Licenziamento per giusta causa e social network: il caso dei messaggi WhatsApp e Facebook

18 Settembre 2025

La sentenza Trib. Milano 16.7.2025 offre un’importante occasione per approfondire il regime di utilizzabilità delle comunicazioni digitali e i criteri di valutazione del licenziamento per giusta causa. In particolare, il Tribunale si concentra sulla distinzione tra chat private e post pubblici ai fini disciplinari, sulla tutela della corrispondenza ex art. 15 Cost., sull’offensività delle espressioni usate dal dipendente e sulla proporzionalità della sanzione espulsiva, anche in presenza di precedenti disciplinari. L’analisi qui proposta evidenzia come la decisione si discosti da talune letture meno restrittive, chiarendo i limiti di utilizzabilità delle prove digitali e offrendo una lettura rigorosa dei presupposti per la tutela indennitaria ex d.lgs. 23/2015.

Massima

È illegittimo il licenziamento per giusta causa basato esclusivamente su messaggi in chat privata WhatsApp non divulgati all’esterno, mentre è disciplinarmente rilevante e legittimamente contestabile la pubblicazione di post Facebook di contenuto gravemente offensivo e denigratorio, accessibili a una platea indifferenziata e riferibili pubblicamente al rapporto di lavoro. In tali casi, la sanzione espulsiva deve essere valutata in concreto, tenendo conto della gravità oggettiva e soggettiva del fatto e degli eventuali precedenti disciplinari.

Il caso

Il lavoratore P1, assunto nel 2021 presso la società C1 come operaio (livello 3B CCNL servizi ambientali), aveva già collezionato precedenti disciplinari. Nel corso del 2024, gli viene contestato di aver pubblicato, nella chat WhatsApp collegata al cellulare aziendale e condivisa con alcuni colleghi, diversi messaggi audio e scritti ritenuti gravemente diffamatori e offensivi nei confronti della Sindaca di un Comune, del comandante della polizia locale, nonché del gruppo societario di cui C1 fa parte. In particolare, si fa riferimento a messaggi audio dal tono oggettivamente grave e inappropriato e a messaggi scritti dal contenuto aggressivo e minaccioso, oltre a un ulteriore messaggio audio sempre di natura offensiva.

In aggiunta, il lavoratore pubblicava sulla propria bacheca pubblica di Facebook un post – in cui si qualificava come autista di C1 – dal contenuto fortemente denigratorio verso la polizia locale: “Sono del parere che i vigili sono dei falliti rubastipendi” e, commentando, aggiungeva: “bel lavoro di merda, estorcere in tutti i modi soldi alla gente.. bellissimo!”. Tali condotte venivano segnalate all’azienda anche dalla Sindaca destinataria delle offese.

C1 avviava quindi una procedura disciplinare, richiamando anche i precedenti, e concludeva per il licenziamento per giusta causa. P1 impugnava il recesso davanti al Tribunale di Milano, contestando la validità della prova (inutilizzabilità delle chat WhatsApp come corrispondenza privata), la sproporzione della sanzione rispetto ai fatti, la natura non pubblica della chat e chiedendo la reintegra o, in subordine, l’indennità prevista dalla legge.

Il Tribunale, ricostruito il quadro fattuale, ha esaminato in profondità sia la natura delle comunicazioni digitali che la gravità delle condotte, individuando un discrimine tra la comunicazione privata (chat WhatsApp) e quella pubblica (post Facebook), con importanti ricadute sulla decisione.

La questione

È possibile utilizzare i messaggi WhatsApp e Facebook come prove nel giudizio di impugnazione del licenziamento? Si configura la giusta causa rispetto alle espressioni utilizzate e al contesto (offensività e rilievo disciplinare dei post e messaggi)?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale ha operato un'analisi completa della disciplina e della giurisprudenza in materia di corrispondenza digitale. Il giudicante osserva che, secondo Cassazione e Corte Costituzionale, le conversazioni WhatsApp condivise in un gruppo chiuso, anche se contenenti espressioni offensive, sono generalmente tutelate dall'art. 15 Cost. e non possono integrare giusta causa di recesso quando destinate a rimanere segrete tra i membri della chat. Il datore di lavoro che ne venga a conoscenza per iniziativa di un partecipante viola la riservatezza garantita dalla Costituzione. Solo la diffusione volontaria verso l'esterno fa perdere la tutela e consente l'utilizzo disciplinare.

Nel caso di specie, la società ha appreso il contenuto delle chat solo tramite la segnalazione della Sindaca, destinataria di alcune offese. Tuttavia, il Giudice ha rilevato che non risultava provata una divulgazione volontaria ad una platea esterna al gruppo e, dunque, ha escluso la legittimità di utilizzo a fini disciplinari dei messaggi WhatsApp: “Deve convenirsi con le difese del lavoratore circa la non utilizzabilità, ai fini disciplinari, di tutti i messaggi audio e scritti contestati al lavoratore” (Trib. Milano 16 luglio 2025, cit.).

Diverso è il discorso per i post pubblicati su Facebook: trattandosi di comunicazione rivolta a una platea indifferenziata, il contenuto perde la protezione della riservatezza e può essere legittimamente contestato e utilizzato come prova disciplinare: “Resta invece, senza dubbio, rilevante ai fini disciplinari e contestabile dal datore di lavoro il messaggio pubblicato dal ricorrente su Facebook, non essendo contestata la natura pubblica del post, indirizzato, quindi, ad una indifferenziata platea di destinatari, ivi compreso il datore di lavoro” (Sentenza in commento, cit.).

Il Tribunale ha sottolineato che le espressioni usate su Facebook erano oggettivamente offensive e non tutelate dall'art. 21 Cost. come libera manifestazione del pensiero, trattandosi di insulti gratuiti e privi di una critica costruttiva. L'identificazione del lavoratore come dipendente C1 e autista, aggravava la posizione, associando direttamente la società all'immagine negativa generata dal post: “Le frasi utilizzate da P1, contrariamente a quanto evocato da quest'ultimo (ovvero che sarebbero tutelate dall'articolo 21 della Costituzione in quanto libera manifestazione del pensiero), sono oggettivamente e inequivocabilmente offensive...” (Ibidem).

La condotta, sebbene non direttamente rivolta al datore di lavoro, è risultata idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

La sentenza valorizza la presenza di precedenti disciplinari, osservando che la recidiva aggrava il disvalore della condotta, anche laddove il post Facebook costituisca l'unico addebito disciplinarmente rilevante. Tuttavia, il Giudice ha ritenuto sproporzionato il licenziamento, poiché l'unico fatto disciplinarmente rilevante – il post pubblico – non era di gravità tale da giustificare il recesso in tronco, anche alla luce della durata del rapporto e della posizione rivestita:
“Deve quindi ritenersi sproporzionato il licenziamento in quanto l'unico fatto disciplinarmente rilevante, per quanto visto, non si ritiene possa rendere legittimo il recesso” (Sentenza in commento, cit.).

Essendo il lavoratore un “nuovo assunto”, e non essendo la condotta tipizzata come punibile con sanzione conservativa dal contratto collettivo, il Tribunale ha dichiarato estinto il rapporto alla data del recesso e condannato la società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità, senza diritto alla reintegra:“...va dichiarato estinto il rapporto di lavoro alla data di intimazione del recesso e, in forza delle previsioni dell'articolo 3, comma 1, d.lgs. 23/15, la società va condannata alla corresponsione al lavoratore di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale” (Sent. in oggetto, cit.).

Osservazioni

  1. La sentenza ribadisce la distinzione tra comunicazioni digitali private e pubbliche ai fini disciplinari, offrendo un utile criterio operativo per imprese e lavoratori.
  2. L'offensività delle espressioni pubbliche, soprattutto se associata alla qualifica aziendale, può ledere gravemente il rapporto fiduciario.
  3. La proporzionalità della sanzione deve essere valutata caso per caso, considerando il contesto, i precedenti, la posizione e la durata del rapporto.
  4. La tutela reintegratoria resta eccezionale per i nuovi assunti, confermando la centralità della tutela indennitaria.

La sentenza ha ritenuto che i messaggi scambiati in una chat WhatsApp configurino corrispondenza privata e quindi siano coperti dalla tutela di cui all'art. 15 Cost., richiamando orientamenti giurisprudenziali (Cass., 21965/2018; Cass., 5936/2025) e la sentenza Corte cost., n. 170/2023. Tuttavia, tali premesse necessitano di essere contestualizzate.

La giurisprudenza maggioritaria della Cassazione, ivi compresa la Sezione Lavoro, ha chiarito come la riservatezza delle comunicazioni nelle app di messaggistica decada laddove la dimensione del gruppo sia tale da escludere l'effettiva esclusività del destinatario, soprattutto se i soggetti coinvolti sono numerosi e i contenuti veicolati riguardano fatti di rilievo aziendale o offendono terzi cui la stessa compagine si riferisce (Cass., sez. lav., 26682/2017; Cass., 10963/2020). Inoltre, laddove il lavoratore utilizzi dispositivi aziendali, i messaggi sono potenzialmente soggetti a forme di controllo da parte del datore di lavoro, nei limiti e nel rispetto delle garanzie di cui all'art. 4 Statuto dei Lavoratori, come novellato dal d. lgs. 151/2015. Ne consegue che la chat non può essere “a priori” assimilata ad una corrispondenza strettamente privata e segreta, specie in presenza di terzi che possono, anche legittimamente, riferire all'azienda condotte riprovevoli, specie ove lesive della dignità di altri dipendenti o dell'immagine dell'ente.

La pronuncia argomenta che la conoscenza da parte del datore di lavoro del contenuto delle chat costituisca violazione della segretezza delle comunicazioni e dunque comporti l'inutilizzabilità probatoria dei messaggi. Questa tesi appare non condivisibile alla luce di quanto già chiarito dalla Suprema Corte, secondo cui non si configura alcuna violazione del diritto alla riservatezza o inutilizzabilità della prova laddove il contenuto sia volontariamente divulgato da uno dei partecipanti, quale “terzo” detentore legittimo della corrispondenza, né risulta necessario il consenso di tutte le parti (Cass., 4909/2019; Cass., 11322/2022; Cass., 9223/2021). Il datore di lavoro, pertanto, può venire a conoscenza di fatti avvenuti in ambiti di limitata riservatezza e fondare su tali elementi la contestazione disciplinare, soprattutto quando siano idonei a ledere l'onore di altri soggetti (sindaco, comandante della polizia locale, gruppo aziendale) e la reputazione aziendale stessa.

La decisione impugnata giunge ad escludere la configurabilità della giusta causa di licenziamento ritenendo sproporzionata la sanzione in ragione della asserita irrilevanza disciplinare dei fatti relativi alle chat private, valorizzando il solo post pubblico quale comportamento sanzionabile. Tuttavia, la giurisprudenza consolidata sottolinea come la nozione di giusta causa si determini ex ante, considerando l'idoneità complessiva della condotta a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (Cass. , SS. UU. , 26929/2018; Cass. , 22306/2022). Quando il lavoratore esprime, anche in ambiti non pubblici, gravi offese e minacce verso terzi istituzionali o colleghi, e tantomeno laddove tali contenuti giungano a conoscenza degli stessi soggetti destinatari e del datore di lavoro per iniziativa di uno dei membri del gruppo, la condotta si proietta all'esterno, divenendo idonea a ledere l'immagine aziendale. La sussistenza di precedenti disciplinari inoltre rafforza l'esigenza di tutela datoriale verso un comportamento recidivante e socialmente lesivo.

La decisione impugnata giunge ad escludere la configurabilità della giusta causa di licenziamento ritenendo sproporzionata la sanzione in ragione della asserita irrilevanza disciplinare dei fatti relativi alle chat private, valorizzando il solo post pubblico quale comportamento sanzionabile. Tuttavia, la giurisprudenza consolidata sottolinea come la nozione di giusta causa si determini ex ante, considerando l'idoneità complessiva della condotta a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (Cass. , SS. UU. , 26929/2018; Cass. , 22306/2022). Quando il lavoratore esprime, anche in ambiti non pubblici, gravi offese e minacce verso terzi istituzionali o colleghi, e tantomeno laddove tali contenuti giungano a conoscenza degli stessi soggetti destinatari e del datore di lavoro per iniziativa di uno dei membri del gruppo, la condotta si proietta all'esterno, divenendo idonea a ledere l'immagine aziendale. La sussistenza di precedenti disciplinari inoltre rafforza l'esigenza di tutela datoriale verso un comportamento recidivante e socialmente lesivo.

In definitiva, lascia perplessi la ricostruzione motivazionale della sentenza, laddove fonda la statuizione di illegittimità del licenziamento unicamente sull'inutilizzabilità delle chat private e sulla ritenuta sproporzione in presenza di un solo fatto “pubblico”, non tenendo in debita considerazione la gravità complessiva delle condotte, della recidiva e dell'impatto lesivo verso la comunità aziendale e i terzi.

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