.p.a., il giudice è sempre tenuto a definire il merito del giudizio?

ii) in caso di risposta negativa alla precedente domanda, quali sono le ragioni che legittimano l'eventuale scelta di fissare comunque un'apposita udienza per il giudizio di merito?

iii) l'eventuale scelta del giudice di mantenere la separazione del giudizio cautelare da quello di merito pur in presenza dei presupposti di cui all'art. 60 c.p.a. deve ritenersi soggetta a qualche forma di sindacato?

iv) al contrario, qualora il giudice definisca il merito del giudizio già in sede cautelare pur in assenza dei presupposti di legge, tale circostanza può costituire un vizio di legittimità della sentenza?

In assenza di chiari indirizzi da parte del legislatore, sarà la giurisprudenza a doversi fare carico delle questioni in parola.

Le lievi modifiche apportate alla tutela cautelare dal nuovo Codice dei contratti pubblici

Come anticipato, il d.lgs. n. 36/2023 non ha apportato sostanziali modifiche al regime della tutela cautelare nella materia dei contratti pubblici.

Nella sostanza, gli emendamenti si limitano a:

i) la rimozione di un tetto temporale massimo alla durata delle misure cautelari soggette al pagamento di una cauzione (per cui si veda comma 9), la cui definizione è pertanto rimossa in via casistica al giudice;

ii) una diversa sistemazione e numerazione dei commi.

L'intervento emendativo sulla temporizzazione è significativo perché scioglie un nodo problematico che riguardava il precedente assetto normativo: dall'attuale formulazione testuale del comma 9 dell'art. 120 si desume, infatti, che lo speciale regime di provvisorietà della tutela cautelare riguarda le sole misure interinali soggette al pagamento di una cauzione e non si estende, pertanto, ai provvedimenti cautelari emessi senza richiesta di deposito di cauzione, i quali dunque hanno efficacia fino alla definizione nel merito del giudizio.

La definizione del giudizio: tipologia delle sentenze e termini di pubblicazione

L'attuale quinto comma dell'art. 120 c.p.a. fissa la regola generale secondo cui la definizione del giudizio in materia di contrattualistica pubblica deve avvenire “comunque [...] con sentenza in forma semplificata”.

Dall'utilizzo dell'avverbio “comunque” si desume che la scelta di tale forma di redazione della sentenza debba oramai essere considerata obbligata.

La (ragionevole) assenza di sanzioni a carico del giudice che dovesse optare per la redazione di una sentenza in forma estesa-classica, fa di questa norma una sorta di norma manifesto, con la quale il legislatore ha voluto ribadire la ratio di snellimento delle procedure processuali al fine di una celere definizione dei giudizi in materia di contrattualistica pubblica (Pesce).

Tali principi devono tuttora ritenersi validi, anche al netto delle modifiche recate alla predetta norma ad opera del decreto Semplificazioni.

Se infatti il tenore testuale dell'art. 120, comma 5, c.p.a., nella sua formulazione attuale sembra riferire l'obbligo (come si è visto, non sanzionato) di adottare sentenze in forma semplificata ai soli casi di mancata definizione del merito del giudizio all'esito dell'udienza cautelare, da un punto di vista sistematico non vi è dubbio che tale obbligo sia a maggior ragione giustificato laddove il giudizio cautelare e quello di merito siano 'concentrati' in un medesimo segmento temporale.

Per quanto concerne le tempistiche di redazione e pubblicazione delle sentenze, la relativa disciplina è contenuta nel comma 11 dell'art. 120 c.p.a. (corrispondente al comma 9 della versione dell'art. 120 antecedente al d.lgs. n. 36/2023), la cui attuale formulazione costituisce il portato di una serie di modifiche normative stratificate nel tempo, a partire dal d.l. n. 90/2014 per arrivare fino al d.l. n. 76/2020.

In origine, con il d.l. n. 90/2014 il Governo aveva stabilito che il T.A.R. dovesse depositare “la sentenza con la quale definisce il giudizio entro venti giorni dall'udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo entro due giorni”.

Con la legge di conversione n. 114/2014, il Parlamento ritenne di correggere al rialzo il termine di pubblicazione delle sentenze, estendendolo sino a trenta giorni.

Al lordo della legge di conversione n. 114/2014, in punto di tempistiche delle decisioni, le innovazioni al testo originario dell'art. 120 c.p.a. rispetto alla previgente disciplina risultavano essere le seguenti:

i) eliminazione dell'obbligo di previa pubblicazione del dispositivo, divenuto a richiesta di parte al pari degli altri giudizi ex art. 119 c.p.a.;

ii) riduzione del termine di pubblicazione del dispositivo (sempre ove richiesto) sceso da sette a due giorni, almeno per i giudizi dinanzi ai Tar;

iii) aumento – almeno per i giudizi di primo grado – del termine di ‘pubblicazione' della sentenza, passato da ventitré a trenta giorni;

iv) mutamento del dies a quo dei termini di ‘pubblicazione' del dispositivo e della sentenza, sempre fissato alla data dell'udienza di merito, anziché a quella – potenzialmente diversa – di decisione della causa;

v) mutamento dell'attività riservata al T.A.R. nel termine esteso di trenta giorni dalla celebrazione dell'udienza di merito: non più solo la redazione, ma il deposito in cancelleria (ossia la pubblicazione tout court) della sentenza.

A seguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, le tempistiche di pubblicazione delle sentenze sono nuovamente mutate.

Il decreto Semplificazioni ha infatti previsto che “ il giudice ” (e non più “il tribunale amministrativo regionale”, ndr) debba: i ) in via ordinaria, depositare la sentenza entro quindici giorni dall'udienza di discussione; ii ) quando la stesura della motivazione sia particolarmente complessa, depositare la sentenza entro trenta giorni dall'udienza di discussione, ma garantendo nel minor termine di quindici giorni quantomeno la pubblicazione del dispositivo, in cui devono essere indicate le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione.

In buona sostanza, se nella disciplina antecedente al d.l. n. 76/2020, il giudice amministrativo era tenuto a depositare la sentenza entro trenta giorni dall'udienza di discussione, ma con l'obbligo – ove richiesto dalle parti – di provvedere alla pubblicazione anticipata del dispositivo entro il minor termine di due giorni, l'intervento del decreto Semplificazioni ha sortito il duplice effetto i) di ridurre il termine ordinario di deposito della sentenza e, al contempo, ii) di prevedere un termine più lungo per la pubblicazione anticipata del dispositivo (che, a questi punti, così anticipata non sembra.....).

La modifica in esame sembra cervellotica e contraddittoria (Fontana, Madeo).

Nella disciplina previgente, a fronte di un termine di trenta giorni dall'udienza di discussione per il deposito integrale della sentenza, il diritto di chiedere la pubblicazione del dispositivo nel brevissimo termine di due giorni garantiva, a giudizio di chi scrive, una tutela più che adeguata alle parti del processo eventualmente interessate a conoscere in tempi brevi l'esito del giudizio. A seguito dell'interpolazione operata dal legislatore del d.l. n. 76/2020, le parti del giudizio si trovano in una posizione sicuramente deteriore rispetto a quella in cui versavano precedentemente, posto che dovranno attendere ben quindici giorni per conseguire ciò che prima avrebbero avuto diritto di ottenere in soli due giorni, ossia la pubblicazione anticipata del dispositivo. Sul punto, se per un soggetto che sia parte di un giudizio disporre del testo integrale della sentenza in quindici o trenta giorni fa poca differenza, si ritiene al contrario che possa fare molta differenza poter accedere al dispositivo in due o quindici giorni.

In ragione di quanto precede, il giudizio sulla novella in parola deve essere negativo (Fontana-Madeo).

Peraltro, secondo autorevoli commentatori, tale novella sarebbe destinata a restare “lettera morta”, posto che il giudice amministrativo, in controversie in cui la decisione appaia complessa tanto da non aver consentito la chiusura del giudizio in via immediata nella fase cautelare, difficilmente si limiterà a rendere un dispositivo privo di quella riflessione che solamente la redazione delle motivazioni può assicurare, specialmente a fronte dell'obbligo di redigere non già un dispositivo “secco”, ma un dispositivo che precisi le misure per dare attuazione alle domande accolte (Goggiamani).

Sotto il profilo della tecnica normativa, si segnala che nel comma 11 (prima 9) dell'art. 120 c.p.a. il decreto Semplificazioni ha provveduto a sostituire le parole “il Tribunale amministrativo regionale” con la più generica dicitura “il giudice”.

Sul punto, il legislatore ha inteso ribadire ulteriormente l'applicabilità della disciplina del deposito delle sentenze anche ai giudizi di secondo grado, originariamente revocata in dubbio in ragione della scelta lessicale di prevedere quale destinatario della norma il solo tribunale amministrativo di prima istanza, ma poi chiarita già ad opera del decreto Sblocca-cantieri, che aveva esplicitato l'applicabilità dell'art. 120, comma 11 (prima 9), c.p.a., anche ai giudizi di secondo grado.

L'introduzione e la repentina abrogazione del c.d. rito super-accelerato

La più rilevante novità processuale introdotta dal legislatore con il d.lgs. n. 50/2016 fu senz'altro l'ideazione di un sub -rito speciale all'interno del rito già accelerato speciale rappresentato dal processo sugli appalti pubblici.

La ratio del nuovo sub-rito era triplice.

In primo luogo, mediante tale rito “super-accelerato” si era inteso determinare in maniera definitiva e non più contestabile l'ambito dei partecipanti ad una procedura ad evidenza pubblica. Ciò al fine di assicurare la massima certezza in ordine alla perimetrazione dei soggetti ammessi alla partecipazione prima dello svolgimento della fase specificamente riferita alla valutazione delle offerte.

In secondo luogo, si era inteso delimitare l'eventuale contenzioso “successivo” alle sole controversie sul merito dell'aggiudicazione, rendendo inoppugnabili tutte le determinazioni riferite all'individuazione dei soggetti ammessi al confronto concorrenziale.

In terzo e ultimo luogo, si era inteso neutralizzare i potenziali effetti perversi del ricorso incidentale, prevedendo una fase processuale ad hoc suscettibile di blindare definitivamente la questione dei requisiti di ammissione alla procedura (Giustiniani, Fontana).

Il sub-rito in questione trovava la propria disciplina ai commi 2-bis e 6-bis dell'art. 120 c.p.a., che tuttavia sono stati abrogati ad opera del d.l. n. 32/2019 (c.d. decreto “Sblocca-cantieri”).

La genesi dell'abrogazione del rito super-accelerato è riconducibile a vari fattori (Giustiniani, Fontana). In primo luogo, tale abrogazione affonda le sue radici nelle pesanti critiche di cui è stato fatto oggetto da più parti già all'indomani della sua introduzione. In secondo luogo, la scelta del legislatore ha tratto origine anche dalle ordinanze dei giudici amministrativi che avevano ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le censure di incostituzionalità sollevate contro il nuovo rito, rimettendo la questione al vaglio della Corte costituzionale (simili argomentazioni erano state poste alla base di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, da cui tuttavia il rito super-accelerato è uscito indenne). In terzo luogo, l'abrogazione del nuovo rito processuale super-speciale ha tratto origine dalle numerose proposte in tal senso pervenute al Governo nel corso della consultazione pubblica online promossa dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in vista di una più ampia riforma della contrattualistica pubblica.

Nello specifico, il legislatore è intervenuto sull'art. 120 c.p.a. i) abrogando i commi 2-bis e 6-bis e ii) modificando i commi 5, 7, 9 e 11.

Con l'abrogazione del comma 2- bis, il decreto “Sblocca-cantieri” ha eliminato le disposizioni che i ) costringevano a impugnare immediatamente le ammissioni/esclusioni disposte all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, nel termine di trenta giorni dalla loro pubblicazione sul profilo di committente della stazione appaltante, e che ii ) precludevano, in caso di omessa impugnazione, la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale.

Mediante l'abrogazione del comma 2- bis il legislatore ha finito per abrogare anche la disposizione che esplicitava l'inammissibilità di eventuali impugnative dirette contro la proposta di aggiudicazione e gli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività.

Con l'abrogazione del comma 6- bis , il legislatore con un tratto di penna ha cancellato la disciplina processuale super-speciale a cui erano state assoggettate le impugnative proposte ai sensi del comma 2- bis.

A fronte di un giudizio di legittimità costituzionale ancora pendente, il legislatore ha preferito non aspettare il pronunciamento della Corte costituzionale e “cassare” direttamente il nuovo rito, accogliendo la tesi – prospettata da una parte della dottrina e della giurisprudenza – secondo cui esso sarebbe costituzionalmente illegittimo in quanto: i) la fictio iuris con cui il d.lgs. n. 50/2016 aveva posto ex lege una presunzione di lesività in capo alle esclusioni/ammissioni disposte all'esito della valutazione dei requisiti di partecipazione, obbligando i partecipanti alle gare pubbliche a impugnare immediatamente le ammissioni degli altri concorrenti ancora prima di sapere chi sarebbe stato l'aggiudicatario, avrebbe delineato una sorta di giudizio “di diritto oggettivo” incompatibile con gli artt. 24,103 e 133 Cost., i quali configurerebbero il diritto di azione quale diritto azionabile unicamente dal titolare di un interesse personale, attuale e concreto alla tutela giurisdizionale richiesta; ii) la necessità di proporre plurimi ricorsi avverso le singole ammissioni contrasterebbe con il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 1, Cost.), con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24, commi 1 e 2, art. 103, comma 1, art. 111, commi 1 e 2, art. 113, commi 1 e 2, Cost.), con il principio del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) ed infine con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), posto che un siffatto meccanismo processuale sarebbe tale da determinare la proliferazione di azioni giurisdizionali, in contrasto con i princìpi di concentrazione e di economia processuale.

Quella di rimediare all'asserita illegittimità costituzionale del rito super-accelerato non è stata l'unica ratio che ha mosso il legislatore, il quale ha anche preso atto (sempre secondo quanto si legge nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto) che l'abrogato rito non “sembra(va) aver raggiunto il risultato di accelerare le procedure di affidamento dei contratti pubblici”, quantomeno con riferimento alle gare di importo più elevato. Infatti, mentre nelle procedure minori l'elevato livello ormai raggiunto dalla contribuzione unificata e l'elevato numero di partecipanti scoraggiavano invero il ricorso al giudice amministrativo e quindi indirettamente acceleravano la definizione delle gare, con riferimento ai maxi-appalti il proliferare di ricorsi tutti contro tutti finiva effettivamente per rallentare (ancora di più) la realizzazione delle grandi opere pubbliche. In tale contesto, il legislatore del decreto “Sblocca-cantieri” ha scelto di non attendere il responso della Corte costituzionale e di prendere su di sé la responsabilità dell'abrogazione del rito super-accelerato, accogliendo le numerose richieste in tal senso provenienti dalla giurisprudenza, dalla dottrina e (soprattutto) degli “addetti ai lavori” (Giustiniani, Fontana, L'abrogazione del rito processuale super-accelerato).

I giudizi di appello

Dopo evoluzioni normative di cui non occorre dare puntualmente conto, ad oggi, l'art. 120, comma 12, c.p.a. (corrispondente al comma 11 dell'assetto normativo antecedente al d.lgs. n. 36/2023), prevede che ai giudizi di appello (sia avverso sentenze che avverso ordinanze, nonché a quelli di revocazione e di opposizione di terzo) si applichino le seguenti disposizioni del rito speciale: i ) comma 1, secondo periodo (relativo all'obbligatorietà dell'identificazione della gara mediante CIG); ii ) comma 5: modalità e tempistiche di definizione del giudizio nel merito ed eventuali accertamenti istruttori; iii ) commi 6, 9 e 10: fase cautelare del giudizio; iv ) comma 8: rinvio all'art. 119 per quanto non disposto dall'art. 120; v ) comma 11: fase decisoria della causa. Il comma 12 conclude confermando la facoltà della parte soccombente dinanzi al T.A.R. di impugnare in Consiglio di Stato, anche e direttamente,u il dispositivo di sentenza al fine di ottenerne la sospensione.

Il dettato normativo delinea due processi di primo e secondo grado sostanzialmente conformi, fatte salve quelle disposizioni che non possono non applicarsi ai soli giudizi di prime cure (ad esempio i termini per proporre il ricorso introduttivo, l'obbligo di notifica anche alla stazione appaltante statale per garantire l'operatività del c.d. stand still, ecc.). Prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 32/2019, non si applicava ai giudizi di appello il comma 11 (prima 9) dell'art. 120 c.p.a., che disciplina le tempistiche di pubblicazione delle sentenze e che oggi – nella formulazione risultante dalle ultimissime modifiche apportate dal d.l. n. 76/2020 – ha sostituito il fuorviante riferimento al “tribunale amministrativo regionale” con un più appropriato riferimento al “giudice”.

In ordine ai giudizi di appello, merita infine ricordare che l'Adunanza Plenaria ha recentemente ribadito il principio di diritto per cui “sussiste il potere del giudice di appello di rilevare ex officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione” (Cons. St., Ad. Plen., n. 4/2018).

I giudizi PNRR e il relativo rito “a tripla specialità”

Con il d.l. n. 85/2022 – recante “Disposizioni urgenti in materia di concessioni e infrastrutture autostradali e per l'accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza” – il Governo ha introdotto l'ennesimo pacchetto di disposizioni derogatorie in tema di diritto processuale (anche degli appalti pubblici), “caratterizzate dal comune denominatore di offrire una spinta acceleratoria ai giudizi amministrativi” inerenti alle procedure finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR.

Per ragioni probabilmente legate all'avvenuto scioglimento medio tempore delle Camere e alla conseguente limitata funzionalità del Parlamento (anche a motivo del periodo feriale), il legislatore ha ritenuto – anziché di predisporre una legge di conversione ad hoc del decreto in parola – di trasporne il contenuto nella legge di conversione del (diverso) d.l. n. 68/2022, aggiungendovi un nuovo art. 12-bis.

Come si evince dalla lettura dell'art. 12-bis, esso si applica in via generale a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR” e, pertanto, anche al di fuori dell'ambito della contrattualistica pubblica strettamente intesa. Il maggiore impatto, tuttavia, di tale nuovo rito riguarderà proprio gli appalti aggiudicati nel contesto della realizzazione del PNRR e tale circostanza spiega la trattazione del tema nella presente sede.

Si può sostenere in via estremamente sintetica che il legislatore abbia deciso di mettere a punto una disciplina processuale c.d. “a tripla specialità” per le procedure finanziate in tutto o in parte tramite il PNRR.

Tale disciplina prevede che, alle controversie soggette al nuovo rito processuale, si applichino:

i) le disposizioni “ultra-derogatorie” previste dal d.l. n. 68/2022 così come integrato in sede di conversione dalla legge n. 108/2022, compreso l'art. 125 c.p.a. ivi richiamato;

ii) per tutto quanto non espressamente previsto in funzione “ultra-derogatoria” dal d.l. n. 68/2022 così come integrato dalla l. n. 108/2022, le disposizioni previste in funzione derogatoria dall'art. 120 c.p.a. (per quanto con riferimento all'art. 120 c.p.a. sia espressamente richiamato solo il comma 9, è in re ipsa che anche i restanti commi del citato articolo debbano regolarmente trovare applicazione se il contenzioso verte in materia di appalti);

iii) per tutto quanto non espressamente previsto in funzione derogatoria dall'art. 120 c.p.a., le regole (invero, anch'esse già di per sé derogatorie) dall'art. 119 c.p.a., la cui applicabilità – ove compatibile – si riespande a prescindere dalla circostanza per cui espresso richiamo sia stato mosso solamente al comma 2 dell'articolo in parola;

iv) in via residuale, soltanto ove compatibili, le disposizioni previste per il rito ordinario.

Così esaurita in via preliminare la tematica relativa al perimetro applicativo del nuovo rito processuale, possiamo metterne in luce i tratti salienti.

La principale innovazione sostanziale recata dalla novella risiede in quelle disposizioni che mirano a rendere più difficoltoso, per gli operatori economici ricorrenti, l'ottenimento di misure cautelari.

Ciò – evidentemente – allo scopo di evitare che le procedure legate alla realizzazione di interventi previsti dal PNRR possano subire rallentamenti dovuti ad impedimenti di ordine giudiziario.

Più precisamente, l'art. 12-bis, comma 2, d.l. n. 68/2022 prevede che il Giudice Amministrativo, in sede di decisione cautelare sia tenuto a motivare espressamente in ordine alla “compatibilità della misura e della data di udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR”.

In altre parole, nei giudizi relativi a procedure attinenti al PNRR, affinché il giudice possa concedere una misura cautelare non è sufficiente che sussistano i tradizionali requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora: in aggiunta a questi, è altresì necessario che la concessione della misura sia compatibile con il rispetto delle tempistiche previste dal PNRR e con la realizzazione degli obiettivi ivi previsti.

In buona sostanza, con la novella in commento il legislatore ha inteso inserire un parametro “politico” (o quantomeno extra-legale) tra i criteri valutativi su cui il giudice è tenuto a basarsi in sede di scrutinio delle domande cautelari.

È evidente l'analogia con quanto previsto dall'art. 125 c.p.a. con riferimento alle controversie relative alle infrastrutture strategiche; tale analogia, peraltro, viene ulteriormente sviluppata e portata a compimento dal d.l. n. 68/2022 nella misura in cui il decreto in parola – mediante l'integrazione dell'art. 48, comma 4, del d.l. n. 77/2021 – ha esteso tout court l'applicabilità dell'art. 125 c.p.a. a tutti i giudizi relativi a procedure aventi ad oggetto interventi finanziati con le risorse del PNRR, che vengono così considerati ex lege alla stregua di infrastrutture strategiche per l'interesse nazionale.

Più precisamente – quasi a voler ribadire la maggiore ampiezza del perimetro applicativo del nuovo rito rispetto alle procedure di affidamento stricto sensu intese e in considerazione del fatto per cui i giudizi amministrativi legati al PNRR stanno già registrando un'ampia casistica di ricorsi – per ricomprendere tutte le possibili fattispecie oggetto di contenzioso, il d.l. n. 68/2022 specifica che l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 125 c.p.a. deve ritenersi estesa a tutte le controversie “che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere Pnrr, comprese le relative attività di espropriazione, occupazione e di asservimento, nonché a qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal Pnrr”.

Il legislatore non si accontenta di rendere più difficoltosa la concessione di misure cautelari, ma si preoccupa di predisporre – per l'eventualità (evidentemente ritenuta ferale) in cui il giudice non si possa proprio esimere da accogliere l'istanza cautelare del ricorrente – un apposito meccanismo di contrazione della durata dei (soli) giudizi in cui la misura cautelare sia stata concessa.

In tali casi, infatti, il nuovo art. 12-bis, comma 1, d.l. n. 68/2022 prevede che il T.A.R. – con la stessa ordinanza con cui concede la misura cautelare – fissi l'udienza di merito del giudizio alla prima data utile successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza medesima, disponendo altresì il deposito dei documenti necessari e l'acquisizione delle altre prove eventualmente occorrenti.

Un analogo meccanismo acceleratorio dei processi è previsto per le ipotesi in cui la misura cautelare sia concessa dal Consiglio di Stato in riforma dell'ordinanza di diniego emessa dal giudice di primo grado: in tali casi, il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell'ordinanza di secondo grado da parte della segreteria del Tar, che è tenuta a darne avviso alle parti del giudizio.

Anche nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito il giudice è tenuto a motivare espressamente sulla compatibilità della data di udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.

Per l'eventualità in cui l'udienza di merito non si celebri entro il termine di trenta giorni fissato dall'art. 12-bis del d.l. n. 68/2022, la novella prevede un'automatica “ghigliottina” della misura cautelare concessa, la quale perde efficacia “anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione”.

Si tratta, a ben vedere, di un'accentuazione particolarmente marcata del meccanismo della “temporizzazione” delle misure cautelari già previsto in via generale dal rito-appalti “ordinario” e che pone spiccati profili di tensione con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Per effetto del rinvio che il quinto comma dell'art. 3 del d.l. n. 85/2022 muove all'art. 120, comma 9 (ora comma 11), c.p.a., la sentenza che definisce il merito del giudizio deve essere resa entro quindici giorni dall'udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione sia particolarmente complessa, il giudice è tenuto entro quindici giorni a pubblicare quantomeno il dispositivo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione. In tali casi, la sentenza deve comunque essere depositata entro trenta giorni dall'udienza.

Un ulteriore elemento di accelerazione introdotto (dapprima dall'art. 3 del d.l. n. 85/2022 e poi) dal nuovo art. 12-bis del d.l. n. 68/2022 nell'economia dei giudizi attinenti a procedure legate al PNRR risiede nel comma 5 del citato articolo, il quale prevede che si applichi l'art. 119, comma 2, c.p.a., che a propria volta prevede il dimezzamento di tutti i termini processuali salvo, “nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti, nonché quelli di cui all'art. 62, comma 1 (...)”.

Risulta evidente che tale norma, laddove si intendesse riferita ai giudizi attinenti a procedure di affidamento di appalti pubblici strettamente intese, sarebbe inutiliter data, posto che a tali giudizi – anche a prescindere dalla novella in esame – si sarebbe comunque applicato non solo l'art. 119, comma 2, c.p.a., ma anche l'art. 120, comma 2, c.p.a., che ricomprende nel proprio ambito applicativo persino quei termini esclusi dal dimezzamento operato dalla prima delle due norme citate.

Di conseguenza, il quinto comma dell'art. 12-bis del d.l. n. 68/2022, nella parte in cui estende l'applicabilità dell'art. 119, comma 2, c.p.a. ai giudizi rientranti nel perimetro applicativo del nuovo rito, deve intendersi riferito a quei giudizi che – pur non attenendo a procedure di affidamento in senso stretto – afferiscono a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.

Come ultima innovazione processuale recata dalla novella in parola, deve essere ricordato il quarto comma dell'art. 12-bis del d.l. n. 68/2022, che prevede – con riferimento ai giudizi soggetti al nuovo rito – una sorta di litisconsorzio necessario per le “amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR”, ossia per i Ministeri e le strutture della Presidenza del Consiglio dei Ministri responsabili dell'attuazione delle riforme e degli investimenti previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per i quali si applicano le disposizioni speciali in materia di notificazioni presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato.

Art. 121 c.p.a.: un inquadramento

Il Codice del processo amministrativo disciplina specificamente le sorti del contratto a seguito dell'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione dichiarata illegittima: dalla caducazione dell'atto di scelta del contraente, invero, può seguire, nei casi e con le modalità contemplate dalla legge, l'inefficacia del contratto stipulato tra l'amministrazione ed il privato contraente.

Il tema della sorte del contratto pubblico a valle dell'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione è particolarmente delicato in quanto coinvolge una pluralità di interessi tra loro contrapposti: in primo luogo emerge l'interesse alla certezza e alla stabilità dei rapporti contrattuali di cui sia parte la P.A.; in secondo luogo si rinviene l'interesse del ricorrente a una tutela effettiva della propria posizione giuridica, che possa consentirgli di ottenere il bene della vita ambito ossia, nella maggior parte dei casi, il subentro nel rapporto contrattuale medio tempore instaurato; in terzo luogo si consideri il contrapposto interesse dell'aggiudicatario, a cui potrebbero risultare non imputabili le illegittimità poste in essere dall'amministrazione e che subirebbe un danno qualora il rapporto contrattuale instaurato fosse privato di efficacia (Caringella, Giustiniani).

L'ultimo approdo legislativo della questione si è registrato con il Codice del processo amministrativo, con particolare riferimento agli artt. 121 e ss.; si tratta, anche in questo caso, di una disciplina introdotta nel nostro ordinamento (a mezzo del d.lgs. n. 53/2010) per dare esecuzione alla c.d. Direttiva Ricorsi” n. 2007/66/CE, originariamente inserita nel vecchio Codice dei contratti pubblici(artt. 245-bis e 245-ter, d.lgs. n. 163/2006) e poi trasfusa nel Codice del processo amministrativo.

L'impianto normativo è caratterizzato dai seguenti elementi: i ) la previsione dei casi di grave violazione da cui consegue ordinariamente l'inefficacia del contratto (art. 121, comma 1, c.p.a.) nonché, in via eccezionale, l'applicazione delle sanzioni alternative in luogo della declaratoria di inefficacia del negozio (commi 2 e 4); ii ) la previsione, per i casi di violazioni meno gravi, di un regime sanzionatorio alternativo alla declaratoria di inefficacia (artt. 122 e 123 c.p.a.); iii ) la possibilità di ottenere, in luogo della tutela in forma specifica – i.e. l'attribuzione dei beni della vita “aggiudicazione” e “contratto” – la tutela per equivalente (art. 124 c.p.a.).

In buona sostanza, il legislatore italiano ha assegnato al giudice amministrativo che annulli un'aggiudicazione definitiva il potere di decidere se dichiarare o meno inefficace il contratto medio tempore stipulato. L'inefficacia del contratto pubblico non è quindi conseguenza automatica dell'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione, ma determina unicamente il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti.

Si tratta di un'inefficacia c.d. “a geometrie variabili”, in quanto “la sua operatività cambia – a valle – a seconda della maggiore o minore gravità delle violazioni commesse – a monte – dalla stazione appaltante nel procedimento di selezione del contraente e accertate dal giudice in sede processuale” (Caringella, Giustiniani).

A un primo esame della disciplina, deve osservarsi che alla dichiarazione di inefficacia del contratto pare attribuita una funzione latamente sanzionatoria. In altri termini, l'inefficacia del contratto sembra costituire una vera e propria sanzione che consegue alle ipotesi di gravi violazioni. Una tale ricostruzione desta numerose perplessità circa la compatibilità di tale impianto normativo con la disciplina che nel nostro ordinamento giuridico regola l'efficacia e la validità del contratto. L'inefficacia del contratto, invero, dipende da un fatto patologico o da una condizione apposta dalle parti: tutti elementi, in ogni caso, che attengono alla struttura del negozio. La previsione che consente al giudice amministrativo di dichiarare l'inefficacia solo in taluni casi, viceversa, introduce nel nostro ordinamento una species di inefficacia che non dipende da un vizio del contratto o da una condizione posta dalle parti, ma da un fatto esterno che non ha alcuna rilevanza strutturale per il negozio. La nuova disciplina sembra dunque recare un nuovo tipo di inefficacia del contratto, distinto ed autonomo rispetto a quello disegnato dal sistema civilistico.

Si tratta peraltro di una divergenza facilmente comprensibile alla luce delle peculiarità della fattispecie in esame, in cui la vicenda negoziale dipende da una precedente vicenda provvedimentale, espressione della potestà di imperio dell'autorità amministrativa contraente. Per questa via, il legislatore ha risolto una questione che per lungo tempo aveva affaticato la giurisprudenza, la quale optava alternativamente per una definizione di nullità, di annullabilità, di inefficacia tout court o persino di caducazione automatica, riconoscendo talora la giurisdizione del giudice ordinario in luogo di quella del giudice amministrativo (Giustiniani, Fontana).

Le disciplina delle sorti del contratto nei casi di annullamento dell'aggiudicazione è recata nel nostro ordinamento dagli artt. 121 e ss. c.p.a. ed affonda le sue radici nella c.d. Direttiva Ricorsi, che ha imposto di graduare le ipotesi di violazioni del diritto eurounitario, stabilendo in quali casi si dovesse necessariamente prevedere – salvo deroghe tassative – una declaratoria di privazione di effetti del contratto, e in quali casi invece spettasse al diritto nazionale stabilire l'eventuale inefficacia dei contratti stipulati.

Per quanto interessa specificamente in questa sede, l'art. 121 c.p.a. individua le “gravi violazioni” da cui far conseguire, in via ordinaria e fatte salve le eccezioni espressamente contemplate, l'inefficacia del contratto. In presenza di tali “gravi violazioni”, la norma conferisce al giudice amministrativo che abbia annullato l'aggiudicazione la competenza a dichiarare l'inefficacia del contratto medio tempore stipulato. Alla discrezionalità del giudice amministrativo è rimessa l'eventuale decisione di limitare la declaratoria di inefficacia alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o di disporla in via retroattiva, sulla base delle deduzioni delle parti nonché della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto.

Le gravi violazioni a cui consegue l'inefficacia del contratto

Ai sensi dell'art. 121 c.p.a., come riformulato a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 36/2023, le ipotesi di “gravi violazioni” destinate a comportare in via ordinaria l'inefficacia del contratto sono le seguenti: “a) se l'aggiudicazione è avvenuta senza pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

b) se l'aggiudicazione è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l'omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

c) se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall'articolo 18 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, qualora tale violazione abbia impedito al ricorrente di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento;

d) se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione, ai sensi dell'articolo 18, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell'aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento”.

Le modifiche apportate dal legislatore del 2023 sono state di carattere meramente formale, volte a sostituire i riferimenti alle disposizioni di diritto sostanziale, nella versione antecedente risalenti persino al d.lgs. n. 163/2006, con rimandi aggiornati al nuovo Codice dei contratti pubblici.

Le “gravi violazioni” indicate nell'art. 121 c.p.a. sono considerate tali in quanto recano un vulnus al principio eurounitario della libera concorrenza. Esse investono infatti le procedure selettive espletate in maniera difforme dalla previsione normativa astratta – cd. violazione della concorrenza in astratto, lett. a ) e b ) – e la violazione dello stand still procedimentale e processuale – cd. violazione della concorrenza in concreto, lett. c ) e d ) – con possibile compromissione dell'interesse del ricorrente a diventare aggiudicatario, in via diretta oppure attraverso la partecipazione a una nuova selezione indetta nel rispetto delle regole.

Nei paragrafi che seguono, sarà esaminata ciascuna delle ipotesi di gravi violazioni previste dalla norma, con le relative questioni applicative maggiormente rilevanti.

L'omessa pubblicazione del bando o dell'avviso con cui si indice una gara

Le prime due lettere dell'art. 121 c.p.a. compendiano le ipotesi di omessa pubblicazione del bando o dell'avviso con cui si indice una gara, anche attraverso l'utilizzo “surrettizio” di procedure negoziate o di affidamenti diretti al di fuori dei casi previsti dalla normativa vigente. Si tratta in entrambi i casi di violazioni afferenti a una carenza di trasparenza della stazione appaltante, in grado di minare alla radice la correttezza delle procedure di gara.

In particolare, l'ipotesi prevista dalla lett. a) si configura come una diretta violazione di legge, posto che l'aggiudicazione si riferisce ad un procedimento che richiede ex se la pubblicazione del bando o dell'avviso.

L'ipotesi prevista dalla lett. b), invece, configura un caso di elusione della disciplina in materia di pubblicazione del bando, richiamando tutte le fattispecie nelle quali l'aggiudicazione segua ad una procedura che, pur non contemplando la pubblicazione del bando, non sia quella imposta dalla legge per quella determinata fattispecie. È quanto accade, in particolare, nelle ipotesi in cui, con la finalità di eludere la disciplina che impone la pubblicazione del bando, l'amministrazione pone in essere una procedura negoziata senza bando al di fuori dei casi in cui ciò sia espressamente consentito.

L'omessa pubblicità del bando o avviso di indizione di gara costituisce il vizio più radicale del procedimento di affidamento, in quanto mina in radice la conoscibilità della procedura e dunque l'apertura della stessa alle opportunità offerte da un mercato concorrenziale (Giustiniani, Fontana). Tale violazione erode i principi stessi che regolano il procedimento dell'evidenza pubblica predisposto per la selezione del contraente privato, con conseguente deminutio dell'interesse pubblico principale di cui è portatrice l'amministrazione procedente.

Una precisazione appare tuttavia necessaria in relazione all'espressione “avviso con cui si indice una gara”.

Mentre la direttiva comunitaria si riferisce soltanto all'omissione di bandi e avvisi nei casi in cui siano prescritti dal diritto eurounitario, il legislatore nazionale ha infatti ricompreso in tale nozione anche l'omissione di bandi e avvisi che siano prescritti dal diritto nazionale e che non trovino corrispondenza nel diritto europeo. Diversamente, l'art. 121 c.p.a. non può applicarsi qualora – anche per il diritto nazionale – la pubblicazione di un bando non sia necessaria. In particolare, tale norma non può essere applicata nei casi in cui la stazione appaltante abbia correttamente utilizzato lo strumento della procedura negoziata senza bando ex art. 1, comma 2, lett. b) del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto 'Semplificazioni', convertito con legge n. 120/2020), ricorrendone i presupposti di legge.

La violazione dello stand still

Anche le violazioni indicate alle lett. c ) e d ) possono essere commentate sotto un'unica voce.

Esse si riferiscono all'ipotesi in cui il contratto venga stipulato senza aver rispettato i due periodi di stand-still ora previsti dall'art. 18 del d.lgs. n. 36/2023.

L'art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 36/2023 (corrispondente al previgente art. 32, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016) prevede infatti che l'amministrazione non possa stipulare il contratto prima che siano trascorsi trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione, eccezion fatta per i casi di cui alle lettere a), b), c) e d) della medesima disposizione.

L'art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 36/2023 (corrispondente al previgente art. 32, comma 11, del d.lgs. n. 50/2016), prevede altresì che – qualora venga proposto ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare – l'amministrazione non possa stipulare il contratto prima che sia emesso il provvedimento cautelare di primo grado o prima che sia pubblicato il dispositivo della sentenza di primo grado eventualmente pronunciata in sede di udienza cautelare (c.d. “sospensione obbligatoria”).

Si tratta di termini dilatori preposti a “garantire il diritto ad un esercizio utile della tutela giurisdizionale dei privati di fronte ad una aggiudicazione reputata illegittima” (Caringella, Giustiniani).

La violazione di tali termini costituisce “grave violazione” ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 121 c.p.a. qualora concorrano le seguenti due condizioni: i) la violazione del termine dilatorio abbia cagionato un pregiudizio effettivo alle possibilità di difesa del ricorrente, precludendo a quest'ultimo la possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto; ii) la violazione del termine dilatorio si sia aggiunta a ulteriori vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, influendo quindi sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento.

In altri termini, il termine dilatorio è considerato “servente” rispetto alla tutela giudiziale e all'effettività della pronuncia che accoglie il ricorso per vizi dell'aggiudicazione, con la conseguenza che la sola violazione del termine non può giustificare ex se né l'annullamento dell'aggiudicazione medesima, né tantomeno l'inefficacia del contratto (Giustiniani, Fontana).

In definitiva, dunque, prima di dichiarare l'inefficacia del contratto, il giudice deve compiere un giudizio prognostico sull'effettiva lesione dell'interesse legittimo del ricorrente, verificando se il ricorrente avrebbe potuto ottenere l'aggiudicazione, ove essa fosse stata legittima e ove fosse stato rispettato lo stand-still : soltanto in quel caso potrà ( rectius : dovrà) pronunciare la declaratoria di inefficacia del contratto (T.A.R. Lazio (Roma) III, 5 gennaio 2018, n. 107).

La qualificazione della violazione dello stand-still period in termini di violazione grave, alla quale riconnettere l'inefficacia del contratto, è coerente con la ratio che informa l'istituto della sospensione.

Lo stand-still è finalizzato ad evitare che la stipulazione del contratto possa pregiudicare il ricorrente, illegittimamente estromesso dalla gara, nella possibilità di ottenere il bene della vita “contratto”.

Ne deriva, pertanto, che la sua violazione può reputarsi “grave” solo ove questa possibilità venga concretamente meno; in difetto, il temperamento formulato dalla norma in esame appare senz'altro ragionevole (Giustiniani, Fontana).

La possibilità per il giudice di modulare temporalmente gli effetti della declaratoria di inefficacia

Si è anticipato come il giudice amministrativo, nell'atto di dichiarare l'inefficacia di un contratto pubblico, debba precisare la portata temporale della declaratoria. In buona sostanza, il giudice amministrativo che dichiari inefficace un contratto pubblico deve indicare se l'inefficacia sia limitata alle prestazioni contrattuali ancora da eseguire ovvero se operi in via retroattiva.

Nell'assumere questa decisione il giudice è tenuto a operare un bilanciamento degli interessi coinvolti nel caso concreto. I criteri alla stregua dei quali operare questo bilanciamento sono dettati dalla legge e sono, invero, piuttosto elastici: il giudice infatti deve “modulare” la portata temporale della declaratoria di inefficacia “in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto”. La previsione di questi parametri, rimessi alla valutazione del giudice, de facto produce una dilatazione degli oneri deduttivi delle parti, a cui è rimesso l'onere di prospettare al giudice circostanze che possano orientare il suo convincimento in funzione dei loro interessi (Vaccari).

Le deroghe all'inefficacia del contratto in caso di gravi violazioni

L'inefficacia del contratto non costituisce conseguenza indefettibile nel caso di gravi violazioni.

In questo senso, l'art. 121, comma 3, c.p.a. (corrispondente al comma 2 della versione previgente alla novella del 2023), prevede che il contratto resti efficace qualora lo richiedano ( rectius : lo impongano) esigenze imperative connesse a un interesse generale. Tra dette esigenze imperative rientrano, per espressa previsione normativa, “quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall'esecutore attuale”. La norma precisa inoltre che “gli interessi economici sono presi in considerazione come esigenze imperative solo in circostanze eccezionali in cui l'inefficacia del contratto conduce a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all'eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara”.

Non costituiscono esigenze imperative “gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono fra l'altro i costi derivanti dal ritardo nell'esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell'operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia”. In merito, giova sottolineare che l'interesse generale che impone il mantenimento del contratto per esigenze imperative è da intendersi come quello dell'intera collettività al mantenimento del rapporto negoziale in funzione della celere realizzazione dell'opera pubblica o della commessa in generale, e non come il solo interesse della stazione appaltante. A ben vedere, nella valutazione di tali esigenze imperative, la norma riconosce al giudice un margine di discrezionalità assai ampio: l'inefficacia del contratto non dipende soltanto da una mera violazione di legge, ma da una valutazione giudiziale complessa che deve tenere conto di tutti gli interessi in gioco.

In altri termini, la tecnica normativa utilizzata dal legislatore è quella di limitarsi a stabilire i criteri generali, lasciando così mano libera alla giurisprudenza (e al conseguente diritto pretorio) di costruire in concreto e caso per caso le deroghe effettive alle dovute pronunce di inefficacia del contratto (T.r.g.a. Trento, Sez. Unica, 19 gennaio 2018, n. 14).

Nei casi in cui, nonostante le gravi violazioni, il contratto sia considerato efficace o l'inefficacia sia temporalmente limitata si applicano le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a.

Ulteriori deroghe alla (pressoché) automatica declaratoria di inefficacia del contratto sono previste dal comma 6 dell'art. 121 c.p.a. (corrispondente al comma 5 della versione previgente alla novella del 2023).

Nello specifico, la disposizione in esame esclude l'inefficacia del contratto per “omessa pubblicazione del bando o dell'avviso con cui si indice una gara” ove la stazione appaltante abbia posto in essere le seguenti procedure: (i) “a) con atto motivato anteriore all'avvio della procedura di affidamento ha dichiarato che la procedura senza pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea ovvero nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è consentita dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022;

b) rispettivamente per i contratti di rilevanza europea e per quelli sotto soglia, ha pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea oppure nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana un avviso volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell'articolo 86 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo di attuazione della legge n. 78 del 2022, in cui manifesta l'intenzione di concludere il contratto;

c) il contratto non è stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni decorrenti dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell'avviso di cui alla lettera b)”.

In buona sostanza, la norma in esame elenca una serie di cautele la cui adozione da parte della stazione appaltante esclude che possa farsi luogo alla declaratoria di inefficacia del contratto.

Gli adempimenti previsti dall'art. 121, comma 6, c.p.a., volti a evitare la dichiarazione di inefficacia del contratto, sono succedanei agli obblighi di pubblicità e di trasparenza dei procedimenti di gara: la deroga alla disciplina generale, invero, rinviene la sua ratio nella piena equiparabilità degli incombenti volontariamente posti in essere dalla stazione appaltante a quelli previsti obbligatoriamente dalla legge.

Con riferimento alla deroga di cui all'art. 121, comma 6, lett. a), si è posto un rilevante problema applicativo, che è giunto sino all'esame della Corte di giustizia dell'Unione europea.

A fronte dell'impossibilità per il giudice amministrativo – nelle ipotesi di cui all'art. 121, comma 6, lett. a) – di dichiarare l'inefficacia del contratto ai sensi dell'art. 121 c.p.a. ci si è chiesti se, nelle medesime ipotesi, il giudice possa comunque addivenire a una declaratoria di inefficacia ai sensi dell'art. 122 c.p.a. (cd. “inefficacia facoltativa”, che il giudice può dichiarare nei casi di “altre violazioni” diverse dalle “gravi violazioni” di cui all'art. 121 c.p.a.).

A tale domanda, in particolare, aveva risposto positivamente una nota pronuncia di primo grado (T.A.R. Lazio (Roma) I-ter, 1 giugno 2012, n. 4997).

Il Consiglio di Stato, tuttavia, in sede di appello (cfr. Cons. St. III, ord. n. 23/2013) ha ritenuto sul punto di disporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, la quale ha chiarito l'esatto perimetro applicativo della deroga di cui all'art. 121, comma 5, lett. a), evidenziando come l'art. 122 c.p.a. non possa essere invocato per dichiarare l'inefficacia del contratto nelle ipotesi di cui all'art. 121, comma 5, lett. a) (Corte giust. UE, sent. 11 settembre 2014, C-19/13).

Tale soluzione pare condivisibile: stante il divieto posto dall'art. 121, comma 6 – nelle ipotesi di cui all'art. 121, comma 6, lett. a) – di dichiarare l'inefficacia sulla base dell'art. 121 c.p.a., a maggior ragione deve ritenersi che tale divieto osti a una declaratoria ai sensi dell'art. 122 c.p.a, sempreché all'esito di una puntuale verifica del giudice emerga che l'amministrazione abbia tenuto una condotta diligente (Giustiniani, Fontana).

Tuttavia, la Corte di giustizia ha ritenuto – con la medesima pronuncia – di muovere una ulteriore precisazione, specificando che qualora un'amministrazione abbia dichiarato con atto motivato anteriore all'avvio della procedura di ritenere che la procedura medesima potesse essere indetta senza previa pubblicazione di un bando di gara, tale dichiarazione non può ritenersi ex se sufficiente per escludere il potere del giudice di dichiarare l'inefficacia del contratto.

Al contrario, il giudice amministrativo è tenuto – in tali ipotesi – a valutare se l'amministrazione nel caso concreto abbia agito con diligenza e se poteva effettivamente ritenersi che sussistessero le condizioni per seguire tale procedura. Qualora tale valutazione dia esito negativo, allora il giudice potrà (rectius: dovrà) dichiarare l'inefficacia del contratto. Qualora invece tale valutazione dia esito positivo, l'inefficacia non potrà essere dichiarata.

L'impossibilità di applicare, nelle ipotesi derogatorie, le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a.

Ci si domanda peraltro se in tali ipotesi debbano trovare applicazione le sanzioni alternative previste dall'art. 123 c.p.a. (Cerbo).

Nel silenzio della legge sul punto, va evidenziato che le “sanzioni”, per loro stessa natura, sono applicabili nelle sole ipotesi previste dalla legge: di qui l'inapplicabilità per fattispecie diverse, quali quelle previste dall'art. 121, comma 6, c.p.a. In altri termini, poiché la legge prevede che le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a. siano applicabili soltanto nei casi di cui all'art. 121, comma 5, c.p.a., non è possibile estendere in via interpretativa la loro applicabilità ai casi di cui all'art. 121, comma 6, c.p.a.

In estrema sintesi, nei casi in cui siano state commesse ‘gravi violazioni' ai sensi dell'art. 121 c.p.a. il giudice amministrativo dovrà: i) in via ordinaria, dichiarare l'inefficacia del contratto, precisando se tale inefficacia operi o meno in via retroattiva e, nel caso in cui l'inefficacia sia temporalmente limitata, applicare le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a.; ii) qualora il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale imponga che gli effetti del contratto siano mantenuti, applicare le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a. senza dichiarare l'inefficacia del contratto; iii) nelle ipotesi di cui all'art. 121, comma 6, c.p.a, non dichiarare l'inefficacia del contratto e non comminare nemmeno le sanzioni alternative di cui all'art. 123 c.p.a. (Giustiniani, Fontana).

Art. 122 c.p.a.: un inquadramento

L'art. 122 c.p.a. disciplina la c.d.inefficacia del contratto negli altri casi ”, ossia nei casi in cui l'aggiudicazione sia annullata per vizi diversi da quelli che l'art. 121 c.p.a. qualifica espressamente come “gravi”.

L'articolo in parola trae origine dalla Direttiva n. 2007/66/CE, il cui art. 2-sexies prevede che la privazione di effetti del contratto sia puramente facoltativa, o, per meglio dire, che l'ordinamento nazionale possa scegliere tra la privazione degli effetti del contratto e l'applicazione di sanzioni alternative. In particolare, la norma in questione, al par. 1, dispone che la scelta tra l'opzione di privazione degli effetti del contratto e quella di applicazione sanzioni alternative possa essere effettuata, in via generale ed astratta, dal legislatore nazionale, ovvero rimessa all'autorità decidente, con una valutazione case by case. La disposizione eurounitaria è oggi recepita – appunto – dall'art. 122 c.p.a. nel quale è stato trasfuso l'originario art. 245-ter del d.lgs. n. 163/2006. La norma configura, quindi, un'ipotesi di inefficacia facoltativa del contratto in caso di violazioni non gravi.

In tali ipotesi, dunque, non esiste un rapporto di consequenzialità tra l'annullamento dell'aggiudicazione e la declaratoria di inefficacia del contratto. Quest'ultima, per dirla con la dottrina, “non è conseguenza necessaria, ma nemmeno ordinaria dell'annullamento dell'aggiudicazione” (Bartolini).

La facoltà del giudice di dichiarare l'inefficacia del contratto anche in assenza di gravi violazioni.

Si è visto che fuori dalle ipotesi di gravi violazioni, compendiate dall'art. 121 c.p.a., la legge individua altri casi di violazioni “non gravi” o “meno gravi” alle quali non viene automaticamente riconnessa l'inefficacia del contratto, in cui è rimessa al giudice amministrativo la decisione sulle conseguenze che dovranno prodursi sul contratto medesimo.

Quanto all'individuazione di tali “violazioni”, la norma richiede soltanto che siano integrati vizi diversi da quelli di cui all'art. 121 c.p.a.

In buona sostanza, mentre la declaratoria di inefficacia del contratto è pressoché automatica qualora il giudice annulli l'aggiudicazione per le “gravi violazioni” di cui all'art. 121 c.p.a. (salve le deroghe ivi previste), qualora l'aggiudicazione sia annullata dal giudice per vizi diversi da quelli che l'art. 121 c.p.a. qualifica come “gravi”, spetta al giudice valutare caso per caso se dichiarare inefficace il contratto, ovvero se mantenerne in vita gli effetti.

Nel coniare tale specie di “inefficacia facoltativa” del contratto, l'art. 122 c.p.a. pone una serie di criteri sulla base dei quali il giudice dovrà compiere la propria valutazione. In particolare, l'art. 122 c.p.a. prevede che “Fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta”.

Ai sensi del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto 'Semplificazioni', convertito con legge n. 120/2020), l'ambito oggettivo di applicazione dell'inefficacia “facoltativa” del contratto pubblico di cui all'art. 122 c.p.a. è stato temporaneamente ridimensionato.

Più precisamente, la possibilità per il giudice amministrativo di far seguire l'inefficacia del contratto all'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione anche al di fuori delle ipotesi di “gravi violazioni” di cui all'art. 121 c.p.a., è stata esclusa dal d.l. n. 76/2020 con riferimento ai giudizi aventi ad oggetto gli atti delle procedure di affidamento i ) che siano state avviate nel periodo di vigenza del decreto Semplificazioni, ii ) il cui importo sia soprasoglia e iii ) che rientrino nel novero dei c.d. “appalti anti-crisi”, ossia nel novero di quelle gare in cui, per ragioni di necessità e urgenza legate agli effetti negativi della pandemia da COVID-19, alle stazioni appaltanti sia consentito di procedere in deroga a ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto dei vincoli derivanti dall'appartenenza all'Unione europea, delle disposizioni in materia di subappalto e degli artt. 30,34 e 42 del Codice dei contratti pubblici.

In buona sostanza, il decreto Semplificazioni ha previsto che – con esclusivo riferimento ai giudizi aventi ad oggetto gli atti delle procedure sopra individuate – al di fuori delle ipotesi di “gravi violazioni” di cui all'art. 121 c.p.a. l'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione non potesse mai comportare la caducazione del contratto eventualmente già stipulato.

Mediante questa conversione della tutela reale in tutela obbligatoria – che tuttavia fa salve le ipotesi di violazioni particolarmente gravi – il legislatore accetta il rischio di una compromissione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, ritenuto temporaneamente sacrificabile a fronte della preminente necessità di rilanciare l'economia per neutralizzare gli effetti negativi della pandemia e della sospensione delle attività determinata dalle misure di contenimento del contagio (Fontana - Madeo).

Dichiarazione di inefficacia del contratto e obbligo di rinnovazione della gara

Si è posto il problema di capire se il tenore letterale dell'art. 122 c.p.a. escludesse la possibilità per il giudice di dichiarare l'inefficacia del contratto in tutti i casi in cui il vizio dell'aggiudicazione comportasse l'obbligo di rinnovare la gara.

Sul punto, è sorto un contrasto tre diverse opzioni ermeneutiche che è giunto sino alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass., S.U., 22 marzo 2017, n. 7295), le quali sono state chiamate a pronunciarsi su un presunto eccesso di potere giurisdizionale di una pronuncia del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St. V, n. 2445/2017) che aveva dichiarato l'inefficacia del contratto di appalto medio tempore stipulato a seguito di un'aggiudicazione illegittima per vizi che avevano condotto all'annullamento dell'intera procedura.

Le Sezioni Unite hanno puntualmente passato in rassegna le tre diverse letture dell'art. 122 c.p.a. che sono state prospettate con riferimento all'inciso “nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentro sia stata proposta”.

Secondo una prima prospettazione, nel caso di vizi comportanti la riedizione dell'intera gara il giudice amministrativo non potrebbe dichiarare l'inefficacia del contratto, in quanto tale attività sarebbe riservata all'amministrazione (cfr. Cons. St. IV, n. 140/2015).

In buona sostanza, il legislatore avrebbe inteso rimettere al giudice il potere discrezionale di dichiarare l'inefficacia del contratto, in caso di vizi diversi da quelli specificamente indicati dall'art. 121, solo laddove ciò possa comportare per il ricorrente l'utilità costituita dal subentro nella posizione di affidatario, escludendo invece la possibilità di pronunciare la declaratoria di inefficacia laddove l'annullamento comporti la necessità di ripetizione della gara.

Le Sezioni Unite hanno escluso la validità di tale interpretazione, che sarebbe “del tutto ingiustificata ed anche priva di ragionevolezza”, in quanto lascerebbe al giudice la possibilità di dichiarare l'inefficacia del contratto nei casi “meno gravi” (ossia nei casi di vizi non comportanti la necessaria riedizione della gara) per poi negargliela nei casi “più gravi” (ossia nei casi di vizi comportanti l'obbligo di rinnovazione).

Secondo un diverso (ed opposto) orientamento, l'inciso “nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentro sia stata proposta” dovrebbe essere letto nel senso di ritenere che le specificazioni poste dall'art. 122 c.p.a. al potere del giudice (obbligo di considerare l'interesse delle parti, lo stato di esecuzione del contratto, l'effettiva possibilità di conseguire l'aggiudicazione e di subentrare nel contratto) si riferiscano soltanto ai casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara; in caso contrario, invece, il potere del giudice amministrativo sarebbe slegato da tali parametri (cfr. Cons. St., Ad. plen., 4 gennaio 2011, n. 13, nonché T.A.R. Umbria I, 30 gennaio 2013, n. 61).

In buona sostanza, il giudice amministrativo – nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione comporti la riedizione dell'intera gara – potrebbe sempre dichiarare l'inefficacia, senza essere tenuto a rispettare i parametri di giudizio posti dall'art. 122 c.p.a.

Nemmeno tale opzione ermeneutica ha trovato il favore delle Sezioni Unite, che hanno invece accreditato una terza (e ulteriore) chiave di lettura della disposizione in esame.

In particolare, secondo le Sezioni Unite, l'art. 122 c.p.a. deve essere letto nel senso di ritenere che – indipendentemente dalla circostanza per cui i vizi riscontrati comportino o meno la necessaria riedizione della procedura – il potere del giudice sia sempre soggetto alla valutazione dell'interesse delle parti, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, mentre solo nel caso in cui il vizio non comporti l'obbligo di rinnovare la gara (e in cui la domanda di subentro sia stata effettivamente proposta) tale potere sia soggetto anche all'ulteriore valutazione circa la possibilità di subentrare nel contratto (cfr. Cass.S.U., n. 7295/2017).

Inefficacia del contratto e tutela cautelare

La giurisprudenza tende ormai a ritenere che il giudice amministrativo possa statuire in merito all'efficacia del contratto anche in sede cautelare (cfr.: Cons. St. V, ord. 24 ottobre 2011, n. 4677; Cons. IV, decr. 2 maggio 2013, n. 1590; Cons. St. III, ordd. 12 gennaio 2013, nn. 33 e 34; T.A.R. Piemonte II, ord. 12 novembre 2015, n. 349).

In tal senso, del resto, depongono sia l'atipicità del contenuto delle misure cautelari di cui all'art. 55, comma 1, c.p.a., sia la naturale finalizzazione della misura cautelare ad anticipare in via interinale l'adozione delle misure cautelari adottabili con la decisione definitiva (Caringella, Giustiniani).

Un'ulteriore argomentazione a sostegno di tale tesi è rinvenibile leggendo a contrario l'art. 125, comma 3, c.p.a., secondo cui “ferma restando l'applicazione degli articoli 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente”.

Se si legge questa disposizione all'inverso, non riferendola alle infrastrutture strategiche (a cui è limitato il suo ambito di applicazione), si può notare che il legislatore riconnette anche alla semplice ‘sospensione' dell'aggiudicazione la possibilità di produrre effetti in ordine alla sopravvivenza del contratto stipulato.

In buona sostanza, dal tenore letterale dell'art. 125, comma 3, c.p.a., si evince come tale norma stabilisca soltanto in via di eccezione (per le sole infrastrutture strategiche) l'indifferenza dell'intervenuta sospensione dell'aggiudicazione sulla prosecuzione delle prestazioni contrattuali avviate; in tutti gli altri casi, quindi, ben potrà il giudice amministrativo incidere sul rapporto negoziale già in sede cautelare (Giustiniani, Fontana).

Autorevole dottrina ritiene infine che un espresso riconoscimento legislativo della sussistenza del potere del giudice di intervenire sul contratto già in sede cautelare sia rappresentato dal comma 8-ter che il d.lgs. n. 50/2016 ha aggiunto all'art. 120 c.p.a., secondo cui “nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse ad un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione”. Tale norma, secondo l'interpretazione in questione, comporterebbe che qualora il contratto sia stipulato prima dell'intervento cautelare del giudice amministrativo, quest'ultimo non debba limitarsi a sospendere l'aggiudicazione, o persino a negare la sospensiva ritenendo che il periculum sia escluso in radice dall'avvenuta stipula del contratto, dovendo piuttosto sospendere l'efficacia del negozio, a meno che esigenze imperative lo sconsiglino (Veltri).

In ultima analisi, va comunque rilevato che nella prassi quotidiana dei tribunali amministrativi sono assai rari i casi in cui il giudice sia intervenuto sull'efficacia del contratto già in sede cautelare.

Rispetto a tale soluzione radicale, il giudice amministrativo preferisce soddisfare gli interessi del ricorrente tramite la sollecita fissazione dell'udienza di discussione del merito della causa, in modo da operare un più prudente bilanciamento di tutti gli interessi incisi.

La già scarsa diffusione della prassi di intervenire sull'efficacia del contratto in sede di ordinanza cautelare è destinata a diradarsi ulteriormente a seguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, che ha elevato a regola generale, confermata anche a seguito della riforma complessiva della materia tramite il d.lgs. n. 36/2023, la definizione del merito del giudizio già in sede di udienza fissata per la discussione dell'istanza cautelare.

Art. 123 c.p.a.: un inquadramento

L'art. 123 c.p.a. indica le sanzioni che il giudice può irrogare nei casi in cui – nonostante l'accertamento di “gravi violazioni” – l'inefficacia del contratto non venga pronunciata, ovvero venga temporalmente limitata.

L'istituto delle c.d. sanzioni alternative costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento, a differenza di quanto avveniva a livello comunitario, ove – già prima della Direttiva Ricorsi – era prevista la possibilità di introdurre nei singoli ordinamenti nazionali tale tipologia di sanzioni.

Come per le norme precedentemente commentate, anche l'art. 123 c.p.a. è meramente riproduttivo della disciplina contenuta nel vecchio art. 245-quater del d.lgs. n. 163/2006. Quest'ultimo, a sua volta, era riproduttivo dell'art. 2-sexies della direttiva n. 66/2007/CE, la quale ha attribuito all'organo giudicante il potere di stabilire quando il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato privo di effetti e quando avrebbero dovuto applicarsi le sanzioni alternative. A tal fine, il comma 2 della disposizione in esame, prevede che “le sanzioni alternative devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Dette sanzioni alternative sono: – l'irrogazione di sanzioni pecuniarie all'amministrazione aggiudicatrice, oppure; – la riduzione della durata del contratto. Gli Stati membri possono conferire all'organo di ricorso un'ampia discrezionalità al fine di tenere conto di tutti i fattori rilevanti, compresi la gravità della violazione, il comportamento dell'amministrazione aggiudicatrice e, nei casi di cui all'articolo 2-quinquies, paragrafo 2, la misura in cui il contratto resta in vigore. La concessione del risarcimento danni non rappresenta una sanzione adeguata ai fini del presente paragrafo”.

L'art. 44, comma 3, lett. h), n. 2, della legge delega per il recepimento della direttiva comunitaria ha conformemente imposto al Governo di “lasciare al giudice che annulla l'aggiudicazione la scelta, in funzione del bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, tra privazione di effetti del contratto e relativa decorrenza, e sanzioni alternative”.

L'ambito di applicazione delle sanzioni alternative

Ai sensi del combinato disposto dell'art. 121, comma 5, con l'art. 123, comma 3, le sanzioni in parola trovano applicazione (alternativamente o cumulativamente, tra loro e con l'eventuale condanna risarcitoria) qualora: i ) nonostante l'accertamento di “gravi violazioni”, il giudice non dichiari l'inefficacia del contratto; ii ) nonostante l'accertamento di “gravi violazioni”, il giudice limiti temporalmente l'inefficacia del contratto; iii ) nella stipulazione del contratto non venga rispettato il termine dilatorio previsto dalla legge, ovvero non venga rispettata la sospensione obbligatoria prevista per i casi in cui sia proposto ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare.

Nell'ipotesi sub iii), la sanzione si applica per la mera violazione del termine: in tal caso, essa non è alternativa ad altra sanzione ed assume una propria autonomia.

La ragione della sanzione alternativa deve individuarsi nell'esigenza di non lasciare priva di conseguenze una grave violazione della stazione appaltante laddove il giudice non dichiari l'inefficacia del contratto. In questi casi, più che parlare di giurisdizione oggettiva, deve ritenersi che il potere riconosciuto dalla legge al giudice sia chiaramente sanzionatorio. La novità risiede proprio nella circostanza per cui la legge consente al giudice amministrativo di esercitare un potere (quello sanzionatorio) tipicamente amministrativo. Il giudice deve applicare le sanzioni assicurando il rispetto del principio del contraddittorio e verificando che le stesse siano tali da produrre effetti dissuasivi proporzionati al valore del contratto, alla gravità della condotta della stazione appaltante e all'opera da questa compiuta per eliminare o attenuare le conseguenze della violazione (Follieri).

L'espressa richiesta di applicazione della sanzione alternativa da parte del ricorrente – con atto ritualmente notificato alle controparti – è ex se idonea ad assicurare il rispetto del principio del contraddittorio richiesto dalla legge; in tal caso, il giudice potrà quantificare autonomamente la misura della sanzione (cfr. T.A.R. Basilicata I, 6 aprile 2011, n. 162). Viceversa, qualora il ricorrente si limiti a domandare la declaratoria di inefficacia del contratto e tale domanda sia respinta nonostante l'accertamento di una 'grave violazione', l'atto di impulso per l'applicazione delle sanzioni alternative dovrà provenire direttamente dal giudice. In tal caso, la necessità di garantire il rispetto del contraddittorio “impone al giudice di indicare – prima di adottare la decisione definitiva – la misura alternativa che ritiene applicabile, invitando tutte le parti ad esprimere le proprie posizioni sulla proposta” (cfr. T.A.R. Lombardia (Brescia) II, n. 263/2013), fissando il termine entro cui le parti possono formulare le proprie osservazioni e rinviando a successiva udienza pubblica per la statuizione definitiva sulla scelta della tipologia e della misura della sanzione da applicare.

Le tipologie di sanzioni

Le sanzioni alternative si dividono in due tipologie: i) sanzioni di natura pecuniaria; ii) sanzioni incidenti sulla durata del contratto.

Con riferimento alle prime, l'art. 123, comma 1, lett. a), c.p.a. dispone che la stazione appaltante possa essere condannata a versare all'erario statale un importo calcolato in proporzione al valore del contratto.

In particolare, l'importo può essere compreso tra lo 0,5% e il 5% del valore del contratto, “inteso come prezzo di aggiudicazione, che è versata all'entrata del bilancio dello Stato – con imputazione al capitolo 2301, capo 8 “Multe, ammende e sanzioni amministrative inflitte dalle autorità giudiziarie ed amministrative, con esclusione di quelle aventi natura tributaria” – entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che irroga sanzione; decorso il termine per il versamento, si applica una maggiorazione pari ad un decimo della sanzione per ogni semestre di ritardo. La sentenza che applica le sanzioni è comunicata, a cura della segreteria, al Ministero dell'economia e delle finanze entro cinque giorni dalla pubblicazione”.

Con riferimento alle seconde, l'art. 123, comma 1, lett. b), c.p.a., dispone che il giudice amministrativo possa – ove possibile – ridurre la durata del contratto da un minimo del dieci per cento a un massimo del cinquanta per cento della durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo.

Queste due tipologie di sanzioni possono essere applicate dal giudice sia alternativamente sia cumulativamente, tra loro e con l'eventuale condanna risarcitoria ai sensi dell'art. 124 c.p.a.

La scelta di applicare le sanzioni di cui all'art. 123 c.p.a. in via alternativa o cumulativa (nonché l'individuazione della misura della sanzione) deve essere effettuata dal giudice sulla base dei parametri fissati dallo stesso art. 123, comma 2.

In buona sostanza, il giudice è chiamato a valutare se l'applicazione (in una certa misura) di una sola delle due tipologie di sanzioni sia sufficientemente dissuasiva, dotata di effettività, nonché proporzionata alla gravita della condotta della stazione appaltante e alle azioni eventualmente poste in essere da quest'ultima per attenuarne le conseguenze: in caso affermativo, si limiterà all'applicazione di tale sanzione, nella misura individuata; al contrario, in caso negativo, dovrà valutare un eventuale incremento della misura della sanzione ovvero il cumulo di tale sanzione con una sanzione ulteriore, rientrante nell'altra tipologia (nonché con l'eventuale condanna risarcitoria ai sensi dell'art. 124 c.p.a.).

In dottrina, si è osservato che la direttiva associa la caducazione successiva del contratto a una forte componente sanzionatoria, in danno dell'amministrazione che ha adottato il provvedimento di aggiudicazione illegittima, piuttosto che a una funzione ripristinatoria della posizione giuridica del soggetto leso dalla violazione (Giustiniani, Fontana). Inoltre, sia la privazione degli effetti del contratto, sia le sanzioni alternative, assolvono a una funzione di deterrenza, propria del modello sanzionatorio, al fine di garantire lo stand-still da parte delle amministrazioni.

Sebbene sia innegabile la funzione deterrente dell'art. 123 c.p.a., non possono comunque tralasciarsi due aspetti “eccentrici” che caratterizzano la norma in esame. Il primo riguarda l'attribuzione al giudice del potere di comminare la sanzione; tale attribuzione appare inusuale, posto che nel nostro ordinamento il potere in questione è generalmente conferito all'amministrazione, riservandosi al giudice una mera cognizione a posteriori sulle sanzioni in sede di controllo giurisdizionale. Il secondo aspetto involge invece il potere riconosciuto al giudice, al quale è rimessa la decisione del tipo di sanzione da irrogare, secondo un criterio ampiamente discrezionale, incentrato sulla valutazione degli interessi in campo. Sotto questo profilo la disposizione estende sostanzialmente al merito tout court la giurisdizione amministrativa sul punto (Giustiniani, Fontana).

Profili applicativi e profili problematici in tema di sanzioni alternative

L'applicazione dell'art. 123 c.p.a. ha dato la stura a diverse questioni problematiche.

Con specifico riguardo alla sanzione pecuniaria, i primi commenti alla norma hanno posto il problema dell'individuazione del soggetto in capo al quale dovesse ricadere l'interesse alla riscossione.

Sul punto, il tenore letterale dell'art. 123 c.p.a. è abbastanza chiaro nell'attribuire al Ministero dell'economia e delle finanze la legittimazione alla riscossione della sanzione: sarà, quindi, tale autorità statale ad essere interessata al suo adempimento e a poter quindi porre in essere, a tal fine, ogni attività esecutiva necessaria.

Un'ulteriore questione riguarda la natura giuridica della sanzione. Sul punto si fronteggiano due orientamenti. Secondo una prima ricostruzione, le sanzioni previste dall'art. 123 c.p.a. non hanno natura di sanzione amministrativa: si tratterebbe, invece, di sanzioni di peculiare natura processuale, irrogate per la violazione di regole di diritto pubblico. Per una diversa tesi, ad oggi maggioritaria, l'art. 123 compendierebbe invece sanzioni amministrative di tipo afflittivo/punitivo (Sanino, Chiné, Fata).

Infine, si pone il problema della compatibilità della disciplina di cui all'art. 123 c.p.a. con il sistema generale delle sanzioni amministrative regolate dalla l. n. 689/1981.

In particolare, ci si chiede i) se possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento il riconoscimento del potere sanzionatorio in capo all'autorità giurisdizionale e ii) se sia ammissibile un modello sanzionatorio che non richieda alcuna indagine sulla partecipazione soggettiva dell'autore della violazione. Infine, resta comunque non chiara la natura del potere sanzionatorio di riduzione dell'efficacia del contratto (Giustiniani, Fontana).

Con riferimento al primo dei summenzionati profili, deve evidenziarsi che il riconoscimento del potere sanzionatorio in capo all'autorità giurisdizionale non è stato coartato dalla Direttiva Ricorsi la quale, laddove prevedeva l'attribuzione del potere sanzionatorio ad un organo di ricorso indipendente, non intendeva necessariamente riferirsi all'autorità giurisdizionale. Tuttavia, deve riconoscersi nel nostro ordinamento l'esistenza di altre previsioni di legge che assegnano all'autorità giurisdizionale tale potere: è il caso, ad esempio, dell'ipotesi prevista dall'art. 24 della citata l. n. 689/1981, che riconosce al giudice penale il potere sanzionatorio in caso di pregiudizialità rispetto all'accertamento dell'illecito penale.

Quanto al titolo soggettivo dell'illecito, deve osservarsi che il principio della personalità accolto dalla legge n. 689/1981 (secondo il quale destinatario della stessa può essere soltanto una persona fisica) non gode di copertura costituzionale, dal momento che l'art. 27 Cost. attribuisce il connotato della personalità alla sola responsabilità penale. L'opzione normativa di cui all'art. 123 c.p.a. pertanto, appare del tutto legittima e costituzionalmente compatibile (Cerbo).

Con riguardo alla natura della sanzione che prevede la riduzione del contratto sono maturate differenti opinioni. Secondo alcuni, tale sanzione ha funzione ripristinatoria; per una seconda opinione, che predilige una lettura civilistica della norma, la previsione che ammette la riduzione dell'efficacia del contratto ha le stesse caratteristiche dell'art. 1419 c.c., che ammette la sostituzione della clausola nulla (Cerbo).

Sempre in un'ottica civilistica, inoltre, altri autori ritengono che la norma in commento integri una nuova ipotesi di modifica legale del contratto, alla stessa stregua della previsione sancita dall'art. 1372 c.c., e vi è infine chi ritiene che quello in commento sia un rimedio assimilabile all'inefficacia. Ognuna di queste opinioni merita apprezzamento; a parere di chi scrive, tuttavia, appare preferibile riconoscere al rimedio in commento una funzione ripristinatoria, in quanto è evidente la sua finalizzazione a ricomporre uno stato di legalità violata.

Art. 124 c.p.a.: un inquadramento

L'art. 124, dedicato alla “tutela specifica e per equivalente”, ripropone, sul punto, la previgente disciplina recata dall'art. 245-quinquies, d.lgs. n. 163/2006, così come introdotta dal d.lgs. n. 53/2010.

Più precisamente, l'articolo in commento prevede due diverse tipologie risarcitorie per il privato a cui sia stata illegittimamente negata l'aggiudicazione di una gara pubblica:

i) la prima, in forma specifica, che – transitando per la declaratoria di inefficacia del rapporto negoziale medio tempore sorto tra la P.A. e l'aggiudicatario illegittimo – prevede il subentro del ricorrente nel rapporto negoziale, consentendo così al privato di ottenere direttamente il bene della vita a cui aspirava;

ii) la seconda, consistente nel risarcimento per equivalente del danno subìto e provato.

Quanto alla prima tipologia risarcitoria, l'art. 124 c.p.a. dispone che il ricorrente vittorioso, in esito all'annullamento dell'aggiudicazione, possa ottenere l'attribuzione del bene della vita “contratto” solo ove il negozio stipulato in ragione dell'aggiudicazione illegittima venga dichiarato inefficace ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a.

Ulteriori condizioni per ottenere la tutela in forma specifica sono costituite dalla formulazione di una specifica domanda del ricorrente e dalla dichiarazione di disponibilità di questi a subentrare nel contratto dichiarato inefficace. Ove il contratto non venga dichiarato inefficace, il giudice “dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”.

La tutela per equivalente, dunque, è condizionata alla prova del danno che il ricorrente dichiara di aver subito.

Il comma 1 dell'art. 124 è stato oggetto di modifica da parte dell'art. 209 del d.lgs. n. 36/2023: nel dettaglio, vi si è aggiunto un ulteriore capoverso in tema di giurisdizione che precisa la cognizione del giudice amministrativo in relazione alle “azioni risarcitorie e (...) quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo”. Tale modifica, realizzando e sviluppando una soluzione già prefigurata dall'Adunanza Plenaria con sentenza 12 maggio 2017, n. 2, persegue la finalità di rafforzare la tutela risarcitoria e, al contempo, di realizzare tale obiettivo di politica legislativa assicurando l'unità della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di appalti. La nuova formulazione normativa si raccorda, peraltro, con l'art. 41 comma 2 del c.p.a., nella parte in cui prevede che “Qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell'atto illegittimo”. L'innovazione è, inoltre, coerente con il comma 4 dell'art. 5 rubricato “Principi di buona fede e di tutela dell'affidamento”, il quale stabilisce che “Ai fini dell'azione di rivalsa della stazione appaltante o dell'ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta ferma la concorrente responsabilità dell'operatore economico che ha conseguito l'aggiudicazione illegittima con una condotta contraria ai doveri di buona fede” (Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

Il secondo comma della norma stabilisce che la condotta della parte che senza giustificato motivo non ha domandato di subentrare nel contratto è valutata dal giudice come concorso colposo alla causazione del danno ai sensi dell'art. 1227 c.c.

La questione affrontata dalla norma è una delle più dibattute in dottrina e giurisprudenza: l'esigenza di contemperare le istanze di tutela del privato, ingiustamente 'non aggiudicatario', con la necessità di stabilità dei contratti della pubblica amministrazione.

Infine, sempre con la novella al c.p.a. apportata dal nuovo Codice dei contratti pubblici, è stato introdotto nel corpo dell'art. 124 il nuovo comma 3 che prevede che il giudice, ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., individui i criteri di valutazione del danno ai fini del risarcimento per equivalente, assegnando alla parte danneggiante un termine entro il quale formulare una proposta risarcitoria. L'intento perseguito dal legislatore sembra essere consistito nell'incrementare il grado di speditezza e di effettività della tutela risarcitoria per equivalente, creando disincentivi economici nei confronti della parte danneggiante la quale manchi di formulare una proposta transattiva o la determini in misura incongrua rispetto alla reale entità del danno suscettibile di ristoro. L'intento, più specificamente, appare essere quello di favorire la rapida definizione del tema risarcitorio nell'ambito dell'unico giudizio di cognizione, prevenendo la necessità di ricorrere alla tutela dell'ottemperanza (a cui è comunque devoluta la questione ove le parti non riescano a raggiungere un accordo). Le innovazioni all'art. 124, come messo in rilievo nella Relazione Illustrativa del Consiglio di Stato, rappresentano la “spia” dell'importanza che assumerà in futuro, nell'ambito della disciplina dei contratti pubblici, la tutela risarcitoria per equivalente.

La tutela in forma specifica

La tutela in forma specifica “è il frutto dell'innesto di un'azione di esatto adempimento, praticabile naturalmente solo nei casi di procedure vincolate (in via originaria o a seguito della pronuncia giurisdizionale)” (Caringella, Giustiniani).

Essa viene opportunamente subordinata all'annullamento dell'aggiudicazione e alla privazione di effetti del contratto stipulato nelle more della definizione del giudizio.

Si tratta di una soluzione “coerente con l'attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo della cognizione del contratto” (Caringella, Giustiniani).

Infatti, considerando l'inscindibile legame sostanziale intercorrente tra il provvedimento pubblicistico di aggiudicazione e il contratto privatistico, appare logico che una pronuncia attributiva del bene della vita anelato sia in grado di eliminare contestualmente entrambi gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del risultato richiesto.

Al fine di ottenere la tutela in forma specifica, ovvero il subentro nel contratto da parte dell'aggiudicatario pretermesso, il legislatore attribuisce particolare rilievo alla domanda di subentro (Casinelli).

Nell'originario schema di decreto delegato (approvato il 27 novembre 2009) veniva previsto (art. 243-ter) che la domanda di annullamento del provvedimento di aggiudicazione si intende sempre comprensiva della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto, nonché della domanda di privazione degli effetti del contratto, ove nel frattempo stipulato, anche in difetto di espressa indicazione”.

Il comma 3 del citato articolo, inoltre, attribuiva esclusivamente al giudice, dopo aver annullato l'aggiudicazione, la possibilità di optare tra la declaratoria di inefficacia del contratto e il risarcimento del danno. Il Consiglio di Stato, nel parere espresso dalla Commissione speciale sullo schema di Codice del processo amministrativo dell'1 febbraio 2010, n. 368, ha suggerito di modificare la disposizione, in guisa da attribuire rilevanza alla domanda di subentro formulata dal ricorrente. Il Governo si è uniformato alle osservazioni del Consiglio di Stato, inserendo nella versione definitiva della norma la previsione della necessaria domanda di subentro del ricorrente vittorioso nel contratto. Tuttavia, la norma non è altrettanto chiara nell'indicare se sia ugualmente necessaria, ai fini del riconoscimento della tutela in forma specifica, una espressa domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto. Quid iuris ove il ricorrente domandi solo il subentro nel contratto, senza domandare la declaratoria di inefficacia del negozio illegittimamente stipulato? (Giustiniani, Fontana).

La questione è agevolmente risolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo le quali, in base al principio di continenza delle istanze giudiziali, la domanda di subentro del ricorrente presuppone ed implica, sul piano logico, quella di inefficacia del contratto già stipulato, con la conseguenza che può dirsi in essa contenuta (Caringella, Protto).

Va rammentato, in ogni caso, che il subentro nel contratto è condizionato ad una doppia pregiudiziale: l'annullamento dell'aggiudicazione e la dichiarazione di inefficacia del contratto (cfr. Cons. St. V, n. 815/2020).

Il nesso di pregiudizialità previsto dalla legge per assentire la tutela in forma specifica, peraltro, non può tradursi in una surrettizia introduzione della pregiudiziale amministrativa, essendo all'uopo sufficiente la contestuale proposizione delle due domande nel medesimo giudizio.

Sul piano dogmatico, la disposizione in esame ripropone inevitabilmente il tema della natura giuridica della reintegrazione in forma specifica (Saitta).

Secondo la dottrina, i limiti imposti alla possibilità di conseguire aggiudicazione e contratto potrebbero indurre a configurare la relativa domanda alla stregua di un'azione di adempimento, del genere della Verpiflichtungsklage dell'ordinamento tedesco, essendo sottoposta ad una disciplina processuale diversa dalla tutela risarcitoria in forma specifica di cui all'art. 2058 c.c. (Bartolini).

Dalla norma contenuta nell'art. 124 c.p.a. scaturisce un ulteriore interrogativo: è ammissibile la domanda di inefficacia del contratto nell'ipotesi in cui il contraente non sia nelle condizioni di ottenere l'aggiudicazione?

A questo proposito può ribadirsi quanto già detto circa l'interesse strumentale alla rinnovazione della gara:

anche in questo caso il ricorrente che non ha i requisiti per ottenere il contratto ha comunque interesse all'invalidazione dell'intera procedura e alla dichiarazione di inefficacia del contratto (Giustiniani, Fontana).

A tale interesse si affianca la legittima aspirazione alla riedizione della gara, laddove non vi siano più le condizioni per ottenere il bene della vita a cui si aspira, e cioè il contratto. Tale conclusione muove dall'assunto, oggi diffusamente accolto, secondo cui l'interesse alla riedizione della gara è giuridicamente tutelabile (Lipari).

Nello specifico, per il giudice amministrativo, in conformità ai principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, costituisce bene della vita meritevole di protezione giurisdizionale anche la ‘ chance di aggiudicazione' connessa alla partecipazione alla nuova procedura (cfr. T.A.R. Campania (Napoli) II, 25 gennaio 2017, n. 503, nonché – in senso contrario – T.A.R. Puglia (Bari) II, 1° febbraio 2018, n. 127).

La tutela per equivalente

L'art. 124, comma 1, stabilisce che “se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”.

Anche in tale ipotesi, deve escludersi che la norma in commento introduca una surrettizia forma di pregiudiziale amministrativa: ai fini del risarcimento per equivalente, invero, la persistente efficacia del provvedimento di aggiudicazione e del relativo contratto non ostano al riconoscimento per equivalente della pretesa risarcitoria del ricorrente.

Occorre aggiungere, peraltro, che l'art. 124 c.p.a. è da riferirsi allo specifico caso in cui il ricorrente, impugnando l'aggiudicazione, domandi il subentro nel contratto, ovvero (in subordine) la tutela risarcitoria per equivalente. Appare, infatti, improbabile che il privato non aggiudicatario, anziché puntare al contratto, si limiti a domandare soltanto il risarcimento dei danni: se ne trae indiretta conferma dal secondo comma dell'art. 124 c.p.a., il quale stabilisce che la condotta processuale della parte che – senza giustificato motivo – non ha proposto la domanda di cui al comma 1 o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c.

Di sicura utilità è, invece, la previsione che onera la parte ricorrente della prova del danno (cfr. Cons. St. V, n. 5384/2017, nonché T.A.R. Emilia Romagna (Parma) I, 19 marzo 2018, n. 81). Nello specifico, la norma stabilisce espressamente che il danno lamentato dal ricorrente deve essere provato, così precludendo la strada a quantificazioni forfettarie.

Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha elaborato – e progressivamente affinato – una serie di criteri e princìpi in tema di quantificazione (e qualificazione) del danno da mancata aggiudicazione di una gara pubblica.

Tali princìpi sono stati autorevolmente riepilogati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 2/2017.

Il danno “da mancata aggiudicazione” viene usualmente risarcito nella misura del c.d. “interesse positivo”, che ricomprende sia il mancato profitto (ossia il “lucro cessante”), sia il c.d. “danno curriculare” (ossia il pregiudizio sofferto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale e dell'impossibilità di “spendere” la commessa in esame ai fini della partecipazione ad altre procedure di gara) (Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

Invero, sembra potersi ritenere riconducibile entro la medesima categoria del danno “da mancata aggiudicazione” anche il c.d. danno “da perdita di chance”. Quest'ultima voce di danno, da un punto di vista meramente concettuale, costituirebbe in realtà una categoria autonoma rispetto al c.d. lucro cessante e, quindi, rispetto al danno “da mancata aggiudicazione” propriamente detto.

In senso tecnico, infatti, si parla di “danno da mancata aggiudicazione” qualora il danneggiato riesca a provare che – senza le illegittimità poste in essere dall'amministrazione – l'aggiudicazione della gara (e quindi la spettanza del bene della vita “contratto”) sarebbe stata a lui attribuibile in termini di certezza; in tal caso, il “danno da perdita di chance ” non è autonomamente risarcibile in quanto può ritenersi “coperto” dal “danno da mancata aggiudicazione” (cfr. T.A.R. Lazio (Roma) II-quater, n. 3476/2017).

Viceversa, il “danno da perdita di chance ” deve essere autonomamente riconosciuto e risarcito qualora il danneggiato non riesca a dimostrare che il bene della vita “contratto” gli sarebbe spettato in termini di certezza, bensì soltanto in termini di concreta probabilità.

La giurisprudenza ha evidenziato come il “danno da perdita di chance” esprima uno schema di reintegrazione patrimoniale che “poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un'astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto. (...) La chance iniziale e virtuale, che muove dall'essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini (...) fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all'operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri. Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell'amministrazione contrastano con la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l'interesse legittimo dell'operatore economico e – se è precluso anche il bene della vita cui l'interesse è orientato – è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta. La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l'illegittima condotta dell'amministrazione ha qui determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l'interessato la probabilità di aggiudicazione – la chance appunto – tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l'atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta. (...) l'operatore può beneficiare del risarcimento solo se la sua chance di aggiudicazione ha (...) raggiunto un'apprezzabile consistenza (...). Al di sotto di tale livello, dove c'è la ‘mera possibilità' di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto” (Cons. St. V, n. 2527/2018; in termini, da ultimo, si vedano: Cons. St. V, n. 7845/2019; Cons. St. VI, n. 2654/2021, Cons. St. VI, 29 marzo 2021, nn. 2659 e 2660 e Cons. St. VI, 20 maggio 2021, n. 2661).

È proprio in tale contesto che la distinzione tra “danno da mancata aggiudicazione” e “danno da perdita di chance” appare meramente classificatoria, atteso che la necessaria quantificazione percentuale dell'ipotizzata lesione della chance identifica senz'altro la dimensione effettiva di un (seppur potenziale, e non certo) lucro cessante.

Quale che sia la “qualificazione concettuale” del danno risarcibile, l'operatore economico che riesca a provare di aver subìto un danno a causa delle illegittimità poste in essere dalla stazione appaltante avrà diritto a essere risarcito per il pregiudizio sofferto.

Semplicemente, se il danneggiato riuscirà a provare che senza le illegittimità poste in essere dalla stazione appaltante avrebbe avuto una probabilità di conseguire l'aggiudicazione quantificabile in termini di certezza, il danno al cui risarcimento avrà diritto potrà essere definito quale “danno da mancata aggiudicazione”; qualora risulti dimostrata non già una certezza bensì una “seria probabilità” di aggiudicazione, il danno che dovrà essere risarcito assumerà i connotati del “danno da perdita di chance”; se invece risulti sussistente una “mera possibilità di aggiudicazione”, nessun danno potrà essere risarcito. In ogni caso, tuttavia, l'accoglimento di una domanda risarcitoria non potrà essere fondato sull'annullamento di un provvedimento amministrativo con la c.d. “salvezza di riesercizio” del potere (cfr. Cons. St. IV, n. 2907/2018).

Sia in caso di danno da mancata aggiudicazione, sia in caso di danno da perdita di chance, si pone ugualmente il problema di quantificare con esattezza il pregiudizio risarcibile.

In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il mancato profitto deve essere specificamente provato dal ricorrente, senza che si possa procedere a quantificazioni forfettarie (cfr. T.A.R. Calabria (Catanzaro) I, 21 giugno 2018, n. 276). In altri termini, attesa la piena operatività nell'azione risarcitoria del principio dispositivo di cui all'art. 2697 c.c., ricade sul ricorrente l'onere di offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto. Valutazioni di tipo equitativo sono ammissibili soltanto nei casi di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

Il mancato utile spetta al danneggiato nella misura integrale soltanto qualora quest'ultimo “dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa” (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

In difetto di tale dimostrazione, può presumersi (sulla base dell'id quod plerumque accidit) che l'impresa abbia riutilizzato – o che comunque avrebbe potuto riutilizzare – i mezzi e la manodopera per l'esecuzione di altri appalti.

In buona sostanza, dall'utile ritraibile dalla commessa illegittimamente negata deve essere sottratto l' aliunde perceptum vel percipiendum, che può essere calcolato dal giudice in via equitativa e forfettaria e la cui sussistenza viene quindi affermata sulla base di una presunzione semplice, gravando sul danneggiato l'onere di fornire la prova contraria (cfr. Cons. St. V, n. 2527/2018).

Si precisa che il danno risarcibile ex art. 124 c.p.a. costituisce debito di valore; occorre, pertanto, riconoscere al danneggiato sia la rivalutazione monetaria che attualizza al momento della liquidazione il danno subìto, sia gli interessi compensativi determinati al saggio legale, calcolati sulla somma periodicamente rivalutata e volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo (Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

In precedenza, la giurisprudenza tendeva a quantificare forfettariamente l'utile ritraibile dall'appalto nella misura del 10% dell'importo dell'appalto medesimo.

Tale tipologia di quantificazione è stata correttamente esclusa dall'Adunanza Plenaria, stante l'impossibilità di formulare un giudizio probabilistico fondato sull'id quod plerumque accidit sulla scorta del quale – allegato l'importo a base d'asta – possa presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% di detto importo (Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

Del resto, l'art. 124 c.p.a. è chiaro nell'ammettere il risarcimento del solo danno “subito e provato”.

In nessun caso, inoltre, dovranno considerarsi rimborsabili i costi affrontati dall'impresa per la presentazione dell'offerta: non essendo, infatti, tale costo rimborsabile in caso di aggiudicazione dell'appalto, deve ritenersi che il medesimo costituisca un rischio dell'impresa, funzionale alla previsione di guadagno in astratto quantificata e non riconducibile entro l'area del danno.

Anche per il danno curriculare l'operatore economico deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subìto, “quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante” (Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017).

Si deve rilevare, tuttavia, come una parte della giurisprudenza non si sia pienamente adeguata ai princìpi espressi dall'Adunanza Plenaria nella sentenza n. 2/2017.

In particolare, hanno continuato a rinvenirsi pronunce secondo le quali sarebbe possibile, in assenza di specifiche allegazioni probatorie, quantificare il danno nella misura forfettaria del 10% dell'importo offerto dal danneggiato in sede di gara (cfr. T.A.R. Sicilia (Catania) I, 12 dicembre 2017, n. 2853).

In particolare, nel caso in cui a essere risarcito sia il danno da perdita di chance, recentissime pronunce giurisprudenziali sostengono che – ai fini della quantificazione del pregiudizio risarcibile – il giudice debba prendere come riferimento l'utile ritraibile dalla commessa secondo ‘criteri di normalità', calcolato nella tradizionale misura del 10% dell'importo posto a base di gara, e operare poi una decurtazione sulla base dell'effettiva consistenza della chance radicata in capo al danneggiato, prendendo a riferimento parametri quali, ad esempio, il numero dei partecipanti alla procedura, la tipologia di vizio riscontrato, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata e il contenuto dell'offerta presentata dall'impresa danneggiata (cfr. Cons. St. V, n. 2527/2018). In buona sostanza, secondo tale orientamento, qualora a essere risarcito sia soltanto il danno da perdita di chance, la somma commisurata all'utile d'impresa può essere quantificata secondo criteri forfettari e deve poi essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura (cfr. T.A.R. Sicilia (Catania) I, 25 settembre 2017, n. 2200). Similmente, in assenza di prove specifiche sul punto, anche il danno curriculare sarebbe quantificabile in via equitativa e forfettaria, nella misura del 5% del danno riconosciuto a titolo di lucro cessante (cfr. T.A.R. Lombardia (Milano) IV, n. 2017/2017).

Si registrano poi pronunce giurisprudenziali che contestano le conclusioni raggiunte dall'Adunanza Plenaria anche sotto il profilo della ripartizione dell'onere probatorio in tema di aliunde perceptum vel percipiendum.

In particolare, secondo l'orientamento in esame, non sarebbe corretto far ricadere sul danneggiato l'onere di dimostrare l'assenza di aliunde perceptum vel percipiendum, dovendo piuttosto gravare sull'amministrazione l'onere di provarne la sussistenza. Ciò in quanto tale principio, “qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell'ipotesi in cui l'impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall'esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell'attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell'impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l'appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum)” (cfr. T.A.R. Sicilia (Catania) I, n. 2200/2017).

Si consideri infine che il giudice amministrativo – nella liquidazione del quantum risarcibile – può limitarsi a fissare i parametri in base ai quali sia possibile pervenire ad un accordo fra le parti medesime ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a. (c.d. 'sentenza sui criteri') (C. g. aSicilia, 21 dicembre 2017, n. 559).

In particolare, tale norma prevede che il giudice possa – in mancanza di opposizione delle parti – stabilire “i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine”.

Qualora le parti non giungano a un accordo (ovvero non adempiano agli obblighi derivanti dall'accordo concluso) la determinazione della somma dovuta (ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti) potrà essere richiesta al giudice mediante l'instaurazione di un giudizio di ottemperanza ai sensi degli artt. 112 e ss. c.p.a.

Sempre in tema di danno da perdita di chance, è stata recentemente rimessa all'Adunanza Plenaria la questione se, in caso di illegittimo ricorso all'affidamento diretto senza gara di un pubblico appalto, spetti il risarcimento del danno per equivalente derivante da perdita di chance ad un'impresa che avrebbe potuto concorrere quale operatore del relativo settore economico (Cons. St. V, sent. non def. 11 gennaio 2018, n. 118).

Sul punto, la Sezione rimettente ha ravvisato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale.

Da un lato, un primo orientamento ritiene che nell'ipotesi di illecito affidamento di un appalto senza gara vada senz'altro riconosciuto il risarcimento della chance vantata dall'impresa del settore, sul rilievo che l'impossibilità di formulare una prognosi sull'esito di una procedura comparativa mai svolta non dovrebbe ridondare in danno del soggetto leso dall'altrui illegittimità, sicché la chance andrebbe ristorata nella sua obiettiva consistenza a prescindere dalla verifica probabilistica sull'esito della procedura (ex multis, cfr. Cons. St. V, n. 3450 /2016). Dall'altro lato, un secondo orientamento sostiene che ai fini del risarcimento non possa essere sufficiente la perdita dell'astratta possibilità di conseguire il bene della vita negato dall'amministrazione per effetto di atti illegittimi, ma occorre la prova della sussistenza, nel caso concreto, di un rilevante grado di probabilità di conseguirlo (ex multis, Cons. St. III, n. 559/2016).

Chiamata a pronunciarsi sul merito della questione, l'Adunanza Plenaria ha tuttavia ritenuto di restituire gli atti alla Sezione rimettente ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a., affermando l'impossibilità di un esame approfondito della fattispecie a causa di alcune ricostruzioni già operate dalla Sezione medesima nella sentenza non definitiva con cui la controversia era stata deferita.

La questione, pertanto, deve ancora considerarsi aperta.

Il mero annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione di un appalto non è ex se sufficiente a far sorgere a carico dell'amministrazione una responsabilità di tipo risarcitorio nei confronti del soggetto a cui l'aggiudicazione sia stata illegittimamente negata. Gli elementi costitutivi del fatto illecito della pubblica amministrazione sono stati elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, assumendo quale modello di riferimento il paradigma di cui all'art. 2043 c.c. pur con qualche adattamento (Giustiniani, Fontana).

Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale, affinché si possa far valere la responsabilità risarcitoria della P.A. per mancata aggiudicazione di una gara pubblica, è richiesto l'accertamento: i ) dell'imputabilità dell'evento dannoso alla responsabilità dell'amministrazione; ii ) dell'esistenza di un danno patrimoniale ingiusto; iii ) del nesso causale tra l'illecito compiuto e il danno subito; iv ) di un grado sufficiente di diligenza nella condotta del ricorrente, atteso il principio recato dall'art. 30, comma 3, c.p.a., secondo cui il giudice amministrativo non ammette il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento dei mezzi di tutela previsti (cfr. T.A.R. Piemonte II, 22 agosto 2018, n. 972).

Più controverso è stabilire se, affinché possa essere affermata la responsabilità risarcitoria dell'amministrazione per danno da mancata aggiudicazione, sia necessario anche l'accertamento dell'elemento soggettivo.

Per molto tempo ci si è chiesti se l'amministrazione potesse essere chiamata a rispondere in sede risarcitoria soltanto per condotte qualificabili come “colpose”, ovvero se la responsabilità della P.A. fosse ricostruibile alla stregua di una responsabilità meramente oggettiva. In via generale, per la configurazione del fatto illecito dell'amministrazione la giurisprudenza è univoca nel richiedere l'accertamento dell'elemento soggettivo, conformemente al modello civilistico della responsabilità aquiliana.

La nozione di “colpa”, con riferimento all'azione amministrativa, è stata tuttavia oggetto di alcuni adattamenti rispetto alla corrispondente figura civilistica. Del resto, l'attività della P.A. non è riferibile a specifiche persone fisiche, bensì all'amministrazione come apparato; da qui, in particolar modo, deriva l'impossibilità di utilizzare i criteri elaborati dalla scienza giuridica a proposito della qualificazione colpevole della condotta umana.

Con l'obiettivo di affrontare siffatta problematica, la giurisprudenza amministrativa ha elaborato alcuni criteri interpretativi finalizzati a stabilire i casi in cui la condotta della P.A. debba ritenersi colposa.

In epoca risalente, veniva sostenuto che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall'amministrazione al privato – a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo – la presenza dell'elemento soggettivo della colpa, ai fini dell'imputabilità, fosse di per sé ravvisabile nell'accertata illegittimità del provvedimento, e che il risarcimento del danno conseguente all'illegittimità dell'atto spettasse a prescindere dall'indagine sulla colpa dell'amministrazione (cfr., ex multis, Cass. S.U., n. 5361/1984). Tale orientamento – già avversato da chi evidenziava come esso, di fatto, avesse trasformato l'illecito della P.A. in un illecito oggettivo, in cui l'elemento della colpa costituiva un mero duplicato dell'elemento dell'ingiustizia del danno – fu poi accantonato dopo l'affermazione, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, della risarcibilità dell'interesse legittimo.

Il principio secondo cui la colpa della P.A. fosse da ritenersi sussistente in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo, infatti, non era conciliabile con la nuova lettura dell'art. 2043 c.c. che svincolava l'operatività di tale norma dalla lesione di posizioni giuridiche qualificabili come diritti soggettivi. Si iniziò quindi a richiedere al giudice lo svolgimento di un'indagine estesa anche alla valutazione della colpa, non già del funzionario agente ma della P.A. intesa come apparato, che diveniva configurabile nel caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo fosse avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi.

Sulla scorta di tali rilievi, la giurisprudenza ha finito per accogliere una nozione ‘oggettiva' di colpa dell'amministrazione. Secondo detta ricostruzione, è possibile affermare la sussistenza della colpa dell'apparato qualora l'illegittimità del provvedimento sia stata cagionata da una violazione grave di norme giuridiche, estendendo in via analogica l'art. 2236, c.c. che esclude la responsabilità dei professionisti per colpa lieve. Per valutare siffatta gravità, la giurisprudenza richiama indici sintomatici in tutto analoghi a quelli dettati dalla giurisprudenza eurounitaria: l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, i precedenti della giurisprudenza, le condizioni concrete e l'apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento (cfr. Cons. St. IV, n. 3439/2017).

Si conclude, quindi, nel senso che se la violazione appare grave e se essa matura in un contesto nel quale all'indirizzo dell'amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente (cfr. T.A.R. Lazio (Roma) I-ter, 18 ottobre 2017, n. 10456).

In ogni caso, la giurisprudenza nazionale è concorde nell'escludere la colpa della P.A. nelle ipotesi di errore scusabile, che si realizza in caso di mutamenti di orientamenti giurisprudenziali o di particolare complessità delle situazioni di fatto (cfr. T.A.R. Campania (Napoli) I, 15 dicembre 2017, n. 5913).

Quali parametri valutativi dell'elemento soggettivo vengono quindi indicati: i) il grado di chiarezza e precisione della norma violata; ii) la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall'amministrazione; iii) la novità della medesima questione, riconoscendo così portata esimente all'errore di diritto, in analogia all'elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni (cfr. T.A.R. Campania (Salerno) II, 29 agosto 2017, n. 1360).

La giurisprudenza amministrativa sostiene quindi che sia scusabile l'errore sull'interpretazione della norma laddove siano presenti contrapposizioni interpretative – ovvero oggettive oscurità – tali da non rendere chiaro e univoco il significato e la portata della disposizione da applicare nel caso concreto.

Il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si sia trattato di un errore non scusabile; spetterà a quel punto all'amministrazione dimostrare la scusabilità dell'errore.

Tali princìpi, in un primo momento, vennero applicati alla generalità dei casi di responsabilità risarcitoria della P.A. nei confronti di soggetti privati. Sennonché tale quadro è stato completamente sovvertito dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, che è intervenuta “a gamba tesa” sulla necessità dell'elemento soggettivo della P.A. ai fini del risarcimento per equivalente di cui all'art. 124 c.p.a. (Corte giust. UE, Sez. III, 30 settembre 2010, n. C-314/09).

Per questa particolare tipologia di responsabilità della P.A., quindi, si è affermato un modello del tutto peculiare, che prescinde dall'accertamento del carattere colposo della condotta dell'amministrazione.

La non necessarietà dell'elemento soggettivo nella responsabilità per mancata aggiudicazione

Si è visto che, in via generale, la sussistenza della responsabilità risarcitoria dell'amministrazione richiede l'accertamento dell'elemento soggettivo. Così non è, tuttavia, con riferimento all'ipotesi di responsabilità per danno da mancata aggiudicazione di una gara pubblica. Tale tipologia di responsabilità è stata infatti “disegnata” dalla giurisprudenza in termini speciali rispetto al modello generale della responsabilità civile della P.A. (già parzialmente derogatorio rispetto al modello prettamente civilistico).

In estrema sintesi, la responsabilità dell'amministrazione per mancata aggiudicazione di un pubblico appalto è una responsabilità di tipo squisitamente oggettivo, che prescinde dall'accertamento dell'eventuale carattere “colposo” dell'azione amministrativa.

Tale regime “speciale” – come si è anticipato – è dovuto alla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, Sez. III, 30 settembre 2010, n. C-314/09 (c.d. sentenza “Graz Stadt”), che ha ricostruito in termini completamente oggettivi la responsabilità dell'amministrazione in materia di appalti pubblici, escludendo la rilevanza, ai fini risarcitori, dell'elemento soggettivo dell'illecito.

In particolare, il giudice eurounitario ha affermato che, laddove non venga dichiarata l'inefficacia del contratto, e quindi non venga riconosciuta la tutela in forma specifica ex art. 124 c.p.a. il giudice deve riconoscere al ricorrente, senza necessità di prova dell'elemento soggettivo e senza che la P.A. possa dimostrare la scusabilità dell'errore, il risarcimento del danno subito e provato.

Diversamente opinando, il rimedio per equivalente non sarebbe un'alternativa valida ed effettiva rispetto alla tutela in forma specifica (il conseguimento dell'aggiudicazione), che certamente opera a prescindere dalla colpa. Il giudice eurounitario è giunto a tale conclusione in ragione della natura del risarcimento per equivalente contemplata dalla normativa comunitaria e dal primo comma dell'art. 124 c.p.a.

Esso infatti non costituisce uno strumento risarcitorio in senso stretto ma una misura sostitutiva della tutela specifica, sostanziandosi nell'attribuzione del bene della vita aggiudicazione-contratto in ragione del suo valore economico. In buona sostanza, quindi, non si tratta di una domanda risarcitoria tout court, ma dell'accoglimento della stessa domanda di esatto adempimento spiccata dal ricorrente che chieda l'aggiudicazione del contratto, con la mera sostituzione del bene della vita in senso specifico con il suo surrogato economico; di qui i due corollari della non necessarietà dell'elemento psicologico e di una nuova domanda. Sulla base di tali evenienze, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha concluso nel senso che una normativa nazionale non possa subordinare il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della P.A. commesse nel corso di gare d'appalto al carattere colpevole di tali violazioni.

La responsabilità in materia di appalti, dunque, per effetto dell'intervento del giudice eurounitario si configura come oggettiva, con conseguente impossibilità per la stazione appaltante di dimostrare il carattere incolpevole della violazione accertata in sede giurisdizionale.

L'impatto di questa decisione della Corte di giustizia UE è stato dirompente. La quasi totalità della giurisprudenza nazionale ha infatti mostrato di uniformarsi ai dettami eurounitari, ricostruendo la responsabilità della P.A. da aggiudicazione illegittima in termini squisitamente oggettivi (ex multis: C. gt. a. Sicilia, Sez. giur., n. 559/2017; Cons. St., Ad. Plen., n. 2/2017; Cons. St. V, n. 14/2019; Cons. St. 25 febbraio 2019, n. 1257; Cons. St. 1 febbraio 2021, n. 912; T.A.R. Lazio (Roma) I, 23 settembre 2022, n. 12077).

Le uniche voci dissonanti, rispetto ai princìpi sopra indicati, riguardano l'eventualità che l'amministrazione possa evitare di incorrere in responsabilità dimostrando la scusabilità dell'errore.

Anche dopo la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, Sez. III, 30 settembre 2010, n. C-314/09, infatti, taluni pronunciamenti della giurisprudenza interna hanno continuato ad ammettere la possibilità, per l'amministrazione, di dimostrare che la condotta illegittima sia stata posta in essere a causa di un errore ‘scusabile', il quale sarebbe configurabile, “ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, d'influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivate da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata” (ex multis: T.A.R. Campania (Napoli) II, 11 maggio 2021, n. 3123; T.A.R. Lazio (Latina) I, 30 aprile 2021, n. 264; T.A.R. Puglia (Bari) I, 8 febbraio 2021, n. 261).

Sul punto, si ritengono condivisibili le conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia UE e dalla quasi totalità della giurisprudenza nazionale. Ove si ammettesse la possibilità per l'amministrazione di giustificare le illegittimità poste in essere adducendo a pretesto la scusabilità del suo errore, si vanificherebbe la ratio ispiratrice dell'art. 124 c.p.a. (nonché, a monte, della Direttiva comunitaria n. 89/665/CE) e si causerebbe il concreto rischio che l'operatore economico che si sia visto illegittimamente privare di una commessa pubblica, venga altresì privato della possibilità di ottenere ristoro, sia pure per equivalente monetario, del pregiudizio sofferto, nel caso in cui l'amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante.

In conclusione, a seguito della sentenza Graz Stadt, la responsabilità delle stazioni appaltanti per le illegittimità poste in essere nel corso delle procedure di gara è di tipo oggettivo, essendo sufficiente la ravvisata illegittimità dell'atto per dedurre la colpa dell'ente procedente, senza alcuna possibilità di controprova circa l'eventuale scusabilità dell'errore.

In tema di risarcimento da mancato affidamento di appalti pubblici, non è quindi necessario provare la colpa della stazione appaltante, in quanto il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa europea e le garanzie di trasparenza e non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione di appalti comportano la necessità che qualsiasi violazione degli obblighi di matrice europea consenta all'operatore economico danneggiato di ottenere il ristoro del pregiudizio sofferto, a prescindere dall'eventuale profilo colposo della condotta illegittima.

La responsabilità precontrattuale dell'amministrazione e il relativo elemento soggettivo

La responsabilità dell'amministrazione di cui si è trattato nei paragrafi precedenti è una responsabilità di tipo extracontrattuale per danno da mancata aggiudicazione di commesse pubbliche. Tale tipologia di responsabilità, tuttavia, non è l'unica in cui l'amministrazione può incorrere in materia di appalti (Trimarchi Banfi), andandosi ad aggiungere alla responsabilità di tipo precontrattuale (Malanetto).

La giurisprudenza ritiene che il paradigma della responsabilità precontrattuale sia pacificamente “applicabile anche all'attività contrattuale dell'amministrazione svolta secondo i modelli autoritativi dell'evidenza pubblica e che prescinde dall'accertamento di un'illegittimità provvedimentale e anche dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante” (Cons. St. V, n. 680/2018, ripreso, ex multis, da T.A.R. Friuli Venezia Giulia I, 18 febbraio 2019, n. 74), per violazione dei canoni di buona fede e correttezza nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.

Tali arresti hanno peraltro trovato espresso sostegno anche in una recente sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (29 novembre 2021, n. 21), che ha espressamente statuito che “nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa”. Gli insegnamenti giurisprudenziali hanno poi trovato accoglimento normativo espresso nell'art. 5 del d.lgs. n. 36/2023, laddove, al relativo comma 2, si detta il principio che “nell'ambito del procedimento di gara, anche prima dell'aggiudicazione, sussiste un affidamento dell'operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede”.

Questione controversa ha storicamente riguardato la non sempre agevole linea di demarcazione tra affidamento colpevole e affidamento incolpevole, che fa sorgere il diritto al risarcimento dei danni subiti.

Anche su questo tema, la succitata Adunanza Plenaria ha enunciato il seguente principio di diritto: “nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa”.

A livello normativo, la regula iuris formulata dall'organo nomofilattico della giustizia amministrativa ha trovato codificazione nel comma 3 dell'art. 5, del d.lgs. n. 36/2023, laddove si legge quanto segue: “in caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l'affidamento non si considera incolpevole se l'illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti. Nei casi in cui non spetta l'aggiudicazione, il danno da lesione dell'affidamento è limitato ai pregiudizi economici effettivamente subiti e provati, derivanti dall'interferenza del comportamento scorretto sulle scelte contrattuali dell'operatore economico”.

La relativa giurisdizione è pacificamente riconosciuta al giudice amministrativo.

La distinzione tra la responsabilità extracontrattuale e la responsabilità precontrattuale della P.A. si incentra in modo particolare sulla natura delle regole violate: la responsabilità extracontrattuale si configura infatti qualora la violazione riguardi norme di tipo pubblicistico che siano poste a presidio delle procedure a evidenza pubblica, mentre quella precontrattuale richiede la violazione di norme di tipo privatistico, generalmente riferite ai rapporti di diritto comune. Mentre nella responsabilità extracontrattuale per danno da mancata aggiudicazione il danno da risarcire è riferito al c.d. 'interesse positivo' e ricomprende sia il mancato profitto sia il danno curriculare, in quella precontrattuale il danno risarcibile si ricollega a un interesse di tipo 'negativo' e ricomprende unicamente l'interesse a non spendere tempo e risorse nella conduzione di trattative contrattuali inutili (Giustiniani, Fontana).

In relazione alla responsabilità precontrattuale, a differenza di quanto avviene con riferimento alla responsabilità per danno da mancata aggiudicazione, l'elemento soggettivo della condotta mantiene una sua specifica rilevanza. Quanto detto fin qui, chiaramente, non incide sui princìpi generali posti a presidio della responsabilità civile dell'amministrazione nei settori diversi da quello – del tutto peculiare – degli appalti pubblici, che esulano dall'ambito oggettivo di applicazione dei princìpi enunciati dalla sentenza Graz Stadt e poi puntualmente recepiti dai giudici nazionali.

La responsabilità precontrattuale della P.A. prima dell'aggiudicazione

Non vi è dubbio che una stazione appaltante possa incorrere in una responsabilità di tipo precontrattuale per condotte poste in essere nella fase successiva all'aggiudicazione della procedura.

In via esemplificativa, la giurisprudenza ritiene che la stazione appaltante possa incorrere in responsabilità precontrattuale qualora (anche dopo la stipula del contratto) revochi in autotutela una gara d'appalto in ragione del venir meno della fonte di finanziamento dei lavori affidati, se le condizioni di criticità economica erano conosciute o conoscibili già prima dell'indizione della procedura (cfr. T.A.R. Campania (Napoli) I, 9 gennaio 2018, n. 139).

Al contrario, secondo la giurisprudenza, non si configura alcuna responsabilità precontrattuale nel caso di mancata stipula del contratto a seguito di interdittiva antimafia. In particolare, la mancata stipula di un contratto per lavori conseguente a richiesta di informativa antimafia, successivamente intervenuta, non è produttiva di danno risarcibile stante la possibilità dell'amministrazione di acquisire l'informativa prefettizia al fine di evitare di stipulare il contratto con un soggetto che – dal punto di vista della normativa antimafia – era suscettibile di presentare controindicazioni. La responsabilità precontrattuale ricorre infatti nel caso in cui, prima della stipulazione contrattuale, il presunto danneggiante violi il principio di correttezza e buona fede, ledendo il legittimo affidamento maturato da controparte nella conclusione del contratto. Nella situazione in esame, però, il mancato rispetto del termine risulterebbe pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, non potendo dunque integrare gli estremi di una condotta illecita (cfr. Cons. St. III, 26 marzo 2018, n. 1882).

Se la possibilità per l'amministrazione di incorrere in responsabilità precontrattuale per condotte tenute dopo l'aggiudicazione della gara è pacifica in giurisprudenza, altrettanto non vale con riferimento alla fase che precede l'aggiudicazione. In particolare, ci si è chiesti se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente. Nulla esclude, infatti, che la violazione delle regole di buona fede e correttezza si possa concretizzare anche “in un momento che precede la conclusione della fase pubblicistica (....), il che non toglie che tale violazione assume rilevanza dopo che gli atti della fase pubblicistica, attributivi degli effetti vantaggiosi, sono stati rimossi” (Trimarchi Banfi).

Si pone il problema di capire se – ed eventualmente a che titolo – l'amministrazione possa essere chiamata a risponderne in sede risarcitoria. Sul punto è sorto un contrasto giurisprudenziale.

Da un lato, alcune pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St. V, n. 3831/2013) e della Corte di Cassazione (cfr. Cass. n. 15260/2014) hanno sostenuto che la responsabilità precontrattuale sarebbe configurabile anche nella fase che precede la scelta del contraente, prima dell'aggiudicazione e a prescindere da essa. Dall'altro lato, successive pronunce giurisprudenziali hanno sviluppato un orientamento secondo cui la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione sarebbe connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della fase di formazione del contratto e, quindi, potrebbe riguardare soltanto fatti svoltisi in tale fase; pertanto, tale responsabilità non sarebbe configurabile anteriormente alla scelta del contraente, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare solo un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri dell'amministrazione, non essendo (ancora) configurabile una ‘trattativa' contrattuale in senso proprio (cfr. Cons. St. V, n. 5146/2017).

Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dall'Adunanza Plenaria, che ha ritenuto di aderire al primo orientamento. Sebbene l'ordinanza di rimessione propendesse per la tesi opposta, muovendo dalla premessa teorica per cui il dovere di correttezza e di buona fede troverebbe necessariamente il suo presupposto nella sussistenza di una ‘trattativa' contrattuale già in stato avanzato, l'Adunanza Plenaria ha chiarito che “l'attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall'esistenza di una formale ‘trattativa' e, a maggior ragione, dall'ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto” (Cons. St., Ad. Plen., n. 5/2018).

Infatti, ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: “tant'è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l'interesse appunto a non subire indebite interferenze nell'esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l'utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell'altrui scorrettezza)” (Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018).

Il progressivo ampliamento del dovere di correttezza deve trovare riscontro anche rispetto all'attività posta in essere dall'amministrazione con moduli autoritativi, quando a dolersi della scorrettezza è il privato che partecipa al procedimento amministrativo.

Nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di norma, l'illegittimità del provvedimento e la conseguente responsabilità risarcitoria per lesione di interessi legittimi), ma anche le regole generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con correttezza e lealtà, la cui violazione può comportare una responsabilità di tipo precontrattuale, che non incide su interessi legittimi, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali. La sussistenza della responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, quindi, prescinde completamente dall'eventuale illegittimità dei provvedimenti amministrativi adottati, ed anzi “per molti versi presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”.

In tale contesto, risulterebbe eccessivamente restrittiva la tesi secondo cui, nei procedimenti ad evidenza pubblica, l'obbligo di rispettare i doveri di correttezza sorgerebbe soltanto dopo l'adozione del provvedimento di aggiudicazione. Aderendo a tale impostazione, “si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell'ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza” (Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018).

Nella visione fatta propria dall'Adunanza Plenaria, le pur meritorie preoccupazioni di una eccessiva estensione della responsabilità dell'amministrazione non possono essere affrontate introducendo limitazioni di responsabilità tanto ingiustificate quanto aprioristiche, ma vanno superate mediante una rigorosa verifica in concreto circa l'effettiva sussistenza dei presupposti necessari per far sorgere la pretesa risarcitoria (Mininno).

A tal fine, non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede e il proprio affidamento incolpevole, occorrendo altresì: i) che l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà, a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti amministrativi; ii) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia soggettivamente imputabile all'amministrazione in termini di colpa e di dolo; iii) che il privato provi sia il danno-evento (ossia la lesione alla libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (ossia le perdite economiche sofferte a causa della condotta scorretta dell'amministrazione) (cfr. Cons. St. IV, n. 2907/2018).

Sussistendo tali presupposti, l'amministrazione sarà tenuta a rispondere a titolo di responsabilità precontrattuale anche per eventuali comportamenti posti in essere prima dell'aggiudicazione, indipendentemente dalla circostanza per cui tali comportamenti siano precedenti o successivi rispetto al bando di gara.

Art. 125 c.p.a.: un inquadramento

L'art. 125 c.p.a. è dedicato alle controversie relative alle infrastrutture strategiche, la cui disciplina sostanziale, a seguito della riforma della materia del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 36/2023, non è più oggetto di una sezione normativa ad hoc (prima corrispondente alla Parte V del d.lgs. n. 50/2016, artt. 200-203). A livello sostanziale, si segnala, rinviando alla relativa trattazione, che a tali infrastrutture è ora dedicato l'art. 39 del nuovo assetto normativo.

Anche l'art. 125 c.p.a., come tutte quelle relative al contenzioso in materia di contratti pubblici, è meramente riproduttiva della disciplina recata, ante codice processuale, dal previgente d.lgs. n. 163/2006.

La norma in esame detta specifiche regole processuali finalizzate ad evitare che, nella realizzazione delle infrastrutture strategiche, impedimenti di ordine giudiziario possano rallentare la realizzazione delle grandi opere.

L'art. 125, in particolare, prevede che in sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure. Ferma restando l'applicazione degli articoli 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente. Si applica l'articolo 34, comma 3”.

Ambito di applicazione

L'ambito di applicazione dell'art. 125 c.p.a. riguarda “le procedure di progettazione, approvazione, e realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi e relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento, di cui alla parte II, titolo III, capo IV del d.lgs. n. 163/2006”.

Per ragioni probabilmente addebitabili a un mancato coordinamento, i riferimenti normativi dell'art. 125 c.p.a. al codice dei contratti pubblici del 2006 non sono stati attualizzati alla disciplina vigente.

Il rinvio operato dal c.p.a. al d.lgs. n. 163/2006, che, in vigenza del d.lgs. n. 50/2016, era da intendersi riferito alle corrispondenti disposizioni di cui agli artt. 200-203, deve ora ritenersi riferito all'art. 39 del d.lgs. n. 36/2023.

Nella vigenza del vecchio Codice dei contratti pubblici, il rinvio mosso dal c.p.a. andava a riferirsi a quelle infrastrutture che fossero: i) strategiche, ovvero di notevole valenza economica e programmatica; ii) di preminente interesse nazionale, ovvero essenziali per lo sviluppo della comunità.

Nel d.lgs. n. 50/2016, invece, non si parlava più di “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale”, bensì di “infrastrutture e insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese” (art. 200, d.lgs. n. 50/2016).

Con il d.lgs. n. 36/2023, si è ripristinata la denominazione di “infrastrutture strategiche e di preminente interesse nazionale”.

Come è noto, il d.lgs. n. 50/2016 ha profondamente riformato il settore delle grandi opere. Sui connotati di questa riforma e sul superamento della c.d. “Legge Obiettivo” (l. n. 443/2001) – si rinvia alla relativa trattazione. Su tale riforma si è inoltre innestato il nuovo assetto della materia dei contratti pubblici.

In questa sede, sia sufficiente chiarire che spetta al Governo qualificare una “infrastruttura come strategica e di preminente interesse nazionale con delibera del Consiglio dei ministri, in considerazione del rendimento infrastrutturale, dei costi, degli obiettivi e dei temi di realizzazione dell'opera” (vd. art. 39, comma 2, d.lgs. n. 36/2023). Le disposizioni processuali relative alle infrastrutture strategiche non possono, pertanto, trovare applicazione per interventi diversi, essendo disposizioni di carattere eccezionale e – in quanto tali – insuscettibili di interpretazione estensiva.

È poi da escludere che il rito si applichi agli atti posti in essere dalle stazioni appaltanti in fase di esecuzione del contratto e privi di portata autoritativa, che rimangono attratti dalla giurisdizione ordinaria; l'art. 125 c.p.a. infatti, non ha valenza di norma attributiva di ulteriori 'fette' di giurisdizione al giudice amministrativo (Giustiniani, Fontana).

Con il comma 4 dell'art. 125 c.p.a. l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 125, comma 3 (per cui la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente), è stata estesa anche alle controversie relative: a) alle procedure di cui all'art. 140, d.lgs. n. 163/2006 (procedure di affidamento in caso di fallimento dell'esecutore o risoluzione del contratto); b) alle procedure di progettazione, approvazione e realizzazione degli interventi individuati nel contratto istituzionale di sviluppo (art. 6 del d.lgs. n. 88/2011); c) alle opere di cui all'art. 32, comma 18, d.l. n. 98/2011 (ossia quelle dell'Expo di Milano 2015).

Caratteristiche del rito

Prima che intervenisse il d.lgs. n. 53/2010 in sede di modifica dell'art. 246 del previgente d.lgs. n. 163/2016 (oggi trasfuso nell'art. 125 c.p.a.) le controversie relative alle infrastrutture strategiche erano soggette al rito regolato dall'art. 23-bis della l. n. 1034/1971. Detta disposizione prevedeva che la fissazione dell'udienza avvenisse d'ufficio, senza cioè che il ricorrente presentasse l'istanza di fissazione dell'udienza; l'udienza di merito doveva celebrarsi entro il termine di quarantacinque giorni dal deposito del ricorso. Inoltre la normativa escludeva, di fatto, che il giudice amministrativo adito potesse concedere misure cautelari o disporre il risarcimento in forma specifica.

Attualmente, la disciplina processuale inerente le controversie relative a infrastrutture strategiche è recata dall'art. 125 c.p.a.

Il secondo comma di tale norma disciplina il giudizio cautelare relativo alle infrastrutture strategiche, all'uopo stabilendo che, in sede di pronuncia del provvedimento cautelare, il giudice amministrativo debba tenere conto: i ) delle probabili conseguenze del provvedimento per tutti gli interessi suscettibili di essere lesi dallo stesso; ii ) del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera; iii ) della irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure.

Sul punto, è stato osservato che, ancorché in assenza di specifica puntualizzazione normativa, la “valutazione” in ordine alla irreparabilità del lamentato pregiudizio debba necessariamente trovare emersione nella motivazione del provvedimento decisorio in ordine alla formulata istanza cautelare” (Politi).

Il legislatore codicistico ha, inoltre, sottratto al giudice la valutazione in ordine al mantenimento – o meno – dell'efficacia del contratto, escludendo espressamente l'applicabilità ai procedimenti riguardanti infrastrutture strategiche dell'art. 122 c.p.a.

L'art. 125, comma 3, c.p.a., stabilisce infatti che ferma restando l'applicazione degli artt. 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente. Si applica l'articolo 34, comma 3”.

In definitiva, nelle procedure di affidamento aventi ad oggetto le infrastrutture strategiche: i ) in caso di “gravi violazioni” ex art. 121 c.p.a. il giudice potrà ( rectius : dovrà, fatte salve le deroghe di cui all'art. 121 c.p.a. medesimo) dichiarare l'inefficacia del contratto a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione; ii ) qualora, nonostante le 'gravi violazioni', il contratto sia considerato efficace o l'inefficacia sia temporalmente limitata, si applicheranno le sanzioni alternative di cui all'art. 123; iii ) nei casi di violazioni 'meno gravi' – ossia diverse da quelle di cui all'art. 121 c.p.a. – non potrà applicarsi l'art. 122 c.p.a. e quindi il contratto non potrà essere dichiarato inefficace, potendo il giudice disporre soltanto il risarcimento per equivalente.

Si è già anticipato come la formulazione letterale del terzo comma dell'art. 125 – la quale esclude espressamente che nei procedimenti relativi a infrastrutture strategiche dalla sospensione dell'aggiudicazione possa conseguire la privazione di effetti del contratto – sia utilizzata come argomento a sostegno della tesi secondo cui, in tutti gli altri casi, la privazione di effetti del contratto sia invece ammissibile.

Non manca, invero, chi sostiene che la caducazione del contratto – anche in via generale – possa in realtà conseguire alla sola pronunzia con cui venga annullata l'aggiudicazione, e che quindi le decisioni assunte in sede cautelare non possano avere valenza caducatoria, bensì soltanto temporaneamente 'sterilizzante' l'idoneità dell'atto a produrre effetti giuridici.

In ogni caso, con specifico riferimento alle infrastrutture strategiche, il sistema esprime un evidente favor per la prosecuzione del rapporto negoziale in essere, quale preordinato a garantire la realizzazione (e/o il completamento) dell'intervento strategico (Politi).

Art. 133 c.p.a.: rinvio

Come è noto, considerata la difficoltà – in talune materie – di distinguere tra posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo e di diritto soggettivo in maniera sufficientemente netta da consentire un riparto di giurisdizione fondato sui criteri tradizionali, il legislatore ha ritenuto di delineare e delimitare un ambito di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in cui quest'ultimo è deputato a conoscere in via principale di controversie riguardanti sia interessi legittimi sia diritti soggettivi.

Il Codice del processo amministrativo, all'art. 7, comma 5, dispone che “nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall'articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.

L'elenco delle materie abbracciate dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è attualmente recato dal primo e unico comma dell'art. 133 c.p.a.

In tali materie, oltreché esclusiva, la giurisdizione del giudice amministrativo è altresì piena, nel senso che il medesimo giudice si trova nelle condizioni di poter dispensare ogni forma di tutela, ivi compresa quella risarcitoria.

Nel corso degli anni, il perimetro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è progressivamente aumentato, fino ad abbracciare un elevatissimo numero di materie, spesso del tutto eterogenee tra loro.

Con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204, la Corte costituzionale è intervenuta per porre un freno alla tendenza del legislatore ad ampliare a dismisura l'ambito oggettivo di applicazione della giurisdizione in parola, chiarendo come l'art. 103, comma 1, Cost. non conferisca al legislatore ordinario una assoluta e incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli conferisca unicamente il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” garantita dal giudice amministrativo possa investire “anche” diritti soggettivi; tale potere non è assoluto né incondizionato, e deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte senza fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie.

In quest'ottica, tale necessario collegamento delle materie assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive sarebbe espresso dal già richiamato art. 103 della Costituzione, laddove statuisce che quelle materie debbano essere ‘particolari' rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: vale a dire, che debbano partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la P.A. agisce nella veste di autorità.

La Corte costituzionale ha quindi escluso i) che la giurisdizione esclusiva possa radicarsi sul dato, puramente oggettivo, della mera partecipazione della P.A. al giudizio o del normale coinvolgimento nelle controversie di un generico pubblico interesse, mentre può estendersi solo a controversie nelle quali la P.A. esercita, sia pure mediatamente (ossia avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici) un pubblico potere, e ii) che al giudice amministrativo possa essere devoluta la giurisdizione esclusiva su interi ‘blocchi di materie' anziché su materie specificamente individuate.

Tutto ciò premesso e considerato, per quanto interessa in questa sede, si rileva che tra le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo vi sono anche quelle relative alle procedure di affidamento dei contratti pubblici (soggette al c.d. rito-appalti).

Per tutto ciò che attiene la disciplina speciale prevista dal legislatore per il rito-appalti, si rinvia – nella presente opera – ai commenti aventi ad oggetto gli artt. 120 e ss. del Codice del processo amministrativo.

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