Tribunale di Ravenna: nella cessione dei rami d’azienda occorre il consenso dei lavoratori ceduti
22 Settembre 2025
Massima Il lavoratore impiegato nel ramo ceduto può opporsi alla cessione del rapporto presso l'impresa cessionaria. L'art. 3 comma 1 della direttiva 2001/23/CE non prevede alcuna automaticità del passaggio dei lavoratori limitandosi a stabilire che il trasferimento non deve comportare un peggioramento delle condizioni di lavoro. Posto che l'art. 2112 c.c. nulla stabilisce nel caso di opposizione al trasferimento il lavoratore dissenziente ha diritto alla prosecuzione del rapporto con l'impresa cedente. Nel caso di appalti “cd leggeri” il dissenso alla cessione di un numero considerevole di lavoratori impiegati nel ramo oggetto comporta il venire meno della funzionalità del ramo stesso con conseguente inapplicabilità dell'art. 2112 c.c. Il caso Un noto istituto bancario nazionale decide di esternalizzare due attività mediante la cessione di due rami d’azienda ad una società terza con la quale stipula un contratto di servizi della durata decennale. Più precisamente cede il ramo del recupero crediti e quello dei crediti in “sofferenza”. Entrambi i rami sono “leggeri” poiché è preponderante l’importanza della forza lavoro rispetto ai beni materiali. Nel primo ramo vi sono impiegati 60 dipendenti e nel secondo 56. I beni materiali dei rami sono costituiti da pc, tablet e dai programmi di gestione e dagli arredi per un controvalore dichiarato di € 50.000,00. Circa il 90% dei dipendenti si oppone al passaggio presentando ricorso in Tribunale. I ricorrenti sostengono l’insussistenza dei presupposti di legge per sostenere che vi sia stato il trasferimento di due rami d’azienda e che tale operazione in realtà simuli un piano di riduzione del personale della cessionaria senza il rispetto della procedura stabilita in tema di licenziamenti collettivi. Per questi motivi chiedono il ripristino del rapporto in capo all’istituto bancario cedente. La questione Nel trasferimento del ramo d’azienda i lavoratori dei rami ceduti possono opporsi al trasferimento alle dipendenze del cessionario? Nel caso di risposta positiva alla prima questione qual è la sorte dei rapporti di lavoro dei lavoratori che si sono opposti alla cessione? Sempre in caso di risposta positiva alla prima questione si può sostenere che sussista una cessione di un ramo d’azienda “cd leggero” qualora un numero considerevole di lavoratori si sia opposto al trasferimento? Le soluzioni giuridiche Il Giudice accoglie la richiesta dei ricorrenti rilevando come nei loro confronti non vi sia stato alcuna cessione dei rami d'azienda. Il Giudice parte dall'analisi dell'art. 2112 c.c. che costituisce il recepimento nel nostro ordinamento del contenuto dell'art. 3 comma 1 della direttiva 2001/23/CE. L'art. 3 comma 1 della direttiva, e di conseguenza l'art. 2112 c.c., sono finalizzati a tutelare e a preservare le condizioni economiche e normative dei lavoratori a seguito del trasferimento d'azienda o del ramo realizzato attraverso qualsiasi operazione. Dalla disamina dell'integrale direttiva non risulta alcun obbligo per il lavoratore di accettare il trasferimento. Sul punto la giurisprudenza comunitaria risulta costante. I lavoratori che rientrano al ramo ceduto possono esprimere il loro dissenso al trasferimento rimanendo in capo all'impresa cedente. In tal caso spetta ai singoli ordinamenti stabilire le conseguenze di tale rifiuto (cfr. ex plurimis Corte giustizia UE, sez. VI, sent. 07 marzo 1996, n.171 cause riunite C-171/94 e C-172/94); . Nel nostro ordinamento il Legislatore non ha previsto alcuna conseguenza in caso di rifiuto, motivo per cui il rapporto deve proseguire in capo al cedente. Il Giudice rileva come, diversamente opinando, l'impossibilità per il lavoratore di opporsi al proprio trasferimento nell'ipotesi di cessione del ramo d'azienda finirebbe, in una sorta di eterogenesi dei fini, per costituire una possibilità per il cedente di ridurre il proprio personale senza dover rispettare la disciplina in materia di licenziamenti individuali e collettivi. Secondo il Giudice ravennate non deve essere data continuità a quel filone della giurisprudenza di legittimità che aveva stabilito l'irrilevanza del consenso del lavoratore ceduto nel trasferimento del ramo d'azienda. Detto orientamento si basava sulla presunta imperatività “bidirezionale” della disciplina del trasferimento d'azienda, ovvero sia nei confronti delle imprese che dei lavoratori e sul fatto che i rapporti di lavoro dei dipendenti impiegati nel ramo fossero inscindibili rispetto al ramo stesso. Per questi motivi, in caso in caso di trasferimento del ramo, in automatico anche i rapporti di lavoro all'interno di esso passano in capo al cessionario (cfr. Cass. Civ., sez. lav., sent. 22 luglio 2002 n. 10701). Tuttavia detta automaticità è in contrasto con l'interpretazione fornita dall'orientamento costante della Corte di Giustizia già richiamato. I giudici comunitari in più arresti hanno affermato che l'art. 3 della direttiva non vieta al lavoratore di opporsi al trasferimento. Se così non fosse il trasferimento del ramo potrebbe essere utilizzato in maniera distorta per realizzare politiche di riduzione del personale senza le procedure stabilite dalla legge. Invece, il Giudice della sentenza in commento esplicitamente rimarca come il diritto interno, quindi nel caso di specie l'art. 2112 c.c., debba essere sempre sottoposto ad un'interpretazione conforme con le finalità della direttiva (cfr. Corte di Giustizia, sent. 23 giugno 2019, C-573/2017 Poplawky). Ma non solo. Il Giudice prosegue nelle proprie motivazioni evidenziando come nel caso sottoposto a decisione non possa nemmeno trovare applicazione la disciplina di cui all'art. 2112 c.c. Posto che nei due rami ceduti l'incidenza della forza lavorativa è predominante (il valore totale dei beni materiale trasferiti infatti ammontava ad € 50.000,00 a fronte di 156 dipendenti) il fatto che ben oltre il 90% dei dipendenti si sia opposto fa venir meno l'esistenza dei due medesimi rami. Viene meno, infatti, quel complesso organizzato capace di svolgere un'attività produttiva ed oggetto di trasferimento. Sul punto il Giudice si richiama esplicitamente al contenuto della sentenza della Suprema Corte n. 22249 del 4 agosto 2021. Secondo gli Ermellini costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione. Inoltre l'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza, e ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale l'impiego del termine "conservi" nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva 2001/23/CE, "implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento" (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017). Peraltro, osserva il Giudice, l'attività svolta dai presunti rami ceduti sarebbe stata strettamente connessa e dipendente da quella svolta dall'istituto cedente sia sotto il profilo funzionale (infatti i due rami si sarebbero occupati di gestire i crediti deteriorati e sofferenti della banca medesima con un contratto d'appalto di durata decennale) che materiale, con lo svolgimento di detti servizi all'interno di locali del medesimo istituto bancario. Di fatto non esistevano un'autonomia funzionale e produttiva dei rami non solo prima della cessione (come richiesto dalla giurisprudenza comunitaria), ma nemmeno sarebbero venute ad esistere una volta perfezionato il trasferimento. Osservazioni La sentenza in commento appare innovativa nel panorama giurisprudenziale nazionale poiché non si rinvengono precedenti conformi sul tema della rilevanza del consenso del lavoratore nel caso di trasferimento del ramo d'azienda. Chi scrive ritiene che nel caso di gravame la pronuncia in commento abbia elevate possibilità di essere confermata. Infatti il contenuto della stessa appare lineare e conforme ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria in analoghe fattispecie. Non in ultimo, in un contesto per così dire metagiuridico, sia concesso evidenziare come possa avere una certa importanza l'autorevolezza del Giudice estensore della sentenza in commento, il Dottore Dario Bernardi, che, com'è noto, con le proprie pronunce ed ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale ha fortemente rivoluzionato l'impianto originario della disciplina della tutela dei licenziamenti contenuta nel d.lgs. 23/2015 e la sua interpretazione giurisprudenziale. Inoltre la paventata, da una parte della dottrina, insussistenza di una disciplina ad hoc sul destino dei rapporti di lavoro dei lavoratori che rifiutano il trasferimento nel caso di rifiuto al trasferimento costituisce una lacuna soltanto apparente. Come già sottolineato la giurisprudenza comunitaria ha rilevato come la direttiva non si applichi ai lavoratori che rifiutano il trasferimento con il ramo ceduto e che le conseguenze del rifiuto siano di competenza dei singoli ordinamenti nazionali. Nel panorama giurisprudenziale e normativo nazionale l'ipotesi di rifiuto del lavoratore al trasferimento sarebbe chiaramente regolabile mediante l'art. 2103 c.c. e l'istituto del repechage. In definitiva la sentenza stabilisce che nella cessione del ramo se vi è dissenso del lavoratore interessato il rapporto di lavoro non transita automaticamente in capo alla cessionaria, ma devono essere applicate le norme generali stabilite per la risoluzione o il passaggio dei contratti ovvero l'art. 1372 c.c. o 1406 c.c. Di fatto al fine di evitare contenziosi sarà opportuno che le imprese cedenti acquisiscano nelle opportune sedi protette il consenso al trasferimento dei lavoratori interessati. Per concludere occorre precisare che a causa dell'accertata assenza di autonomia preesistente dei rami ceduti, l'istituto bancario e la società cessionaria convenuti nella sentenza in commento erano già stati dichiarati soccombenti in una precedente sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 13 marzo 2015. Il Giudice meneghino, infatti, aveva accertato l'insussistenza di rami funzionali autonomi prima della cessione ed in grado di svolgere sul mercato alcuna attività o fornire un servizio. Anche in detto caso le convenute avevano effettuato un trasferimento d'azienda dei presunti rami che si occupavano di crediti deteriorati ed in sofferenza. A differenza della sentenza in commento nel caso in questione non era stato preso in considerazione la rilevanza o meno del consenso dei lavoratori ceduti ai fini della legittimità della cessione dei due rami. |